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07 ottobre, 2020

Scala: un’Aida mai ascoltata prima

La seconda opera di questa stagione autunnale scaligera è un’Aida nuova di zecca. Beh, diciamo con qualcosa di nuovo, anzi... d’antico, ecco: l’inizio del terz’atto come originariamente composto da Verdi, scoperto un anno fa a Parma e che Chailly (il Direttore ormai passerà alla storia come il maniaco dei reperti archeologici...) non ha perso l’occasione di presentare in prima assoluta.

É un caso simile al famigerato Lacrymosa, composto per il Carlos e poi espunto e successivamente infilato nel Requiem: qui abbiamo la musica del coro dei Sacerdoti egizi, che Verdi considererà troppo cerebrale (à la Palestrina) per l’opera, e quindi più adatta al Te decet Hymnus dello stesso Requiem.

Lo scopritore Anselm Gerhard, descrivendo la sua scoperta, incorre però in un clamoroso autogol, sufficiente ad invalidare tutto il valore, non dell’oggetto della scoperta in sè, ma del suo reinserimento nell’opera, quando afferma testualmente:

Quel fastidioso ritardo [il rinvio di un anno della prima, ndr] ebbe addirittura un effetto vantaggioso. Costretto ad aspettare, Verdi nell’agosto 1871 decise di rielaborare l’inizio del terzo atto: aggiunse la celeberrima romanza strofica per Aida («O cieli azzurri... o dolci aure native»), per nulla prevista nella partitura originale. Allo stesso tempo, tagliò un monologo di Aida in stile recitativo e sostituì il coro dei sacerdoti («O tu che sei d’Osiride») con una nuova musica dai profumi esotici.

Quindi, a dar credito a Gerhard, ciò che ci è stato propinato sarebbe qualcosa di svantaggioso... (effetti del furore filologico?) Una cosa è certa: Verdi difficilmente prendeva abbagli, nè del resto si è mai pentito delle variazioni/aggiunte introdotte prima della prima. Nell’Introduzione cambiò l’atmosfera tonale, rimpiazzando il FA maggiore dello strumentale e del coro palestriniano (le note di quest’ultimo portate pari pari nel Requiem) con il SOL maggiore (MI minore) delle sedici battute caratterizzate dall’arpeggio dei violini sul motivo dei flauti seguite dal coro esotico. L’intervento di Ramfis-Amneris, che seguiva la tonalità del coro, venne a sua volta portato tutto in SOL. Ma la variazione più spettacolare fu l’introduzione della Romanza di Aida (O patria mia) prima dell’arrivo di Amonasro. E vi assicuro che passare repentinamente dal recitativo di Qui Radames verrà al Ciel! Mio padre! è una cosa davvero difficile da digerire!

Va bene che siamo in concerto e in... emergenza, ma insomma queste riproposte stanno davvero annoiando (nel senso dell’inglese annoying)! E andrebbero divulgate (come è lecito e persino doveroso) con altri mezzi che non in una recita comunque importante.
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Qualche progresso si è fatto nell’impiego del palcoscenico: tutta la piattaforma copri-buca è stata utilizzata, per collocarci i cantanti (proprio a due metri dalla prima fila di platea) il podio e due file di archi; il coro era sul fondo e a i lati, leggermente rialzato. Se n’è giovata l’acustica (e fin troppo riguardo le voci, che normalmente stanno almeno 10 metri più indietro). Niente semi-scena, ma semplici andi-rivieni dei cantanti, tutti in abito da cerimonia e rispettosissimi del distanziamento.

Trionfatrice della serata l’Anitona Rachvelishvili, il cui vocione ha trasformato Amneris in una... belva. Nel grande concertato del second’atto lei ha coperto tutte le altre voci e pure il coro e l’orchestra!

Meli e Hernandez su standard accettabili: lei ha confermato le sue qualità, voce robusta e sempre ben impostata, acuti penetranti e buon fraseggio; lui mi è parso un po’... fuori forma, esordio impacciato con Celeste Aida, poi meglio fino alla fine, con sfoggio delle sue ormai proverbiali mezze voci e di acuti sempre ben controllati.

Chi mi ha impressionato parecchio (lo ascoltavo per la prima volta) è il mongolo Amartuvshin Enkhbat, che ha disegnato un Amonasro assai efficace, voce piuttosto brunita e penetrante come si addice, secondo me, al personaggio.

Su standard accettabili i due bassi: il Re di Roberto Tagliavini e il Gran Sacerdote di Jongmin Park, ex-accademico scaligero che ha sostituito all’ultimo il titolare Dario Russo. Bene anche i due comprimari Francesco Pittari e Chiara Isotton.

Il Coro di Casoni, purtroppo penalizzato dalla forzata disposizione... periferica ha comunque risposto da par suo mostrando la proverbiale compattezza di suono.

Chailly ha diretto con il suo solito piglio: la disposizione di orchestra e coro ha come minimo garantito che le voci (davanti, in primissimo piano) non venissero mai coperte (!)
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Ecco, fra poco più di un mese potremo rivedere un’opera in scena: speriamo bene!

19 ottobre, 2015

Aida riesumata al… museo egizio

 

Il Regio torinese ha inaugurato la stagione 15-16 con Aida, di cui ieri pomeriggio (a teatro pieno come un uovo) è andata in scena la quinta delle ben 10 rappresentazioni in programma. Come recita la locandina, questo allestimento è idealmente apparentato con la riapertura, avvenuta a fine dello scorso marzo, del Museo Egizio.

Beh, a proposito di musei restaurati, lo è anche l’allestimento di William Friedkin (che conta ormai 10 anni di vita): perchè è proprio di quelli che gli amanti delle regìe intelligenti liquiderebbero con l’epiteto da museo. Quindi, per noi poveri pirla ma amanti dei musei, va a meraviglia! Perchè credo che pochi giudizi siano più azzeccati di questo, che il pluri-oscar-premiato regista americano dà in risposta ad una domanda di Guido Andruetto sul programma di sala, intervista riportata anche da Sistema Musica: “…diversamente da quanto avviene nel cinema, dove il ruolo del regista è sicuramente il più importante, in una produzione operistica la situazione cambia e, seguendo una scala gerarchica, viene prima il compositore, poi il direttore d’orchestra, il maestro del coro, il cast, e infine il regista, lo scenografo, il costumista, il coreografo, il direttore delle luci…” Imprimatur!

Sappiamo che Aida è opera bifronte, o bitematica, quanto a caratteristiche del soggetto: il quale ha un fondo squisitamente introspettivo (aperto e chiuso dal sommesso preludio e dall’accorata preghiera finale) rappresentato dalle pulsioni degli animi dei tre protagonisti, dilaniati da sentimenti opposti e inconciliabili. (Questa ideale congiunzione alfa-omega viene realizzata dal regista mostrandoci, ancora nel Preludio, i due protagonisti uniti, come saranno nella scena conclusiva.) Sul quale sfondo – principalmente nei primi due atti - si innestano e si stagliano, a mo’ di eruzioni vulcaniche, le retoriche manifestazioni politiche, i cori, le danze e le marce trionfali.

Ciò che purtroppo nessuna coppia regista-concertatore riesce a rendere compiutamente è la scena finale dell’atto II, che storicamente ha trasformato Aida in un gran circo equestre (o elefantino). La colpa è di Verdi-Ghislanzoni, ahiloro, che hanno preteso un po’ troppo dal pubblico: distinguere non una, e neanche due o tre, ma ben 7 (in lettere: sette!) diverse manifestazioni di stati d’animo che vi albergano. Cioè quelli delle tre componenti del coro medesimo: sacerdoti (preoccupazione per le sorti dell'Egitto); popolo (giubilo per la vittoria); prigionieri (rispetto per la magnanimità del nemico che ha restituito la libertà). Più quelle dei quattro protagonisti: di Amonasro che già medita la sua vendetta; e dei tre personaggi principali, ciascuno dei quali vive quel momento in modi del tutto diversi: Aida letteralmente disperata, Amneris al settimo cielo e Radamès che si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Qui per fortuna non ci sono quadrupedi, ma resta pur sempre il gran bailamme di voci e strumenti che ti lascia esclusivamente la sensazione del kolossal, e poco altro.
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Un paio d’anni fa Gianandrea Noseda aveva avuto una delle sue (poche) disavventure professionali (leggi: aperte contestazioni) proprio in un’Aida (zeffirelliana) alla Scala. Ero quindi assai curioso di riascoltarlo in quest’opera alla guida dei suoi ragazzi e la registrazione della prima, andata in onda sabato sera su Radio3 (a proposito, dal 24 c.m. e per sei mesi il video sarà disponibile in rete sulla nuova piattaforma europea) mi aveva un filino confortato. Ma bisogna sempre diffidare delle riproduzioni meccaniche, e infatti devo dire che l’ascolto dal vivo non ha definitivamente cancellato quella macchia: direzione e concertazione apprezzabili, sia ben chiaro, ma qualche eccesso di foga è emerso ancora, e non solo nel famigerato finale secondo, ma ad esempio sul culmine del duetto Amonasro-Aida, con le voci pur possenti dei due totalmente coperte dal clangore orchestrale.

Encomiabile la prestazione del coro di Claudio Fenoglio, in tutte le diverse componenti umane e psicologiche che è chiamato ad impersonare.

Reduce dell’Aida scaligera sopra menzionata è Kristin Lewis: non mi era dispiaciuta allora e confermo il giudizio; qui poi è stata accolta da un gran successo, che si merita se non altro per aver migliorato parecchio, in pochi mesi, la sua pronuncia della nostra lingua!

Con lei (altra reduce) Anita Rachvelishvili, della quale non si scopre oggi la dotazione naturale, ma fa piacere avere conferma della sua maturazione artistica, cioè la capacità di espressione delle varietà e sfumature di sentimenti che caratterizzano l’enigmatico personaggio di Amneris. Per lei, un trionfo meritato.

Radames è Marco Berti, non nuovo nella parte, che in passato mi aveva fatto una discreta impressione: personalmente tenderei a confermarla (certo, lui canta tutto forte e le sfumature di espressione gli sono estranee) però i buh insistiti che (unico del cast) ha dovuto incassare alla fine mi son parsi francamente troppo punitivi.  

Un ottimo voto lo darei a Giacomo Prestia, che ha il ruolo di Ramfis ai primi posti del suo curriculum, e direi che si è confermato con una prestazione encomiabile, davvero autorevole (lui è il Richelieu di tutta la vicenda) come il ruolo richiede! Il Re era l’orientale In-Sung Sim, che dovrà migliorare parecchio per raggiungere livelli accettabili. Chi mi ha sorprendentemente deluso è Mark Steven Doss, di cui avevo un ottimo ricordo in diversi ruoli e che invece mi è parso un Amonasro perennemente impiccato e a disagio… peccato. Dino Prola (Messaggero) e Kate Fruchtermann (sacerdotessa) su standard dignitosi.

Comunque sia è stato per me un pomeriggio più che soddisfacente!

22 febbraio, 2015

Scala: la miglior Aida del terzo millennio

 

Sì, lo so che qualche schizzinoso osserverà: bella forza, far meglio di Chailly, Barenboim, Wellber, Noseda… (poi parlerò anche di Zeffirelli). Intanto però è già qualcosa, con i tempi che corrono, e così godiamoci l’evento, come se lo è goduto ieri sera il pubblico della terza che ha decretato a questa Aida un successo chiaro, convinto e indiscutibile.

Di cui personalmente accrediterei la parte sostanziosa e sostanziale al vecchietto Zubin Mehta che – nel solco della sua tradizionale interpretazione anti-retorica e intimistica dell’opera (gliel’avevo sentita l’ultima volta 4 anni fa a casa sua) – ha ottenuto da orchestra, coro e cantanti un risultato di tutto rispetto: certo, non si parla di Everest, ma insomma, già il Resegone è molto, rispetto al… monte Stella (smile!) su cui ci si era accampati negli ultimi 10 anni, ecco.

E pensare che questa sera stessa Zubin è atteso al varco da un’altra prova di quelle da far tremare i polsi… (in radio da Napoli) ma si può star certi che farà un figurone.

Smarco per primo il Coro di Casoni che in questo repertorio non ha rivali; poi l’Orchestra che – quando è guidata da uno che ne sa – tira fuori gli attributi, per venire alle voci.

Anita Rachvelishvili svetta su tutti e tutte per potenza (e questo lo sapevamo da anni, è una sua dote naturale) e per sensibilità interpretativa (e questo non era per nulla scontato): la sua è una Amneris davvero vicina all’ottimo. Superfluo citare il trionfo con cui è stata accolta alla singola.

Ma una gradita sorpresa è stata anche la negretta yankee Kristin Lewis, a cui manca solo di sostituire con l’italiano la buona dose di grammelot che lei ancora canta, per diventare un’Aida di tutto rispetto.

Fabio Sartori è il bamboccione (stra-smile!) Radames e non se la cava neanche male (certo il SIb morendo non ci prova nemmeno a farlo…): la sua mi è parsa una prestazione meritevole di ampia sufficienza, essendo oltretutto arrivato benissimo in fondo, cosa che non è per niente facile per chiunque.

Amonasro è un convincente George Gagnidze, che si comporta da cantante e non da ubriacone come capita a volte di sentire: bella voce più di baritono che di basso, ma assai efficace e sempre intonato.

Carlo Colombara ha ben meritato nella parte non proprio facilissima del RE: voce benissimo impostata e sempre ben passante.

Che dire del 70enne Matti Salminen (Ramfis)? Che ancora ce la mette tutta (quella poca o tanta che gli resta) e merita perciò un incoraggiamento a… godersi la sacrosanta pensione!

I due accademici scaligeri Chiara Isotton (Sacerdotessa) e dovestazzazzà Azer Rza-Zada (Messaggero) han fatto degnamente il loro dovere.

Per tutti (e anche per i danzatori dei balletti) un successo ben meritato.
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E a proposito di balletti, vengo a… Zeffirelli. Che la Scala ha mandato in pensione per sostituirlo con un… mezzo-Zeffirelli, che risponde al nome di Peter Stein. Il quale ha rimosso le scene egizie per sostituirle con squallidi soppalchi e scale di legno grezzo; ha però rivestito tutti di costumi sontuosi (più o meno plausibili) e dotato qualche ancella addirittura di ventaglioni da far invidia al maestro fiorentino.

Ha poi messo sulla scena la Banda d’Affori, che suona a meraviglia, avendo ciascun bandista lo spartito davanti al naso, nelle apposite pinzette montate su trombe, tromboni e cimbasso (!)

Sempre restando ai balletti, per farsi ancor meglio notare, Stein ha pesantemente interferito anche sui contenuti musicali, e all’uopo riporto qui una sua chicca prelibata, pubblicata sul programma di sala (mica raccontata al bar al quinto bicchiere di schnaps): riguarda i balletti del second’atto, che lui ha disinvoltamente buttato nel cesso, con questa mirabile quanto dotta motivazione:

Questa scena fu aggiunta da Verdi come concessione alla tradizione del grand opéra francese, in vista di un possibile allestimento parigino.   

E per formulare una tal sesquipedale idiozia - sulla base della quale ha praticato un barbaro taglio ad un grande capolavoro, alla stregua delle mutilazioni inferte l’altro giorno dagli hooligan olandesi alla barcaccia del Bernini - costui viene anche pagato… da noi?

La gestualità di masse e singoli è lasciata all’inventiva di ciascuno, quindi è da vedere se il calcione rifilato dalla Anita alla Kristin è un’idea del regista o della truce georgiana (smile!)

Insomma, un bel passo avanti anche qui verso… l’esecuzione in forma di concerto, che – a mio modestissimo modo di vedere – è l’unica seria alternativa alla zeffirelliana fedeltà assoluta a libretto e partitura. (A proposito, fra pochi giorni ne avremo esempio tangibile a Santa Cecilia).

01 novembre, 2013

Noseda inciampa in Aida alla Scala

 

Ieri sera, in un Piermarini per nulla preso d’assalto, terza delle nove recite di questa ripresa dell’Aida  di Zeffirelli del 2006.

 

Sul podio il milanese Gianandrea Noseda, che dopo aver inaugurato la stagione 13-14 del suo Regio sta chiudendo quella 12-13 della Scala. Un testa-coda che ieri si è materializzato proprio come in pista: una salva di vergogna alla fine del second’atto, buh al rientro per il terzo e altri pesanti buh alla singola finale. Insomma, per lui un autentico calvario… Meritato? Mah, di certo il mio concittadino sestese non ha prodotto una delle sue prestazioni migliori: dopo un avvio promettente con gli archi del preludio, si è fatto prendere la mano da una specie di fregola, che lo ha portato a staccare quasi sempre tempi eccessivamente concitati e a produrre fracassi francamente insopportabili. E proprio la scena del trionfo ne è stata testimone, con le conseguenze descritte. Ma anche in seguito le cose non sono poi migliorate molto. Insomma, una serata storta, ecco.


La compagnia di canto è stata evidentemente riparata dal parafulmine Noseda, ricevendo complessivamente solo applausi: in realtà qualcuno avrebbe meritato le sue belle disapprovazioni. A cominciare da Nadia Krasteva, un’Amneris quasi inesistente: voce scarsa, spesso inudibile e male impostata. Poi Ambrogio Maestri, che ha sfoderato il suo vocione, ma usandolo più per vociferare che per cantare Amonasro (smile!)

In un’onesta sufficienza, ma nulla più, i due bassi Alexander Tsymbalyuk e Marco Spotti, che han fatto dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote.

Per fortuna note (abbastanza o molto) positive dai due protagonisti: Marco Berti conferma le sue grandi doti naturali e se riuscisse a sfoderare un filino di espressione in più potrebbe anche essere un Radames di altissimo livello. Grande l’Aida di Hui He, vera trionfatrice della serata, cui è difficile trovare pecche interpretative.  

I due comprimari erano altri asiatici (Jaeheui Kwon, messaggero e Sae Kyung Rim, sacerdotessa) che hanno assolto onestamente i rispettivi compiti.

Efficace il coro di Casoni e abbastanza in palla l’orchestra, che però Noseda ha guidato come detto più sopra, e come se sul palco non ci fosse nessuno da far ascoltare.

L’allestimento è ultra-conosciuto e poco c’era da scoprirvi: tutto sommato è proprio come uno si immagina l’Aida, coreografie (di Vladimir Vasiliev) incluse; anzi chi è stato all’Arena forse si aspetterebbe qualche… bestia in più (smile!)  

22 febbraio, 2012

L’Aida alla Scala: continua il calvario


Ieri sera terza rappresentazione di Aida in un Piermarini abbastanza gremito e che, fino alla fine, era parso come il proverbiale MET, dove si applaude sempre (quasi) tutto e tutti. Poi è ri-scoppiato il putiferio già udito per radio alla prima.

Dopo la quale, la critica (ufficiale e ufficiosa) non si era stranamente divisa sul giudizio sui cantanti – tutti da protestare con richiesta di risarcimento, pareva – ma su chi dava tutte le colpe del disastro al povero ebreo errante Wellber e chi lo difendeva a spada tratta, puntando minacciosamente i missili della IDF contro quelle terribili armi di distruzione di messa (in scena) costituite dai buu del loggione, ma soprattutto da cerbottane e archibugi che alcuni cecchini annidatisi in buca avrebbero impiegato per colpire a tradimento l'impavido Kapellmeister

Cito letteralmente due (autorevoli?) giudizi – apparsi dopo la prima - sul Maestro e chiedo (e mi chiedo): in che mondo viviamo? 

Scriveva tale Carla Moreni sul Sole24Ore: Wellber in questa Aida della Scala rappresentava l'unico in locandina veramente da applaudire: per il dominio tecnico nel rapporto buca-palcoscenico, per la quantità di idee musicali in orchestra, per la tensione teatrale complessiva. Gli si poteva rimproverare di non aver forgiato in maniera unitaria i cantanti, che andavano ognuno per la sua strada e con una propria lingua, ma non certo di non saperli accompagnare, con duttilità e sicurezza, senza mai errori. A suo agio con il lessico dell'ultimo Verdi, diabolico nel passaggio repentino dalla massa debordante al dettaglio minuto. Il terzo atto, restituito nella sonorità notturna, increspato nelle tinte laminate degli archi, drammatico nello sbalzo degli accenti spostati, trapuntato di mille finezze, era un autentico pezzo di bravura, reinventato col viso aperto dei trentenni.

Lo stesso direttore, nella stessa serata, era così giudicato dal barcacciaro Stinchelli: Insalvabile, per quanto riguarda la concertazione, Omer M.Wellber: una direzione pessima, trasandata, moscia, demotivata. (…) A fronte di un simile s-concertatore, che definire "incapace" è forse un delicato eufemismo, la barca non poteva che affondare.

Insomma, anche i paludati si sono lasciati andare ad epinici ed epicedi tipici da tifoseria, e quindi costituzionalmente poveri di realismo e sobrietà. Perché Wellber – parliamoci chiaro – non è di certo (ancora quantomeno…) il Toscanini risorto, ma nemmeno è uno salito sul podio ieri mattina per la prima volta.

Poi c'è la critica ruspante, che ben si configura come i classici ultras-folgore vs commandos-tigre. Questi alcuni tipici commenti:

Wellber non sa tenere insieme l'orchestra, tuonano gli ultras-in-kefiah. Sta lì solo perché raccomandato da Barenboim e dai banchieri ebrei!

Manco per niente - replicano le tigri - basta vedere come ha tenuto insieme le orchestre di Valencia e di Bassano del Grappa! Sono i Trepper che fanno schifo!

Ma allora – urlano i folgorini – com'è che gli schifosi Trepper quando arriva tale Harding si trasformano nella bella copia dei Berliner?

Perché sono invidiosi di chi fa carriera in fretta, soprattutto se ebreo, inveiscono i commandos

Beh, direi che il paragone calcistico (compreso qualche tipico flavour razzista) torni proprio a pennello, poiché orchestra e direttore sono esattamente – dal punto di vista dello sviluppo dei rapporti interni ai gruppi organizzati - come la squadra e l'allenatore. Da che mondo è mondo esistono allenatori che fanno sfracelli con la squadra A, mostrando di saperla tenere in pugno con assoluta sicurezza… per poi cadere miserevolmente quando chiamati ad allenare la squadra B, che magari sulla carta sembra migliore della A. Tale Marcello Lippi vinse n trofei con la Juve ma poi – passato all'Inter - dovette dileguarsi col favore delle tenebre per sfuggire ad un linciaggio. Ed è la stessa persona che ha poi vinto un mondiale, mostrando di saper tenere insieme una squadra-di-prime-donne-isteriche, per perderne schifosamente un altro dove si era portato dietro solo i più scodinzolanti yes-men del momento… E nel business, quante volte capita che un CEO porti alle stelle la Corporate-X e poi, assoldato a peso d'oro dalla Corporate-Y, la porti invece sull'orlo della bancarotta? 

È vero che nel calcio (come in quasi tutti gli sport) i risultati sono determinati in modo abbastanza oggettivo, e cioè dai gol fatti e subiti (oltre che anche dal culo, dalla sfiga, dai pali, dai gol-in-fuori-gioco e dall'arbitro-venduto) mentre all'opera si vince o si perde a seconda di come è composto il pubblico giudicante (5% del totale, a dir tanto) e di quanto fiato ha da spendere… però, insomma, il clima che si crea fra squadra e allenatore un minimo di importanza ce l'ha. Ergo, se fosse vero, come si dovrebbe purtroppo dedurre da ciò che si è letto su giornali e web, che fra la squadra dei Trepper e l'allenatore Omer non corre buon sangue, la regola vorrebbe che fosse quest'ultimo a togliere il disturbo, non foss'altro perchè è uno solo da sostituire invece di 18-20 (nel calcio… qui, addirittura, invece di 80-100!) E quindi il presidente del club meneghino (nella fattispecie tale Stefano Lisseneri) non dovrebbe far altro che convincere il suo facpocum-scaligero a rimandare il pupillo Wellber ad allenare il Valencia e il Chievo. In attesa che, chissà – proprio come sta accadendo al mitico Harding, inizialmente vituperato e irriso – fra qualche anno anche Omer possa tornare alla Scala da profeta… 

Ma siamo poi sicuri che il problema stia lì? Torniamo a ieri sera. Intanto, di cerbottane e archibugi in buca non si è vista l'ombra. Poi, durante la recita solo applausi (scarsi, ma chiari); anche per il maestro ai rientri. Poi, chiusa la pesante lapide sui due poveri disgraziati Aida-Radames, ecco ciò che non ti aspetti: uscita collettiva dei cantanti (manca il povero dulcamara Maestri, morto nel frattempo, che si è visto negare la singola alla fine del terz'atto per mancanza di… stimoli) e applausi convinti. Uscita collettiva di cantanti, più Wellber e Casoni e – fra convinti applausi – un coro di buu e di vergogna! in particolare dal secondo loggione! Ohibò, a chi diretti? Dovremmo capirlo alle successive uscite singole: per tutti i cantanti chiari e forti applausi; poi esce Wellber e si prende, fra gli applausi, solo qualche buu rachitico… L'unico a non uscire da solo è Casoni: ergo, si dovrebbe dedurre che i vergogna! erano tutti e solo per lui (e per il coro)? Mi parrebbe francamente assurdo, quindi… che dire dell'arbitro
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Adesso però, anche se so benissimo che non frega nulla a nessuno, devo esprimere – per dignità verso me stesso - la mia impressione su questa recita. In assoluto la giudicherei discreta: nel cast dei cantanti, nel coro e anche nell'orchestra e nel direttore. Che vuol dire in assoluto? Che non ho rilevato errori marchiani, stonature clamorose, abissali scollamenti fra buca e palco, né attacchi fuori tempo. Ma basta questo, alla Scala? Ecco, non me ne vogliano i bocia, ma questo risultato (forse) basta dalle parti di Bassano del Grappa. La Scala deve dare di più, non foss'altro perché chiede di più, molto di più, e a tutti: pubblico, istituzioni e sponsor.
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PS-1: a rincarare la dose è arrivato anche il papà (anzi, il… bisnonno) di questo allestimento, giudicato irriconoscibile! Ma Zeffirelli non se l'è presa col povero Marco Gandini (colpevole di… qualche bacetto di troppo fra Radames e Amneris) bensì con il cast e la produzione musicale in genere, che avrebbero rovinato la reputazione della sua mirabile creatura (!)
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PS-2: da abbonato alla stagione d'opera ricevo ieri una lettera - su carta e in busta rigorosamente giallo-Scala - che mi avverte con profonde scuse del default di Semyon Bychkov per la prossima FroSch… ecco, questo sì che è Customer-Relationship-Management! (Invece, sulla mini-locandina cartacea, è scritto che quella di ieri sera era la quarta rappresentazione: forse la terza l'han fatta sul ponte di Bassano?)

 

09 maggio, 2011

L’Aida cinese del Maggio

 


Quarta rappresentazione, ieri pomeriggio al Comunale di Firenze, dell'Aida, che il 28 scorso aveva inaugurato la stagione estiva del Maggio.

Già diffusa in audio (alla prima) e in video (alla seconda) è stata accolta da reazioni mixed, come si usa dire: fra entusiastiche (campanilistiche?) ovazioni in loco e tiepidi, quando non freddi, commenti altrove.

Come giustamente ammonisce Amfortas, "Aida è… un lavoro intimista e lirico, poetico, che contempla anche un'esteriorità spettacolare che però non deve mai essere fine a se stessa." Il difficile è, naturalmente, trovare la quadra (ma qui credo che Bossi – visto lo scempio che fa abitualmente del và, pensiero - non ci possa proprio aiutare, smile!) Insomma, come riuscire a far emergere i sentimenti e i drammi personali dei protagonisti senza contemporaneamente castrare quelle qualità spettacolari che sono a loro volta profuse a piene mani nel libretto e soprattutto nella musica?

Personalmente sono convinto che poche opere richiedano, come Aida, un'assoluta intesa – prima di tutto programmatica, e poi esecutiva, naturalmente – fra regista, direttore e cantanti. E già fin dalla prima scena, perché lì vengono presentate sia la mortale triangolazione affettiva Radamès-Aida-Amneris, che le due insopportabili contraddizioni che dilaniano le menti e i cuori dei due protagonisti. A cominciare da Radamès, la cui romanza d'esordio non è una pura e semplice dichiarazione d'amore (donna non vidi mai… con tutto il rispetto per Puccini) per Aida, ma descrive la tremenda dissociazione – ancora inconsapevole - dell'animo dell'uomo che per acquisire meriti presso l'amata è portato a desiderare imprese guerresche che all'amata recheranno soltanto lutti e dolore. E non per nulla i cieli e le brezze che Radamès – o forse il suo subconscio - si ripromette di procurare ad Aida stanno lassù, vicino al sol (cantato morendo, almeno secondo Verdi) e non certo su questa terra. E Aida è a sua volta dilaniata da opposti sentimenti: l'amore per lo straniero e l'ancestrale richiamo del sangue e della patria. Insomma, il dramma che si profilerà alla fine del secondo atto e si materializzerà nel terzo e quarto è già tutto presente qui, in questo esordio apparentemente tradizionale e routinario. In questa Aida le cose per la verità non cominciano troppo bene, con Berti che sale sicuro e potente al SIb del sol, ma lo chiude in modo stentoreo e forte, senza la più piccola espressione. Meglio di lui fanno la He e la D'Intino, meno male.

Il finale secondo poi è la quintessenza del dualismo fra spettacolarità e dramma dei sentimenti: perché il fracasso e l'apparente tripudio del concertato generale nascondono invece mille stati d'animo. Precisamente sette: intanto quelli dei tre cori (sacerdoti con Ramfis, popolo col Re, prigionieri e schiavi) che manifestano sentimenti diversi: preoccupazione per le sorti dell'Egitto, giubilo per la vittoria, e rispetto per la magnanimità del nemico che ha restituito la libertà. E poi quelli dei quattro protagonisti, a partire da Amonasro che già medita la sua vendetta; e dei tre personaggi principali, ciascuno dei quali vive quel momento in modi del tutto diversi: Aida letteralmente disperata, Amneris al settimo cielo e Radamès che si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Qui non abbiamo un Rossini buffo, dove il concertato è tipicamente un puro quanto mirabile esercizio vocale… e certo non è semplice per nessuno – regista, direttore, interpreti - far emergere in modo efficace tutte queste specificità, ma il peggio che si possa fare – e troppo spesso si fa - è presentare un'ammucchiata di gente indistinta e un minestrone di voci che si confondono in un gigantesco quanto incomprensibile grammelot (lascio immaginare cosa si può capire da ciò che mostrano ad un ascoltatore poco preparato le due righe del display!) In questa Aida per lo meno vediamo i tre cori (col Re e Ramfis) chiaramente distinguibili dai costumi che indossano e dalla posizione separata in scena, anche se poi son tutti lì impalati e cantano privi di espressione, o meglio, con la stessa espressione; quanto ai quattro protagonisti, la faccia di Amneris sembra ancor più da funerale di quella di Aida! Insomma, qui qualcosa di meglio magari si poteva pretendere (ecco, questa mi parrebbe una efficace soluzione, MIb acuto compreso, smile!)

A proposito di regìa e allestimento, l'impostazione del tutto tradizionale di Ozpetek potrà anche sembrare poco stimolante, ma personalmente certi stimoli – tipo ambientazione in un collegio, con Aida nel ruolo di sguattera – li regalo volentieri agli amanti delle novità. La scenografia di Ferretti è – a confronto di Zeffirelli – assai sobria e però sufficientemente appropriata; ben dosate, in tutte le scene, le luci di Calvesi (che nel finale ha la meticolosità di presentarci il sole che tramonta lentamente); più o meno appropriati i costumi di Lai e abbastanza convenzionali (quindi probabilmente ridicole agli occhi degli scafati) le coreografie di Ventriglia.

Il fronte musicale ha visto – nel gran trionfo generale di un Comunale stipato all'inverosimile – l'indiscussa preminenza dell'Aida di Hui He, voce penetrante, dal timbro scuro, ma caldo e capace di emozionanti acuti in pianissimo. Cosa ignota, quest'ultima, a Marco Berti, che pure mi è parso un Radamès più in palla del suo recente Calaf scaligero. Luciana D'Intino pare ormai dare tutto – e bene – sugli acuti, mentre la sua Amneris poco si fa udire dal centro in giù. Ambrogio Maestri ha sfoderato il suo vocione, ma la cattiveria di Amonasro dovrebbe – credo io, almeno - manifestarsi con mezzi diversi dallo schiamazzo; e poi, accidenti, più cerca di incarognire la sua espressione del viso, e più ti aspetti che se ne esca con un Udite, udite, o rustici (…smile!) Tagliavini e Prestia han fatto più che dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote, con qualche problema a non farsi coprire nelle scene dove cantano assieme al pregevole coro di Piero Monti. Saverio Fiore e Caterina Di Tonno hanno degnamente completato il cast. Quanto a Zubin Mehta, ha diretto con la sicurezza e l'aplomb di un santone indiano (smile!): approccio prevalentemente intimistico – ergo appropriato – salvo le canoniche effusioni del trionfo e gli schianti sulle sguaiate imprecazioni di Maestri… Per lui pare ormai aperta la via della beatificazione in Santa Croce.

Insomma, un piacevole pomeriggio in una Firenze tutta imbandierata di blu europeo.


26 giugno, 2009

L’Aida di Barenboim: “vorrei, non posso”?

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Aida è spettacolo? è grand-opéra? è sfarzo? è potere? è orgoglio? è desiderio? è dramma? è tragedia? è rassegnazione? Non è nessuna di queste singole cose, ma è tutte queste cose insieme. E non disposte in ordine sparso, o in più o meno sensate giustapposizioni, ma in un disegno armonioso e coerente, che descrive una parabola - quella dei sentimenti e della vita dei tre principali personaggi (Aida, Amneris, Radames) nello scenario politico-religioso che li travolge - che tutto meravigliosamente contiene.

Se regista, maestro e cantanti dimenticano, o sottovalutano, o mettono impropriamente in primo piano solo alcuni degli ingredienti, Aida riesce a metà, accontentando ora gli amanti dello sfarzo e del chiasso, ora chi privilegia psicologia, intimismo e dramma.

Come è stata (al mio occhio-orecchio, o cuore-testa) l’Aida di Zeffirelli-Barenboim-cast alla sua terza di ieri sera al Piermarini?

Convincente, non direi proprio. Vero è che questa Aida nacque tre anni fa dal lavoro di una squadra di cui oggi è rimasto solo il regista (peraltro neanche operativo sul cantiere) e che quindi ci sono attenuanti in abbondanza... però siamo alla Scala, dove un retropalco si paga 80€.

I primi due atti - sappiamo - sono infarciti di retorica, enfasi e pompa, ma mai fine a se stesse: Verdi si superò davvero nel non perdere mai il filo del dramma, pur nelle baraonde più colossali. Ecco, Zeffirelli e Barenboim (ma hanno fatto almeno una prova insieme?) mi pare non abbiano assecondato al meglio il disegno verdiano, mancando un sapiente dosaggio dei movimenti dei personaggi e delle sfumature orchestrali: troppo spesso lo sfarzo esteriore e il fracasso musicale si impongono totalmente, finendo per travolgere le pulsioni degli animi dei protagonisti (e soprattutto le loro voci, per di più non strepitose). Un esempio per tutti, il finale Atto II, con Amneris, Aida e Radames che cantano - in contrappunto con gli altri solisti e per di più con il coro e con l’orchestra in forte - tre linee poetiche di contenuto antipodico (Amneris trionfante, Aida disperata, Radames interdetto): un passaggio di difficilissima resa, di cui si perde totalmente la drammaticità se il regista colloca le due rivali e l’uomo di cui sono invaghite a distanze di metri e metri, tutti piuttosto “annegati” fra le comparse, e per di più non li fa minimamente “recitare”; e se il maestro tiene il volume ad un’altezza tale da rendere incomprensibili le diverse linee di canto, compresa quella di Aida, pur dislocata sul proscenio.

Il terzo e quarto atto, che delineano per tutti la parabola discendente, che porta alla fine, alla morte, alla rassegnazione, pur dignitosi in generale (con una punta di merito per O patria mia) non mi paiono tuttavia essere stati percorsi col pathos e con quella sorta di pietà che dalla musica verdiana dovrebbe uscire, anche se qui la regia e le scene sono di una potenza davvero enorme. Certe uscite sferzanti di ottoni e percussioni, a coprire le voci, mi son parse francamente fuori posto.

Insomma, non la definirei proprio un’edizione paradigmatica del capolavoro verdiano, anche per il livello musicalmente non eccelso degli interpreti, che hanno peraltro fatto il massimo che è nelle loro possibilità.

Fraccaro ha una vocina che “non passa”, e il suo esordio ha avuto dell’imbarazzante, travisando totalmente il “morendo” della chiusa di celeste Aida: con un facile gioco di parole si potrebbe dire che vicino al sol lui ci potrebbe arrivare come si deve - cioè come vuole Verdi - se il sol, appunto, fosse sul sòl, e non tre semitoni sopra... (Alagna per molto meno fu triturato nel 2006.)

La Feubel ha una bella voce in alto, adatta al ruolo drammatico, ma in basso non convince (visto che non si sente proprio) al pari della Smirnova, che tende a urlare gli alti e sussurrare i bassi, e che tuttavia non mi sentirei di censurare totalmente. Gli uomini discreti, Pons in testa, ma credo che Barenboim abbia qualcosa sulla coscienza se Cigni e Giuseppini (al pari dello stesso Fraccaro) spesso e volentieri si “vedevano” (non “sentivano”) cantare.

Barenboim, appunto. Dirigere Aida con la partitura sul leggìo, per carità, non è un disonore, ma vorrà pur dir qualcosa, trattandosi di uno che tiene a memoria i colossali tomi wagneriani!

Per il resto, nessun applauso a scena aperta (tranne per il corpo di ballo...) ma anche nessun accenno di disapprovazione; alla fine, un’ovazioncina per Barenboim, un paio di uscite di maestri e protagonisti, poi tutti a scappare... sotto il diluvio scatenatosi su Milano (del quale non daremo però la responsabilità alla recita).
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18 giugno, 2009

Torna Aida di Zeffirelli, ma con Barenboim (upd. 22/6)


Comincio, proprio per rompere il ghiaccio, con una perlina: scopriamo oggi che l’Aida di Zeffirelli del 2006-07 era diretta da Muti, che fa di nome Riccardo, effettivamente, ma che ai tempi era già defenestrato da due anni. Pazienza.

Nel 2009 subentra, ad un italiano germanizzato, un argentino-israeliano più germanizzato ancora: Daniel Barenboim, recordman di direzioni a Bayreuth ed attuale re di Berlino (ex-est) dopo avervi - figurativamente - estromesso Thielemann (peraltro subentratogli chez-Wagner).

Nel 2006 si parlava solo di Zeffirelli; oggi proprio di nessuno, forse perchè non siamo a SantAmbrogio, bensì in estate e per di più tutti intenti ad una difficile programmazione vacanziera: come far quadrare la crisi con le Maldive. Certo dal prossimo autunno il Daniel che si vuol fare anche la Carmen sarà al centro delle polemiche, non solo musicali.

Tornando a bomba, e dato che prima del 20 giugno si può solo parlare di ciò che già fu visto, dico subito che tendo a stare con Zeffirelli. Magari poteva risparmiare impiegando oro finto e non a 24K, però, vivaddio, leggiamo tutti sul libretto che l’opera si apre con a destra e a sinistra, un colonnato con statue e arbusti in fiore. Grande porta nel fondo, da cui appariscono i templi, i palazzi di Menfi e le Piramidi. E poi vediamo tripodi d’oro da cui si innalza il fumo degli incensi. La Scena II del secondo atto è ingombra di popolo. Poi le truppe egizie, precedute dalle fanfare, sfilano dinanzi al Re. Seguono i carri di guerra, le insegne, i vasi sacri, le statue degli Dei. Un drappello di danzatrici che recano i tesori dei vinti. Da ultimo Radamès, sotto un baldacchino portato da dodici uffiziali. Insomma, nei primi due atti ci sono anche ingredienti da Grand Opéra e delle due l’una: o diciamo chiaramente che Verdi fu stupido o succube di forze maligne, oppure bisognerà pur accettare il fatto che lui musicò - stupendamente - anche scene apparentemente pacchiane, esagerate e retoriche. Viceversa, se vogliamo de-pacchianizzare ed attualizzare tali scene (e qualcuno ci ha già pensato) allora dovremmo anche rivedere musica e orchestrazione... cioè fare un’altra Aida.

La dotazione internet per le 6 recite era andata esaurita in pochi minuti, lo scorso aprile: avendo mancato l’appuntamento allora, avevo ormai disperato, quando un piccolo - ma fondamentale - 1 è comparso miracolosamente proprio stamattina e ciò mi consentirà di non perdere un evento che considero interessante.

Vedremo poi all’atto pratico... (intanto di Egitto si parla già in tutti i bar-sport e cortei di auto strombazzanti dei discendenti di Radames attraversano la nostra periferia).

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Update del 22/06

Come d’abitudine, la prima ha avuto le sue belle contestazioni! (Sono curioso di assistere alla terza, perchè - more solito - potrebbe confermare la regola che ultimamente imperversa al Piermarini).

L’AGI (quella che ci ricordava - vedi sopra - che l’Aida zeffirelliana del 2006 era diretta da Muti) ci fa sapere dei buu al Maestro e alla Smirnova, mentre ci notifica il salvataggio degli altri interpreti.

Francamente imbarazzante il commento di Perrino, che ha visto (?!) Amneris interpretata dalla Siri, ma che concorda con Mattioli (Stampa) e Girardi (Corriere) sulla promozione per il buato Daniel. Il quale, l’abitudine (e il coraggio) di sfidare i buanti ce l’ha da mo’ (ultimamente lo dimostrò proprio in Scala dopo un disastroso Imperatore).
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14 marzo, 2008

Zeffirelli è stantìo... meglio le torte di mele!

Nel giustificare anche le messeinscena più bizzarre (per non dire offensive) ci si appoggia normalmente sul concetto secondo cui “il gusto del pubblico cambia con il tempo” e quindi sul giudizio secondo cui un’ambientazione - accettabile 150 o 100 anni fa - oggi apparirebbe ridicola e farebbe totalmente scadere anche il valore poetico-musicale dell’opera.

Premesso che, nell’opera della tradizione “italiana”, libretto e ambientazione sono spesso nulla più di necessari, talvolta fastidiosamente tollerati, eccipienti nei quali mescolare il vero e unico ingrediente che conta (la Musica) si potrebbe anche immaginare che gli autori di tali opere - senza offesa per alcuno - forse sarebbero contenti che la loro musica fosse comunque rappresentata, con qualsivoglia regia e ambientazione, visto che le parole e la messa-in-scena non sono farina del loro sacco, e magari non sono mai piaciute a loro per primi...

Però, che ciò comporti anche di rappresentare l’Aida in un moderna fiera, dove nei festeggiamenti del trionfo si vedono ragazzini costretti ad affondare la testa in crostate alla frutta, dovremmo lasciar dire a tale Giuseppe Verdi da Roncole di Busseto, se sia auspicabile, tollerabile, o da perseguire per legge...