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23 giugno, 2013

L’ur-Macbeth è tornato a Firenze


Domenica 14 marzo 1847 il Teatro della Pergola di Firenze ospitava la prima di Macbeth. E quindi non c’era miglior occasione che il bi-centenario verdiano per riproporre la versione originale dell’opera proprio nel teatro che la vide venire alla luce.


Produzione dedicata assai opportunamente alla memoria di un grande personaggio recentemente scomparso: Bruno Bartoletti.

Ieri pomeriggio è andata in scena la penultima delle sei rappresentazioni, in un teatro quasi al completo, che alla fine ha accolto la recita con gran calore; e anche con grande partecipazione per la situazione a dir poco drammatica in cui si trova l’Istituzione teatrale fiorentina, sintetizzata da uno striscione recato dalle maestranze del teatro, che reclama di scongiurarne la chiusura:


Peraltro si direbbe che Graham Vick non nutra soverchie illusioni, se già suggerisce verso quale professione alternativa avviare le ragazze del coro:


(Lo so, può sembrare una freddura fuori luogo, ma spero abbia almeno un effetto scaramantico…)

E visto che ho tirato in ballo Vick, dirò che la sua proposta (coriste a parte, smile!) non mi ha particolarmente colpito: niente di trascendentale, qualcosa di simile (appena un pochino meglio, diciamo) a quanto propinatoci mesi fa alla Scala da Giorgio Barberio Corsetti.

Macbeth è un soggetto solo apparentemente storico, in realtà è per Shakespeare (e per Verdi!) un pretesto per trattare problemi universali e senza tempo: pulsioni dell’animo umano (soprattutto debolezze…) come sete di potere, complessi di inferiorità o turbe psichiche derivanti da malsani rapporti di coppia, e così via, freudianamente elencando. Quindi si tratta di archètipi di problemi anche nostri, perfettamente calabili nella realtà contemporanea. 

In linea di principio quindi, nessuno scandalo se Vick sposta l’ambientazione dal medioevo ai giorni nostri. Però il problema del regista è quello di trovare degli scenari non solo compatibili con quelli dell’originale, ma anche verosimili e plausibili proprio sul piano dell’attualità: viceversa, tanto varrebbe attenersi pedestremente al libretto, che se non altro garantisce (o dovrebbe farlo) il massimo livello di consistenza. 

Ma non basta: l’allestimento dovrebbe anche garantire coerenza con la parte musicale, che in fin dei conti è quella che conta di più. Per chiarire il concetto, proprio Vick, con il suo Mosè al ROF, aveva in pieno contraddetto quest’ultimo principio, mostrandoci uno scenario plausibile (le vicende recenti della lotta di Israele per la libertà, atrocità incluse) sulla colonna sonora rossiniana, la quale non supportava minimamente quell’ambientazione.

Qui Vick compie l’errore speculare: per fortuna non pretende di darci, a spese di Verdi, lezioni di storia o di (in)civiltà. Ma lo scenario che ci presenta può solo far sorridere: ma come, nel terzo millennio (o alla fine del secondo) vediamo bande armate di mercenari e agenti segreti inglesi e scozzesi che si fronteggiano, armate di mitra e kalashnikov, per supportare o scongiurare colpi di stato, in mezzo ad ogni genere di atrocità e ad esodi di massa (!?) Ohibò, ce lo vedete il patriota Sean Connery a cantare Patria oppressa in mezzo a profughi scozzesi bivaccanti nella stazioncina di Birna?

Purtroppo per Vick, la mediocre e prosaica modernità degli ambienti finisce per togliere all’allestimento quell’aura di mistero e di orrore garantita nell’originale dalle cupe muraglie e dai tetri ambienti dei medievali castelli scozzesi. Oltre a creare ridicole incongruenze con il testo; per dirne una: perché mai Macbeth deve ammazzare Duncano usando un pugnale, quando potrebbe evitare di sporcarsi le mani di sangue, impiegando comodamente una pistola con silenziatore? A proposito di pistole, all’annuncio della morte della moglie, il nostro non trova di meglio che sparare a bruciapelo alla di lei badante, sentenziando che tanto La vita!... che importa! (?!) Particolare curioso: la tuta qui indossata dal sovrano, ormai sulla soglia della follia, reca un marchio inconfondibile:


Per concludere: un allestimento né carne né pesce, che nulla aggiunge alla fama dell’estroso regista albionico.
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Sul fronte musicale c’è da registrare – contrariamente alla cervellotica edizione scaligera di Gergev-Corsetti - il rispetto totale della versione 1847. O meglio, quasi totale, dovendosi segnalare un paio di (peraltro non drammatiche) eccezioni: la mancata ripetizione dell’aria Trionfai! e l’apertura del coro dei profughi con le parole Patria oppressa e non Scozia oppressa.

Sulla prima eccezione andrebbe appurato se sia stata un’idea del concertatore o del soprano: vero è che Verdi per primo espunse quest’aria nel 1865, evidentemente ritenendola indegna del contesto, ma se si fa, tanto varrebbe farla come scritta. A supporto della seconda eccezione: l’esistenza di spartiti ben anteriori al 1865 che già recano Patria al posto di Scozia, segno che la variazione era intervenuta assai prima di Parigi.      

James Conlon ha diretto con grande sobrietà e sicurezza; mi sento però di imputargli una generale tendenza ad allungare, o allargare, i tempi. Ottima la prestazione della (ridotta) Orchestra del Maggio, con alcuni strumentisti (arpa e grancassa, poi le trombe della battaglia) dislocati anche nei palchi di proscenio.

Il coro di Lorenzo Fratini ha dato il meglio di sé, e gli facciamo tutti gli auguri del caso per non far davvero la fine delle… streghe!

Su un livello dal discreto in su tutti gli interpreti: Luca Salsi e Tatiana Serjan formano una coppia ben assortita, oltre che essere singolarmente apprezzabili. Lui ha fatto emergere tutti i risvolti della complessa personalità di Macbeth; a lei è forse mancato un filino di cattiveria in più, però ha il merito di non aver usato i suggerimenti dell’Autore (che voleva una Lady più parlante che cantante) come pretesto per… cantar male!

Marco Spotti ha qualche difficoltà a farsi udire sulle note più gravi, ma è stato un Banco (o Banquo) più che dignitoso.

Saimir Pirgu (Macduff) è stato bravo a porgere… la paterna mano, ricevendo applausi a scena aperta, cosa avvenuta praticamente al termine di ogni aria dell’opera.  

Antonio Corianò (Malcolm) si è onestamente comportato nella sua parte non proprio banale. Così come onesta e apprezzabile è stata la prestazione degli altri comprimari.
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Caro Maggio, che dire? Speriamo che te la cavi! (perché te lo meriti…)

2 commenti:

Marisa ha detto...

Carissimo, pur non lavorando più per il maggio io mi sento ancora facente parte e per questo ti ringrazio per l'attenzione e la delicatezza con cui hai esposto la tua recensione.
Un saluto!

daland ha detto...

@Marisa
non ci resta che scimmiottare Falstaff e concludere che "tutto nel mondo è burla"...
altrimenti facciamo la fine di Mac e Lady!
Ciao e tanti auguri!!!