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08 giugno, 2015

A Torino il Faust di Noseda-Poda

 

Ieri il Regio ha ospitato la terza del Faust di Gounod, nell’allestimento curato da Stefano Poda con la concertazione di Gianandrea Noseda. Evidentemente la berlinese disfatta (peraltro onorevole) dei bianconeri di fronte al Messistofele argentino non deve aver pesato molto sulle propensioni melodrammatiche dei torinesi, inducendoli a lasciare pochi spazi vuoti nel loro grande anfiteatro. Oppure è il caldo infernale che gli ha consigliato un pomeriggio con l’aria condizionata compresa nel prezzo del biglietto.   

Si sa che Faust fu a più riprese rivisto e corretto dall’Autore, che era sempre disponibile ai più prosaici compromessi pur di avere le sue opere eseguite. E così non ci si deve scandalizzare più di tanto per tagli o varianti apportate per la messinscena di turno. Nel nostro caso Noseda, in combutta con Poda (per sua stessa ammissione in un’intervista a Susanna Franchi, trasmessa mercoledì da Radio3 in un intervallo della diretta) ha preso le seguenti decisioni (o si è preso le relative libertà…): ha tagliato (ma lo si fa spessissimo, quanto proditoriamente) l’aria di Siebel del quart’atto (Si le bonheur) e il Baccanale di Walpurgis (che non è nemmeno di mano di Gounod, ma di un tale wagneriano a nome Ludwig Alexander Balthasar Schindelmeißer e viene talora eseguito nella versione tedesca dell’opera); sempre in Walpurgis ha invece ripescato - e discutibilmente, poiché furono un cedimento alle stupide esigenze de l’Opéra - due dei sette ballabili (1 e 7) su richiesta specifica di Poda, tagliando quindi il canto bacchico. Ancora su sollecitazione del regista ha spostato alla fine dell’atto (IV) la scena nel Duomo, in pratica ripristinando la sequenza di scene dell’originale di Goethe, che Gounod aveva mutato non senza ottime ragioni. Insomma, la solita costruzione del meccano, più o meno plausibile, tanto per conferire caratteristiche di uniqueness (nel caso specifico: di jamais vu) alla produzione…  

Da parte sua Poda ha però messo su uno spettacolo intelligente, limitando le stranezze a pochi dettagli tutto sommato innocui. Scena perennemente occupata da un gigantesco anello: 10m e più di diametro, 2m di altezza e 50cm di spessore; un martinetto fissato al centro della piattaforma rotante e al bordo superiore dell’anello consente di inclinare questo da angolo zero (quindi adagiato sulla piattaforma e creante un ambiente chiuso) a 90°, facendolo agire da sfondo (più o meno) aperto della scena. Dentro o sotto l’anello troviamo nel primo atto una catasta di libri e riviste (tutta la scienza, enciclopedica quanto non gratificante, del Dottore); che viene coperta nel secondo atto da oggetti di esiguo valore scientifico, ma di alto contenuto esistenziale: bacco (teste di vitello), tabacco (no, questo mancava) e venere (rosse scarpe da donna con tacco 13) tutta roba portata lì da studenti e borghesi in perenne caciara godereccia. Poi ci troviamo una sfera con scritte in tedesco dal Faust autentico e poco più. A proposito di Faust autentico, Méphistophélès alla fine del second’atto s’infila una tunica con l’eloquente scritta Man hat Gewalt, so hat man Recht (Faust II, atto V, Palast). Nell’atto IV sull’anello cala un coperchio con intagliata una enorme croce che poi, con l’anello alzato in verticale e retro-illuminato, crea un grande effetto con la silhouette di Méphistophélès che vi si staglia mentre maledice Marguerite. Nel finale, dopo che l’anello è servito come gabbia per la prigione della protagonista, ne compare un altro sullo sfondo, mentre l’opera si chiude. Insomma, c’è un po’ anche di signore degi anelli (smile!)

Altri simboli da ricordare sono una serie di clessidre che all’inizio circondano la piattaforma, ad indicare a Faust e a noi che tutti si invecchia senza scampo: due clessidre vengono anche recapitate al protagonista e al diavolo tentatore proprio alla fine, da un gruppo di bianchi angioletti, come a dire: credevate di aver raggiunto l’immortalità, fregando il tempo, ma adesso ve lo dovete risorbire, ecco.

Nell’atto III tutti i 4 protagonisti sono a piedi nudi: no, per la verità in un primo momento Marthe ha scarpe con tacco a spillo, poiché ci appare come una classica segretaria un po’ racchia che però vuol far colpo sul capufficio, e infatti subito il diavolaccio le mette le mani sulle tette… e così anche lei si leva le scarpe! Prima però avevamo apprezzato il mazzolino di fiori di Siebel, che per Poda è un cappotto ricoperto di fioroni dai colori sgargianti; così, per non esser da meno, ecco che Méphistophélès, oltre ai gioielli, porta anche un cappotto tutto tempestato di diamanti (ma sì, come diceva Totò, facciamo vedere che siamo ricchi…) e poi i gioielli mica sono in una cassettina, ma in un autentico comò a doppia anta e cassetti! Come potrebbe la povera Marguerite non cedere di fronte a tanto ben di dio? L’atto si chiude con i due protagonisti in posizione… ehm… avete capito, mentre il diavolo se la ride.

L’atto IV comincia lì dove il terzo è finito, ma con Faust che se la svigna, dopo aver evidentemente compromesso la poveraccia, che si vede costretta a scambiare il cappotto prezioso con uno imbottito di fiori secchi e crisantemi! Tagliato l’intervento del povero Siebel, si passa direttamente al ritorno dei reduci dal fronte (la scena nel duomo è spostata alla fine atto). Uomini e donne che nell’atto II vestivano in sgargiante rosso vivo qui son tutti in profondo… nero: si sa, la guerra esige il suo prezzo in vittime e crea vedove in quantità. La serenata del diavolo viene cantata a una fila di 8 donne incinte di… palloncini gonfiabili, che il nostro fa scoppiare uno dopo l’altro mentre canta alla bella Catherine! Poi fra Valentin e Faust c’è un normalissimo duello alla pistola, e così si perde del tutto il determinante intervento del diavolo a consegnare a Faust una vittoria truccata! Come detto, la scena nel Duomo è spostata a fine atto, proprio seguendo la sequenza originale di Goethe (ma anche la prima idea di Gounod). Cosicchè l’incipit dell’organo qui serve per accompagnare, direi appropriatamente, il funerale del povero Valentin. La cui sorellina, appena da lui maledetta, viene quindi ri-maledetta dal diavolaccio e dai suoi accoliti. Va riconosciuto che questa scena è di grande impatto: come detto, la croce entro la quale si staglia la figura di Méphistophélès è proprio da brividi. Qui il regista aggiunge anche – in penombra - un nudo femminile integrale, immagino a simboleggiare tentazioni, peccati e quant’altro.

Sempre a piedi nudi troviamo Faust e sodale nella scena di Walpurgis, dove compare uno stuolo di danzatori spalmati di cerone bruno (faranno i nubiani nel primo dei due balletti e resteranno lì anche nella scena della prigione, così, per ammortizzarne il costo, smile!) e pure completamente nudi (salvo tanga e perizomi per non dover vietare lo spettacolo ai minori di anni 12, ari-smile!) simulando le orge delle grandi cortigiane antiche. Ho già anticipato della scena finale, con la beatificazione di Marguerite e le clessidre consegnate a Faust e sodale.

Ora però non si deve pensare che a me lo spettacolo sia parso un… avanspettacolo, tutt’altro: a parte questi pochi dettagli che vanno presi tutto sommato con simpatia, devo dire che il risultato complessivo di questa proprosta di Poda sia da giudicare completamente positivo. E così l’ha giudicato il pubblico, che ha acclamato il regista e tutta la sua troupe.

Ma consensi calorosi sono andati anche ai protagonisti della parte musicale (che poi è o dovrebbe essere quella che conta). Applausi a scena aperta dopo le principali arie e – questi son stati i più lunghi, e temo che la cosa sia da considerare con sospetto… – dopo i due balletti di Walpurgis. Alle singole, ovazioni e bravo! a non finire.

Irina Lungu mi aveva fatto una buona impressione già anni fa alla Scala e anche ieri è stata una più che convincente Marguerite, che ha ben sopportato anche l’impervio crescendo finale (Anges purs).

Faust era Charles Castronovo, cui forse manca qualche decibel per essere buono e non solo discreto: ha sfoderato i due acuti (SI nell’atto secondo e DO nel terzo) con grande appropriatezza e senza sguaiataggini, risultando un po’ meno efficace nella parte più bassa della tessitura. Ma è giovane e può solo migliorare ancora.

Il Méphistophélès di Ildar Abdrazakov ha mostrato grande presenza scenica e apprezzabile vocalità: cioè ha sempre cantato e mai vociferato o schiamazzato. Personalmente ho gradito di più (palloncini a parte…) la serenata del quarto atto che non il vitello del secondo.

Valentin era Vasilij Ladjuk e convintamente gli assegno un bel voto, su tutta la linea: nella cavatina del second’atto, come nella scena del duello e della morte-con-maledizione del quarto. Bella voce, bene impostata, quasi da baritenore, direi appropriata per il personaggio.

Il Siebel di Ketevan Kemoklidze ha un solo demerito, ma da attribuire alla coppia Noseda-Poda: non aver potuto cantare l’aria del quart’atto! Perché per il resto lei mi è parsa più che efficace in questo ruolo en-travesti, tutt’altro che facile ad interpretarsi come si deve.

Marthe era Samantha Korbey, che qui al Regio non ne perde una (un po’ come Panariello alla Scala, per dire): se l’è cavata discretamente, tenuto conto che la parte non è proprio proibitiva.

Anche il Wagner di Paolo Maria Orecchia ha fatto con onore la sua parte. Sempre all’altezza il coro di Claudio Fenoglio.

Gianadrea Noseda ha ancora una volta guidato i suoi con grande rigore, rispettando quella distaccata nobiltà di scrittura che Verdi rimproverava (credo proprio ingiustamente) a Gounod. Ottima la sua concertazione delle voci e quindi meritate le ovazioni che l’hanno accolto all’uscita. 

Bene, ci fosse stata anche una… coppa, sarebbe stata una giornata irripetibile! 

01 luglio, 2010

Un gratuito Faust alla Scala

La seconda recita del Faust (quinta in calendario, ma arrivata dopo tre annullamenti causa sciopero) è stata gentilmente offerta al pubblico dalla Direzione del Teatro. Che rimborserà il prezzo del biglietto, a risarcimento del danno provocato al livello artistico della rappresentazione dalle agitazioni delle maestranze, che anche ieri sera – pur non scioperando – hanno manifestato contro il decreto (anzi ormai la Legge-Bondi) presentandosi (orchestrali e coro) in abiti borghesi. Gesto – questo di Lissner - tanto squisito quanto eccessivo, datosi che il casual ai professori d'orchestra può addirittura far bene, lasciandoli più liberi nei movimenti (personalmente non avrei nulla in contrario che vestissero così anche a SantAmbrogio) e – non lo avessero annunciato nel pistolotto in apertura di spettacolo – forse nessuno si sarebbe accorto che il coro era in borghese, vista la totale improbabilità dei costumi di tutto il resto della compagnia.

Piuttosto, se un motivo per il risarcimento esiste, è da individuarsi nell'intollerabile sequela di lungaggini che ha esasperato un pubblico (assai scarso in platea e palchi, per la verità) costretto a sorbirsi 5 minuti di ritardo iniziale, cui se ne sono aggiunti almeno altrettanti per il proclama sindacale, accolto da applausi, ma anche da vivaci rimostranze (certo che il gradimento di Berlusconi fra il pubblico scaligero dev'essere un filino più basso del 68% sbandierato dal nostro PM ad ogni piè sospinto… forse è per questo che lui alla Scala non ci mette piede?) e poi addirittura 40 minuti di secondo intervallo, roba che neanche a Bayreuth! Col risultato di far abbassare l'ultimo sipario 10 minuti dopo mezzanotte, con gente che da un po' se ne andava alla spicciolata, per non perdere l'ultimo metrò.

Peccato, perché in fin dei conti questo Faust non è peggio di altre disdicevoli imprese di questa stagione scaligera. Nekrosius propone una regia piuttosto strampalata e piena di simboli ed ammiccamenti (vuoi bambineschi, vuoi ridicoli) ma con qualche spunto intelligente, e soprattutto non si sogna di inventarsi un Konzept che stravolga la sostanza dell'originale (messaggio per tali Dante e Padrissa, tanto per non far nomi, ma cognomi): insomma, ci presenta passabilmente il Faust di Barbier-Carré-Gounod, almeno nello spirito, se non proprio nella lettera. E la compagnia di canto (Kapellmeister incluso) sarà pure di livello modesto (per le pretese della Scala) ma non certo peggio di altre, anche assai più titolate, che hanno allietato le serate di questa stagione.

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Si comincia con il sipario che si alza poco dopo l'inizio dell'Introduction, mostrandoci Faust in un ambiente che presenta due vie di fuga, delimitate da strutture di legno: lui è effettivamente ad un bivio della sua esistenza: libri aperti cosparsi in giro sul pavimento, ed un grosso macigno (il fardello degli anni e della sapienza?) che il nostro cerca di spostare con gran fatica. Peccato che proprio mentre lui è curvo sotto il peso del pietrone, l'orchestra abbia ormai esaurito il suo tema cromatico e oscuro, e presenti quello dolce, in FA maggiore (quello dell'aria di Valentin) che francamente stride con ciò che lo spettatore vede. Due comparse abbigliate da rondoni (con le ali che paiono a volte delle stampelle!) si aggirano nell'ambiente (torneranno anche più avanti) forse a impersonare il destino (ma perché non sono direttamente dei corvi?)

Dopo le irruzioni di ragazze e contadini, che sviano l'attenzione di Faust dall'ampolla del veleno, arriva Méphistophélès: tutto nero come un pipistrello e con attrezzo atletico in spalla, un'asta che serve evidentemente a superare ostacoli apparentemente impossibili. Al seguito un piccolo marinaretto, che gli fa da aiutante, o da remora, tanto per movimentare la scena.

La visione di Marguerite è proposta tramite riciclaggio delle prefiche della Emma Dante, che accompagnano la ragazza (e che poi torneranno via via nel corso del dramma): un simbolo non proprio fuori posto, poiché – a differenza di Carmen – qui è già chiaro fin dall'inizio che tutta la faccenda puzza di …bruciato. Certo che la scena resta piuttosto poco poetica, a dispetto delle quattro battute con cui Gounod chiude il MI maggiore della visione, citando esplicitamente il Sogno mendelssohniano!

Méphistophélès dà a Faust il suo filtro di eterna giovinezza, e in cambio si beve il veleno destinato al professore (questa Nekrosius ce la dovrebbe spiegare). Poi, seguito dal discepolo ringiovanito e rivestito a nuovo (e dal marinaretto-remora) si avvia di rincorsa con la sua asta, a superare ogni ostacolo!

Il secondo atto inizia con la Kermesse, dove si dovrebbe vedere gente agitata e allegra. Qui appare il coro (in borghese, ma pochi se ne accorgerebbero) che resta però piuttosto fermo, lasciando a poche comparse (e alle prefiche ed altri oscuri individui, dei menagramo evidentemente) di mimare siparietti più o meno piccanti e di animare la scena. Questa sarà una costante: il coro sempre fermo, anche quando (valsons!) dovrebbe ballare il walzerone del finale d'atto. Che sia una stranezza della regia, o una forma di sciopero bianco anti-Bondi? C'è poi Wagner, con un gomitolone di spago in mano, il cui significato dovrà esser chiaro al regista e alla sua ristretta cerchia di amici.

Arriva Valentin ad esporre l'aria appositamente scritta da Gounod per un baritono inglese che si sentiva giustamente castrato, in assenza di un proprio pezzo di bravura. È accompagnato da Siébel, su cui val la pena dire un paio di cose. Ora, già ci ha pensato Gounod a prendersi gioco di lui, facendolo interpretare (en-travesti) da un soprano, ma Nekrosius mostra un accanimento degno di miglior causa, affibbiandogli una malformazione congenita, facendone insomma un povero paraplegico che zoppica in modo plateale. Roba da avanspettacolo, aggravata da altre gratuite ed offensive gag: come quella dove Méphistophélès gli infila sotto un piede una zeppa, per… chiudere il dislivello fra le due gambe!

Senza infamia né lode il resto, salvo la mancanza dell'esplicito gesto esorcizzante (le spade incrociate che tutti oppongono a Méphistophélès, e che qui si riducono a due giocattoli impugnati dal marinaretto…) Dopo il walzer che nessuno balla, con l'intermezzo dell'approccio di Faust a Marguerite, che dà modo al tenore di esibire il suo SI acuto, si chiude per il primo intervallo (solo una mezzoretta).

Il terzo atto si apre con un altro gratuito sgarbo del regista al povero Siébel, il cui cofanetto (sic!) colmo di fiori viene trafugato da Méphistophélès, insieme ad una lettera della cui presenza non v'è traccia nel libretto. Poi c'è la cavatina di Faust, col DO acuto della présence, e la presenza di Marguerite si materializza, con lei che avanza fino al proscenio portandosi dietro una sedia (Faust da parte sua ne maneggia un'altra) per poi uscirsene lateralmente (ma quanto lo pagano Nekrosius per queste trovate?)

Nella lunga scena dell'arcolaio, l'arcolaio manca, ma tanto è un dettaglio secondario. Al suo posto Marguerite gioca con una bambola (lei è davvero una bambina ingenua, non c'è che dire) e così canta i suoi recitativi che introducono la canzone del Roi de Thulé e l'aria dei gioielli, di cui la ragazza prende due enormi gocce, mentre si intravedono (ma solo dal loggione) anche montagne di perle dentro la vera e propria cassa del tesoro procurata da Méphistophélès.

La scena successiva (incontro Méphistophélès-Marthe e poi il quartetto a due coppie) si svolge non all'aperto, ma in un ambiente interno, nella casa, dove compaiono ancora prefiche varie, più che altro a distrarre l'attenzione dello spettatore. Poi il duetto fra Faust e Marguerite, introdotto dall'invocazione di Méphistophélès, in DO maggiore, che ricorda – orrore! – nientemeno che quelle di Brangäne nel secondo atto del Tristan. Marguerite, invece che alla finestra, si accomoda su una panca-divano sul proscenio per la sua esternazione, con i due che la spiano in un angolo. Poi Méphistophélès dà un bel pugno in testa a Faust (come dirgli: visto, stupidone?) e lo spedisce fra le braccia della ragazza, poi disteso per terra, accanto al divano su cui giace Marguerite (?!)

Nel quarto atto cominciano i tagli, prima vittima la scena e recitativo iniziale di Marguerite, che comincia dal Il ne revient pas! Qui si vede una piccola culla che a un certo momento viene letteralmente impalata, per poi precipitare a terra, a significarci la brutta fine che fa il piccolo di Marguerite. Altro taglio non da poco è la scena con Marguerite-Siébel e la romanza di quest'ultimo/a (Si le bonheur) per cui si passa direttamente in chiesa, dove arrivano due enormi croci nere, circondate e movimentate da prefiche, menagrami vari, rondoni e altri spiriti malignazzi, oltre al coro in borghese che canta il suo spurio dies-irae. Una scena davvero impressionante, nulla da dire.

Si torna in piazza, col famoso coro dei soldati e con Siébel che arriva zoppicando col suo immancabile cofano-pedana-sgabello, seguito dal reduce Valentin, ansioso di rivedere la sorellina. Invece arrivano Faust e Méphistophélès che, appeso alla sua asta (sorretta da un paio di prefiche) canta la sua oltraggiosa serenata, il che fa impazzire Valentin. Il successivo duello non esiste, in pratica: Valentin è sopraffatto da forze oscure e preponderanti, cade ferito e poi, come ogni eroe che si rispetti, prima di tirare definitivamente le cuoia ha ancora tempo ed energie per fare il suo pistolotto strappalacrime. Tutto come da copione.

Devastato – come prevedibile, altrimenti si finiva alle due di notte – il quinto atto. In pratica, salvo l'introduzione di Walpurgis e una piccola parte della scena del palazzo di Méphistophélès e della valle di Brocken, si passa direttamente alla prigione di Marguerite, dopo che la ragazza è apparsa a Faust in abito da sposa e in mezzo a bianchi gigli. Quindi niente Choeur des Feux Follets, niente Chant bachique. E - ci mancava pure ! – niente balletti. Faust e Méphistophélès arrivano alla prigione in carrozza chiusa, con asta sul tetto e l'immancabile seguito di marinaretto, prefiche e quant'altro.

La scenografia della prigione ribalta – intelligentemente – quella che aveva accompagnato il resto dell'opera (la doppia via di fuga, la Y, il bivio): qui abbiamo invece una V, un imbuto aperto sul proscenio e chiuso sul fondo: non ci sono e non ci devono essere alternative, né vie di fuga. Marguerite, invece del suo arcolaio, si è portata un tamburello per il punto-e-croce. Solo che – impazzita, poverina! – tiene il tamburello con due mani e manovra l'ago con i denti (grazie Nekrosius!)

Al termine del suo emozionante Anges purs, anges radieux! che sale dal SOL al LA e infine al SI, sul fondo comparirà una cosa bianca, a rappresentare evidentemente il paradiso – Christ est ressuscité, DO maggiore - concesso a Marguerite, che vi si adagia, mentre Méphistophélès cerca ancora di difendere il possesso della sua asta miracolosa.

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Come sono andate le cose sul fronte musicale?

Irina Lungu è stata per me una più che discreta Marguerite: bella voce, forse non potentissima, ma gradevole, senza urla né eccessivo vibrato. E perfettamente calata nella parte, di ragazza ingenua e fragile, facile preda e vittima di tutti i mali e pregiudizi della società. Per lei anche l'unico vero applauso a scena aperta.

A Nino Surguladze va almeno riconosciuto il merito di aver stoicamente sopportato le vessazioni del regista! Senza infamia né lode la sua prestazione, peraltro decapitata della romanza del quarto atto che è la parte forse più importante di questo ruolo.

Sylvie Brunet è stata una Marthe dignitosa, per ciò che la parte prevede. Così come dignitoso è stato Olivier Lallouette, che impersonava Wagner.

Il Valentin di Dalibor Jenis ha avuto luci ed ombre, gli darei una risicata sufficienza. Mi è piaciuto più nella scena della morte che nell'aria del secondo atto, dove mostrava carenze nelle note basse (il MIb di attacco).

Roberto Scandiuzzi mi è piuttosto piaciuto, dico la verità: un Méphistophélès abbastanza autorevole, voce che passa bene – pur se non sempre perfettamente intonata - e grande presenza scenica.

Marcello Giordani era Faust: si è beccato una contestazione, ma io tenderei a dargli una sufficienza chiara. La sua voce si è sempre sentita perfettamente, ha sparato i suoi due acuti in modo pulito, non ha commesso strafalcioni, e di questi tempi è già qualcosa.

Stéphane Denève ha diretto più che discretamente, mai soffocando le voci, neanche negli insiemi fracassoni e l'orchestra – grazie agli abiti casual? – è parsa a suo agio con le delicatezze e i languori di questo Gounod.

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Insomma, un Faust per nulla malvagio che sta – io non ho dubbi – ampiamente sopra la media del livello delle produzioni di questa stagione.

15 giugno, 2010

Arriva un nuovo Faust alla Scala

Dal 18 giugno (Bondi permettendo) sesta nuova produzione della stagione 2009-2010 (sulla quantità non si discute, caro Lissner… è la qualità che non convince fino in fondo) con il Faust di Gounod messo in scena dal lituano Eimuntas Nekrosius, che già si è cimentato in teatro di prosa con l'originale (prima parte) di Goethe.

Con Faust sono stati molti i musicisti – e non – che ci hanno provato. Da Spohr a Beethoven, da Schubert a Schumann, da Berlioz a Mendelssohn, da Liszt a Wagner e su su fino a Boito, Schnittke, Mahler e Busoni. Ovviamente nessuno ha preteso di racchiudere nelle sue opere l'intero e sterminato corpus faustiano, ma ciascuno ha preso qua e là degli spunti più o meno interessanti per costruirci la propria interpretazione.

Quanto a Gounod, apprendiamo dal Corriere che trattasi di un'operetta (smile!) Non si sa se il grande Charles, un tipo rotto a tutti i compromessi, sarebbe entusiasta della definizione per la sua creatura più importante ed anche - in virtù dei citati compromessi - più manomessa. (Goethe magari, dopo essersi rivoltato nella tomba per i crimini di Gounod, potrebbe concludere: ecco, ben ti sta…)

Nekrosius, nella sua versione teatrale, ha tagliato completamente tutta la parte di Walpurgis (che in Gounod occupa la prima scena del quinto ed ultimo atto): vedremo se convincerà anche il Kapellmeister Stéphane Denève a fare altrettanto (ne dubito, né lo auspico). Il quale Denève credo invece (visto che sulla locandina manca ogni riferimento a coreografi e danzatori) casserà i balletti che – sempre nel quinto atto – furono aggiunti da Gounod – nella seconda scena, il Palazzo di Méphistofélès - per far contenti gli abitué dell'Opéra (questa sì sarebbe davvero operetta, bella ed orecchiabile musica, per carità, come Léhar, ma insomma il walzer del secondo atto basta ed avanza per saldare questi tipi di debito).

Per il resto, cosa si sentirà e cosa verrà tagliato è sempre un terno al lotto anticiparlo - viste le abitudini dello stesso Autore - con opere come questa. Che nacque come comique (un Singspiel, per parlar tedesco) e poi si trasformò lentamente in Grand-opéra, con recitativi cantati e soppressione dei melologhi.

E basterà ricordare che l'aria forse più famosa ed orecchiabile di tutta l'opera ("Avant de quitter ces lieux", cantata da Valentin nel second'atto) fu aggiunta da Gounod 5 anni dopo la prima e solo per compiacere Sir Charles Santley, baritono britannico interprete del ruolo in una ripresa dell'opera in Albione, nel gennaio 1864. Come testimonia il manoscritto, con il testo in inglese ("Even bravest heart may swell") e l'ossequiosa dedica in calce (con tanto di errore nel nome del dedicatario, scritto Stanley, come il famoso nobile irlandese dei tempi, addirittura governatore del Canada):






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E poi, che l'ordine stesso di alcune scene fu cambiato in corsa dal compositore, vedasi l'atto IV, dove – conformemente a Goethe – nella versione originale arrivava prima la scena del ritorno di Valentin, con annesso duello con Faust, e poi quella del Duomo; sequenza invertita successivamente (non senza buone motivazioni drammatiche).

Di tutte queste cose, e di altre ancora, ha trattato ieri, al ridotto Toscanini, la conferenza di presentazione dell'Opera, condotta dal professor Emilio Sala, che è consueto autore della rubrica Opera in breve, pubblicata sul sito del Teatro e sul programma di …sala (smile!)

Sala si è – giustamente – soffermato su quelle che si possono definire le innovazioni introdotte da Gounod a livello drammatico e musicale, portando alcuni esempi assai appropriati.

Il primo riguarda l'incontro fra Faust e Marguerite, che non solo è del tutto al di fuori dagli stereotipi del melodramma tradizionale (aria-duetto) ma che si incastona, nello stesso tempo di 3/4, nel walzer che chiude il secondo atto, come andantino a velocità ridotta a un terzo; rappresentando il mondo privato ed intimo dei due personaggi, all'interno della generale kermesse del popolo in festa. E qui Sala fa due interessanti paralleli verdiani: il duetto Violetta-Alfredo, che pure si inserisce come momento di intimità all'interno del walzer della festa; e il SI acuto cantato da Faust (sul Je t'aime nel terzo atto) che è parente del SIb acuto di Radames (Celeste Aida), entrambi da eseguirsi piano, e non con il classico piglio stentoreo degli acuti tenorili.

Il secondo punta l'attenzione sulla scena del duomo (atto IV): dove è in corso una funzione religiosa, con tanto di organo e di canto corale (non proprio il dies irae previsto da Goethe, ma qualcosa di simile) mentre Marguerite prega da sola (vicino all'acquasantiera) e viene raggiunta da Méphistofélès e dagli spiriti del male, che cantano il suo nome sullo sbifido tritono (REb-SOL, il diabolus in musica). Anche qui è mirabilmente reso il contrasto fra sacro e diabolico (dove per la verità il sacro fa quasi più paura del diabolico alla povera Marguerite!)

Un ultimo interessante riferimento musicale: nella chiusa del terzo atto, dopo che Faust è stato letteralmente buttato da Méphistofélès fra le braccia di Marguerite, si ode un tema, in 9/8, FA maggiore, ma venato da due modulazioni in minore, quasi a sottolineare come l'amore di Marguerite si accompagni ad una colpa, o sia frutto di maleficio. Ecco, quel tema verrà ripreso nel finale dell'Opera, un tono intero sopra, SOL maggiore modulante poi al DO, depurato da ogni ombra, al momento dell'apoteosi della protagonista, ormai liberata da ogni sortilegio e redenta dalle sue colpe, con il coro pasquale che inneggia a Cristo resuscitato.

In sostanza: assieme a tante banalità, luoghi comuni del melodramma e delitti di lesa maestà nei confronti del sommo Goethe, il Faust di Gounod porta con sè anche qualità degne di ammirazione e tutto sommato mostra di meritarsi la posizione di rilievo che ha avuto ed ha tuttora nel mondo dell'opera.