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17 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Le Siège de Corinthe


Ieri sera Le Siège de Corinthe è arrivato alla terza delle quattro recite in programma, in un’Adriatic Arena per la verità non proprio piena come un uovo...

Della serie: come rovinare una delle opere migliori del genio pesarese. E l’artefice dell’impresa impossibile risponde al nome di Carlus Padrissa, che ha fatto esattamente il contrario di ciò che Rossini ha genialmente costruito: distruggere tutta la poesia e la sontuosità dell’opera, per presentarci un’accozzaglia di trovate una più becera dell’altra.

A partire dal Konzept di fondo, che trasporta la ricca e colta Corinto in un imprecisato quanto arido deserto, dove due branchi di animali assetati si contendono l’acqua (di centinaia di bottiglioni da dispenser di ufficio stipati a far da permanente scenografia.

Sullo sfondo, già dall’esecuzione della sinfonia, versi di Byron che con il soggetto rossiniano (e soprattutto con la musica!) c’entrano come i cavoli a merenda. A proposito di Byron, il colmo della proditoria aggressione all’arte di Rossini viene perpetrato nel second’atto, allorquando la splendida musica di danza (fra l’altro arricchita di una quarta scena recuperata fra le carte parigine) che deve supportare nientemeno che una grande festa nuziale, viene addirittura stuprata da ciò che si vede in scena, sullo sfondo di altri macabri sproloqui del Lord albionico: dapprima Mahomet e Pamira vittime di incubi notturni, poi scaramucce fra hooligan greci e turchi, sfociate in un generale parapiglia, sempre per il possesso di qualche bidone d’acqua. Insomma: uno scempio, che il pubblico ha giustamente riprovato con sonori buh, certo non indirizzati in quel momento all’orchestra e al povero Roberto Abbado, che avevan fatto del loro meglio per portare quella splendida musica alle nostre orecchie.

Costumi di foggia, colori e disegni stravaganti (due capitelli dorici a far da... reggipetto ad una femmina e un maschio durante la ballade di Ismène faranno epoca!) che rivestivano le masse greche e turche come costumi da bagno, con tanto di cuffia nera in testa; per il resto: turchi sul rosso e greci sul grigiazzurro. Luci impiegate in modo piuttosto elementare: colori pacchiani e abuso di effetti velleitari.   

E poi: pannelli mobili, recanti scritte e immagini che vorrebbero ricordarci gli orrori di tutte le guerre, che scendono e salgono sulla scena, ma vengono anche portati in processione attraverso la platea. E a proposito non parliamo di questa ormai trita-ritrita-frullata-e-rifrullata (quanto idiota) abitudine dei registi da strapazzo di spostare l’azione dal palcoscenico alla platea: qui si son visti cortei, passerelle (una proprio disposta davanti all’orchestra, tipica dei più stolti avanspettacoli) e scene di canto peripatetico, con invito (in occasione della marcetta dei greci, nemmeno fossimo a Vienna al suono della Radetzky) a partecipare all’happening per spettatori fatti alzare dalle loro sedie e spediti a rinforzare la folla di hooligan... mamma mia!
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Dimentichiamo questi obbrobri e passiamo alla musica e al canto, che per fortuna hanno almeno in parte riscattato la volgarità della messinscena. Roberto Abbado si è ancora presentato (come già avevamo saputo alla prima) con un tutore (in realtà una specie di custodia per ottavini messa a tracolla per impedire al braccio destro di accostarsi al fianco) e senza bacchetta: ciò non gli ha impedito di guidare da par suo la OSN-RAI che non ha bisogno di presentazioni, quanto a qualità di suono e compattezza in tutte le sezioni. Un’esecuzione più che apprezzabile: per equilibrio (evitati facili fracassi e mai coperte le voci) e appropriatezza di accenti e sfumature.

Da lodare anche il Coro del Ventidio Basso, preparato egregiamente da Giovanni Farina, che si è così pienamente meritato la fiducia accordatagli dal ROF, dopo la defezione dei bolognesi.

Mediamente più che accettabile il fronte canoro; in particolare mi ha impressionato Sergey Romanovsky, un Nèoclés sicuro e squillante, che ha degnamente coronato la sua prestazione con un’apprezzabile Grand Dieu in apertura del terz’atto. Nino Machaidze l’ho trovata piacevolmente migliorata rispetto a prestazioni del passato: evidentemente lo studio deve averle giovato, in particolare nel rendere più morbidi e meno vetrosi gli acuti, così ne è uscita una Pamira davvero convincente.

Il Mahomet di Luca Pisaroni mi aveva invece convinto di più all’ascolto radio di giovedi scorso: da vivo la sua voce è meno penetrante e talvolta anche l’intonazione non mi è parsa bene a fuoco. Comunque si merita per me un’ampia sufficienza.

John Irvin è un onesto Cléomène, che personalmente affiderei ad una voce più... robusta, viceversa – all’ascolto - pare che lui sia il giovane eroe e non il maturo padre di Pamira. Discreto anche Carlo Cigni nei panni del vegliardo Hiéros: tanto più che il regista lo ha fatto cantare quasi sempre in modalità... peripatetica, il che non credo giovi ad un’emissione ottimale dei suoni.

Cecilia Molinari ha fatto onorevolmente la sua parte di Ismène, culminata nella ballade del second’atto. A proposito, questo è uno dei tanti punti controversi del testo rossiniano, quanto a dislocazione temporale: qui si è seguita la partitura originale per orchestra, dove Ismène arriva dopo il duetto Mahomet-Pamira; in altre produzioni (55’12”) si segue invece lo spartito canto-pianoforte, dove Ismène apre l’atto, prima della grande scena ed aria di Pamira e del successivo duetto.

Efficace l’Omar di Jurii Samoilov, onesto l’Adraste di Xabier Anduaga: si tratta di due... prodotti dell’Accademia rossiniana, messisi in luce negli anni scorsi con il training standard del Viaggio.

Bene, alla fine grandi applausi per tutti (veramente il regista mi pare non si sia presentato...) e un’isolatissima contestazione per Abbado. Per me, ad occhi chiusi (!) una piacevole serata. 

11 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Le prime alla radio


La nuova produzione de Le Siège de Corinthe ha aperto a Pesaro il Festival rossiniano n°38. Per gli ascoltatori via etere hanno fatto gli onori di casa Guido Barbieri (da studio) e Oreste Bossini (in loco). Qualche discorso di circostanza (le doverose commemorazioni di Zedda e Gossett) poi la ormai ripetitiva auto-celebrazione di patron Mariotti-sr (il ROF come fucina di talenti canori e di innovative invenzioni registiche) e qualche sensata considerazione di Roberto Abbado sulla musica del Siège. Anche Carlus Padrissa ha avuto modo di spiegare ciò che nessuno aveva capito (!) della sua regìa, che dalle sue parole sembrerebbe piuttosto estranea allo spirito e all’estetica rossiniani... ma sarà meglio giudicare con l’approccio di SanTommaso.

Quanto alla musica, detto che si è impiegata l’edizione (critica?) di Damien Colas (che ha rispolverato da manoscritti conservati a Parigi un’estensione dell’aria di Pamira dell’atto II, un giro-extra di danze prima dell’Hymne, e ha fatto cantare nella chiusa dell’opera le donne greche) direi che Radio3 ci ha portato gradevoli sensazioni: l’OSN-RAI non si scopre oggi, mentre una buona impressione ha fatto l’esordiente coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che gioca un ruolo per nulla secondario in questo grande affresco a sfondo storico-patriottico.

Luca Pisaroni si è calato in modo convincente nei panni di quel Mahomet che storicamente era un autentico flagello, mentre Rossini lo ammanta di un’aura di nobiltà, mettendone in risalto i caratteri di uomo amante delle arti e di sincero innamorato: qualità che la voce chiara e baritonale di Pisaroni ha efficacemente interpretato. Nino Machaidze (mi) ha ben impressionato, avendo fatto emergere le due facce della personalità della protagonista: donna attirata dall’amore addirittura verso il nemico mortale della sua gente, ma poi eroina e patriota esemplare, fino all’estremo sacrificio. I due tenori del campo greco (il comandante John Irvin e l’eroico Sergey Romanovsky) hanno sfoggiato belle voci (forse troppo... simili, il primo dovrebbe essere più baritenore) e tecnica apprezzabile nei (pur non esagerati) virtuosismi cui Rossini chiama i due personaggi (Romanovsky ha anche sfoggiato un sicuro RE sovracuto). Efficace anche Carlo Cigni (come Hiéros) nel suo accorato ed autorevole appello del terz’atto. Oneste le prestazioni dei tre comprimari, tutti usciti dall’Accademia rossiniana: Cecilia Molinari (apprezzabile la sua ballade dell’atto II) Xabier Anduaga, e Iurii Samoilov.

Tutto sommato, un inizio abbastanza promettente.   
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Promesse direi proprio mantenute con La pietra del paragone, questa commedia brillante dal soggetto assurdo e strampalato, che il grande Gioachino ventenne ha saputo ricoprire con musica strepitosa, ancora una volta nobilitata dall’esecuzione impeccabile dell’OSN-RAI guidata da un sempre più convincente Daniele Rustioni.

Ma anche il cast, quasi interamente di provenienza dall’Accademia rossiniana, ha ben figurato, con punte di spicco in Maxim Mironov e Aya Wakizono. Accanto a loro un efficace Gianluca Margheri e il navigato Paolo Bordogna. Un filino sotto metterei le due babbione (!) Aurora Faggioli e Marina Monzó. Completano dignitosamente la squadra Davide Luciano e William Corrò, mentre il Coro del Ventidio Basso ha confermato il suo valore.

Stando ai suoni arrivati via etere, si direbbe di un caloroso successo di pubblico.
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E Torvaldo&Dorliska ha degnamente chiuso il primo turno delle recite rossiniane. Ascoltandola ci si stupisce sempre di come sia tuttora sottovalutata e negletta: poichè trattasi invece del miglior Rossini, con arie, duetti e concertati di prim’ordine, che impegnano al massimo livello il cast delle voci.

E quella messa in campo dal ROF è davvero una squadra di tutto rispetto, composta da veterani del Festival e da giovani e giovanissimi prodotti dell’Accademia. Fra i primi spiccano Carlo Lepore e Nicola Alaimo, veri trascinatori della squadra; in cui hanno ben meritato Dmitri Korchak, anche lui ormai di casa a Pesaro, e Salome Jicia, uscita dall’Accademia non più di due anni orsono e già al secondo ROF da protagonista, dopo il battesimo con Elena nel 2016. Bene anche Raffaella Lupinacci, tornata a tre anni di distanza dalla Publia dell’Aureliano, e Filippo Fontana, che ha completato il cast.

L’Orchestra Sinfonica G.Rossini - Provincia di Pesaro-Urbino ha supportato egregiamente cantanti e Coro della Fortuna di Mirca Rosciani; tutti ben concertati da Francesco Lanzillotta, esordiente al ROF, ma anche lui ormai entrato nel gruppo dei giovani Direttori italiani di talento.
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Ernesto Palacio, Direttore artistico del Festival, ha annunciato ai microfoni di Radio3 il palinsesto principale del ROF-39: Ricciardo&Zoraide, Adina, Viaggio e Barbiere, quattro nuove produzioni per festeggiare adeguatamente il 150° anniversario della scomparsa di Rossini.

17 agosto, 2015

Il ROF-36 live (1): La Gazza ladra

 

Primo mio personale incontro diretto con il ROF-36, La Gazza ladra, arrivata alla terza delle quattro rappresentazioni. Titolo noto a tutto l‘universo, ma solo per via della strepitosa Sinfonia. Al proposito Lodovico Settimo Silvestri, nel suo tomo Della vita e delle opere di Gioachino Rossini, del 1874, ci racconta ciò che il Maestro scrisse in risposta a tale signor De Mirandel, che gli chiedeva consigli sul momento migliore per comporre l’Ouverture di un’opera:

1. Aspettate fino alla sera prima del giorno fissato per la rappresentazione. Nessuna cosa eccita più l'estro, come la necessità, la presenza d'un copista che aspetta il vostro lavoro, e la ressa d'un impresario in angustie che si strappa a ciocche i capelli. A tempo mio, in Italia, tutti gl'impresari erano calvi a trent'anni.
2. Ho composto l'ouverture dell'Otello in una cameretta del palazzo Barbaja, ove il più calvo ed il più feroce dei direttori mi aveva rinchiuso per forza senz'altra cosa che un piatto di maccheroni, e con la minaccia di non poter lasciare la camera, vita durante, finchè non avessi scritta l'ultima nota.
3. Ho scritto l'ouverture della Gazza Ladra il giorno della prima rappresentazione sotto il tetto della scala, dove fui messo in prigione dal direttore, sorvegliato da quattro macchinisti che avevano l'ordine di gettare il mio testo originale dalla finestra, foglio a foglio, ai copisti, i quali l'aspettavano abbasso per trascriverlo. In difetto di carta da musica, avevano ordine di gettare me stesso dalla finestra.
4 Pel Barbiere feci meglio: non composi ouverture, ma ne presi una che destinava ad un'opera semiseria chiamata Elisabetta. Il pubblico fu arcicontento.
5. Ho composto l'ouverture del Conte Ory stando a pesca, coi piedi nell'acqua, in compagnia del signor Aguado, mentre costui parlava di finanze spagnuole.
6. Quella del Guglielmo Tell fu scritta in circostanze presso a poco simili.
7. Quanto al Mosè non ne feci alcuna.

Lo stesso autore ci informa di come venne presa la Sinfonia alla prima della Scala da un musicista giovane ma già… conservatore:

A Milano l'introduzione del tamburro nell'orchestra gli valse un nemico terribile. Era un'allievo di Alessandro Rolla, un violinista della Scala. Questo giovino artista non poteva vedere, senza dare ne li eccessi della più violenta colera, l'istromento ritmico dei reggimenti aggiunto ai nobili organi della sinfonia. Il prodigioso risultato del novatore lo fece andare fuori dei gangheri. La sua colera divenne una specie di furioso delirio. Egli andava per le vie, pei caffè gridando a tutti quelli che volevano ascoltarlo, che bisognava uccidere Rossini affine di salvar l'arte, e che egli s'incaricava di dargli un colpo di stile per finirla coi tamburi, i crescendo, le cabalette ed il resto. L'idea dei tamburi lo faceva soprattutto dare nelle più frenetiche smanie. La voce di questo progetto d'assassinio che il giovine violinista non si faceva scrupolo di manifestare a chiunque incontrasse, giunse fino a Rossini. Il colpevole autore dell'introduzione del tamburo nell'orchestra, trattando con disprezzo ogni timore, volle vedere faccia a faccia il vendicatore di sì gran misfatto ed intrattenersi un momento con lui. Alessandro Rolla fu incaricato di trattare la conferenza. Egli da principio non voleva assumersi la responsabilità.
– Se il mio allievo ti vede, disse Rolla a Rossini, egli ti coprirà d'ingiurie, puoi essere sicuro.
- Io gliele renderò, replicava il maestro, la mia provvista non è ancora esausta. Ma io desidero a qualunque costo, di conferire coll'uomo che vuole pugnalarmi per cagione del tamburo.
Alessandro Rolla non avendo nulla a replicare ad una volontà si recisamente formulata mise finalmente il maestro alla presenza del suo terribile antagonista dopo di avere ammonito assai costui. L'incontro fu dei più curiosi. Il compositore con quella maniera che un accusato dovrebbe presentarsi al suo giudice, spiegò i motivi della sua azione, patrocinò le circostanze attenuanti in suo favore, fece in una parola quanto potè per ottenere una sentenza assolutoria.
– Vi sono si o no soldati nella Gazza Ladra? domanda al suo feroce avversario.
- Non vi sono che gendarmi! rispose questi di cattivo umore.
- Sono essi a piedi od a cavallo? riprese l'incolpato con una dolcezza angelica.
– No, essi sono a piedi, rispose il conservatore.
– Ebbene se sono a piedi essi hanno il tamburo, o il devono avere come tutte le truppe a piedi. Perché dunque volete pugnalarmi per non averli privati? l'impiego del tamburo all'orchestra era voluto dalla verità drammatica. Date al libretto tutti i colpi di stilo che vi piacerà, io non mi oppongo in nessuna maniera: egli è il vero colpevole, ma risparmiate il mio sangue, se desiderate evitare i rimorsi.
E siccome quest'aringa non bastava a far disparire tutta la colera e dissipare tutti i dubbi del suo futuro assassino, Rossini gli promise con una comica solennità che avrebbe mai più adoperato il tamburo nelle sue nuove opere. - E questa promessa fatta, in circostanza cosi buffa, seppe mantenere il compositore. Certamente egli non avrebbe potuto violare senza mancare alle leggi dell'onore. La storia della scena burlesca nella quale Rossini fece cadere il pugnale dalle mani del Ravaillac del purismo musicale, sparsa per tutta Milano, aumentò, se il poteva, il trionfo della Gazza Ladra. Il maestro aveva bene il diritto di prendersi un po' a giuoco gli avversari delle sue felici innovazioni. Egli aveva creato uno dopo l'altro, quattro de' suoi più grandi capolavori ed in un genere tutto affatto diverso. La viva commedia del Barbiere, la possente tragedia shakespiriana dell'Otello, il racconto della Cenerentola, ed il melodramma della Gazza Ladra.
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Evidentemente il rodaggio delle due prime rappresentazioni è servito: personalmente ho avuto l’impressione di un certo miglioramento complessivo della prestazione di tutti, rispetto alla non entusiasmante prova dell’inaugurazione, ascoltata alla radio. Confermo l’apprezzamento per la concertazione di Renzetti, che mi pare abbia colto lo spirito dell’opera, che è – a parte l’introduzione ed il finale – un dramma serioso, se non proprio una tragedia. L’orchestra del Comunale di Bologna lo ha ben assecondato, nell’insieme e nelle parti solistiche.

 

Quanto alle voci, sempre sugli scudi Alex Esposito (cui perdonerei un paio di calate non determinanti) che propone un Fernando davvero autorevole. Anche gli altri due bassi non hanno sfigurato: Mirko Mimica è un più che discreto Podestà, che tende forse a incupire eccessivamente una voce chiara e ben impostata; e Simone Alberghini, un Fabrizio dignitoso.


Nino Machaidze non ha fatto miracoli (che penso siano fuori dalla sua portata) semplicemente mi è parsa meno urlacchiante e vetrosa negli acuti rispetto alla prima: la vociona ce l’ha, ma dovrebbe amministrarla meglio, ecco. Teresa Iervolino ha messo in mostra una voce dal timbro fin troppo scuro, ma proprio per questo abbastanza adatto ad impersonare la severa Lucia. Un filino sotto (a mio avviso) il Pippo di Lena Belkina, la cui voce fatica a passare adeguatamente.

René Barbera (Giannetto) è quello che mi è parso progredire di più rispetto alla prima; il tenorino yankee ha messo in mostra voce squillante, acuti sicuri e buon fraseggio. Lo risentiremo a giorni nello Stabat Mater che chiuderà il Festival. Da tutti gli altri (vedi locandina) prestazioni complessivamente accettabili. Assai bene anche il coro di Andrea Faidutti.

Doverosa citazione per la Gazza – Sandhya Nagaraja – che Damiano Michieletto ha elevato a protagonista dell’opera. E così parliamo della messinscena, che era conosciuta fin dalla sua comparsa nel 2007, quando venne pure premiata (!?) e poi dalla successiva fruibilità in web. Una proposta tutto sommato dignitosa e godibile (non parliamo però di capolavori, please…) che ha il pregio di non raccontarci una storia inventata dal regista al posto di quella scritta dal librettista, ecco.

Sì, perchè l’idea di farci apparire la vicenda come il brutto sogno di una ragazzina che si mette nei panni del volatile (della famigerata serie bracardiana: la donna c’ha ‘n cervello de galina) è tanto gratuita quanto innocua, non inducendo lo spettatore a distrarsi dallo spettacolo (la musica, soprattutto!) per cercar di decifrare il Konzept del regista. Poi la cosa assume qualche aspetto di incoerenza, come il pentimento che la (ra)gazza sembra provare al vedere la frittata che ha combinato (alla povera Ninetta) col furto del cucchiaio, che non le impedisce poi di tornare ladra, innescando però in tal modo il lieto fine per Ninetta e un incubo per sé medesima, trovatasi di fronte il plotone d’esecuzione destinato alla protagonista, dal quale si salva grazie al brusco risveglio (!?)

Per il resto, detto della miracolosa guarigione del Podestà (che nel 2007 – Michele Pertusi - era affetto da chiara zoppìa, ora perfettamente scomparsa) resta da chiedersi la ragione per la quale l’intero secondo atto si debba svolgere in un acquitrino provocato da una pioggia torrenziale che investe la prigione di Ninetta proprio all’inizio dell’atto. Acqua che oltretutto ha fatto proprio da menagramo, a giudicare dai temporali che in questi giorni flagellano la riviera.

Ma insomma, alla fine Rossini non delude mai e il pubblico, per la verità non proprio… oceanico, ha accolto con gran calore questa riproposta pesarese.

(coming soon: Messa e Inganno… o inganno di una messa?)

11 agosto, 2015

Il ROF-36 alla radio (1)

 

La più sconvolgente (!) novità del ROF-36 è costituita dall’avvicendamento di uno dei suoi interpreti fissi: l’inviato di Radio3 Giovanni Vitali che – essendo passato a più importanti incarichi nella sua Firenze e paraggi – ha ceduto il microfono a Nicola Pedone. Il quale si è presentato con una classica gaffe, collocando l’anno di nascita del Festival nel 1985… nemmeno dovesse fare i complimenti ad una bella donna, ecco. Poi, intervistando Michieletto, dopo qualche battuta sulla Gazza, lo ha portato a parlare del suo recente Tell alla ROH, una scena del quale spettacolo è stata accolta da una plateale contestazione. Così il regista ha potuto spiegare a tutti come e perché quella contestazione fosse responsabilità del solito pubblico ignorante, che non è all’altezza di comprendere le vertiginose intuizioni del regista. Il quale ha promesso però di meditare sull’accaduto. Bene così.

 

Sul fronte dei suoni, La Gazza ladra di Donato Renzetti - per quanto si possa giudicare dall’ascolto tecnologico – ha portato alle mie orecchie sensazioni agrodolci, come dire: ha avuto alti e (parecchi) bassi. Fra i primi includerei proprio la concertazione del navigato Direttore e le dignitosa prova del Coro bolognese di Faidutti; come pure le onorevoli prestazioni di Alex Esposito (papà Fernando) e Mirko Mimica (Podestà). La protagonista (Ninetta) Nino Machaidze non si è smentita rispetto a sue passate prestazioni cui ho potuto assistere dal vivo: una certa approssimazione e una voce che sugli acuti pieni fa uno sgradevole effetto carta-vetro. Tutti gli altri accomunati da un’aurea mediocrità.

Di interessante e coinvolgente, manco a dirlo, c’è stata la strabiliante musica del genio pesarese, che è in grado di resistere a qualunque agente chimico cerchi di corromperla.
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12 agosto, 2015

 

Il ROF-36 alla radio (2)

 

Riecco dopo 10 anni La Gazzetta, che si fregia per l’occasione del ritrovato quintetto dell’atto I, che sembra dare nuovo impulso alla diffusione di quest’opera considerata immeritatamente fra le minori di Rossini (anche per via di un libretto proprio scadente) mentre è musicalmente degna di stare a fianco a Barbiere&C nel novero dei migliori prodotti del genio di Pesaro. E la miriade di auto-imprestiti che Rossini si concede, praticamente da tutta la sua produzione precedente, non ne intacca minimamente freschezza ed originalità.

Devo dire che l’ascolto mi ha piacevolmente sorpreso: Mazzola ha subito mostrato di che pasta è fatto con una splendida esecuzione della Sinfonia; poi non ha più perso un colpo. Ma tutto il cast mi è parso all’altezza, a cominciare dalla Lisetta di Hasmik Torosyan, vocina sottile ma ben impostata e adatta al ruolo. Nicola Alaimo è stato un convincente Pomponio, a dispetto di qualche moderata sguaiatezza… partenopea. Anche il tenorino Maxim Mironov (che debuttò al ROF come accademico nel 2001) ha mostrato buone qualità, così come Vito Priante (Filippo). Ma tutti hanno contribuito ad un risultato che – pur detraendo tutte le tare legate all’ascolto artificiale – definirei più che lusinghiero, e nella media superiore a quello della Gazza di ieri.
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13 agosto, 2015

 

Il ROF-36 alla radio (3)

 

L’Inganno felice ha chiuso ieri le prime del cartellone principale. Dignitosa prestazione di tutti, fra i quali eleggo Mariangela Sicilia, non foss’altro che per… cavalleria, essendo lei l’unica femmina fra ben quattro maschi che – per ragioni diverse e magari opposte – se la contendono (smile!)

Anche il corrispondente di Radio3 (Nicola Pedone) ha chiuso in bellezza con un paio di topiche e con un’intervista a patron Mariotti che gli meriterà il premio stregone

Mie impressioni dal vivo… next week.
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Breaking news:

Un annuncio di oggi ci informa che domani 14/8 (ore 11) la recita del Viaggio a Reims (da anni inserito nel cartellone secondario del ROF, per valorizzarne l’Accademia) verrà irradiata in streaming a questo link. Similmente accadrà per lo Stabat Mater del 22 agosto (20:30).
  

16 marzo, 2015

Il turco in… Piemonte

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la terza rappresentazione de Il turco in Italia, in una co-produzione italo-franco-polacca.

Prima di parlare della regìa di Christopher Alden propongo un paio di considerazioni. Innanzitutto siamo in presenza di un soggetto buffo (o tragi-comico) che per sua natura poco si presta a dissacrazioni o stravolgimenti iconoclasti (tipo l’Aida dello stesso regista ambientata in un collegio di religiose…) Anzi, rivisitazioni anche profonde, se fatte con un minimo di gusto, possono arrecarvi valore aggiunto, cosa che mi sento di sottoscrivere per questo allestimento.

Secondo, sarà bene ricordare quale fu la genesi del libretto di Felice Romani (cui senza dubbio mise le mani lo stesso compositore), cominciando col dire che esso fu scopiazzato da quello che Caterino Mazzolà aveva scritto per Il Turco in Italia di F.J.Seydelman rappresentato a Dresda nel 1788 e replicato nel 1789 a Vienna, dove assai verosimilmente fu visto dalla coppia Mozart-DaPonte. I quali altrettanto assai verosimilmente si ispirarono a quel testo, e in particolare alla figura del poeta Prosdocimo, per mettere in piedi la loro Così fan tutte, protagonista il filosofo DonAlfonso. Dopodichè, con modalità perfettamente reciproche, accadde che nel 1814 la coppia Rossini-Romani, che stazionava a Milano per il suo Turco, assai verosimilmente potè assistere ad una rappresentazione alla Scala - indovina indovinello? – proprio del mozartiano-dapontiano Così!

Insomma, fra i tre testi (i due Turchi e il Così) ci dev’essere stata più di un’influenza. Nel merito va riconosciuto che il libretto di DaPonte supera ampiamente per profondità quello – pure intelligente – di Romani. E lo fa proprio sul terreno del confronto fra le due personalità di DonAlfonso e di Prosdocimo. Il primo (che non per nulla è un filosofo…) si impone al centro della vicenda, determinandone ogni svolgimento, anche nei minimi dettagli: il suo assunto (di natura tipicamente scettica) viene alla fine dimostrato proprio a spese delle due coppie protagoniste, ma tutto sommato anche a loro vantaggio (ammesso che siano capaci in futuro di trarre partito dalla morale della favola). Viceversa il Prosdocimo di Romani è per gran parte dell’opera niente più che un agente passivo degli avvenimenti, nei quali cerca disperatamente di scovare un soggetto per un suo nuovo dramma teatrale. E soltanto dopo averlo trovato decide di pilotarne la conclusione reale secondo le proprie convinzioni etiche, che non sono affatto quelle del dapontiano Così! Essendo esse quanto di più reazionario si possa concepire, con la tremenda (davvero tragica) punizione di Fiorilla, costretta ad una resa senza condizioni alle ipocrite e antifemministe regole della società, che lei così spavaldamente e velleitariamente aveva preteso di infrangere. E – per quanto riguarda i turchi (Selim e Zaida) – comportando un atteggiamento del tipo: tornatevene a casa vostra e non venite qui a rubarci le mogli (Selim) e a fare i rom (Zaida). Proprio un Salvini ante-litteram!!!   

Quindi: una distanza davvero abissale rispetto al messaggio dapontiano-mozartiano.
 
Ecco, fatta questa necessaria premessa, possiamo adesso avvicinarci alla vision che Alden ha posto alla base del suo allestimento dell’opera. Il controverso regista americano fa ruotare l’intera vicenda attorno alla figura di Prosdocimo, trasformandolo appunto nel DonAlfonso di DaPonte-Mozart, motore unico e dominus dell’azione.

L’idea ha comportato qualche disallineamento rispetto al libretto, inevitabile quando si inverte letteralmente il nesso causa-effetto tra un fatto reale e il comportamento dell’osservatore. In sostanza, ci vengono presentati come effetti del copione scritto dal Poeta fatti e notizie che viceversa, nell’originale, sono cause che determinano i contenuti di tale copione. Faccio un esempio infimo, ma significativo: nel libretto di Romani Prosdocimo scopre, informato da Geronio, l’identità del turco che, appena sbarcato, ha già invaso la casa di Fiorilla e dello stesso Geronio; ecco, Alden ribalta la circostanza, mostrandoci Prosdocimo che informa di ciò Geronio, passandogli da leggere un foglio del suo copione.

Un altro riferimento (non certo originale) riscontrabile nella regìa di Alden riguarda Pirandello (i Sei personaggi in cerca d’autore): che si materializza quando alcuni interpreti dell’opera rifiutano il copione propostogli da Prosdocimo e se lo scrivono come pare e piace a loro.

In ogni caso si tratta, a mio parere, di scompensi del tutto sopportabili, un modesto prezzo da pagare ad una visione del soggetto dell’opera che ne valorizza la freschezza e ne facilita la godibilità, sfruttando poi l’efficacia e i colori di scene, luci e costumi, e soprattutto la bravura di tutti gli interpreti (coristi inclusi) nel muoversi per realizzare al meglio le idee del regista.
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Sul fronte musicale, va detto che l’opera è stata eseguita nella sua interezza (il che significa tre ore nette di spettacolo, equamente distribuite nei due atti) recitativi inclusi; anzi, di più, essendo state eseguite anche quelle parti (solitamente espunte) che vengono catalogate come varianti: nell’atto I l’aria di Narciso Un vago sembiante, seguita dal recitativo Di Fiorilla il carattere; e soprattutto l’aria dell’atto II (Se ho da dirla) che mette a dura prova le capacità scioglilinguistiche del Geronio di turno.

Daniele Rustioni, sempre col sorriso sulle labbra, mi è parso dirigere con sufficiente autorevolezza, cura del dettaglio e attenzione a non coprire le voci, evitando eccessivi fracassi. L’orchestra lo ha seguito diligentemente, suono sempre chiaro e pulito. Al fortepiano era Luca Brancaleon, che si è sobbarcato la gran mole dei recitativi, come detto assolutamente non tagliati.

Quanto alle voci, direi bene del terzetto dei basso-buffo: a partire da Paolo Bordogna, un Geronio efficace e bravo a non trasformare i velocissimi scioglilingua (non solo quello del second’atto) in incomprensibili grammelot; poi Simone del Savio, un convincente Prosdocimo; infine Carlo Lepore, che ha efficacemente interpretato la figura del Turco.

Decisamente meno bene i due tenori: persistendo il forfait dell’influenzato Siragusa, Narciso era ancora una volta Edgardo Rocha, che ha mostrato tutti i limiti della sua voce, piccola ma anche sgradevole e poco impostata; appena un filino-filino meglio Enrico Iviglia nei panni di Albazar.

Sul fronte femminile, accettabile la prova di Nino Machaidze come Fiorilla: però non basta staccare gli acuti, RE inclusi, per meritarsi l’eccellenza: la voce è penetrante nell’ottava alta, ma sempre con timbro metallizzato, e ha volume scarso nella prima ottava; posso dire solo, per quel che conta, che l’ho trovata un filino migliorata rispetto all’ultima sua esibizione che mi è capitato di seguire dal vivo circa un anno fa. Samantha Korbey non mi ha proprio convinto, voce piccola, anonima e poco passante.

Bene come sempre il coro di Claudio Fenoglio, eccellente anche nei movimenti da avanspettacolo richiestigli da Alden. 

Calorosa accoglienza per tutti in un teatro ancora una volta affollatissimo.

02 aprile, 2014

Perle (coltivate) al Regio di Parma


Il Regio di Parma mette in scena in questi giorni una delle opere (tutte minori, se non si chiamano… Carmen) di Georges Bizet: si tratta di Les pêcheurs de perles, in una produzione di qualche anno fa del Verdi di Trieste.

Sulla vacuità e bizzarria del libretto di Cormon&Carré si è scritto di tutto; non solo: si è anche fatto di tutto, arrivando allegramente a modificarlo con la solita scusa di migliorarlo, bistrattandone di conseguenza anche la musica.

Come succederà alla Carmen (di cui però Bizet farà appena appena in tempo a seguire pochissime rappresentazioni, senza poterci più metter mano come avrebbe sicuramente voluto) anche i Pescatori furono oggetto di appropriazione indebita, per così dire, alla morte dell’Autore, avvenuta 12 anni dopo le prime recite.
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Nello scenario pseudo-esotico di Ceylon si muovono, oltre a masse popolari (pescatori, fachiri, sacerdoti e maliarde, impersonate dai cori) quattro soli personaggi, di cui tre maschi (rappresentanti le tre tessiture vocali) e una femmina (soprano). Costei (Léïla) è una curiosa figura multiforme e multi-professione: si fa passare per dea (!) e per protettrice dei pescatori di perle, donna di grande saggezza e ancor maggior severità di costumi… poi però scopriamo presto che se l’è già spassata assai con Nadir (il tenore) che a sua volta capita per caso in quei posti e vi incontra un vecchio amico, anzi… ehm… qualcosa di più, tale Zurga (baritono) che si scopre a sua volta essere invaghito della protagonista. Completa questo quadro un filino improbabile (e non è tutto, come vedremo!) il sacerdote Nourabad (basso) che fra tutti quanti sembra l’unica persona ad avere la testa sulle spalle.


Nell’Atto I Zurga viene nominato capo dei sub che si apprestano a vendemmiare perle e proprio in quel momento ecco arrivare Nadir, reduce da peregrinazioni in luoghi remoti. Scopriamo che fra lui e Zurga c’era un’amicizia… particolare, che però fu incrinata in passato dall’apparizione di una donna misteriosa (una specie di dea, indovinate chi?) che catturò la libido di entrambi, lasciandoli senza libido… reciproca (smile!) Ma i due si riconciliano presto, proprio mentre sopraggiunge su una piroga… indovinate chi? (sempre lei, qui come esorcista contro embolie e annegamenti). La donna – ognor velata - giura castità e ogni altro ingrediente che renda efficace la sua protezione, però ha già sgamato Nadir (e lui lei, poco dopo!) e possiamo facilmente immaginare ciò che sta per accadere.

L’Atto II si apre con una (apparentemente, per ora) insignificante confessione di Léïla a Nourabad: da ragazzina lei aveva aiutato uno sconosciuto fuggiasco (evidentemente con qualche colpa sulla coscienza…) a sfuggire alla cattura, e lui le aveva regalato una collana metallica in segno di riconoscenza. Poi l’atto è incentrato – c’era da esserne sicuri – sulla love-scene fra Nadir e Léïla; scena manco a dirlo interrotta dal sacerdote Nourabad che scopre i due amanti in flagrante. A furor di popolo i due dovrebbero essere puniti, ma arriva il mite Zurga che invece propone caritatevolmente di mandarli liberi. Senonchè Nourabad scopre il volto della donna, il che manda Zurga in pasto alla più feroce gelosia: perché adesso perfino lui ha razionalizzato tutta la tresca di cui è protagonista l’amico e ordina la punizione estrema per i due fedifraghi.

Nell’Atto III assistiamo all’immancabile colpo-di-teatro. Zurga, che dapprima pareva pentito della sua severità nei confronti dei due amanti e poi era tornato a farsi accecare più che mai dalla gelosia e dall’odio verso Léïla, intravede addosso a lei una catenina metallica che gli par di conoscere (toh, che sorpresa!) e così scopre di avere un debito con lei e ri-ri-ricambia idea, decidendo di salvarla insieme al suo (di lei, ma anche di lui, smile!) Nadir. Ma come fare, visto che sono già pronti la pira e il relativo orrendo foco per ospitare i due criminali? E allora il fuoco lo appicca lui stesso alle capanne del villaggio, col che tutti quanti corrono a spegnere l’incendio, mentre lui fa scappare i due amanti, recidendo a colpi d’ascia i legacci che li trattengono. Ben presto tornano tutti, le donne con i bambini in braccio, scampati all’incendio, seguite da Nourabad e dagli indiani. Léïla e Nadir sono già lontani, mentre il povero Zurga se ne sta lì inebetito a contemplare il vuoto.

Beh, ditemi voi se questa non è roba da chiodi… (trasparente come una bottiglia d’inchiostro, commentò un critico dei tempi!)

Quindi, bisognava assolutamente porre rimedio a questo ciarpame. Uno dei volontari – ma non l’unico - fu tale Benjamin Godard, un musicista abbastanza noto ai tempi, che si occupò di un paio di restauri che – come spesso accade – invece di risolvere dei problemi ne creano altri ancor più gravi. Dunque, vediamo.

Nell’Atto I sappiamo come Zurga e Nadir si rivedano dopo tanto tempo, e dopo la sbandata avuta da entrambi per Léïla (ma Nadir poi non aveva perso tempo a tornare in pista!) che aveva raffreddato (smile!) il loro rapporto. Adesso pare tutto dimenticato e i due – che si raccontano anche come hanno vissuto il distacco - si riconfermano (Amitié sainte) reciproco affetto e fedeltà (si noti che Léïla ancora non è arrivata da quelle parti!) Che si inventa Godard? Siccome ritiene debole questo passaggio (in effetti musicalmente non eccezionale, diciamo pure banalotto, con quel piglio goffamente marziale, tutto per terze) allora lo stravolge letteralmente, accorciandolo e mettendo in bocca ai due delle affermazioni tanto ridicole quanto assurde: è la dea (non quella in carne ed ossa, che ancora deve arrivare, ma la sua astrazione!) che sta arrivando per benedire la loro riconciliazione e la loro unione per il resto dei loro giorni. Confrontare le due versioni per credere:

Cormon&Carré
ZURGA et NADIR
Amitié sainte, Unis nos âmes fraternelles!
Chassons sans retour Ce fatal amour,
Et la main dans la main, En compagnons fidèles,
Jusques à la mort Ayons même sort!
Oui, la main dans la main,
En compagnons fidèles, Oui, soyons amis,
Ah! soyons amis jusqu’à la mort!
ZURGA
Depuis ce jour, fidèle à ma parole,
J’ai laissé fuir loin d’elle
Et les jours et les mois.
NADIR
Pour me guérir de cette ivresse folle,
J’ai fui parmi les loups
Et les oiseaux des bois.
ZURGA et NADIR
Comme le mien que ton coeur se console!
Soyons frères, soyons amis, comme autrefois!
Amitié sainte, etc.
Godard
ZURGA ET NADIR
Oui, c'est elle! C'est la déesse!
En ce jour qui vient nous unir,
Et fidèle à ma promesse,
Comme un frère je veux te chérir!
C'est elle, c'est la déesse
Qui vient en ce jour nous unir!
Oui, partageons le même sort,
Soyons unis jusqu'à la mort!




Cosa si deduce? Che mentre l’originale contemplava un ritorno all’amicizia fra i due uomini, che giuravano di aver dimenticato per sempre la donna fatale, Godard li fa invece riconciliare proprio nel ricordo di quella stessa donna che aveva rotto la loro relazione d’amicizia (e che sta ora per arrivare da quelle parti!) Semplicemente ridicolo. Ovviamente le due diverse scene devono essere supportate da musica diversa: così Godard cassa quella originale e la sostituisce con il tema – per quanto suggestivo, ed è praticamente il motto dell’opera - che avevamo appena udito nell’evocazione che i due amici avevano fatto della prima apparizione della donna!     

L’altra pesante interferenza sull’originale riguarda il terz’atto e il finale dell’opera. Nell’originale Zurga, dopo continui sbalzi d’umore nei confronti dei due amanti, vede la famosa collana e si decide finalmente a salvare Léïla e Nadir, che però sono ormai nelle mani dei carnefici. E qui abbiamo il bellissimo duetto fra i due amanti (Ô lumière sainte, Ô divine étreinte) che si preparano a morire sul rogo sognando un palazzo che si apre ai loro occhi e porta dritto in un paradiso di felicità. Cosa accade invece con le modifiche di Godard e soci? Il duetto dei morituri sparisce, viene spostato dopo il ritorno in scena di Zurga che ferma l’esecuzione della sentenza e si trasforma in un terzetto di esultanza, con Zurga che unisce alla gioia dei due liberati la sua decisione di immolarsi per amor loro! Ovviamente il testo cantato da Léïla e Nadir deve essere poco o tanto modificato, in presenza di tale autentico ribaltamento di scenario. E già che ci siamo, ma sì - contraffazione per contraffazione - cambiamo anche la musica!

Infine, il povero Zurga: mica se la può passar liscia restando lì a fissare il vuoto; no no, lui si merita un’esemplare e drammatica punizione e così viene, a seconda della fantasia dei contraffattori del libretto, pugnalato alle spalle, il che però non gli impedisce di cantare con i due amanti l’originale della scena finale del dramma (Plus de crainte, o douce étreinte, che lui contrappunta con Ma tâche est achevée) oppure direttamente mandato arrosto sul rogo, il che comporta la soppressione del terzetto finale, sostituito dallo spostamento colà di parte del precedente coro degli indiani, da cui già era stato espunto l’intervento di Nadir. 

In ogni modo, proprio volendo sforzare le meningi, qualche aspetto positivo nel libretto originale lo si può anche trovare (Cormon&Carré non erano poi degli sprovveduti…): il riferimento ai quattro elementi fondamentali, che ritorna spesso e già nel coro iniziale: poi, simbolismi diversi, primo fra i quali la perla bionda nascosta agli occhi di tutti, o l’eterno confronto-scontro fra i sentimenti di amicizia e di amore, o ancora il fuoco che divampa nel finale, dal chiaro significato purificatore. Insomma, un testo che non è proprio da buttare in-toto e a-priori.
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Tutto il tormentone precedente ha il solo scopo di spiegare come e perché, prendendo a caso un’incisione dell’opera, si scopre come sia diversa – e non di poco - da un’altra ascoltata prima oppure dopo… E poi per rivelare a tutti cosa si ascolti e si veda nella produzione in questi giorni in scena a Parma. Leggendo il programma di sala si ha l’impressione che la scelta sia caduta sulla versione originale; la cosa sembrerebbe confermata dal libretto pubblicato in rete, che presenta in realtà anche la traduzione dello Zanardini per la prima alla Scala del 1886, ma che fa chiaramente riferimento al testo originale francese di Cormon&Carré. Peccato che però in scena si ascolti precisamente la versione spuria (1893) contraffatta da Godard e soci! E in più con la contraffazione-della-contraffazione: alla fine si vedono arrivare Nourabad e i capi indiani in cerca di Zurga gridando à mort, poi però, invece di infilzarlo, se ne tornano là da dove son venuti, così Zurga può avanzare al proscenio per esternare il suo ultimo adieu!  

Insomma, un bel… risotto alla parmigiana (smile!) con buona pace per gli sforzi meritori che Michel Poupet e altri esperti hanno profuso per recuperare plausibilmente la versione originale. Che invece 10 anni fa fu presentata alla Fenice ed è stata anche registrata su DVD.

Quanto all’allestimento, curato da Fabio Sparvoli, lo definirei di minimalismo da penuria: scena praticamente vuota o quasi e costumi da trovarobe. Alle masse di coristi si aggiungono però simpatici ballerini che dovrebbero dare il tocco di esotismo all’ambiente. Quanto ai personaggi, non è certo colpa di Sparvoli se il libretto gli offre poco o nulla… (e così lui si diverte a fare qualche invenzione: oltre allo Zurga risparmiato, quella della consegna della collana da parte di Léïla direttamente nelle mani di costui è proprio ridicola, facendo perdere tutta la portata drammatica della scena). Insomma, un allestimento che par fatto apposta per invocare qualunque eccesso del Regietheater.
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Comunque ciò che ha evitato all’opera il definitivo passaggio al dimenticatoio è, manco a dirlo, la musica di Bizet. Non essere un capolavoro non significa automaticamente essere fuffa e i Pescatori – possibilmente quelli originali e non quelli contraffatti - si meritano come minimo un posto di centro-classifica nel campionario operistico.

Vi si intravedono e vi si sentono già i germi di quella fioritura che si completerà con Carmen, insieme a chiari riferimenti all’opera italiana (Rossini, Bellini, Verdi, perfino qualche anticipazione del Mascagni della Cavalleria…) mescolati con qualche spruzzatina di wagnerismo. Come la presenza di un motivo-conduttore (quello evocante la figura – materiale ma soprattutto ideale - di Léïla) che ritorna più volte nel corso dell’opera, dopo essere stato inizialmente esposto, in MIb, dal flauto solo, accompagnato dalle arpe, al momento per Nadir di ricordare l’apparizione misteriosa della donna:

E come non apprezzare la delicatezza della romance in LA minore (Je crois entendre encore) che Nadir canta nel primo atto, ricordando le notti trascorse in passato ad ammirare la donna che lo aveva stregato e che ancora non ha riconosciuto (lo farà tra poco) in quella arrivata sulla piroga:
Alla fine del primo atto è Léïla ad esibirsi nel canto propiziatorio per i pescatori, cui il coro risponde – e qui non siamo certo allo zenit estetico dell’opera – con una barcarola francamente dozzinale (Ah! chante, chante encore!) che scimmiotta quella assai celebre (ed appropriata!) del finale del second’atto dei Vespri verdiani, che Bizet doveva conoscere molto bene. 

Molto bella invece la cavatina in FA maggiore di Léïla all’inizio del second’atto (Comme autrefois, dans la nuit sombre) preceduta e accompagnata da una dolce melodia dei corni e da cullanti terzine di flauti e clarinetti. La segue l’accorata chanson di Nadir (De mon amie, fleur endormie) cantata dietro le quinte e con il solo accompagnamento dell’arpa, una trovata sempre efficace e suggestiva (Alfredo, Manrico… fin giù, in futuro, a Turiddu) che introduce il lungo, dapprima tempestoso e infine sognante duetto d’amore fra i due amanti.   

Del terzo atto sono da ricordare il confronto-scontro fra Zurga e Léïla (amputato barbaramente dai miglioratori…) che porta alla finale decisione del primo di sacrificarsi per salvare i due amanti; poi il citato Ô lumière sainte (quello di Bizet, non dei contraffattori!) e il ritorno del tema principale proprio alla conclusione del dramma.

Infine, una citazione meritano i cori, che costellano tutta l’opera, trattati da Bizet con grande maestria ed efficacia.
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Ecco, cosa si è udito a Parma? Personalmente salverei l’Orchestra Regionale ER (e Fournillier, che l’ha diretta con sobrietà e cura dei particolari) e il Coro di Martino Faggiani, giustamente osannato alla fine.  

Quanto al cast, c’è la scusa che è stato rivoluzionato proprio alla vigilia della prima; ma la scusa non può però assolvere dalle colpe! Di Nino Machaidze (Léïla) si conoscono ormai pregi (pochini) e difetti, confermati anche ieri: voce dal timbro tendente sgradevolmente al metallico, soprattutto negli acuti quasi sempre urlacchiati.

Dmitry Korchak (Nadir) non ha una brutta voce, ma fatica sugli acuti spiegati (va meglio su quelli sussurrati) e in complesso non mi ha entusiasmato; chissà che con parecchio olio-di-gomito non possa in futuro migliorare.

Vincenzo Taormina era Zurga: presenza notevole ed efficace, voce potente; canto… così e così, con parecchi problemi di intonazione.

Luca Dall’Amico completava il cast come Nourabad: una prestazione davvero anonima, sorry.

Pubblico anche qui scarsino e assottigliatosi ulteriormente dopo i due intervalli. Ma di bocca assai buona, a giudicare dal calore dell’accoglienza finale. Ma forse a Parma se non è Verdi… non val la pena impegnarsi (smile!)
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A proposito di Bizet, allego per l’occasione un saggio di Giorgio Corapi, apparso sul numero di luglio 1988 della rivista Musica&Dossier