XIV

da prevosto a leone
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01 ottobre, 2016

La Scala si fa un bel giro di vite

 

La Scala sta ospitando una delle opere più affascinanti di Benjamin Britten: The turn of the screw, arrivata ieri alla quinta delle sette rappresentazioni. Come personalmente io vedo i tratti fondamentali dell’opera, anche in relazione al racconto ispiratore di James, ho già avuto modo di esprimerlo anni fa, in occasione di un allestimento veneziano, e a quel commento rimando le falangi (?!) dei curiosi.

Parto dalla prima scena del second’atto (occupata dall’incontro fra i due fantasmi e chiusa dalla sconfortata confessione dell’Istitutrice) che ha il suo culmine nella famosa esternazione di Quint (poi di Jessel e quindi di entrambi): The ceremony of innocence is drowned:
   

Non viene per nulla da James, ma è un verso preso di peso da una poesia di William Butler Yeats del 1919 (The second coming, Il Secondo Avvento) scritta subito dopo la Grande Guerra e la Rivoluzione d’Ottobre, che erano stati eventi di inaudita ferocia (il primo) e di violenta sovversione (il secondo):

William Butler Yeats - 1919
Turning and turning in the widening gyre 
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all convictions, while the worst
Are full of passionate intensity.

Girando e girando nella spirale che si allarga
il falco non può udire il falconiere;
le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere;
pura anarchia dilaga sul mondo,
l’onda intorbidata di sangue dilaga, e ovunque     
il rito dell’innocenza viene sommerso;
nei migliori manca ogni fede, mentre i peggiori
sono colmi di fervente ardore.

Yeats ci vedeva il prevalere dei peggiori istinti bestiali (oggi si incarnano nell’ISIS, per dire) sui sani principii (l’innocenza) che dovrebbero governare le civiltà umane. Nel libretto della Piper il concetto (evidentemente condiviso e magari suggerito da quell’anti-militarista-obiettore-di-coscienza che rispondeva al nome di Britten) viene trasportato a livello privato: i fantasmi Quint&Jessel sono i peggiori, ma dotati di spietata decisione, mentre i migliori (l’Istitutrice) hanno perso ogni fiducia nel bene (Persa nel mio labirinto, non vedo alcuna verità, su di me incombono solamente le pareti nebbiose del male, confessa la poveretta).  

Questo rapporto di sopraffazione dei cattivi sulla buona viene dal regista Kasper Holten proposto lungo l’intero corso della storia, ma smaccatamente mostrato all’inizio del second’atto, proprio nella scena in cui si proclama che il rito dell’innocenza viene sommerso. L’Istitutrice, che già di suo è preda di oniriche visioni da incubo, si ritrova ai suoi fianchi, nel letto, i due fantasmi che, appunto, la sommergono con le loro tentazioni.

È questo certamente il momento-clou della messinscena di Holten, tutta incentrata sulle turbe psichiche dell’Istitutrice, che diventa paradossalmente la cattiva della situazione, facendo prima ammattire Flora e spingendo poi Miles al suicidio: a proposito l’ultima scena mi è parsa davvero... spropositata, con il ragazzo che urla Peter Quint, you devil! proprio abbaiando contro l’Istitutrice, per poi correre a buttarsi dal secondo piano per sfracellarsi al suolo, dove verrà raccolto in una pozza di sangue dalla povera schizofrenica... Mah!

Avendo dato la priorità alla schizofrenia dell’Istitutrice, vengono fatalmente messi in secondo piano gli aspetti che verosimilmente stavano più a cuore a Britten: non è un mistero che il compositore fosse particolarmente e in primo luogo interessato a presentarci la problematica legata ai rapporti fra adulti e adolescenti (con annesse implicazioni omosessual-pedofile); problematica assai più scabrosa di quella legata alla labilità psichica di una donna chiaramente impreparata ad affrontare certi compiti e quindi facilmente suggestionabile. Insomma: nel soggetto di Piper-Britten il piccolo Miles deve essere stato vittima delle vessazioni materiali di un adulto maschio vivo (poco importa che poi torni o no da morto...) e non delle paranoie di una donnicciuola bigotta e inesperta di tutto (massimamente di sesso). Non altrimenti si spiega come Miles, assai prima dell’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato cacciato dalla scuola a causa di suoi comportamenti irriferibili, ma chiaramente spiegabili soltanto con la frequentazione di cattive compagnie... E che il rapporto Flora-Jessel, pur esso preesistente all’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato tutt’altro che limpido ce lo confermano le parole della governante quando narra dei vaneggiamenti onirici della piccola, e si convince a portarla via da quella casa.

E poi che i fantasmi (come minimo quello di Quint) non siano soltanto proiezioni della psiche alterata dell’Istitutrice ce lo conferma un indizio assai scoperto: dalla sommaria descrizione che l’Istitutrice medesima fa della persona comparsale davanti già due volte (e mai vista prima) Mrs.Grose decifra senza alcuna esitazione l’identità di Peter Quint! Dopodichè vuota il sacco su una serie di fatti e comportamenti riprovevoli di cui lei stessa era stata testimone, protagonisti Quint e Jessel.

Ecco quindi che un aspetto fondamentale del soggetto originale qui viene messo in secondo piano, poichè continuamente schermato dalla presenza ingombrante e soffocante dell’Istitutrice e della sua psiche malata: ne è chiaro esempio la scena finale del primo atto, al centro della quale vi è proprio l’Istitutrice, che pare quasi telecomandarla (o magari immaginarla in sogno) invece di sopraggiungere solo a cose fatte (gli abboccamenti fra i due fantasmi e i due fanciulli). 

Insomma, una lettura, quella del regista danese, a mio modo di vedere troppo sbilanciata sul versante freudiano, che rappresenta una parte, ma non il tutto del racconto di James e ancor meno centrale (per quanto rilevante) è nel libretto dell’opera.

Vanno apprezzate le scene, con la suddivisione dello spazio in celle di dimensioni diverse: due grandi, sovrapposte, che occupano il centro e il lato sinistro del palco, e traslano in verticale per scoprire o far scomparire un sotterraneo (ambientazione del lago) che comunica con il salone del maniero attraverso una scala a chiocciola; e tre piccole sovrapposte e fisse sul lato destro, che rappresentano le camere dei due piccoli e della governante. Così diventa efficace mostrare al pubblico anche quei personaggi (i fantasmi) che spesso devono essere invisibili agli altri protagonisti. Inoltre, la chiusura alla vista, ottenuta con pareti mobili, consente al regista di zoomare quando necessario su una sola (o alcune) delle celle.

Costumi e luci contribuiscono a creare efficacemente le ambientazioni delle diverse scene: certo, gli aspetti (pur non trascurabili, anche perchè magistralmente sottolineati dalla musica) legati alla natura (il tramonto, il lago...) vengono qui totalmente ignorati, in un bianco&nero permanente e soffocante. Qualche eccesso, come il già citato suicidio di Miles, e un manichino (? della governante?) che pende impiccato dal soffitto durante il Prologo si potevano evitare, credo.
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Ottime notizie sul fronte dei suoni, dove i magnifici 13 strumentisti della Scala, tutti di fatto dei solisti in questa partitura da camera, si meritano un encomio per l’accuratezza della loro esecuzione. Christoph Eschenbach li ha guidati con la sua proverbiale e maniacale attenzione ad ogni dettaglio: molto opportuna quindi la loro apparizione finale sul palcoscenico, a prendersi i meritati applausi insieme ai protagonisti vocali, tutti indistintamente da lodare, grandi e soprattutto piccoli!   
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Ultima nota (dolente): pubblico scarso e smagritosi ulteriormente all’intervallo; captati qua e là commenti irriferibili sull’inclusione di questo titolo nel programma in abbonamento. Che dire? In questi casi torna sempre e invariabilmente la nostalgia per la cara Piccola Scala (ambiente semplicemente perfetto per questo tipo di rappresentazioni) e la rabbia per la fine che le è toccata... amen.  

25 maggio, 2015

Il Britten fiorentino, riveduto e corretto

 

Ieri pomeriggio seconda recita di The turn of the screw di Benjamin Britten al Maggio Musicale, Teatro Goldoni, un ritrovo discreto – tipo club londinese - per pochi (ma buoni?) intimi.

Comincio dalla parte musicale, che a mio modesto avviso è stata quella più convincente: innanzitutto per la prova dei 13 solisti (proprio così) dell’Orchestra del Maggio, guidati dal violino di Yehezkel Yerushalmi e diretti con gran cura dei dettagli da Jonathan Webb. Tutti insieme (compresa l’arpa traslocata in palco di proscenio) hanno reso al meglio le atmosfere ora idilliache, molto più spesso sinistre, che caratterizzano l’opera. Certamente favoriti anche dalle dimensioni raccolte della buca e del teatro.

Fra le voci direi bene o benissimo tutte quelle femminili, che potrei ordinare in classifica mettendo in testa l’Istitutrice Sara Hershkowitz, seguita dalla Miss Jessel di Yana Kleyn, dalla Flora di Rebecca Leggett e dalla Mrs. Grose di Gabriella Sborgi. I maschietti (si fa per dire) nel cast sono due: benissimo il piccolo Miles, al secolo Theo Lally e più che dignitoso (con quache riserva) John Daszak, sdoppiatosi come consuetudine fra Prologo e Quint.

Per tutti un’accoglienza calorosa, concretizzatasi in parecchie chiamate al proscenio.
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Più articolato il mio giudizio sullo spettacolo, che ha proposto cose interessanti accanto ad altre francamente discutibili.

Come nel recente Flauto di Bologna, anche qui si è fatto uso – da parte del regista Benedetto Sicca – di immagini tridimensionali proiettate su uno schermo rettangolare collocato proprio al centro della scena, a far da parete ad una torre stilizzata (sulla sommità della quale apparivano di volta in volta personaggi del dramma, e non solo Quint). Però, a differenza di Bologna, dove si è impiegata una tecnologia piuttosto antiquata (anaglifo, quella che contempla l’uso degli occhialini con le due lenti colorate (blu e rosso, per semplificare) a Firenze Marco Farace (responsabile delle elaborazioni video) ha fatto uso della tecnologia basata sulla polarizzazione e sulle lenti polarizzate, tecnologia obiettivamente più efficace, oltre che meno disturbante per la visione di tutto il resto di ciò che sta in scena (che poi è la parte più importante dello spettacolo).

Peraltro anche qui ciò che viene proiettato in 3D ha pertinenza ed efficacia piuttosto discutibile rispetto ai contenuti dell’opera: il treno che porta l’Istitutrice a Bly, il cigno (o i cigni) di cui vedremo la (eccessiva) rilevanza attribuitagli dal regista, corpi o volti o scritte più o meno efficaci a sottolineare l’azione che si svolge sul palcoscenico.

Le scene di Maria Paola Di Francesco sono assai spartane e in sostanza abbiamo il palcoscenico suddiviso in tre sezioni: in basso, la parte anteriore è sempre vuota e lì vi si muovono i personaggi in primo piano; nella parte posteriore, separata dalla torre-schermo e da altri pannelli, vediamo ciò che contemporaneamente accade altrove, rispetto all’azione in primo piano; la parte alta (la sommità della torre) serve come detto per farvi apparire Quint (come da libretto) ma anche Jessel e l’Istitutrice. In più anche un paio di palchi vengono impiegati per farvi comparire i due fantasmi.

I costumi di Marco Piemontese dovrebbero ricalcare quelli dell’epoca del racconto, ottocento avanzato. Efficaci e sempre discrete le luci di Marco Giusti.
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L’interpretazione di Sicca, come detto, è per me caratterizzata da luci ed ombre. In generale il regista si è attenuto al libretto (insomma, non ha inventato un’altra storia, ecco, salvo per il finale, come vedremo) ed anzi il suo è spesso un approccio fin troppo didascalico, il che non è detto sia un bene. Gratuito anche se efficace il mezzo spogliarello del Prologo, che entra in camicia bianca (su pantaloni neri) e poi si toglie la camicia per indossarne una nera (quella da fantasma di Quint) passatagli da… Miles. Poi, i due fantasmi compaiono a fianco dei ragazzi già alla scena V (dove si dovrebbe manifestare solo Quint); nel retroscena si vedono sempre (fin troppo) azioni che dovrebbero soltanto essere immaginate, sulla base dei dialoghi (ad esempio, nella scena VII del primo atto, con Flora e Isitutrice presso il laghetto, si vede sullo sfondo Quint intrattenersi con Miles); peggio accade nella corrispondente scena, sempre al lago, del second’atto, dove arriva anche Quint recando in braccio Miles (!)    

Ma queste in fin dei conti sono sottigliezze di poco conto. C’è invece un’idea che il regista ha messo al centro della sua interpretazione, anzi, propriamente, un simbolo. Ora, nella prima scena del second’atto, quella dove i due fantasmi si ritrovano insieme, Jessel subito rimprovera Quint per averla richiamata dai suoi sogni, e lui risponde: sei tu che hai udito il terribile suono delle ali del cigno selvatico. Frase ad effetto, certamente, ma del tutto isolata: mai più il riferimento al cigno tornerà nel testo della Piper. Bene, questo è invece il simbolo che Sicca mentre al centro della sua concettualizzazione dell’opera.

Già nella seconda scena il cigno ci appare, rappresentato da un origami bianco, nelle mani dell’Istitutrice, che ne fa dono a Miles (mentre non regala nulla a Flora…) D’ora in poi il cigno è protagonista delle animazioni 3D, dove il suo collo si allunga fino a portare il becco dell’animale sul… naso dello spettatore. Poi i cigni diventano due, aggiungendosene uno nero (affibbiato a Jessel, che ne ha uno attaccato al suo vestito, sulla spalla sinistra). I due cigni si vedono anche insieme in alcune animazioni e una grossa piuma cade dall’alto al termine del primo atto.

Ma il colpo di scena (inutile dire che è un’invenzione – peraltro non nuova in assoluto – del regista) arriva alla fine: nella scena VII (al laghetto) l’Istitutrice arriva con in mano l’origami del cigno, poi rimane lì, quasi inebetita e nella scena successiva (l’ultima) avviene il fattaccio: Miles, proprio dopo aver pronunciato la fatidica frase Peter Quint, you devil!, e mentre Quint gli dice addio, riconoscendo di avere fallito, invece di schiattare per colpo apoplettico si getta fra le braccia del fantasma e pure della fantasmessa Jessel, arrivata appositamente sul posto, e con loro se ne va quasi allegramente. La povera Istitutrice pronuncia le sue ultime parole e scimmiotta la canzoncina (Malo) di Miles trastullandosi con l’origami del cigno, mentre tornano pure Mrs.Grose e Flora a portarsela via verso… il manicomio?

Bene, abbiamo capito che Sicca appartiene alla scuola di pensiero che sostiene i fantasmi e le relative conseguenze essere una pura invenzione della mente malata dell’Istitutrice. E quindi, visto l’epilogo, dobbiamo supporre che anche il piccolo Miles sia un fantasma, ecco. E già che ci siamo, perché non anche la stessa Istitutrice? Boh…

Insomma, Sicca falsa smaccatamente il finale per presentarci l‘Istitutrice come colpevole e responsabile di ciò che è accaduto. Ma per insinuarci questo dubbio - che tale dovrebbe restare - bastano ed avanzano il testo di Piper e la musica di Britten, senza bisogno di aggiungervi o mutarci alcunchè.


22 maggio, 2015

Altro giro di vite a Firenze

 

Questa sera nella deliziosa bomboniera del Teatro Goldoni si rappresenta la prima delle 6 recite di The turn of the screw di Benjamin Britten.

Dal sito del Teatro, e in particolare dalla nota e dal video di cui è firmatario-protagonista Benedetto Sicca, responsabile della regìa dell’opera, veniamo a conoscenza di alcuni dettagli interessanti (si fa per dire).

Intanto, leggiamo: Che rapporto c’è tra il defunto Peter Quint e l’altrettanto defunta moglie? Ora, se davvero Sicca deriva dal testo di Britten e dall’originale di James un legame di parentela del genere, deve avere qualche secondo fine…

Subito prima aveva scritto: Perché la Governante lascia sua figlia per andare ad occuparsi di questi due bambini sconosciuti? Sua figlia? Questa è proprio tosta davvero: solo un principiante in lingua inglese può così interpretare la frase dell’istitutrice (The children… the children. Will they be clever? Will they like me? Poor babies, no father, no mother. But I shall love them as I love my own, All my dear ones left at home, so far away - and so different) dove lei si riferisce ai suoi cari e non ad una figlia che non ha, come si evince da tutto il resto del libretto e più ancora dal racconto di James (lei ha 20 anni, è innocente ed inesperta, ultima figlia di un povero parroco di campagna).

Saranno pure dettagli insignificanti, ma danno l’idea di un filino di approssimazione… ecco.

Dal video si apprende invece che, dopo il Flauto bolognese, anche a Firenze si potrà apprezzare al meglio la regìa solo inforcando i classici occhialini bicolore del 3D!

In attesa di permettermi qualche commento, dopo visione in loco, rimando le folle di seguaci del blog ad un mio scritto sul Turn, postato in occasione della pregevole edizione veneziana del 2010.

04 luglio, 2010

Giro di vite alla Fenice

No, non si tratta di un ennesimo decreto di Bondi per ripicca verso una città che ha rieletto a sindaco un esponente dell'opposizione… Ma dell'opera di Benjamin Britten: The turn of the screw, la cui ultima recita è andata in onda ieri pomeriggio.

Sulla strada per il Teatro, una interessante sosta alla Chiesa di San Maurizio Martire, dove è allestita la mostra Vivaldi e il suo tempo. Mostra – soprattutto – di strumenti musicali, a corde e a fiato, che ospita tesori della collezione di Artemio Versari, venerabile contrabbassista del Comunale di Bologna, docente ed esperto di strumenti d'epoca. Un bell'aperitivo prima di apprezzare la virtuosistica compagine cui Britten affida il sostegno della sua opera.

Bravissimi tutti gli interpreti. A cominciare dai due ragazzini, nei panni di Miles e Flora: l'undicenne Peter Shafran, che mostra un'esperienza da cantante navigato, che non ha bisogno di guardare continuamente il Direttore per prendere gli attacchi. Cosa che fa di continuo Eleanor Burke (12 anni) comunque sempre brava (poi mi è simpatica perché assomiglia in modo impressionante alla mia seconda figlia, quando aveva la sua età…)

Julie Mellor e Allison Oakes erano rispettivamente la governante Grose e miss Jessel e direi che se la sono cavata egregiamente, soprattutto la prima.

Eccellente Marlin Miller, nei ruoli del Prologo e di Quint: ha una voce da tenore più eroico che barocco (quale era Pears, dedicatario dei ruoli) ma si cala molto bene nel personaggio del peccatore-adescatore.

Su tutti Anita Watson, perfettamente a suo agio nel ruolo della protagonista-senza-nome: voce piena, potente, e grande presenza scenica.

Jeffrey Tate e i 16 professori della Fenice hanno saputo cavar fuori ogni dettaglio e ogni tesoro dalla partitura britteniana: trionfo anche per loro. Peccato che il Teatro presentasse ampi vuoti, sia in platea che nei palchi; vuoti – è un vezzo poco nobile – aumentati di numero dopo l'intervallo.

Regìa, scene e costumi erano di Pier Luigi Pizzi. Un approccio generale assai serio e conservativo: scene sobrie e funzionali (due piani verticali: sotto il soggiorno e gli ambienti di studio dei ragazzi, sopra la camera di Miles) e due diversi fondi: le finestrone sull'ingresso della casa e il bosco e il lago per le corrispondenti scene. Costumi e suppellettili allineati all'epoca del racconto di James (fine '800).

Quanto alla regìa, nessun'idea strampalata (un campione di Regietheater potrebbe, che so, trasformare i fantasmi in due personaggi di fumetti, che escono dalla play-station su cui giocano i bambini) e aderenza sostanziale all'originale, diciamo con qualche eccessiva (per me) sottolineatura in più rispetto alle esplicitazioni che già la librettista Piper e Britten avevano fatto sul testo di James.

Come ad esempio la prematura presenza dei piccoli all'apparizione di Quint alla finestra (Atto I, Scena V) che toglie un filo di drammaticità a ciò che poi accade nella Scena VIII. O anche (Atto I, Scena VI) Quint che appare proditoriamente (rispetto al libretto) a spiegarci da chi il piccolo Miles ha imparato certe filastrocche (malo, malo).

O ancora (Atto I, Scena VII) la piccola Flora che – all'apparizione di miss Jessel – invece di ignorarla (o fingere di ignorarla, come vuole il libretto) le tende la bambola con cui giocava: cosa che stride poi clamorosamente con il comportamento della piccola nella scena VII dell'Atto II, dove lei negherà sdegnosamente di vedere l'ex-istitutrice, riapparsa sul lago.

Poi anche il comportamento dei due fantasmi è piuttosto caricato (anche se ciò non stravolge il senso generale del racconto): nell'ultima scena (VIII) del primo atto, invece di presentarsi i tempi diversi (prima Quint, sulla torre, che chiama Miles che sta giù nel giardino; poi la Jessel, che dal lago chiama Flora, affacciata al balcone) i due fantasmi ex-amanti si presentano ai due piccoli insieme, anzi allacciati in atteggiamento palesemente erotico. Il che contrasta assai con la lettera – se non con lo spirito – del libretto.

Ancor più esplicito è il comportamento dei due nella prima scena del secondo atto, laddove Quint, entrando poco dopo la Jessel che gli chiede ragione della sua chiamata, le pianta subito la mano su una tetta, come se non si fosse intuito che fra i due doveva esserci stato qualcosa di piccante, quando erano in vita… E i due non sono in un chissà dove (nowhere nel libretto) bensì accomodati (si fa per dire) sulla scrivania dell'Istitutrice (dove di certo dovevano averne combinate di cotte e di crude da vivi, e magari in presenza dei fratellini).

Non solo, ma invece di scomparire, Quint e Jessel si sdraiano affiancati sulla scrivania, proprio mentre arrivano Miles e Flora che, invece di avviarsi verso la chiesa (già si odono le campane) recano un velo scuro con cui coprono i due fantasmi, depositandovi sopra le corone di alloro e di giglio che portavano in testa. Solo dopo si accodano all'Istitutrice e alla governante per recarsi in chiesa. Questa scena, di per sé gratuita, ha però due grandi pregi: il primo è di dare un valore immediato e concreto alla frase dell'Istitutrice che, rivolta alla Grose, afferma: I tell you they are not with us, but with the others, i due piccoli sono lì, ma non con loro, bensì con i fantasmi; il secondo è di natura pratica: andatosene Quint con il velo, la Jessel resta su quella scrivania, quindi già in posizione per la scena successiva, dove verrà per l'appunto sorpresa dall'Istitutrice.

Insomma, al di là di queste piccole (o meno piccole) forzature, una regìa del tutto aderente al libretto e di sicura efficacia.

Quindi non resta che fare i complimenti a tutta la squadra: questo è un esempio di come si possa ancora oggi fare del buon teatro musicale.

22 giugno, 2010

Britten torna a Venezia

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Dal 25 giugno al 3 luglio La Fenice ospita un'opera moderna: The turn of the screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten. Opera cui ha dato i natali, il lontano 14 settembre 1954, allora con l'Autore sul podio e il compagno Peter Pears a sostenere i ruoli del Prologo e del fantasma di Quint. Adesso sarà Jeffrey Tate a dirigere la smilza orchestra e Pier Luigi Pizzi ad allestire lo spettacolo.

Come altre importanti opere di Britten (ad esempio l'antecedente Peter Grimes – che tratta in modo esplicito di un caso di sfruttamento di minori da parte di un personaggio in perenne conflitto con la società - e la posteriore Death in Venice – che descrive, sempre apertamente, il rapporto morboso fra un maturo signore ed un ragazzino avvenente) anche questa trae origine da un preesistente racconto, scritto da Henry James alla fine del 1800. Si tratta di una storia di apparizioni di fantasmi, ambientata a metà del diciannovesimo secolo in una vecchia dimora di campagna nell'Essex, a est di Londra.

Ma ad attirare l'attenzione di Britten non furono certo i fantasmi, bensì una precisa componente del racconto, che rappresenta concetti particolarmente (e ossessivamente?) cari al compositore. Il primo – che emerge esplicitamente dalle pagine di James – è relativo alla manipolazione di minori (due orfani, Miles e Flora, fratello e sorella, 10 e 8 anni, nella fattispecie). Il secondo – correlato al primo, e ancor più autobiografico per Britten, ma assai più sfumato, nascosto, criptato nel racconto di James – è il sostrato omosessuale (con risvolti pedofili!) della storia, in particolare per quanto attiene il rapporto fra il piccolo Miles e il fantasma di Quint (e, in certa misura, anche fra la piccola Flora e il fantasma di miss Jessel).

Il racconto dello scrittore americano ha programmaticamente dei contorni nebulosi (l'ombra di un'ombra, come lo stesso autore ebbe a definirlo); da gran furbone qual'era, lo scrittore sapeva bene come catturare l'interesse e l'attenzione dei suoi lettori (e proporre argomenti scabrosi senza correre troppi rischi) per cui lasciò deliberatamente aperte tutte le strade dell'interpretazione della sua opera, in modo che ciascun lettore sia portato inevitabilmente ad avanzare le proprie personali ipotesi riguardo la realtà (poca) e le suggestioni (innumerevoli) che vi vengono presentate. Sono quindi del tutto accademiche, pur se interessanti, le interminabili discussioni che da più di un secolo dividono i sostenitori dell'interpretazione apparizionista e di quella psicanalitica del racconto di James. Il quale si interessava alle ricerche sui fenomeni paranormali e alle storie dei classici fantasmi che popolano vecchi manieri britannici, ma allo stesso tempo – avendo purtroppo una sorella schizofrenica – era anche portato a seguire i progressi della psicanalisi. E sotto-sotto, tanto per gradire, non era estraneo a tendenze omosessuali.

Secondo la prima corrente di pensiero, i due fratellini orfani – di cui lo zio tutore nulla vuol sapere, pur garantendogli ogni risorsa materiale - furono oggetto, in passato, di innominabili quanto presunti o ipotizzati soprusi da parte di persone ormai defunte (Quint e Jessel) che ora appaiono nella casa come fantasmi per prendersi anche le loro anime e contro i quali si batte eroicamente la nuova, giovane istitutrice dei piccoli. Peccato però che questa sia la versione dell'istitutrice medesima, che è anche l'unica campana che si ascolta nel racconto di James (il diario in 24 capitoli scritto dalla ragazza) dove peraltro nessun testimone conferma le apparizioni e dove troviamo solo una serie di circostanze sospette e di sospettose insinuazioni, di retroscena misteriosi e di misteri mai spiegati.

Per la seconda, invece, i ragazzini sono oggetto di attenzioni equivoche e morbose, comunque ossessive, proprio da parte di chi (l'istitutrice) ha assunto il compito della loro custodia ed educazione. Costei sarebbe affetta da complessi (di origine erotica, nei confronti del tutore dei ragazzi, o anche di natura esistenziale, legati all'educazione ricevuta dal padre) che le provocherebbero di conseguenza un raptus di possessività - in particolare nei confronti del piccolo Miles – che a sua volta la porterebbe ad inventarsi le figure e le apparizioni dei fantasmi – in realtà costruzioni del suo inconscio, della sua mente instabile e della sua schizoide personalità - proprio per poter manipolare e finalmente possedere i piccoli. Con la conseguenza disastrosa di essere lei stessa la causa diretta dell'ammattimento della piccola Flora prima, e poi della morte del piccolo Miles; altro che salvarli dagli spiriti maligni!

Torniamo ora a Britten e alla sua amica librettista Myfanwy Piper per domandarci quale fu il loro approccio nella stesura del libretto, e quindi della musica dell'Opera. Intanto si potrebbe a prima vista immaginare che i due fossero abbastanza indifferenti rispetto all'interpretazione (apparizionista o psicanalitica) da dare alla storia, poiché a loro premeva soprattutto una cosa: mettere in scena un soggetto dove dei bambini fossero in qualche modo manipolati (non importa da chi) e posti al centro di vicende equivoche ed inquietanti. Ciò resta comunque ed invariabilmente vero, quale che sia l'interpretazione che si dà del racconto di James; cambia solo il soggetto che minaccia la serenità dei fanciulli: da un lato i malvagi fantasmi di ignobili persone defunte a caccia di anime, dall'altro l'apparentemente (ed ossessivamente) amorevole istitutrice, vittima dei suoi complessi freudiani. O magari – terza scelta - tutti quanti insieme!

Ma a Britten importava anche e assai – senza dubbio – far emergere in modo chiaro, o meno criptico rispetto a James, gli elementi di omosessualità (e pedofilia) nascosti dentro la nebbia del racconto. E ciò richiedeva necessariamente di presentare sulla scena i protagonisti di quei rapporti e di mostrare al pubblico che quei rapporti esistevano per davvero. Ecco quindi che, con il pretesto che non si potrebbe costruire un'opera - da musicare e rappresentare in teatro - esclusivamente centrata su un unico personaggio (l'istitutrice, appunto) e sul di lei racconto, Britten e Piper poterono introdurvi anche gli altri personaggi della storia: i piccoli (Miles e Flora), la governante della casa (Mrs. Grose) ma soprattutto, e in-primis, i fantasmi di Quint e di miss Jessel. I quali in James sono esclusivamente visti o percepiti dall'istitutrice (e da nessun altro!) e non profferiscono verbo alcuno, mentre nell'opera di Britten appaiono non solo a tutti gli spettatori (oltre che all'istitutrice) ma anche ai fratellini… e soprattutto parlano (anzi cantano, come si conviene a personaggi di un'opera musicale) sia ai ragazzi, sia fra di loro.

Naturalmente la maestrìa musicale di Britten si incaricherà di stabilire tutta la fitta rete di relazioni fra i fantasmi e i piccoli, mentre sul piano visivo è l'ultima scena del primo atto il teatro scelto da Britten/Piper per renderci esplicito e inequivocabile (e non solo presunto, quindi indimostrabile, come in James) lo scabroso e malsano rapporto esistente – e preesistito – fra i quattro. Quint parla a Miles e Miles risponde; Jessel parla a Flora e Flora risponde; ed è come se riprendessero discorsi interrotti da poco tempo, fra loro esiste una scoperta complicità, non vi possono essere dubbi! E da qui tutta la nebbia di James svanisce: la prima scena del secondo atto ci mostra Quint e Jessel che si incontrano – in un luogo indeterminato, che potrebbe essere l'inconscio dell'istitutrice - e letteralmente discutono della loro situazione, del loro passato, dei loro progetti, di come catturare definitivamente le personalità dei piccoli. La Piper qui introduce il famoso verso di Yeats («The ceremony of innocence is drowned») che è in effetti il programma politico dei due fantasmi-amanti-corruttori-pedofili.

Poi – nella quinta scena – Quint istigherà Miles a rubare la lettera dell'istitutrice, pronta per essere spedita allo zio dei ragazzi, e Miles eseguirà immediatamente l'ordine. Infine, nella drammatica scena conclusiva, Quint cercherà disperatamente di convincere Miles al silenzio, a non tradire i loro segreti. E alla fine, sconfitto, ammetterà: Ah, Miles, we have failed. Proprio così: noi abbiamo fallito!

Insomma, il risvolto apparizionista del libretto fu evidentemente una scelta quasi obbligata per Britten/Piper, ma per ragioni - come dire - ideologiche prima che artistiche, e meno ancora per necessità legate all'allestimento. È però interessante rilevare come nell'opera siano presenti – anche e soprattutto nella natura dei motivi musicali – degli indizi non trascurabili di affinità, se non di complicità, fra i personaggi dei fantasmi (Quint in primo luogo) e la stessa istitutrice, indizi che fanno quindi riemergere sottilmente anche i risvolti freudiani della vicenda. È come se Britten, ancora una volta, avesse voluto mostrarsi equidistante dalle interpretazioni del racconto di James, ma non prima di aver introdotto nella sua propria opera ciò che gli premeva di più.

Bene, vedremo a Venezia come Pier Luigi Pizzi ci presenterà questa storia, che non cessa mai di affascinare. A proposito del titolo, ci sono almeno tre possibili origini: una, del tutto generica e presumibilmente estranea alla volontà di James, che deriva dall'uso che dell'espressione si faceva – e ancora si fa? - nelle carceri (il giro di vite che serviva a far parlare un testimone reticente); l'altra, presa dal prologo del racconto, dove si afferma che la storia di un fantasma che appare ad un bimbo dà un giro di vite alla drammaticità dell'evento (e quella che riguarda due bimbi, provoca due giri di vite); infine, nel capitolo XXII del racconto, la protagonista (l'istitutrice) usa il termine su di sé, nel senso di dare, con un giro di vite, ulteriore forza alla sua volontà; insomma, di darsi la carica in vista del momento tòpico della vicenda: il suo finale show-down con il piccolo Miles e il fantasma di Quint.

Sul versante musicale, Britten impostò il suo lavoro con rigide e matematiche ed anche artificiose e gratuite simmetrie: 8 scene per ciascuno dei 2 atti (più il Prologo) tutte precedute da un'introduzione orchestrale. Le 16 introduzioni propongono rispettivamente un tema e sue 15 variazioni.

Dopo il Prologo e come introduzione alla prima scena, abbiamo l'esposizione al pianoforte del tema, una serie dodecafonica, suddivisa in 3 tetracordi (ciascuno composto da due coppie di note distanziate di una quarta) che poi comparirà, variata (anche attraverso operazioni fiamminghe di inversione, retrogradazione, etc.) per altre 15 volte, precedendo come si è detto le altrettante scene dell'opera:

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È questo il solo e labile riferimento alla tecnica e alla scuola dodecafonica, cui Ben Britten rimase sempre sostanzialmente estraneo (anzi, arrivando quasi ad irriderla ed offenderla in Death in Venice) conservandosi fedele alla tradizione e introducendo al massimo qualche dissonanza nelle sue composizioni, rigorosamente ancorate alla tonalità (nello Screw abbiamo, ad esempio, il chiaro contrapporsi di LA naturale e di LA bemolle, a rappresentare ingenuamente – semplifico – il bene e il male).

Quanto all'orchestrazione, è assolutamente cameristica, con 13 soli esecutori: quintetto d'archi (2vl-vla-vc-cb) flauto (prende ottavino e contralto), oboe (prende corno inglese), clarinetto (prende clarinetto basso), fagotto e corno; poi arpa, percussioni varie e pianoforte (alternato a celesta).

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Interessanti approfondimenti sono reperibili in sul sito del Teatro, allegati al libretto dell'opera (circa 7 Mbyte pdf).