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17 marzo, 2017

I Maestri trionfano alla Scala

 

Dopo ben 27 anni ieri sera le note dei wagneriani Meistersinger sono tornate a risuonare dentro il Piermarini (ahinoi con ampi spazi vuoti...) accolte da un autentico trionfo. E il trionfatore primo è stato Daniele Gatti, autore di una direzione e concertazione di livello assoluto: dallo stacco perfetto dei tempi, alla certosina meticolosità dello scavo dei particolari; dall’autorevolezza nel guidare le colossali scene corali alla cura con cui ha accompagnato il canto dei singoli. E l’Orchestra (piccole sbavature negli ottoni a parte) lo ha splendidamente assecondato, inondando la sala di suoni ora strepitosi, ora delicati e raffinati; ora tronfi ed enfatici, ora languidi ed accorati. Restituendoci tutta l’emozionante ricchezza di questa mirabile partitura. A partire dal Preludio, che Gatti ha meritoriamente spogliato di ogni eccesso di retorica guglielmina, moderando i suoni quasi a livello cameristico, per continuare con il Preludio del terz’atto, dove la cavata dei violoncelli e poi l’ingresso di viole e violini hanno avuto del memorabile. Quando poi ce n’è stato bisogno, Gatti non ha esitato a fare esplodere tutta la santabarbara orchestrale insieme a quella del coro di Casoni, con effetti davvero straordinari.

Per il direttore milanese un successo indiscusso, già prefigurato dagli applausi e dai bravo! piovutigli addosso ai due rientri e suggellato dalla trionfale accoglienza finale.

Nel cast vocale le cose non sono andate tutte allo stesso modo. Per fortuna ci ha pensato Michael Volle a deliziarci con una perfetta resa della personalità di Sachs: i suoi lunghi (o brevi) monologhi sono stati autentiche perle di espressività, da far salire le lacrime agli occhi; e la voce non ha mai perso smalto e profondità. Insomma, una prestazione che merita il massimo dei voti.

Sul fronte opposto, che dire del Walther di Michael Schade? Che il suo stesso cognome è l’immagine della sua prestazione? Che si può spiegare soltanto con un’improvvisa (e non annunciata) indisposizione: non altrimenti può accadere ad un tenore di dover portare quasi regolarmente all’ottava inferiore ogni nota superiore al SOL! Peccato davvero...

Note ancora positive per il Beckmesser di Markus Werba: la sua voce chiara e sempre controllata, senza inflessioni sguaiate che la parte potrebbe facilmente indurre, gli ha permesso di offrirci un Merker di alto livello: da incorniciare tutto il finale dell’incontro con Sachs nel terz’atto, oltre alle due memorabili serenate.

La Eva di Jacquelyn Wagner non mi ha francamente entusiasmato: voce minuta (spesso coperta dall’orchestra, che pure Gatti cercava di tenere a bada) e piuttosto aspra e vetrosa; si è comunque difesa onorevolmente almeno nel quintetto.

Suo padre Pogner è stato un ottimo Albert Dohmen, uno che interpretando ruoli di cattivoni e bastardi spesso esagera in sguaiatezze, mentre qui, nei panni di un padre nobile (magari un filino ottuso, ecco) ha dato il meglio di sè. Da incorniciare il suo indirizzo ai Maestri nel primo atto.

Benino anche il David di Peter Sonn, che a differenza di Schade evidentemente stava... bene e ha onorevolmente impersonato il ragazzo un po’ ingenuo che se la fa con una zitella!

La quale Magdalene è stata un’onesta Anna Lapkovskaja, che mi è parsa dotata di voce più penetrante di quella della Wagner.

Fra i Maestri, da menzionare in particolare il Kothner di Detlef Roth, tutti gli altri hanno... risposto bene al suo appello!

Efficace, nella minuscola ma importante parte del guardiano notturno, Wilhelm Schwinghammer.   

Da lodare tutti gli apprendisti(/e), allievi delle Accademie (scaligera, del Mozarteum e di Zurigo). Come detto, perfetto il coro di Casoni, con la perla del Wach’ auf!
___
L’allestimento di Harry Kupfer (il cui gruppo di lavoro è stato pure calorosamente applaudito alla fine) va dritto al sodo, senza pretendere di scoprire chissà quali astrusi significati si nascondano nelle pieghe del libretto. Scene ridotte all’osso (ruderi della Katharinenkirche e ponteggi praticabili), costumi moderni, luci efficacemente dosate. Ma soprattutto: eccellente caratterizzazione dei personaggi e aderenza quasi maniacale (complice il concertatore) alle minuziose indicazioni che Wagner dissemina sulla partitura. Un esempio su tutti: la scena dell’arrivo di Beckmesser in casa Sachs nel terz’atto, dove ogni minimo dettaglio delle didascalie originali (che richiede perfetta sincronia tra ciò che si ode in orchestra e ciò che si vede sul palco) è stato restituito in modo a dir poco mirabile.

Qualche invenzione del regista non disturba più di tanto: mi limito a citare il Beckmesser che resta in scena dopo il fiasco della prova finale per ricevere una stretta di mano di Sachs.

All-in-all: uno spettacolo di assoluto livello che francamente non merita tutti i vuoti registrati ieri alla prima.

15 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (7). Walther(=Wagner) l’innovatore ispirato


Le esibizioni canore di Walther von Stolzing, il tamarro venuto dalla campagna in città per liberarsi dal monotono tran-tran di una vita senza problemi ma anche senza particolari emozioni, sono quattro, cui però ne va aggiunta una quinta, surrettizia ma importante. 

Orbene, come già l’apprendista (artigiano-calzolaio e cantore) David ha anticipato a Walther al momento di far la sua conoscenza in chiesa, e come poi pontificherà il Maestro Kothner leggendo la tavola che reca le Leges Tabulaturae, una Canzone di Maestro deve consistere in uno o più Bar (la struttura portante della canzone) a sua volta costituito da tre componenti: due strofe (Stollen) di testo diverso ma egual musica, più un epòdo (Abgesang) con testo e musica tassativamente diversi.

La prima esibizione di Walther è quella del Probelied (la canzone d’esame) che il nostro deve inventare lì sui due piedi ed esporre alla Gilde per accedere al titolo di Maestro. Siamo nel primo atto, chiesa di SantaCaterina e con Sixtus Beckmesser in funzione di censore. Walther canterà i due Stollen, poi l’Abgesang sarà contrappuntato e disturbato da continui interventi dei Maestri, che ormai lo hanno irrimediabilmente bocciato, travolto dalla gragnuola di segni d’errore sciorinata dal (prevenuto) censore. Ecco come si presentano il testo e la struttura musicale (numero di battute) della prima strofa: 

So rief der Lenz in den Wald,
dass laut es ihn durchhallt:

und wie in fern'ren Wellen
der Hall von dannen flieht,

von weither naht ein Schwellen,
das mächtig näher zieht.

Es schwillt und schallt,
es tönt der Wald
von holder Stimmen Gemenge;

nun laut und hell,
schon nah zur Stell',
wie wächst der Schwall!
Wie Glockenhall
ertost des Jubels Gedränge!

Der Wald,
wie bald
antwortet er dem Ruf,
der neu ihm Leben schuf:

stimmte an
das süsse Lenzeslied!
 4


 4


 4


 4



 6

  

  

 6

  


 4
Così ha chiamato la primavera entro la foresta,
che altamente tutta ne rintrona:


e come in onde sempre più lontane
via se ne fugge il suono,


di lontano s'appressa un ondeggiare
potente, via via più vicino.


Il quale rigonfia ed eccheggia,
e risuona la foresta
del concento delle dolci voci.


AAlta ormai e chiara,
già presso a me,
come l'onda cresce!
Come uno scampanìo,
rimbomba del giubilo il tumulto!


La foresta,
come súbita

risponde ella a quel grido,
che nuova vita le ha infuso:


è cominciato
il dolce inno della primavera!

A dispetto dell’orecchiabilità della musica, va riconosciuto che la struttura della strofa lascia un po’ a desiderare dal punto di vista della simmetria e del flusso melodico: in particolare nella seconda parte (i gruppi di 6 battute) sembra perdere scorrevolezza per sovrabbondanza di testo e note, ha una falsa cadenza su Der Wald wie bald (dopo la quale la canzone, invece di chiudere, riprende con un motivo del tutto nuovo) prima di quella effettiva (stimmte an). Insomma, sembra che Walther voglia strafare, aggiunge versi e musica che rischiano di appesantire la strofa e allungare inopinatamente il brodo.

Peggio ancora va alla seconda strofa (So rief es mir in der Brust) che ha le stesse caratteristiche (e quindi gli stessi problemi) della prima, ma con l’aggravante del maldestro preludio, causato dallo stato d’animo alterato di Walther a fronte della reazione negativa di Beckmesser alla sua prima strofa: dove il giovane fa addirittura del sarcasmo sul Merker, paragonato all’inverno che, nascosto in una siepe di rovi, cerca di rovinare il bel canto primaverile. Non è poi così strano che l’inflessibile Beckmesser ci trovi più di un errore, e pure gli altri Maestri (il solo Sachs escluso) si mostrino contrariati, poichè trovano difficoltà a seguirne la narrativa.

Così nel caotico Abgesang Walther romperà ogni argine, paragonando Beckmesser ad una civetta che aizza corvi, gazze e cornacchie (i Maestri!) contro il meraviglioso uccello (lui...) dalle ali dorate. Insomma, un esordio non proprio brillante (ma a Walther sarà sufficiente aver colpito l’immaginazione di Sachs...)

Passiamo ora alla canzone che Walther inventa – prendendo spunto da un sogno appena fatto - il mattino successivo, alla presenza e dietro le rassicuranti esortazioni di Sachs. Sarà (variata!) quella della gara finale (Preislied) ed è composta da due Bar (un terzo, Walther lo inventerà in seguito, in presenza di Eva) perfettamente identici nella musica. Ecco qua la prima strofa:

Morgenlich leuchtend in rosigem Schein,

von Blüt und Duft
geschwellt die Luft,


voll aller Wonnen,
nie ersonnen,


ein Garten lud mich ein,
Gast ihm zu sein.
 4

 2


 2


 4
Luminoso nel roseo chiaror della mattina,

del profumo dei fiori
l'aria impregnata,


pieno di tutte le voluttà
mai sognate,


un giardino m'invitava
ospitalmente ad entrare.

Come si nota, è una strofa assai regolare e all’ascolto presenta solo una piccola forzatura sul penultimo verso (la terzina sul mich). Chiude sul DO di impianto.

La seconda strofa (Wonnig entragend dem seligen Raum) ha la stessa struttura in versi della prima, mentre muta significativamente (anche se assai sottilmente) sul piano musicale: infatti alla settima delle 12 battute (Prangen dem Verlangen) un FA# al posto del LA produce la modulazione da DO a SOL maggiore, nella cui tonalità la strofa si chiude. Sachs lo fa prontamente notare a Walther, esortandolo a trovare un degno figlio a tali genitori (le due strofe, appunto) e così l’Abgesang torna, a partire dal SOL come dominante, a DO maggiore, dove viene esposto il bellissimo tema dell’amore:

Sei euch vertraut,
welch' hehres Wunder mir geschehn:
an meiner Seite stand ein Weib,
so hold und schön ich nie gesehn:


gleich einer Braut
umfasste sie sanft meinen Leib;


mit Augen winkend,
die Hand wies blinkend,


was ich verlangend begehrt,
die Frucht so hold und wert
vom Lebensbaum.
 8




 5


 4



 6
Vi sia confidato,
quale alto prodigio m'è avvenuto:
al mio fianco stava una donna,
così dolce e bella, giammai avevo vista:


simile a sposa,
soavemente mi cinse la persona;


con gli occhi accennando,
la mano luminosa indicava


quel che io struggendomi bramavo:
il frutto così dolce e nobile
dell'albero della vita.

Beh, qui un pedante potrebbe obiettare (e Sachs non manca di farlo, bonariamente) sulla chiusa un poco affrettata, ma certo (sarà per la presenza del Maestro) rispetto al Probelied i progressi – almeno in fatto di proporzioni formali - sono evidenti. E vengono subito confermati dal nuovo Bar (Abendlich glühend in himmlischer Pracht) che Walther sciorina senza esitazioni e... tutto d’un fiato, in perfetta identità musicale (salvo minori differenze di orchestrazione) con il precedente!

Acquisita dimestichezza con il Bar, Walther la sfoggia (dopo che abbiamo assistito al siparietto con Beckmesser) all’innamorata, venuta da Sachs per problemi di... calzature. Questa nuova componente (Weilten die Sterne im lieblichen Tanz?) che completa la terna ispirata al sogno mattutino, ha la stessa identica struttura delle precedenti, anche qui con varianti solo di orchestrazione.

Arriviamo quindi alla quarta esibizione del nostro cavaliere, quella più importante e decisiva, alla tenzone canora e in presenza della moltitudine del popolo di Norimberga. Sappiamo come il povero Beckmesser abbia appena miseramente fallito la sua, bistrattando oltre ogni limite soprattutto il testo, trascritto da Sachs, del Lied di Walther. E poi lo stesso Sachs ha adeguatamente preparato il popolo ad accogliere come un eroe il cavaliere venuto dalla campagna. E poco prima – nel grande quintetto - lo aveva addirittura informalmente nominato Maestro in una cerimonia privata in casa sua (il battesimo del Lied del suo sogno!) testimoni Eva, Magdalene e David. Insomma, la gara è pure... truccata e il nostro ormai sa di avere campo libero. E allora che ti fa? Fa il gradasso! E si prende – rispetto alla pulizia formale del canto mattutino - un sacco di libertà, come del resto è nella sua natura di giovane ribelle e presuntuoso, natura che qui riemerge proprio come il giorno precedente, in occasione della prova in chiesa.

Cominciamo con il testo: Walther qui canterà un solo Bar, ma vi mescola versi dei tre Bar inventati al mattino a casa di Sachs: il primo Stollen è una variante ampliata di quello del primo Bar; il secondo Stollen attacca come il primo del secondo Bar, ma poi ne modifica profondamente e ne amplia il testo; lo stesso dicasi per l’Abgesang, che si basa sull’incipit di quello del terzo Bar, per poi modificarlo ed ampliarlo considerevolmente. Dal punto di vista letterario è interessante notare come le variazioni e soprattutto le tre nuove conclusioni (dei due Stollen e dell’Abgesang) introducano i concetti di Religione ed Arte che giocano un ruolo di primo piano nell’opera (e, non dimentichiamolo, nella prospettiva esistenziale-estetica di Wagner, che sembra far proprio il sogno di Walther!): il primo Stollen chiude con l’immagine di Eva in Paradiso; il secondo con quella della Musa del Parnaso; e l’Abgesang presenta la mirabile sintesi delle due figure: Parnaso e Paradiso!

Ma le conseguenze più importanti e macroscopiche di queste deviazioni nel testo sono ovviamente quelle che ricadono sulla musica, che acquista nuove (e magari... eterodosse) caratteristiche, legate all’allungamento del testo, che scombina le mirabili proporzioni originarie; e a sia pur momentanee modulazioni, che fanno deragliare la melodia dai sicuri binari della tonalità d’impianto (sempre DO) e dalla sua dominante SOL.

Il primo Stollen (Morgenlich leuchtend in rosigem Schein) ripercorre quasi pedestremente (testo e musica) i primi 6 versi dell’originale (fino a ein Garten lud mich ein); ma poi, invece di chiudere sul settimo e sulla tonica, e approfittando del fatto che i Maestri non seguono più il testo consegnato da Sachs a Kothner, aggiunge altri 7 versi e ciò comporta anche una forzata e quasi innaturale ripresa del discorso melodico (qui tutto e sempre in DO) che è certo di gran spessore, ma che appare anche piuttosto sovrabbondante, ripetitivo e molto... teatrale. E i Maestri infatti reagiscono in modo perplesso: riconoscendo la dignità e il valore del canto, ma rilevando anche il mancato rispetto delle famigerate regole. Quanto al pubblico, ad esso basta il confronto impietoso con i disastri di Beckmesser per garantire il suo apprezzamento.

Ancora più pesanti gli interventi di Walther sul secondo Stollen (Abendlich dämmernd umschloss mich die Nacht). Qui lui non solo modifica assai l’intero testo (sempre portandolo da 7 a 13 versi) ma introduce ardite modulazioni nella musica: invece di chiudere sulla dominante SOL, ecco che si imbarca (dort unter einem Lorbeerbaum) in una frase che vira bruscamente a SI maggiore! E subito dopo (ich schaut’ im wachen Dichtertraum) da SI maggiore modula ancora inopinatamente (su Dichtertraum) a RE maggiore! Da qui torna al DO di partenza (mich netzend mit dem edlen Nass) e sembrerebbe poi chiudere (Weib) sulla dominante, ma senza modularvi: quindi non è la chiusura prevista, cui si deve arrivare appunto sulla scala di SOL, passando dal FA#: ed ecco che allora il SOL di Weib viene sporcato da un DO#, creando un’atmosfera sospesa, dalla quale ripartono testo e canto (die Muse der Parnass!) per raggiungere il SOL, modulandovi come da copione. Insomma: un percorso tortuoso ed accidentato, che i Maestri battezzano come ardito e singolare, pur riconoscendone la cantabilità. Per il pubblico, piacevolmente sorpreso: di bene in meglio... e già canticchia la melodia!

L’Abgesang viene pure ristrutturato (da 11 a 15 versi) e la parte musicale viene semplicemente ampliata, con qualche ridondanza e ripetizione, ma restando sempre entro la tonalità di DO. La frase musicale che ne caratterizza la parte finale viene poi ripresa dal coro con un gran crescendo, a decretare il trionfo di Walther(=Wagner!)

Che dire? Il ragazzo è evidentemente esuberante e, quando non è indirizzato e monitorato da vicino da un maestro (come Sachs...) tende facilmente a partire per la tangente, perdendo il senso delle proporzioni e delle simmetrie, anche se la sua inventiva crea sempre motivi accattivanti e di facile presa sui... non esperti.   

Ma ora, dopo che abbiamo osservato e giudicato le diverse prestazioni del Walther cantore (ormai promosso a Maestro) torniamo proprio all’inizio, o quasi, della storia, cioè a quando lo Junker ancora non aveva cominciato ad esibirsi come Singer. È il momento in cui, di fronte ai Maestri riuniti in SantaCaterina, deve assolvere alcune burocratiche formalità, prima di sottoporsi alla prova: gli vengono chieste le generalità, la provenienza famigliare e geografica e attestazioni di onorabilità. A queste risponde, tagliando corto, il Maestro Pogner, che garantisce per Walther. Dopodichè al giovane aspirante è richiesto di esporre il suo curriculum: gli studi che ha fatto, gli insegnanti che lo hanno introdotto all’arte poetico-musicale e i relativi insegnamenti ricevuti. (Sappiamo che il curriculum di Walther è desolatamente vuoto...)

Walther risponde raccontando di letture di antichi poeti, morti e sepolti (il suo omonimo von der Vogelweide) e di maestri di canto... pennuti, abitanti di boschi e foreste! Beh, lui non ha altri meriti da vantare, ma a noi ciò che preme osservare è come lui li presenta. E qui ecco una clamorosa sorpresa: senza nemmeno rendersene conto, lui risponde cantando su una perfetta Barform!

Nel primo Stollen (tutto il Bar è in RE maggiore, 9/8) viene ricordato il libro di poesie di Vogelweide, letto e riletto nelle lunghe notti invernali:

Am stillen Herd in Winterszeit,
wann Burg und Hof mir eingeschneit,

wie einst der Lenz so lieblich lacht',
und wie er bald wohl neu erwacht,

ein altes Buch, vom Ahn' vermacht,
gab das mir oft zu lesen:

Herr Walther von der Vogelweid',
der ist mein Meister gewesen.
 4



 5


 4


 4
D'inverno, al tranquillo focolare,
quando la neve copriva castello e cortile,

come soave un giorno abbia riso primavera,
e come presto ella nuovamente si ridesti,

un vecchio libro, eredità degli avi,
spesso m'offerse a leggere:

Sire Walther von der Vogelweide
è stato il mio Maestro.

Come si vede, si tratta di una strofa ben proporzionata, come versi e battute musicali.

Nel secondo Stollen – Wan dann die Flur, di struttura perfettamente identica, con due piccolissime varianti virtuosistiche, e che pure chiude sulla tonica RE - Walther spiega come d’estate il canto degli uccelli del bosco abbia materializzato la poesia contenuta in quel libro, e qui Kunz Vogelgesang fa rilevare ai colleghi come Walther abbia già messo insieme due graziose strofe.

Nell’Abgesang, assai articolato e con divagazioni tonali e ritmiche, Walther si impegna ad applicare queste sue esperienze alla creazione di un Canto di Maestro:

Was Winternacht,
was Waldespracht,
was Buch und Hain mich wiesen,

was Dichtersanges Wundermacht
mir heimlich wollt' erschliessen;

was Rosses Schritt
beim Waffenritt,
was Reihentanz
bei heitrem Schanz
mir sinnend gab zu lauschen:

gilt es des Lebens höchsten Preis
um Sang mir einzutauschen,
zu eig'nem Wort und eigner Weis'
will einig mir es fliessen,

als Meistersang, ob den ich weiss,
euch Meistern sich ergiessen.
 4




 4


 5







 8





 5
Quel che la notte d'inverno,
quel che la magnificenza della foresta,
quel che libro e selva mi insegnarono,

quel che la miracolosa potenza del canto poetico
a me segretamente dischiuse;

quel che il passo del destriero
nella cavalcata d'armi,
quel che la danza in cerchio
nel gioco sereno,
a me meditabondo dette ad ascoltare:

poi che si tratta il più alto premio della mia vita
di conquistarmi col canto,
con propria parola e propria melodia,
voglio che armonicamente mi fluisca,

e come Canto di Maestro, così com'io sappia,
si espanda innanzi a voi Maestri.

L’epòdo parte modulando alla sottodominante SOL maggiore, poi (su erschliessen) vira a SI minore (relativa del RE di impianto del Bar) e contemporaneamente (sull’accenno alla cavalcata) troviamo una battuta in ritmo appropriato – croma puntata, semicroma, croma – prima del ritorno (mit sinnend) al RE maggiore. Ecco poi una pausa (lauschen) ancora sulla sottodominante SOL praticamente a metà del brano (13 battute) quindi una ripresa del RE maggiore, dove troviamo una frase musicale che compare anche nelle strofe (il che è vietato, come pontificherà Kothner, dalle regole della Tabulatura).
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C’è una morale in tutto ciò? Wagner ci vuol convincere che l’Arte è presente in Walther come risorsa naturale (quella stessa che obbliga l’uccellino a cantare a primavera, come Sachs ci ha poeticamente ricordato nel suo monologo del second’atto...): dopodichè le regole dovranno semplicemente favorire la libera espressione dell’Artista, mai conculcarla o soffocarla.

In realtà qui Wagner ci sta narcisisticamente parlando di sè: non si autodefiniva forse come l’Artista ispirato che compone la sua musica quasi sotto dettatura di una forza superiore? Interpretando a suo modo le regole codificate e non esitando a violarle in nome della sua missione di redentore dell’Arte? Missione che si manifesterà ancora con il Ring (“Ora, se lo vorrete, avremo un’Arte”, dirà quel giovedi 17 agosto 1876 al termine del primo ciclo a Bayreuth) ed avrà la sua apoteosi con Parsifal e la redenzione al redentore... 
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Bene, da domani si parte, e che... Gatti ce la mandi buona!

13 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (6). L’altra faccia di Tristan

 

Wagner non fu l’inventore dei Leit-Motive (i motivi conduttori) che caratterizzano la sua produzione musicale, ma certamente fu colui che più e meglio di chiunque altro prima di lui ne seppe intuire la fondamentale portata e ne seppe sfruttare tutte le più recondite possibilità espressive. Anche prima della maturazione e, per così dire, codificazione di questa tecnica, Wagner già la stava di fatto impiegando fin, come minimo, dall’Holländer: vedi il tema della ballata di Elsa, un po’ il marchio di fabbrica dell’opera.

In Tannhäuser troviamo il canto di Heinrich nel pagano Venusberg che riaffiora poi nella sacra Wartburg; in Lohengrin possiamo citare, oltre a quello del protagonista, il tema del cosiddetto divieto, che ritorna spesso e volentieri a sottolineare azioni, sentimenti e comportamenti. Non parliamo poi della gigantesca rete di motivi che popolano il Ring, dove assurgono al rango di veri e propri protagonisti, con tanto di vita di relazione! L’ultimo lascito di Wagner, infine, è letteralmente fondato su un solo tema: l’Agape!

Tristan e Meistersinger, che si collocano appunto a valle del Ring e prima di Parsifal, sono a loro volta popolati da innumerevoli motivi, che i musicologi hanno scrupolosamente catalogato, magari attribuendogli nomi e qualche volta significati diversi. Ma ciò che vorrei mettere in risalto qui sono due motivi che spiccano nelle due opere, quasi a simboleggiarne il più profondo significato. E sono il tema del Dolore, che apre il Preludio di Tristan, e quello dell'Anelito primaverile, intravisto già nel Preludio dei Meistersinger (seconda sezione, in MI maggiore).

Si tratta di due motivi - e dei due accordi che li caratterizzano – di un’efficacia espressiva incomparabile, di quelli che letteralmente ti rivoltano le budella, e che da soli incarnano l’essenza ultima dei due drammi (serio e giocoso) che Wagner compose come impellente diversivo al Ring.

Tristan: ecco come si apre il Preludio:



Il tema del Dolore nei violoncelli (che appropriatamente scala una sesta per poi ripiegare, appunto dolorosamente, di due semitoni) sfocia nel famosissimo Tristanakkord: RE#-FA-SOL#-SI, una seconda maggiore più due terze minori sovrapposte, ma anche (RE#-SOL# + FA-SI) una quarta giusta sovrapposta ad un tritono! L’effetto che questo accordo procura alle nostre orecchie - e quindi alla nostra psiche - non è però quello di un dolore definitivo, irreparabile, bensì quello di uno straziante anelito, una brama che continua a dilaniare il corpo e l’anima. In tedesco è definita la Sehnsucht, e non a caso è proprio il motivo che porta quel nome a seguire immediatamente il Tristanakkord: con una salita cromatica SOL#-LA-LA#-SI negli oboi, che mirabilmente la evoca. Inutile dire che tutta l’azione del Tristan non è altro che un’incessante, addirittura insopportabile tensione (di cui avremo un tremendo culmine sonoro sulle parole di Isolde Ich trink sie dir!) che si risolverà proprio alla fine, quando il tema della Sehnsucht verrà messo definitivamente a tacere - con il SI che lo chiude inchiodato dall’orchestra alla tonica della triade maggiore - solo nelle ultime tre battute. Incidentalmente questo motivo ricomparirà nei Meistersinger a sottolineare la nobile e insieme dolorosa rinuncia di Sachs a Eva.

Cosa ci rappresenta invece, appunto nei Meistersinger, il tema cosiddetto dell'Anelito primaverile? Un altro anelito, altrettanto carico di tensione, altrettanto sbudellante. Dopo che ha fatto capolino nel Vorspiel, esso ritorna mille volte, e già nel primo atto accompagna in orchestra (tipicamente negli archi) le esternazioni di Walther e costituisce parte integrante del suo canto di ammissione a Cantore (il Probelied, dove appare per la prima volta sui versi Es schwillt und schallt, es tönt der Wald”). Poi, nel finale dell’atto, lo udiamo in primissimo piano, nell’oboe, incastonato fra il tumulto dopo la bocciatura di Walther e la coda conclusiva:


L’accordo che si sovrappone al RE dell’oboe è costituito da tre terze minori (DO-MIb-FA#-LA) e il suo effetto è proprio di creare una straordinaria tensione: anche questa è una forma di Sehnsucht, diversa però da quella del Tristan, poichè qui evoca l’irresistibile richiamo all’amore che ci arriva dalla primavera! Ed esploderà letteralmente nel second’atto, a sostenere l’accorata esternazione di Sachs (Lenzes Gebot, die süße Not) al ricordo del canto di prova di Walther, che ha suscitato in lui tanto interesse e ammirazione, sentimenti che ora il saggio maestro cerca di spiegare a se stesso:


Ed eccola, allora, la spiegazione: è quella dolce necessità (die süße Not, e sul süße quel mirabile accordo sboccia nell’intera orchestra) l’imperioso comando della primavera (Lenzes Gebot) che porta l’uccellino a cantare il suo richiamo d’amore; ma, dato che lui è obbligato a cantare, ecco che è anche naturalmente capace di cantare!

É la poeticissima similitudine con lo spontaneo canto di Walther (Dem Vogel, der heut’ sang...) ignorante di ogni regola, ma ispirato dalla natura a primavera... e dall’amore! 
___
(continua...

11 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (5). Religione e (o?) Arte

 

Wagner, lo sappiamo, era intimamente convinto di essere un vero artista in un mondo dominato da ciarlatani; nella sua concezione dell’arte l’artista è investito di una ben precisa missione: procurare all’Uomo adeguati e nobili strumenti di contrasto contro le proprie ossessioni esistenziali.

Ciò è prefigurato dalla filosofia di Ludwig Feuerbach, con la quale Wagner aveva preso dimestichezza fin dai tempi di Dresda e della rivoluzione, per poi studiarla a fondo – prima di imbattersi nella capitale figura di Schopenhauer - negli anni dell’esilio, durante i quali (è bene ricordarlo) getterà le fondamenta di tutta la sua futura produzione artistica, già del resto messa in cantiere a partire dal 1845 (vedi proprio i Meistersinger approcciati in quell’anno a Marienbad).

Feuerbach assegna all’Arte un ruolo paritetico e potenzialmente sostitutivo a quello della Religione. Secondo il filosofo, la Religione altro non è se non il prodotto dell’inventiva e della fantasia umane, a loro volta rese possibili grazie alle facoltà intellettive, prerogativa peculiare dell’animale Uomo. La capacità di razionalizzare l’esperienza ha portato l’Uomo a constatare, assieme alle proprie grandi qualità e capacità, uniche nel mondo animale, anche i propri limiti e le proprie deficienze, prima fra tutte la propria mortalità. Allo stesso tempo l’Uomo ha preso atto che la Natura - assieme a molti lati consolanti e positivi – presenta anche aspetti negativi, dolorosi, ripugnanti e, in definitiva, insopportabili: dolori, disgrazie, malattie, fallimenti, frustrazioni...

Per sfuggire a questa autentica ossessione, l’Uomo ha creato prima gli dei e poi Dio, che rappresenta la quintessenza idealizzata delle migliori qualità umane, inossidabili rispetto agli agenti materiali, e ancora l’aldilà, che rappresenta l’ideale di un mondo perfetto, soprannaturale e metafisico in cui poter, anzi dover credere: tutto un insieme di valori codificati dalla Religione, che ha fatto assurgere a sistema assoluto (in cui aver fede dogmaticamente) ciò che in realtà era semplicemente sbocciato dall’immaginazione e dalla fantasia umane.

Immaginazione e fantasia che sono, anche, i motori della produzione artistica dell’Uomo. E l’Arte altro non è se non un diverso (dalla Religione) strumento che l’Uomo si è dato per combattere le sue ossessioni e l’insopportabile constatazione della propria mortalità; in definitiva, uno strumento di evasione dalla miseria della propria condizione, e di elevazione spirituale, insomma: una religione laica.

Ma l’Uomo è anche e soprattutto un essere dotato di materia grigia: e dato che l’intelletto consente all’Uomo di esplorare, e sempre più in profondità, la natura, la materia (organica e inorganica) che lo circonda, ma anche la propria stessa identità e la propria stessa mente, ecco nascere il pericolo mortale per la Religione: essere smentita dalle conquiste della Ragione (tramite la Scienza) e perdere ogni rilevanza, con ciò privando l’Uomo di quello strumento auto-consolatorio che si era così faticosamente costruito, e precipitandolo, in ultima analisi, in uno stato di gelida, spettrale, e in fin dei conti disperata condizione.

Nella storia dell’Umanità Religione ed Arte sono andate quasi sempre a braccetto: basti pensare a quanta Arte si è ispirata alla Religione e quanto la Religione si sia servita dell’Arte per edificare i suoi luoghi di culto e per nobilitare le sue liturgie. Diverso invece il rapporto che la Religione ha avuto con la Scienza, rapporto spesso, se non quasi sempre, e persino ai giorni nostri, conflittuale.

Interessante è invece constatare come il rapporto fra Scienza ed Arte sia fecondo, e nel caso della musica quasi immanente nella Natura medesima. Pitagora fu uno, e non il primo, a scoprire la grande affinità fra la Scienza dei Numeri e l’Arte dei suoni. E non a caso Wagner fu definito, da Thomas Mann, come l’Artista in grado di poetizzare l’intelletto! E nessun Musicista più e meglio di Wagner seppe avere, e tradurre in parole e musica (i suoi drammi) intuizioni che la Scienza razionalizzerà e strutturerà molto tempo dopo: basti pensare alla psicanalisi (Freud) e alla teoria della relatività (Einstein).

Orbene, Wagner, interpretando Feuerbach (cui significativamente dedica, nel 1849, il suo fondamentale scritto L’Opera d’Arte dell’Avvenire) arriva a concludere che - scomparsa fatalmente la Religione sotto i colpi della Ragione e della Scienza - l’unico strumento di consolazione e, in ultima istanza, di salvezza per l’Uomo non potrà essere che l’Arte. Domanda: perché l’Arte, i cui prodotti nascono pur sempre, come quelli della Religione, da fantasia e immaginazione umane, quindi al di fuori della realtà razionalmente sperimentabile, può essere dall’Uomo accettata come strumento auto-consolatorio in luogo della Religione? Semplicemente perché l’Arte – a differenza della Religione - non pretende di imporre Dogmi, nè di rivelare Verità (dogmi e verità sempre meno accettabili dalla Ragione). Il prodotto artistico si presenta per ciò che è, senza maschere, né inganni: appunto, come un’invenzione della mente umana, volta a procurare all’Uomo non già speranze in una immaginaria e inesistente realtà metafisica, ma piacere estetico e spirituale, da consumarsi nella realtà della nostra mortale esistenza, e in piena armonia con la Natura immanente. Appunto, l’Arte come una religione laica.

Come si presentava ai tempi di Wagner lo scenario di Religione e Arte? Per quanto riguarda la prima, era in generale minacciata dai vari illuminismi, positivismi, comunismi e ateismi dilaganti in Europa, per i quali peraltro Wagner non aveva (più) alcuna simpatia; per di più, il Cattolicesimo aveva da tempo trasformato la Religione nella parodia di se stessa, schiava delle sue proprie ipocrite e mistificanti liturgie, oltre che secolarizzata: soltanto il Cristianesimo riformato aveva ancora ai suoi occhi una seria reputazione. E il luterano Wagner nei Meistersinger rende perciò omaggio alla Riforma ed esalta Martin Luther, condannando invece la falsa maestà papalina.

Quanto all’Arte e in particolare al teatro musicale, Wagner trovava la situazione deprimente e penosa. Che questo suo giudizio, più e oltre che da constatazioni oggettive, derivasse dalla sua personale incapacità di penetrare l’establishment di quel mondo, impersonato da Parigi, che gli aveva appena confermato il suo rifiuto, distruggendogli il Tannhäuser, è questione magari secondaria. Sta di fatto che Wagner si vedeva e si sentiva investito della missione di redimere (ciò accadrà compiutamente con Parsifal!) l’Arte da tutte le sue colpe. E in attesa di Parsifal, dove matureranno l’inappellabile condanna di maghi, stregoni e alchimisti alla Klingsor (Meyerbeer) e l’avvento del Gral perennemente scoperto, nei Meistersinger Wagner comincia a rottamare la critica parruccona e reazionaria, sostenitrice e complice di un’arte degenerata; critica impersonata, nel suo immaginario, da Eduard Hanslick (Beckmesser). 

Almeno tre sono i riferimenti precisi al binomio Arte-Religione che emergono dai Meistersinger. A cominciare dai due dipinti a sfondo sacro (il Landauer-Altar di Dürer e l’Assunta del Tiziano) che direttamente o indirettamente hanno a che fare con l’opera; poi la riunione dei Maestri per la prova di canto, che ha come teatro la stessa Chiesa di SantaCaterina, opportunamente ri-arredata per l’evento artistico; e infine l’associazione artistico-religiosa, che fa capolino nel canto di Walther, fra Parnaso e ParadisoE ovviamente c’è un riferimento indiretto ad Arte e Religione anche nella conclusiva perorazione di Sachs, che inneggia alla pura, anzi propriamente alla sacra Arte tedesca, chiamando il popolo a difenderla dagli assalti della falsa maestà latina.

Ma, come al solito, è attraverso la musica e le relazioni che essa è in grado di stabilire che questi concetti assumono il carattere di opera d’arte. E mi limito ad un solo ma illuminante esempio: il Vorspiel ha appena chiuso sul tema dei Maestri e subito attacca (senza l’accordo finale che Wagner ha scritto per l’esecuzione in concerto del Preludio) il corale “Da zu dir der Heiland kam“ cantato nella chiesa di SantaCaterina. Ebbene, le prime note del corale escono direttamente dal tema dei Maestri! 

E sulla musica bisogna pur tornare.
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(continua...)

09 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (4): Rossini: disprezzo o ammirazione?

 

Una chiara citazione di Rossini che appare nei Meistersinger ha da sempre fatto nascere sospetti di una premeditata e proditoria denigrazione-in-musica del grande Gioachino da parte di un nemico giurato dell’opera italiana. Di che si tratta? Del famoso motivo da Di tanti palpiti dal Tancredi.

 

Nel terzo atto Wagner mette in scena l’arrivo delle diverse corporazioni di Norimberga presso la spianata sulla Pegniz dove si celebrerà la festa (che includerà anche la tenzone canora): ciascuna corporazione marcia - fra uno sventolio di bandiere e stendardi - cantando le lodi delle proprie professionalità e i meriti acquisiti in passato presso la città e il popolo.

Dopo che per primi sono sfilati i calzolai (la corporazione di Hans Sachs) ecco arrivare i sarti (professione del cantore Augustin Moser) illustrando i meriti di un loro rappresentante che – tempo addietro - nientemeno aveva salvato Norimberga da un assedio nemico, mettendo in fuga gli assedianti con un curioso stratagemma: farsi cucire addosso una pelle di caprone ed esibirsi poi in corse e salti sulle mura della città. Al che il nemico aveva deciso che era meglio lasciar perdere l’assedio, piuttosto che dover espugnare una colonia di… cornuti (evabbè.)

È qui che Wagner cita, in modo parodistico, i famosi Palpiti dal Tancredi. Ora, chi vuol dipingere Wagner come denigratore di Rossini ci racconta che la citazione, fatta nel contesto di una storia di assedio della città tedesca, in realtà avrebbe lo scopo di denunciare un altro tipo di assedio: quello operato dalla cultura straniera (qui quella italiana, papalina, impersonata da Rossini, ma altrove anche quella francese e ovviamente quella giudaica) ai danni di quella tedesco-luterana, difesa appunto da... Wagner. Da ciò i successivi incitamenti di Sachs a difendere l’arte tedesca da queste minacce, e la profezia che essa arte, se onorata e custodita dal popolo, avrebbe potuto sopravvivere anche al tracollo del Sacro Romano Impero.


Insomma: citandone un motivo musicale del Tancredi in modo tendenzioso se non addirittura calunnioso, Wagner avrebbe offeso e dileggiato Rossini come un pericoloso nemico dell’arte germanica. Ma sarà proprio così?

Ora, che Wagner non avesse in simpatia l’establishment culturale e musicale del suo tempo è assodato. Così come è noto come avesse aspramente criticato - particolarmente in Oper und Drama - lo sviluppo del teatro musicale e dell’opera maturato negli anni di massimo fulgore di Rossini.

Nel capitolo L’Opera e la natura della musica Wagner dedica pagine e pagine al pesarese, analizzandone l’approccio compositivo e in primo luogo il ruolo preminente destinato proprio alla melodia. Certo, Wagner si scaglia contro quella che considera un’autentica degenerazione dell’arte musicale, ma riconosce a Rossini una specie di stato di necessità, che lo aveva portato ad assecondare le tendenze di mercato: che privilegiavano i cantanti, le voci, i gorgheggi, sacrificando ad essi – pura forma – la sostanza dei contenuti del dramma per musica.

Ma è significativo notare con quali precise parole Wagner introduce il ruolo di Rossini:


Riassumendo: colui che ridiede un corpo profumato, per quanto innaturale, a ciò che prima aveva genuinamente esalato i suoi profumi da un corpo naturale; questo creatore di fiori artificiali, fatti di seta e satin, che profumano come fiori autentici; ecco, questo grande artista fu Gioachino Rossini.      

Il che ci fa pensare che di lui Wagner avesse un’alta considerazione, così come di Bellini, del resto (al contrario di Donizetti, che Wagner probabilmente detestava più che altro per aver dovuto sbarcare il lunario a Parigi trascrivendone per trombetta alcune arie). Interessante per converso notare il trattamento riservato (sempre nel citato Oper und Drama) a Giacomo Meyerbeer, accreditato di capacità musicali pari a zero! Evidentemente per lui non era sufficiente la giustificazione delle esigenze del mercato! (Poi, per dimostrare che i suoi non erano ciechi pregiudizi, Wagner fa una lode sperticata del passaggio in SOLb maggiore – Tu l’as dit – di Raoul-Valentine dal quarto atto di Les Huguenots, che forse gli ispirerà qualcosa nel Tristan…)

E in occasione della morte di Rossini – avvenuta pochissimi mesi dopo la prima dei Meistersinger, si noti bene - Wagner vergò (nella terza delle sue Censuren) un ricordo del grande Gioachino (Eine Erinnerung an Rossini) in cui descrive con simpatia l’incontro avuto con il maestro nel 1860, quando lui era a Parigi per preparare il disgraziato Tannhäuser (e forse già cominciava a ripensare ai Cantori…): in quella occasione l’anziano maestro italiano smentì ogni malignità che gli era stata attribuita nei suoi riguardi dai giornali e mostrò, se non di condividere, almeno di provare a comprendere la sua visione sul futuro dell’opera. (Circostanze confermate dal dettagliato resoconto dell’incontro fatto da Edmond Michotte, testimone oculare e auricolare.)

Da ultimo: poche settimane prima di morire, dopo la serata-concerto data in suo onore alla Fenice a Natale del 1882 (quindi nella sua ultima apparizione in pubblico) e dopo il sontuoso rinfresco, Wagner, per accommiatarsi degnamente dai suoi ammiratori con un brano musicale eseguito personalmente al pianoforte, scelse... indovinate... il rossiniano Buonasera, miei signori!       

Quindi, per tornare ai Palpiti, se stiamo agli elementi extra-musicali, nulla ci induce a pensare che Wagner abbia voluto mettere alla berlina Rossini, e menchemeno additarlo a nemico dell’arte germanica (proprio lui, Rossini, che in Italia passava per il tedeschino...) citandone un motivo in modo tendenzioso se non addirittura calunnioso.

Ne abbiamo conferma se poi proviamo ad analizzare un po’ più da vicino lo scenario, dando un’occhiata all’unica fonte certa, autentica e inoppugnabile di cui disponiamo: la partitura (testo e musica di Wagner). Ecco cosa ci troviamo precisamente nel momento in cui i sarti cantano l’inizio della loro storiella: nove battute, che si possono suddividere in due parti uguali. Nelle prime 4 e mezza c’è il ricordo dei giorni tragici dell’assedio, nelle successive 4 e mezza l’anticipazione dello scampato pericolo, grazie al coraggio e all’inventiva del sarto:


L’entrata dei sarti si accompagna ad una repentina modulazione: dal DO maggiore precedente (con i festosi squilli di tromba) si passa al LA minore, poiché il coro deve raccontare il pericolo mortale vissuto dalla città assediata (sono le prime 4 battute e mezza). Poi abbiamo la transizione verso il consolatorio e allegro ricordo dell’impresa del sarto, che occupa, tornando a DO maggiore, le successive 4 battute, contenenti appunto la citazione – la tonalità originaria è FA - dei Palpiti.  

Ergo: la melodia rossiniana è impiegata qui da Wagner per supportare l’epinicio dei sarti per il loro valoroso collega, non già la minaccia portata dagli assedianti, che è stata evocata con il LA minore precedente, che nulla ha a che fare con Tancredi e con Rossini!

Ed è quindi una citazione del tutto positiva, un vero e proprio omaggio al compositore italiano di cui Wagner apprezzava il genio, pur criticandone l’involuzione delle forme musicali. Altro che considerarlo un… assediante! Anche il tono allegro e scanzonato della citazione (i tre ein Schneider che devono essere cantati quasi… belando, in omaggio al travestimento del sarto) non è certo irriguardoso né offensivo nei confronti di Rossini, ma simpaticamente appropriato ad evocare un’impresa dai contenuti più spassosi che drammatici (e del resto non fu proprio Rossini il campione dell’impiego della medesima musica per supportare il serio e il giocoso?) 

In ogni caso la prova definitiva l’abbiamo chiedendoci: chi è Tancredi? Guarda caso: un patriota, precisamente come l’anonimo quanto bizzarro sarto di Norimberga! (O vogliamo concludere che l’eroe di Wagner sia in realtà una macchietta da avanspettacolo? E che quindi tutti i Meister siano una farsesca presa in giro, predica finale di Sachs inclusa?) 

Ma poi un po’ di Rossini – non musica, ma... caratterizzazione di personaggio - si ritrova anche nella quarta scena del terz’atto, quando Sachs, che ha appena aggiustato una scarpetta ad Eva, canta una specie di Largo al factotum! (“Das ist eine Müh', ein Aufgebot!”) descrivendo i mille diavoli per capello che caratterizzano la sua professione. E anche questa non può certo essere una parodia, visto il rilievo assoluto che la figura di Sachs ha nell’opera.

Insomma, nulla ci autorizza a pensare che il vecchio Gioachino, che verrà a mancare proprio a ridosso della prima rappresentazione dei Meistersinger, fosse oggetto di disprezzo e di dileggio da parte del genio di Lipsia...
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(continua...)