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02 agosto, 2025

Dopo Bayreuth, arriva a Pesaro il ROF-XLVI.

Dopo il convincente Meistersinger (di Gatti…), le conferme del Ring della Young e del Parsifal di Heras-Casado, il Lohengrin di ieri ha chiuso il primo turno di recite a Bayreuth. A proposito, Thielemann, alla ricomparsa del piccolo Gottfried – 5h29’50” - ha fatto cantare a Lohengrin, come sempre lui ha fatto (e come sempre si era fatto ovunque) la parola Führer invece dell’addomesticata Schützer, imposta in passato a Bayreuth dalla tenutaria Kathi Wagner – come qui a 3h17’52” - per ipocrite ragioni pseudo-politiche. La questione era stata alla base dei dissapori fra il Direttore e la stessa Wagner, che ha evidentemente ceduto all’autorevolezza di Thielemann, richiamandolo quest’anno dopo due stagioni di assenza e in più assegnandogli il prestigioso incarico per il Ring del 150°.

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Dal 10 al 22 Agosto Pesaro torna ad ospitare il Festival che dall’ormai lontano 1980 ha cambiato il volto della città rossiniana nel periodo culminante delle vacanze estive.

Frotte di pellegrini arrivano qui dalle parti più remote del globo terracqueo per seguire la rassegna che ogni anno propone (o ri-propone) produzioni di opere del grande Gioachino, impreziosite dalle cure della Fondazione Rossini che ne sta via-via realizzando (manca davvero poco al suo completamento) la cosiddetta Edizione critica.

Dal punto di vista logistico la novità di quest’anno è la… scomparsa dall’orizzonte di quella gigantesca vongola a valve spalancate che rispondeva al nome di Adriatic Arena e, più recentemente, a quello (personalizzato sullo sponsor) di Vitrifrigo Arena. Le tre opere del cartellone principale e il concerto finale saranno ospitati dal glorioso Teatro Rossini e (la sola Zelmira) dall’Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona memoria) già riportato in servizio lo scorso anno.

Accanto a Zelmira avremo L’Italiana in Algeri e un dittico (La cambiale di Matrimonio accoppiata alle Soirées musicales) più il concerto finale che, invece di musiche rossiniane, ci offrirà quelle composte in onore e cordoglio del Maestro: la Messa per Rossini.

Altra novità di questa edizione: il ritorno dell’Orchestra del Comunale di Bologna (dopo il divorzio del 2017, con conseguente parentesi occupata dall’OSN-RAI) che si farà carico di tre dei quattro eventi principali: l’altro (il dittico) vedrà impegnata la locale Filarmonica Rossini.

I cori saranno affidati a Paolo Veleno che guiderà le masse del Ventidio Basso.

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Zelmira dovrebbe basarsi sull’edizione critica (già impiegata nel 2009, pur essendo ancora in fase di rifinitura a quella data) includendo quindi, in particolare, le due aggiunte fatte da Rossini al second’atto: per Vienna-1822, la nuova aria di Emma (Ciel pietoso, ciel clemente, qui a 8’09”) su versi di Giuseppe Carpani; e per Giuditta Pasta a Parigi-1826, la nuova aria di Zelmira (Da te spero, o ciel clemente, qui a 59’20”) e la successiva scena mutuata da Ermione (comprendente anche la cabaletta Dei, vindici ognor voi siete) aperta (1h03’42”) dal passaggio che Rossini si auto-imprestava per la quarta volta almeno (dopo le ouverture di Eduardo&Cristina, Bianca&Falliero, Mathilde di Shabran…):

Ovviamente tutto cambia rispetto alla precedente produzione del 2009: a Roberto Abbado succede sul podio Giacomo Sagripanti e la coppia di tenori (allora i fenomeni JDF-Kunde) sarà composta da Lawrence Brownlee e Enea Scala, con Anastasia Bartoli nei panni del title-role (allora fu la Aldrich).

La regìa del 2009 (Barberio Corsetti) fu ampiamente contestata, per la discutibile attualizzazione ai giorni nostri e altre assortite amenità. Vedremo come e quanto di meglio saprà meritarsi il mitico Calixto Bieito, che in fatto di immaginifiche visioni non scherza per davvero…

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Italiana: La nuova produzione è affidata all’ormai navigata Rosetta Cucchi, già presente al ROF nel 2018 con una simpatica Adina e nel 2022 con un controverso (perchè di stampo verista) Otello. Oggi il soggetto sembrerebbe prestarsi meglio al primo caso, il che fa ben sperare.

Sul podio ci sarà Dmitry Korchak e in scena terrà banco la decana del Festival, Daniela Barcellona. Mustafà sarà Giorgi Manoshvili al quale auguriamo lo stesso successo di Alex Esposito del 2013. E poi la Elvira di Vittoriana de Amicis e il duo di tenori Gurgen Baveyan / Josh Lovell. 

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Les soirées musicales sono dodici canzoni (4 su testi di Metastasio e 8 di Pepoli) che Rossini compose appena andato in pensione dall’opera, fra il 1830 e il 1835. Gli originali sono per voci e pianoforte, ma qui al ROF verranno presentati (per la prima volta) nella sobria orchestrazione di Fabio Maestri, come aperitivo alla Cambiale.

1. La promessa (Metastasio). Canzonetta (Allegretto in LAb maggiore, 6/8). È una lode che l’innamorato fa delle pupille dell’amata. Non smetterò mai di amarvi, né mai v’ingannerò: poiché siete e sarete il mio fuoco, finchè vivrò.

2. Il rimprovero (Metastasio). Canzonetta (Andantino in SOL maggiore, 3/8). Un innamorato respinto soffre in silenzio, ma l’amata, così crudele, non potrà impedirgli di amarla.

3. La partenza (Metastasio). Canzonetta (Andantino in SOL maggiore, 6/8). Fileno viene abbandonato dalla sua Nice. Vivrà solo di pene, pensando solo a lei. E lei, chissà se si ricorderà di lui…  

4. L’orgia (Pepoli). Arietta (Allegretto in SIb maggiore, 6/8). Inno a Bacco e a Venere!

5. L’invito (Pepoli). Bolero (Allegro moderato in LA minore, 3/4). Accorata invocazione di Eloisa al suo Ruggiero, perché venga finalmente a consolarla.

6. La pastorella dell’Alpi (Pepoli). Tirolese (Allegretto in DO maggiore, 3/4). La bella pastorella offre cibo e fiori a chiunque passi dalla sua casetta. Ma il suo amore… uno solo lo otterrà.

7. La gita in gondola (Pepoli). Bararola (Andantino grazioso in SOL e SIb maggiore, 12/8). Il marinaio invita la bella Elvira a raggiungerlo sulla laguna per provare le gioie d’amore.

8. La danza (Pepoli). Tarantella napoletana (Allegro con brio in LA minore, DO maggiore e LA maggiore, 6/8). È la canzone più famosa della serie, e verrà ripresa nel 1918, magistralmente orchestrata da Ottorino Respighi, come primo numero del suo balletto La boutique fantasque.

9. La regata veneziana (Pepoli). Notturno a due voci (Allegro moderato in DO maggiore, 6/8). In dialetto veneto, Tonio e Beppe si sfidano nella regata e una novizia trepida per il suo bene. In questa nona canzone c’è un motivetto danzante per terze impiegato alla lettera da tale Franz vonSuppè nel 1846 (quindi più di 10 anni dopo la composizione di Rossini) nella sua operetta Dichter und Bauer:

10. La pesca (Metastasio). Notturno a due voci (Andante grazioso in LAb maggiore, 3/8). La bella Nice viene chiamata dall’innamorato a godere la brezza in riva al mare.

11. La serenata (Pepoli). Notturno a due voci (Andantino in SIb maggiore, 12/8). Due innamorati si invitano reciprocamente ad inoltrarsi nella selva oscura, solo amore lo saprà…

12. Li marinari (Pepoli). Duetto (Allegro moderato in SOL minore e maggiore, 6/8). [Questa canzone era piaciuta anche a Wagner.] Due marinari si fanno reciprocamente coraggio nel mare che minaccia tempesta. Ma alla fine torna il sereno e si torna a terra, dalla propria… bella.

Le quattro voci impegnate (tessiture da quartetto SATB) sono tre protagonisti dell’Italiana (De Amicis, Niño e Baveyan) più Paolo Nevi (che compare in Zelmira).

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La Cambiale riprende la speciale e coraggiosa produzione di Laurence Dale (con Gary McCann e Ralph Kopp) del 2020, che fu una vera scommessa… dato che si era in piena emergenza-Covid! Sul podio salirà Christopher Franklin, che succede all’allora quasi esordiente Korchak. 

A Pietro Spagnoli (nel ruolo di Mill) spetterà il compito di ripetere la maiuscola prestazione di allora di Carlo Lepore. Mattia Olivieri non dovrà farci rimpiangere Iurii Samoilov e Paola Leoci dovrà vedersela con il complesso personaggio di Fanni.

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La Messa per Rossini nacque da un’idea di Giuseppe Verdi, un anno dopo la scomparsa del genio pesarese. In queste scarne note, scritte in occasione di un’esecuzione guidata da Chailly alla Scala del 2017, avevo riassunto le bizzarre vicende dell’opera, dalla genesi alla sepoltura e poi alla… resurrezione.

E così oggi questa Messa a 13 mani approda anche al ROF, che significativamente la dedica alla memoria dell’indimenticabile Gianfranco Mariotti, suo padre spirituale e materiale, scomparso nello scorso novembre.

Sarà Donato Renzetti a dirigerla, con le autorevoli voci del citato Korchak e della rampante Vasilisa Berzhanskaya. Caterina Piva, Misha Kiria e Marco Mimica completano il cast.

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Quanto alla diffusione via etere, Radio3 rimane fedele alla tradizione, irradiando le prime tre serate (10-11-12) alle ore 20 (salvo l’ipertrofica Zelmira, che inizia alle 19:00).

Qui le consuete tabelle statistiche relative alle edizioni del ROF.


16 aprile, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.24 – Tjeknavorian & Rossini

Un Auditorium stracolmo di pubblico - in religioso raccoglimento durante l’esecuzione e poi trasformatosi in una bolgia da stadio dopo l’ultimo accordo di SOL minore dell’orchestra – ha accolto questa nuova, grande prova del giovane Direttore Musicale, uno Stabat Mater che ci ha davvero coinvolto ed emozionato.

Plauso ovviamente da estendere all’Orchestra, in stato di grazia in ogni sezione, e al superlativo Coro di Fiocchi Malaspina.

Si discute sempre dell’eccessiva melodrammaticità di questo Rossini sacro. Ammesso che ciò abbia ancora rilevanza al di fuori della ristretta cerchia di puristi e custodi dell’ortodossia, direi che il Tjek se ne sia bellamente fregato, leggendo Rossini per quel che è (non ci sono Rossini buffi, seri o sacri, ma un solo straordinario genio, capace di eccellere in ogni campo e in ogni genere). Così il Direttore – che ha mandato a memoria anche queste 250 pagine! - ha interpretato l’agogica ora con sostenutezza e sapienti prese di respiro, ora con passo travolgente (come nelle colossali fughe) e lo stesso ha fatto con le dinamiche, tenendo sempre alto il contrasto fra piani e forti, e scolpendo così un sontuoso edificio musicale, che ci appare con tutte le qualità, insieme del teatro e della cattedrale.       

Francamente qualche riserva me la… riservo per i quattro solisti: appena sopra la sufficienza Benedetta Torre e piuttosto a disagio con la sua parte Martina Belli; Juan Francisco Gatell ha avuto la disavventura di incappare subito in una spiacevole acciaccatura proprio sull’impervio REb del Cuius animam, e forse ciò può aver condizionato anche il resto della sua non proprio brillantissima prestazione. Da elogiare invece il navigatissimo Nicola Ulivieri, distintosi sempre nei suoi impegnativi passaggi.

Le riserve sui solisti mi portano inevitabilmente a domandarmi (sospettare?) la ragione della scelta di affidare il Quando corpus morietur al coro e non ai singoli. Cito al proposito un passaggio del venerabile Alberto Zedda: …N.9 Quando corpus morietur, pagina di alta commozione capace di trasformare il terrore della morte in paradisiaco stupore, è stato pensato da Rossini per quattro voci soliste: la difficoltà di mantenere una corretta intonazione, resa problematica da procedimenti cromatici ed enarmonici che si prolungano per intensi episodi, ha fatto tradizionalmente preferire l’impiego dell’intero coro, ideale per realizzare con la giusta espressione i colori dinamici fondamentalmente basati su piano e pianissimo. Ed è un fatto che a Pesaro (e non solo làggiù...) il brano sia sempre affidato al coro. Il che però lo priva oggettivamente della sua intensità quasi metafisica; per intenderci: quella che caratterizza lo stesso brano in Pergolesi, del quale Rossini aveva una stima incondizionata.

Ma insomma, non sottilizziamo troppo e teniamoci stretto questo Tjek, che ormai mostra di non temere qualunque prova, e che rivedremo e ascolteremo per altri tre concerti verso la fine della stagione.

PS: chi desideri ascoltare (o ri-ascoltare) il concerto di ieri, inclusa la presentazione da studio di Barbieri e i commenti dalla sala di Bossini, può farlo grazie alla registrazione di mamma RAI.    


11 aprile, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – per Pasqua Rossini prende il posto di Bach

Cambiano i Direttori e cambiano anche le tradizioni: nella Settimana Santa Ruben Jais, Direttore Artistico de laVerdi, immancabilmente programmava (magari appaltandola a… se stesso, cioè a laBarocca) l’esecuzione di una delle due passioni di Bach: Matteo o, alternativamente, Giovanni (questa fu l’ultima rappresentata, lo scorso anno).

Ora l’avvento di Tjeknavorian ha portato con sé anche una novità pasquale: al posto di Bach… Rossini e il suo monumentale Stabat Mater (martedi 15 e giovedi 17, ore 20). 

L’opera è alla sua ottava comparsa in Auditorium. Fu per parecchie stagioni una presenza costante nella programmazione de laVerdi: diretto dall’indimenticabile Romano Gandolfi, lo Stabat Mater risuonò qui in quattro stagioni consecutive: 99-00, 00-01, 01-02 e 02-03. Poi ritornò con Stéphane Denève nella stagione 05-06. Quindi 10 anni di assenza, prima di una nuova comparsa, con Claus Peter Flor nel 2016. Infine, sempre con Flor, l’ultima presenza, nel 2018, in occasione dei 150 anni dalla scomparsa di Rossini e dei 20 anni dalla nascita del Coro Sinfonico.

Al Rossini Opera Festival lo Stabat Mater è stato eseguito per ben 14 volte e, guarda caso, l’ultima apparizione colà, nel 2021, ebbe un qualche indiretto legame con laVerdi: perché a dirigerlo, alla testa della Filarmonica Rossini e del Coro del Ventidio Basso, fu una creatura dell’Orchestra milanese, Jader Bignamini.

Dopo i recenti trionfali concerti, l’aspettativa per questa nuova sfida del giovane Direttore Musicale è altissima. Nell’attesa, ecco un mio personale ripasso sui contenuti di questo capolavoro del genio pesarese.


21 dicembre, 2024

Gatti alla Scala con una nuova PMS.

La Petite Messe Solennelle è quindi tornata, dopo un’eternità, al Piermarini con la sua veste più ricca, quella che Rossini le regalò sotto forma di orchestrazione, completata negli ultimi anni di vita e che purtroppo il Maestro non ebbe nemmeno il piacere di ascoltare.

A proposito di strumentazione, Rossini ne aveva riduttivamente parlato come di un’aggiunta, alle 12 voci e alle tre tastiere della versione primigenia, di un modesto pacchetto di archi e di qualche fiato, proprio per dare all’opera quel minimo di robustezza, necessaria ad affrontare esecuzioni in… campo aperto. La partitura in realtà è quella tipica di un complesso non inferiore a quelli impiegati da Rossini, per dire, nel teatro musicale.

Da qui però i vessilliferi delle grandiosità romantiche (e poi tardo-) hanno preso lo spunto per… esagerare, impiegando organici strumentali e corali e approcci esecutivi enfatici e retorici, che Rossini non aveva mai perso l’occasione di criticare nelle produzioni musicali moderne (ai suoi tempi). E così ancor oggi la Petite messe rossiniana viene spesso eseguita neanche fosse la Grande symphonie funèbre et triomphale di Berlioz…

Ecco, questa interpretazione di Gatti forse non è stata così… esagerata, tuttavia si è mossa nel solco di questo tradizionale approccio piuttosto romantico: diciamo che forse non era proprio Berlioz, ma magari il Brahms del Requiem…

Ora però – anche per spiegare l’aggettivo che ho usato nel titolo del post - va detto qualcosa relativamente a quello che si potrebbe definire – con una battuta fin troppo… equivoca – la funzione dell’organo (!?!)

Ecco: Rossini prescrive lo strumento a canne nella partitura orchestrale con un duplice compito: il primo è accessorio – e come tale quasi sempre ignorato nelle moderne esecuzioni – perché di puro riempitivo (nella versione cameristica è riservato al pianoforte-2); il secondo invece è obbligato perché lo strumento è solista nel Preludio religioso (nella versione cameristica affidato al pianoforte-1).  

Gatti si misurò per la prima volta con la versione orchestrata della Messe al ROF del 1999 e vi impiegò necessariamente l’organo (qui a 54’25” l’introduzione dei fiati al Preludio e a 55’29” l’attacco dell’organo). Poi però il compianto Alberto Zedda produsse la sua (discutibile) orchestrazione del brano, che porterà in giro per il mondo (Russia, Spagna) e presenterà al ROF nel 2014; la quale di fatto esclude tout-court l’impiego dell’organo, affidando all’orchestra l’intera parte, che comprende il corpo, un ritornello e la ripetizione del ritornello dopo che i fiati hanno ripetuto l’introduzione. E così Gatti, nel 2013 con la sua ONF a Vienna (dove pure disponeva, al Musikverein, di una selva di canne di prim’ordine) fece eseguire il Preludio zeddiano all’orchestra (qui a 1h00’22” l’introduzione e a 1h01’33” l’attacco del clarinetto basso).

Orbene, come si è regolato il Direttore per questa esecuzione scaligera?

Ha inventato una nuova soluzione! Intanto ha tenuto in orchestra l’organo come riempitivo, rispettando fin troppo alla lettera Rossini, dato che con quel po’ po’ di orchestra e coro di riempitivo ulteriore si può fare anche a meno… Ma poi, al momento del Preludio, che ti fa? Fa suonare (come a Vienna 2013) quello orchestrato da Zedda! Ma con una sottile variante: il ritornello finale (9 battute) invece che all’orchestra come prevede Zedda, lo fa suonare all’organo, quasi a volergli dare un contentino!

Insomma, una scelta francamente assurda e persino offensiva: oltre che nei confronti dell’organista, anche in quelli di Zedda (che oggi non può nemmeno far valere il suo copyright) ma anche nei confronti del pubblico e persino di… Rossini! Sì, perché dell’impiego del lavoro di Zedda nulla viene scritto: locandina, sito web, programma di sala, rivista del teatro… mai viene citata questa scelta! [Almeno nel 2013, forse perché Zedda era ancora vivo e vegeto, il pubblico era informato di quella scelta, come dimostra anche la sovrimpressione nel citato video di ARTE all’attacco del Preludio.]

Un’altra tipica (pur se stucchevole) domanda riguarda il… carico di lavoro dei quattro solisti SATB: Rossini, nella versione cameristica, prescrive che cantino, oltre alle proprie parti solistiche, anche quelle delle otto voci del coro. Meno chiara e inoppugnabile è invece la medesima prescrizione apposta sulla partitura della versione orchestrata, e nel dubbio ormai tutti i solisti si risparmiano questo lavoro straordinario e anche poco… appariscente, visto che le loro voci rischiano facilmente di annegare nel fracasso di quelle dei pletorici cori oggi impiegati. E così è stato immancabilmente anche questa volta, ma qui senza che nessuno abbia troppo a che ridire.

Mariangela Sicilia ha ormai una consolidata esperienza in quest’opera: mirabile ed emozionante soprattutto è stato il suo O salutaris hostia, che invoca l’aiuto divino, mai così necessario come in questi tempi di guerre dilaganti… Ma eccellente anche il Crucifixus, come il Qui tollis con la Vasilisa Berzhanskaya, che da parte sua ha chiuso in bellezza con un accorato ed emozionante Agnus Dei.

Yijie Shi ha messo in mostra la sua bella voce squillante, distinguendosi con piglio marziale nel Domine Deus e dando un valido contributo al Gratias, con Berzhanskaya e Michele Pertusi. Il quale ha posto tutta l’autorevolezza del suo canto al servizio del lungo e nobile Quoniam.

Insieme ai quattro solisti, come non restare ammirati dal superbo Coro di Alberto Malazzi, sempre impeccabile e poi addirittura strepitoso nelle entusiasmanti fughe del Cum Sancto Spiritu e del Resurrexit.  

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Che dire, in conclusione? A parte l’affaire del Preludio, l’ascolto della versione orchestrata e con organici di questo tipo, almeno a chi conosce non superficialmente quella cameristica lascia sempre un retrogusto amarognolo (non dico sgradevole, per carità) come di qualcosa che richiama troppo smaccatamente qualcos’altro di più… intimo e coinvolgente. È un po’ la sensazione che si prova, che so, ascoltando l’inflazionata versione (orchestrata da Ravel) dei musorgskiani Quadri: la volgarizzazione di un nobilissimo cammeo.

Tuttavia è meglio non fare gli schizzinosi e rendere doverosamente merito, come ha fatto con calore ed entusiasmo il pubblico di un Piermarini letteralmente in stato d’assedio, a tutti coloro che a qualunque titolo hanno reso possibile e godibile questa serata pre-natalizia.     


19 dicembre, 2024

Alla Scala arriva un Daniele Gatti natalizio con Rossini.

Il tradizionale Concerto di Natale della Scala (sabato 21) quest’anno propone, affidandola a Daniele Gatti (e Alberto Malazzi) la monumentale (a dispetto dell’aggettivo Petite che la caratterizza) Messe solennelle di Gioachino Rossini.

Stando all’Archivio storico del Teatro, questa dovrebbe essere, quanto meno a partire dal dopoguerra, la prima volta che alla Scala si esegue la versione orchestrata da Rossini sulla base di quella originale, per sole 12 voci (4soli+8) e con il solo accompagnamento di due pianoforti e harmonium, che fu composta dal pensionato-baby Gioachino nella sua vieillesse dans le péché, per meritarsi il… Paradiso! Ed eseguita per la prima volta, nella sontuosa villa parigina del banchiere-mecenate Pillet-Will e della di lui moglie, la dedicataria Louise Rouline, proprio 160 anni orsono.

In effetti ancora oggi ci si divide su quale delle due versioni sia da preferire. Da un lato c’è chi, come Michele Campanella, considera – non senza buone ragioni - quella orchestrata (creata a Parigi, Théatre italien, nel 1869, a Rossini ormai trasferitosi in… Paradiso) un passo indietro rispetto all’altra, soprattutto quando viene eseguita da orchestre e cori con organici degni di… Berlioz o di Mahler.

E chi invece, come Davide Daolmi, responsabile per la Fondazione Rossini dell’edizione critica di entrambe le versioni, è convinto che quella orchestrata non sia stata decisa da Rossini di malavoglia e all’ultimo momento (prima di… togliere il disturbo) ma pensata quasi da subito, e poi lentamente messa a punto negli anni. E che un’esecuzione adeguatamente preparata, e che soprattutto eviti qualunque tipo di ipertrofia (strumenti, voci, pomposità) possa restituire anche alla versione orchestrata tutto il fascino che suscita quella cameristica.

Il Rossini Opera Festival, che può vantare una grande autorevolezza in merito, ha negli anni presentato entrambe le versioni, e ultimamente eseguito proprio quella orchestrata, alla quale ha dato un suo… ehm… contributo il compianto Alberto Zedda, che si permise (?!) con motivazioni francamente discutibili, di orchestrare anche il Preludio religioso lasciato da Rossini al solo organo (il pianoforte nell’originale cameristico).  

A proposito di ROF, tutti i quattro solisti ci sono passati (se non cresciuti) negli anni: a partire da Michele Pertusi, che cantò la Messa nel ’97 (camera) poi ’99 e ancora 07 (orchestra) e a Vasilisa Berzhanskaya, protagonista nel ’23 (orchestra): più Mariangela Sicilia e Yijie ShiContrariamente a quanto prescritto da Rossini, nella versione orchestrata di solito i quattro tacciono quando canta il coro… vedremo come andrà questa volta.

Dando per scontato che non potrà che essere un’esecuzione tecnicamente di gran livello (data la caratura di tutti gli interpreti) sarà però interessante giudicare il risultato complessivo dal punto di vista estetico. C’è al proposito un precedente – con luci ed ombre, Zedda incluso - di 11 anni orsono a Vienna, guarda caso con protagonista proprio Gatti  


28 settembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano 24-25.1

L’onore (e l’onere) di dare il via alla stagione 24-25 in Auditorium spetta a Luigi Piovano, primo violoncello della prestigiosa SantaCecilia, ma anche ormai direttore affermato (fu già protagonista bifronte qui in Auditorium nel novembre 2022).

Auditorium ieri sera purtroppo assai scarsamente popolato, anche se da un pubblico che ha manifestato un entusiasmo inversamente proporzionale alla consistenza numerica! 

Programma di musiche tutte (più o meno) ispirate all’Italia, a partire dall’impegnativo Primo Concerto di Camille Saint-Saëns, che l’Italia aveva visitato in giovinezza (Firenze) circa 15 anni prima di comporre quest’opera (che è del 1872). Piovano ha ormai con questo concerto una grande dimestichezza. Qui lo vediamo – da molto lontano… - in un’esibizione nel sol levante del 2015)e qui nel 2022 nelle prove di un concerto a Salzburg dove ha presentato un programma simile a quello odierno (Scozzese invece di… Italiana). 

Ebbene, ieri ci ha sciorinato tutto il suo bagaglio di virtuosismi, ma anche di portamento e rigore interpretativo, valorizzando al massimo le peculiarità di questo difficile Concerto, che è una vera miniera di innnovazioni rispetto agli schemi classici (come cerco di sintetizzare nelle brevi note all’ascolto in Appendice).  

Quindi meritato trionfo per lui, che ringrazia pubblico e Orchestra e, insieme agli archi, ci regala un'appendice di Saint-Saëns, con un’ispirata interpretazione del celeberrimo Le Cygne dalla Grande fantaisie zoologique, Poi, richiamato da insistenti applausi ritmati, si esibisce in un lamento suonato e… cantato.     

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A seguire la rossiniana Ouverture da L’Italiana in AlgeriChe si potrebbe definire un Concerto per orchestra con oboe obbligato! Nella fattispecie l’obbligo è caduto sulle labbra di Luca Stocco, che ha guadagnato così, per sé e per gli altri strumentini protagonisti, applausi ed ovazioni ben meritate. 
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Ha chiuso la serata la celeberrima Italiana di Felix MendelssohnPiovano, che ha sempre diretto senza partiture sotto gli occhi, ne ha dato un’interpretazione davvero… mediterranea, senza risparmiarci una sola nota (alludo al da-capo del primo movimento) di questo lavoro che trascina sempre l’ascoltatore al massimo dell’entusiasmo. Insomma, per il selezionato pubblico di ieri, una gran bella serata. Chi può, ha ancora modo di goderne domani pomeriggio!
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Appendice. Il Concerto di Saint-Saëns.

È un’opera che rompe con gli schemi formali tradizionali per portarsi – à-la-Liszt - su una forma ciclica, dove la classica struttura tripartita – pur permanendo - viene abilmente dissimulata e arricchita con il ritorno, appunto ciclico, del tema principale del Concerto:

Seguiamo queta pregevole esecuzione di Rostropovich con Giulini sul podio della London Symphony.

20”. Attacco violento della prima parte (Allegro non troppo, in forma sonata) con esposizione del tema ricorrente, più volte ripreso in tonalità diverse dal solista e poi dai legni (56”) e ancora dagli archi (1’08”) e nuovamente (1’26”) dal solista. Che propone poi (1’51”) il secondo tema, canonicamente più elegiaco. I legni (2’21”) tornano sul primo tema, poi il solista percorre un ponte che lo porta (2’42”, Animato) ad un passaggio virtuosistico in doppia corda, sfociante in un tutti orchestrale (3’06”, Allegro molto) che chiude l’esposizione. Sviluppo e ripresa si fondono in un unico passaggio, aperto dal solista (3’38”, Tempo I) con il tema ricorrente, seguito dal secondo (4’36”) ora assai arricchito.

Praticamente senza soluzione di continuità attacca (5’47”, Allegretto con moto) la seconda parte del Concerto. È un Minuetto esposto inizialmente dai soli archi, cui segue (6’43”) il solista che espone un controsoggetto in contrappunto al tema. Il Minuetto prosegue ancora con questo dialogo e si chiude (8’29”) su un virtuosistico accelerando del solista, chiuso da quattro trilli. Ecco ora (8’41”) quello che si può definire il Trio, esposto ancora dagli archi e poi arricchito dal solista.

Sorpresa: manco a dirlo, ecco (10’46”) il primo oboe riproporre il tema ricorrente, poi imitato dagli archi. Infine (11’16”) è il violoncello solista che ci conduce fino all’attacco (11’52”, En peu moins vite) della terza parte del Concerto.

La forma qui pare quella di un’aria o romanza d’opera, e poi di un recitativo. È sempre il solista a proporre dapprima un tema nobile e ispirato, subito ripreso e condotto fino ad un’esplosione dell’orchestra (13’04”) che su un ritmo puntato innesca un dialogo con i virtuosismi del solista. Il quale (13’50”) si imbarca in due drammatiche cadute seguite da altrettante ripidissime risalite. Poi l’orchestra (14’16”) riprende il suo ritmo puntato e ci porta, rarefacendo l’atmosfera, melodrammaticamente, ad un secondo tema (14’47”) una specie di recitativo assai ampio e articolato, esposto ancora dal solista.

Chiuso il quale (16’04”) tocca all’orchestra introdurre un nuovo vertiginoso peregrinare del violoncello, che poi (16’48”) ci ripropone il primo tema, ripreso altre due volte, intercalato da incisi degli strumentini.

Si arriva quindi (17’56”, Più Allegro, comme le 1° m!) all’inevitabile ritorno del tema ricorrente, ora però affidato all’orchestra (archi e fiati che si alternano).

Ci si avvia alla conclusione (18’13”, Molto Allegro) con l’intera orchestra che riprende il robusto Allegro molto che aveva chiuso l’esposizione della prima parte per innescare l’ultimo intervento del solista (18’42”) che si congeda con una nobile cadenza, prima degli undici schianti finali dell’intera compagine.


24 agosto, 2024

ROF-2024: chiusura con Il viaggio a Reims da… Piazza del Popolo.

È ormai tradizione da quando esiste quella diavoleria chiamata streaming che l’ultimo atto del ROF venga irradiato su maxischermo nella piazza principale di Pesaro, che su due dei suoi lati contigui (nord e est) ospita rispettivamente la sede storica e quella moderna del Comune della città, sponsor dell’iniziativa.

Quest’anno per il gran finale è stato proposto Il viaggio a Reims, in forma concertante, eseguito nel ritrovato Auditorium Scavolini. Ricorrono infatti i 40 anni dalla prima uscita al ROF di questo autentico gioiello, illustrato allora dalla prima edizione critica di Alberto Zedda e da una coppia di artisti semplicemente passata alla storia: Claudio Abbado e Luca Ronconi, coadiuvati allora da un cast che definire stellare è ancora riduttivo.  

E anche io ho deciso – non è la prima volta – di assistere allo spettacolo seduto su una (piuttosto scomoda) sedia nella Piazza, in mezzo a tanta gente che magari non frequenta abitualmente teatri e sale da concerto, ma che nondimeno segue questi eventi con passione e… applaude proprio come a teatro.

Per evidenti ragioni non farò qui alcun commento sulla parte musicale dell’evento, limitandomi a riferire dell’entusiastica accoglienza del pubblico, quello all’interno (dell’Auditorium) e quello all’esterno (in piazza).

Chiude così i battenti anche questa edizione particolare del Festival. Che ci ha riservato (come quasi sempre, del resto) interessanti novità, attese conferme e… un benefico e ubriacante diluvio di note rossiniane!    


23 agosto, 2024

ROF-2024 live: Il barbiere di Siviglia.

Ultima (ma temo solo per questa stagione…) visita alla Vitrifrigo Arena per l’ultima recita del Barbiere, ripresa della produzione del 2018, già ripetuta in Covid-streaming nel 2020.

Quel grande studioso rossiniano che fu il compianto Alberto Zedda scrisse a proposito del Barbiere un saggio che ancor oggi costituisce un punto di riferimento per inquadrare l’opera nella sua essenza più genuina, a dispetto delle mille ferite infertegli dalla cosiddetta tradizione esecutiva. E la sua edizione critica, ancor oggi riproposta al ROF, lo sta ampiamente a dimostrare.  

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Sulla regìa di non posso che ripetere i miei commenti allo spettacolo di sei anni fa. Pier Luigi Pizzi non si smentisce e – da architetto, per studi universitari, e da scenografo… di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi proprio, trova) un più che accettabile compromesso, evitando gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni tradizionali (o tradizionaliste…) che, da commedia con venature di buffo, riducono spesso il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato.

Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane… non fanno mai scadere lo spettacolo a becera farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che circonda l’orchestra e che è da sempre una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto e poi alle uscite finali.

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Un tremuoto, un temporale… è l’espressione che meglio si addice a descrivere ciò che deve aver colpito Lorenzo Passerini sul podio dell’Arena: un corpo letteralmente morso dalla tarantola! E forse i suoi gesti quasi spiritati possono aver dato la (fallace) impressione che i tempi da lui tenuti siano eccessivamente forsennati: in realtà mi pare che ciò ieri non sia accaduto, il che va comunque a suo merito. La solida Sinfonica Rossini evidentemente lo ha assecondato nella sostanza, al di là della forma, piuttosto gigionesca!

Assai bene anche il Coro (soli signori) del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.  

Nel ruolo del titolo, il polacco Andrzej Filonkzyk ha messo in mostra la sua voce dal timbro caldo e ben tornito, di cui qualche eccesso di forzatura degli acuti non ha troppo compromesso la resa complessiva. Più che discreta anche la sua presenza scenica.

Il suo protetto (Almaviva/Lindoro) è lo yankee Jack Swanson: voce leggera, dal timbro non molto corposo, in specie nelle note più gravi, ma svettante negli acuti. In complesso, più che apprezzabile la sua prova.

Parimenti apprezzata la Rosina di Maria Kataeva. Assai efficace e ben proiettata negli acuti, il mezzosoprano russo mi è parsa meno efficace nell’ottava bassa, ma anche lei ha brillantemente superato la prova, mettendo in mostra anche una consumata sensibilità interpretativa.

Assai bene anche William Corrò, che vestiva i panni duplici di Fiorello e Ufficiale: voce benissimo impostata e potente, dal timbro assai gradevole.

Resta da dire dei senior della serata. Su tutti l’imponente figura di Michele Pertusi, un Don Basilio che probabilmente si sentiva anche a… Pesaro! E che ha portato gli applausi del pubblico al parossismo.

Così come l’altro decano del Festival, Carlo Lepore, un Bartolo di gran spessore, nella voce (non ha perso una sola sillaba nei diversi scioglilingua che Rossini impone al personaggio) e nelle multiformi movenze delle sue esternazioni.

E infine Patrizia Biccirè, che esordì al ROF addirittura 32 anni orsono! E che ancora ha saputo dare il suo apporto allo spettacolo e soprattutto – con l’arietta a lei riservata - alla musica.

Applausi scroscianti a scena aperta dopo ciascun numero e poi un generale trionfo finale, con tutti gli interpreti in passerella a ricevere un interminabile applauso ritmato!