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19 giugno, 2019

Masnadieri alla Scala dopo 41 anni


Ieri sera ecco alla Scala la prima de I masnadieri, tornati a farsi vivi qui - rilasciati per buona condotta? - dopo un lungo ergastolo e accolti peraltro da un pubblico per nulla folto (anche l’altro ieri sera, all’ultima della Tote Stadt, paurosi vuoti ovunque...) Prima dell’inizio Pereira ha fatto la sua comparsa al proscenio per ricordare Zeffirelli.

Ma prima di entrar nel merito, una domanda frivola: che tinta hanno I masnadieri?

Sappiamo che per definire l’ambientazione (prima drammatica - il soggetto - e, conseguentemente, musicale) delle sue opere Verdi usava questo termine assai stimolante, ma anche diversamente interpretabile: la tinta. Termine che richiama concetti pittorici, quindi innanzitutto caratteristiche cromatiche: i colori (tenui o forti, brillanti od opachi). Ma anche caratteristiche di luminosità: luce, ombra e, soprattutto, contrasto. Ma poi anche elementi relativi al tratto della pittura: pennellate morbide o scabre, sfondi omogenei o irregolari. Ma ancora: oggetti o personaggi o fatti dipinti con precisione fotografica o visti attraverso lenti deformanti o caleidoscopi... E altro ancora.

Venendo alla musica, cosa contraddistingue la tinta di un’opera? La tonalità prevalente? Il metro prevalente? Il trattamento strumentale (brillante, trasparente, magmatico, pesante...)? L’impiego di particolari forme chiuse, chiaramente distinguibili (arie, romanze, cabalette, duetti, concertati)? La reiterazione di temi conduttori o di motivi associati a personaggi o sentimenti, o oggetti?   

Verdi peraltro mai ha definito con precisione e dettaglio la tinta di ogni sua opera; ci ha semplicemente informato di averla immaginata (ed anzi cercata nei soggetti che personalmente sceglieva) per poi trasferirla al suo prodotto musicale. Ma di certo sui frontespizi delle sue partiture si è ben guardato dallo specificarne gli attributi di tinta: siamo noi a doverli casomai desumere ed etichettare dall’ascolto della sua musica!

Quindi ancora: che tinta hanno I masnadieri?

Lasciamo la risposta ad un illustre contemporaneo di Verdi, un vero esperto in materia, che nel 1859 così sentenziava: Nei Masnadieri non vediamo traccia di questa tinta generale, e sembra di scorgervi varj pezzi cuciti insieme, anziché una tela continua con differenti disegni. (Abramo Basevi: Studio sulle opere di Giuseppe Verdi).

E, a parte la tinta, Basevi scrisse - fra pochi, onesti e sinceri elogi - un sacco di stroncature: sul soggetto, innanzitutto, accusato di volgarità e di pretendere che poi la musica (la cui qualità dovrebbe essere l’amore del bello) possa attagliarsi a far amare il turpe. Ma anche sulla musica di Verdi, accusata di volta in volta di essere monotona, dal ritmo fiacco; di proporre un volgarissimo coro; nella cavatina di Amalia... il canto seguita con ritmi comunissimi... apparendo lungo, slegato, floscio e gonfio; nel duetto Carlo-Massimiliano Verdi si abbassa fino al posto de’ più volgari copisti (!) Infine, il Maestro ha qui galvanizzato un cadavere! Insomma, ecco un antesignano di Massimo Mila, che catalogò senza appello l’opera fra quelle brutte di Verdi.

Certo, qui abbiamo un Verdi che - forse come contrappeso all’innovativo e coevo Macbeth - torna a vecchie abitudini e a comodi stilemi: Attila! E come in Attila, anche qui abbondano eroismi (musicali) a buon mercato ma di sicuro effetto. Come è stato giustamente osservato, nel primo atto manca del tutto ogni parvenza di azione, ma il pericolo di monotonia viene scongiurato - come in Attila - dalla trascinante vitalità delle cabalette, che poi innervano anche buona parte del second’atto. Sempre Basevi apparenta Nell’argilla maledetta di Carlo a É gettata la mia sorte di Ezio. E poi trova analogie fra il quartetto che chiude l’atto primo con il terzetto di Attila, il quale Attila rifà capolino all’inizio dell’atto conclusivo, con l’incubo vissuto da Francesco.
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Stabilito quindi che I masnadieri non è propriamente un capolavoro, vengo a dire la mia su come Michele Mariotti lo ha tinteggiato. Premetto di non concordare del tutto con i chiarissimi buh che hanno accolto il Maestro all’uscita finale. Però mi sento di dire che la sua è stata una lettura troppo sostenuta, o poco aggressiva, se si preferisce. Insomma, questo, credo di averlo chiarito a sufficienza, è ancora il famigerato Verdi della vanga, il Verdi dell’Attila, e costringerlo in una camicia di forza rossiniana o mozartiana non gli rende giustizia. In ogni caso, personalmente darei al Direttore ampia sufficienza, soprattutto riguardo la concertazione e l’equilibrio delle dinamiche.

Bruno Casoni ha, come sempre del resto, ottenuto il massimo dal suo coro, che qui deve impersonare due tipi diversi di gentaglia: i masnadieri, ovviamente, ma anche i compari di Francesco, che come disprezzo dell’etica non sono certo da meno della banda di Carlo.

Trionfatrice della serata è stata la cubanamericana Lisette Oropesa, che ha sfoggiato perfetta impostazione di voce in tutta la tessitura, con acuti morbidi e portamento impeccabile, sia nelle arie che nei tre duetti che la vedono protagonista. Per lei davvero un gran bell’esordio alla Scala.

Fabio Sartori ha risposto con una prestazione apprezzabile, non solo nelle cabalette e nei duetti, ma anche nell’intimistica, lirica e romantica Come splendido e grande il sol tramonta. Convinti applausi e consensi per lui alle uscite finali.

Meno convincente il Francesco di Massimo Cavalletti (non per nulla fatto oggetto di moderate contestazioni finali) che ha stentato, a parer mio, a dare profondità a quello sbifido personaggio che anticipa (pur a grande distanza) nientemeno che Jago. 

Perfetto invece Michele Pertusi, un Massimiliano autorevole e commovente, applauditissimo alla fine. Anche l’altro basso, Alex Spina, si è ben portato, nella sua parte piccola ma impegnativa, che ricorda il Papa dell’Attila e anticipa il Grande Inquisitore del Carlos.

Francesco Pittari e Matteo Desole hanno onestamente dato voce ad Arminio e Rolla.
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Vengo ora al team di David McVicar, responsabile dell’allestimento e fatto oggetto alla fine di sonorissime contestazioni. Che, proprio come nel caso di Mariotti, personalmente non mi sento di condividere in toto. L’impostazione del regista scozzese ha peccato forse di eccessiva cerebralità, ma va riconosciuto che non ha minimamente intaccato, nè tanto meno stravolto (come accade spesso a regìe troppo creative) i contenuti del soggetto da presentare.

Il regista ha immaginato un antefatto al dramma (presentato durante l’esecuzione del Preludio) in cui si mostra il giovane Carlo in un’Accademia militare (il riferimento è evidentemente all’esperienza conosciuta dal giovane Friedrich Schiller) mentre subisce una dolorosa punizione corporale (sarà questa a far scattare la molla della ribellione?) Vediamo anche il giovane Carlo estrarre da una teca un libro, verosimilmente Le vite parallele di Plutarco (che il Carlo dell’opera leggerà proprio nella prima scena). Questo giovane Carlo è impersonato da un mimo che rimane in scena per l’intera opera, a costituire evidentemente la presenza costante del protagonista (la corporatura cicciottella del mimo deve aver qualcosa a che fare con quella di... Sartori!) che significativamente compie anche piccoli ma importanti gesti: stare vicino, quasi abbracciato ad Amalia quando lei ricorda i bei giorni passati con l’amato; poi fornire alla donna la spada con cui difendersi da Francesco (Atto II) oppure trafiggere lo stesso Francesco (Atto IV) scaraventandolo poi nella stessa segreta dove era rinchiuso Massimiliano. Infine, recare al Carlo vero la spada con cui trafiggere Amalia e gettarsi poi sul corpo di lei mentre cala il sipario. Il fascicolo con il testo di Plutarco resta perennemente fra le mani del Carlo, a ricordare la nobile infatuazione del protagonista per i grandi personaggi che han fatto la Storia: pagine del libro cadono poi svolazzando sulla scena proprio mentre cala l’ultimo sipario.

La scena di Charles Edwards ha una struttura unica: totalmente aperta e limitata sul fondo da una parete (che lascerà intravedere l’incendio di Praga...) alla quale si appoggia una passerella sulla quale si muovono talora le comparse (e raramente i protagonisti). Durante il Preludio (Accademia militare) la scena è occupata da tavoloni e panche, poi parzialmente rimossi per il primo atto. Nel second’atto troviamo invece i letti di un ospedale da campo, dove si rifugiano i masnadieri, ma che serve anche da ambientazione per la prima sortita di Amalia dal castello. Per il resto, pochi oggetti consunti. Sulla destra torreggia in permanenza una statua, rappresentante una qualche autorità militare (il padre di Schiller era capitano...) o magari un antenato della dinastia dei Moor. Le luci di Adam Silverman collaborano a mantenere la tinta cupa del dramma. I costumi di Brigitte Reiffenstuel sono plausibilmente dell’epoca indicata dal testo di Schiller e dal libretto di Maffei (secolo XVIII). Jo Meredith è responsabile delle coreografie, che prevedono l’intervento di mimi e figuranti in alcune fasi concitate dell’opera.

In conclusione, un allestimento intelligente che forse ha sfidato eccessivamente le doti di perspicacia di parte del pubblico, che deve averlo trovato piuttosto incomprensibile e cervellotico (della serie: perle ai porci?...)

Dal mio punto di vista: uno spettacolo complessivamente più che dignitoso, che credo potrà migliorare ancora lungo le prossime sei recite.

11 giugno, 2019

Una masnada si prepara a mettere il Piermarini a ferro-e-fuoco


Dopo più di 41 anni la Scala ripropone fra qualche giorno una delle opere brutte (© Massimo Mila) di Giuseppe Verdi. Guarda caso a dirigerla nel lontano 1978 - con unanimi apprezzamenti di pubblico e critica - fu l’attuale Direttore Musicale (!) Che in questa occasione cede la bacchetta ad un (relativamente, ormai, a 40 anni) giovane, rispondente al nome di Michele Mariotti. David McVicar firma la regìa dello spettacolo.
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Questo olio su tela (di autore anonimo) raffigura Friedrich Schiller mentre legge ad alcuni amici, in un luogo segreto, nel 1781, il suo dramma Die Räuber.


Beh, l’atmosfera carbonara potrebbe benissimo applicarsi alla seconda scena dell’opera, laddove un invasato Carlo, lettera del fratello in mano, si auto-proclama - cantando una smaccata cabaletta, Nell’argilla maledetta - capo della masnada!

Il raffinatissimo cavalier Andrea Maffei (il cui cenacolo culturale, condiviso con la moglie Clara, aveva contribuito non poco a promuovere Verdi sulla piazza milanese) aveva appena finito di tradurre il dramma in prosa (con parti versificate) di Schiller quando Verdi gli commissionò il libretto dell’opera. Il soggetto è di quelli davvero al limite dell’assurdo (proprio un’enormità da Sturm-und-Drang) tanto che lo stesso Schiller in seguito ebbe quasi a vergognarsene, arrivando ad auto-sbeffeggiarsi (... produssi un mostro che, per buona sorte, non è mai esistito al mondo.)

In effetti i masnadieri di cui Carlo si mette a capo poco o nulla hanno a che fare con movimenti politico-rivoluzionari (tipo brigate-rosse, per dire, o anche ISIS) nè con organizzazioni di stampo mafioso, nè - a dispetto del titolo schilleriano - con fenomeni di comune brigantaggio. Si tratta invece di sbandati-plebei che uno sbandato-nobile organizza in banda armata con l’unico fine - quasi goliardico, non ci fosse di mezzo il sangue - di far casino, sfogando la propria rabbia contro l’universo intero! Ammazzando, rubando, stuprando, incendiando e così via terrorizzando, in un’autentica miscela di anarchismo e nichilismo autodistruttivi.

E qual è stata la molla che ha spinto Carlo ad una tale iniziativa? L’essere stato di fatto ripudiato e diseredato dal padre Massimiliano (plagiato attraverso un intervento criminoso dal fratello minore, l’invidioso, deforme, cinico e malvagio Francesco) a causa di proprie giovanili scapestrerie (per usare la colorita definizione datane da Mila; invero delle smargiassate sesquipedali, come quella ricordata nella seconda scena del dramma, compiuta a Lipsia e avente a pretesto il moribondo mastino di Carlo); e aver di conseguenza perso anche l’amata Amalia.

Certo, si dirà che anche oggi assistiamo a fenomeni simili - i gratuiti ammazzamenti che si registrano in scuole, chiese e uffici - che curiosamente avvengono proprio nel Paese che nella sua Dichiarazione di Indipendenza (secondo paragrafo) propugna il perseguimento della felicità per l’individuo; ma lì si tratta, appunto, di reazioni individuali (e per lo più suicide) a presunte ingiustizie subite. Schiller invece ci inventa sopra un fenomeno di massa, inesistente ai suoi tempi: siamo di fronte ad un’accozzaglia di individui sfigati che si organizza militarmente, non già per cercare di sovvertire il potere costituito che sarebbe plausibilmente accusabile di produrre, appunto, le loro disgrazie... ma per abbandonarsi ad azioni ciecamente e sconsideratamente violente, che finiscono oltretutto per penalizzare, quali vittime, proprio povera gente come loro! Un fenomeno che potrebbe caso mai (dò un’idea gratis al regista...) aver qualche lontana parentela con i moderni black-bloc (che peraltro si pongono - con le loro azioni violente - obiettivi comunque politici).  

Dopodichè, per dare alla sua inverosimile storia anche un sapore maieutico, ecco che Schiller ci propina un finale ancora più inverosimile. Venute meno le ragioni della sua originaria sfiga (con l’auto-punizione del fratello ingannatore e il ricongiungimento con padre e amata) il protagonista Carlo pare per un attimo rinsavire, trovare pace e perdono nelle braccia di Amalia. Ma sono i suoi masnadieri a richiamarlo al... dovere, reclamando il suo ritorno alla loro guida, in cambio di tutti i sacrifici sopportati e delle ferite da loro subite in nome suo! E allora Carlo che fa? Morto nel frattempo di crepacuore il padre, accontenta Amalia (che si vuole morta piuttosto che privata di lui) con una precisa pugnalata al cuore; e infine va a costituirsi alla giustizia, ma non senza prima compiere un’ultima (o prima?) opera di bene: farsi consegnare ai gendarmi da un povero padre di 11 figli, in modo da procurargli i 1000 Luigi d’oro della taglia che gli pende sulla testa! 

Tutto ciò diede modo allo scrittore di giustificare così - non senza un tocco di spocchia - anche le esagerazioni del suo granguignolesco dramma: 

“Mi confido che questo mio scritto, quando si guardi al notabile suo svolgimento, possa a ragione annoverarsi fra i libri morali. Il vizio v’ottiene il castigo che merita; il traviato si ravvia nel cammino della legge, e la virtù ne riesce trionfante. Chi vuol meco esser giusto leggami da capo a fondo, e cerchi comprendermi; e se non loda lo scritto, apprezzerà, non v’ho dubbio, l’onesto scrittore.”
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Com’è naturale, nello stendere il libretto il Maffei dovette necessariamente tagliare, ridurre e semplificare molto, rispetto al dramma. Ma lo fece senza dover pagare eccessivo dazio, in altre parole, riuscendo a mantenere sufficientemente integre le fondamentali caratteristiche dell’originale. Qui si può trovare una sinossi dell’intero dramma schilleriano e - chiaramente evidenziate - le parti che Maffei ha trasferito nel libretto, insieme ad alcuni essenziali traguardi sui principali passaggi musicali.

Anche a colpo d’occhio ci si può rendere conto della quantità dei tagli: intere scene del dramma - che pure sarebbero importanti per comprendere le recondite ragioni che muovono l’azione dei protagonisti o per rivelarci il loro pensiero su problemi di primaria grandezza - sono state ignorate; diversi personaggi, soprattutto masnadieri (Spiegelberg e Kosinsky ad esempio, due chiari alter-ego di Carlo) ma non solo (vedi il servitore Daniele) non hanno trovato posto nel libretto; Maffei conserva il Pastore Moser, uomo di grande fermezza ma anche di totale integrità, mentre trascura il frate che si presenta ai masnadieri alla fine del second’atto del dramma di Schiller: un chiaro esempio di Chiesa asservita allo Stato!

Numerose scene sono state disposte da Maffei in ordine diverso da come appaiono nel dramma: esempio eclatante la seconda Parte dell’opera, dove le 7 scene, se riordinate come nel dramma, darebbero la sequenza 4-5-6-7-1-3-2! Diversa la sorte che Maffei riserva a Francesco, rispetto a Schiller: per quest’ultimo, dopo l’anatema di Moser il cattivone si suicida, strangolandosi; Maffei invece lo lascia perdere del tutto, finito chissà dove.

Si noterà anche qualche libertà presa dal librettista, come ad esempio il momento dell’agnizione fra Carlo e Amalia (Parte III, Scena 2) fortemente anticipato rispetto al dramma (ultima scena) per raggiungere un obiettivo squisitamente melodrammatico: inserire a circa metà dell’opera - al posto dell’incontro in quadreria fra il Carlo travestito da Conte di Brand e Amalia - il classico duetto d’amore fra i due protagonisti! (E pazienza se quell’incontro resta lì appeso senza capo nè coda, con Amalia e Carlo che spariscono insieme per poi ricomparire alla spicciolata: lui dopo poco fra i suoi masnadieri, bivaccanti lì attorno; lei solo alla fine dell’opera, catturata nel castello assaltato dai masnadieri medesimi! E pazienza se Maffei - nell’inventare questa scena, forse tratto in inganno da una frase sibillina che Amalia pronuncia nel citato incontro in quadreria - incorre in un marchiano errore, facendo dire ad Amalia che Massimiliano è morto, quando nella seconda scena della Parte precedente Arminio le aveva rivelato, suscitandone l’esultanza, che il vecchio era ancora in vita...)

Allo stesso modo, Maffei lascia in vita Massimiliano (che Schiller fa spirare prima del finale, all’auto-accusa di Carlo) per potersi permettere un ultimo terzetto (Amalia, Massimiliano, Carlo) con coro, a chiudere l’opera. Con il sipario che cala appunto sul tragico trapasso di Amalia circondata dal dolore di tutti: un finale classicamente melodrammatico che rimpiazza quello ingenuamente buonista dello schilleriano Carlo, pentito e divenuto improbabile benefattore...
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Sul fronte musicale, Verdi, reduce dal completamento del quasi contemporaneo e rivoluzionario Macbeth, sembra qui tornare al seguito delle orde di... Attila. Le cabalette sparse a piene mani e certa rozzezza delle parti corali fanno concludere a molti critici che I masnadieri sia un passo indietro rispetto all’innovativo dramma sul soggetto shakespeariano. Peraltro di questo non sarebbe giusto incolpare il solo Maffei, che invece aveva appena contribuito a sistemare nel migliore dei modi proprio il Macbeth claudicante di Piave. Forse c’è per il fenomeno una spiegazione più semplice: fu in realtà il Macbeth ad essere una splendida quanto isolata eccezione all’interno di un cammino ancora lungo che avrebbe faticosamente portato Verdi dal lontano Nabucco (passando per Luisa) a Rigoletto

Il pesarese-rossiniano-doc Michele Mariotti (fra un paio di mesi, al ROF, tornerà a cimentarsi con la tremenda Semiramide) è atteso a questa nuova prova verdiana dopo precedenti positive esperienze. Lo spettacolo sarà garantito da David McVicar, che di spunti d’attualità per renderci digeribile il truce soggetto schilleriano ne ha quanti ne vuole, dati i tempi... 

Le voci in campo sono quelle collaudatissime di Michele Pertusi (Massimiliano) o collaudate di Fabio Sartori (Carlo) e Massimo Cavalletti (lo sbifido Francesco). La povera Amalia sarà nelle mani (e soprattutto nella voce) di Lisette Oropesa, che ho personalmente apprezzato al ROF ultimo come Adina, ma che qui dovrà rivaleggiare virtualmente con la mitica e leggendaria Jenny Lind, che ebbe la parte proprio cucita addosso da Verdi in persona: trattandosi di parte piuttosto rossiniana (anche se la Lind mai cantò opere del pesarese) le premesse perchè il soprano cubano-americano faccia bene ci son tutte. 

La prima martedi 18, alle 20.