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06 febbraio, 2025

La prima giornata del Ring di McVicar alla Scala.

La marcia di avvicinamento al ciclo completo del Ring, affidato (per l’allestimento) a David McVicar, è iniziata lo scorso ottobre con la vigilia (Das Rheingold) e prosegue ora con la prima giornata (Die Walküre).

[Poi riprenderà con Siegfried (giugno) e Götterdämmerung (febbraio 2026) per approdare alla meta (due cicli completi nelle due prime settimane) a marzo 2026, con qualche mese di anticipo sulla (storica?) ricorrenza dei 150 anni dall’apertura del baraccone Festspielhaus di Bayreuth.]

Tutta (o quasi…) la produzione di Wagner è (o pretende di essere, nella immodesta concezione dell’Autore) portatrice di concetti estetici, ma anche etici, filosofici, politici e, soprattutto, psicologici. Ecco: Die Walküre è forse la punta di diamante di questa impostazione di fondo. E ciò spiega l’ingombrante presenza al suo interno di lunghi sproloqui infarciti di sofismi, di questioni a sfondo esistenziale o politico; di domande che tirano in ballo di volta in volta il libero arbitrio dell’Uomo, o i vincoli imposti dalle leggi allo stesso legislatore, e le contraddizioni in cui cade persino il potere costituito, macchiatosi di peccati originali che finiscono per minarne le fondamenta, con esiti addirittura autodistruttivi. E poi tirano in ballo questioni legate ai rapporti familiari: in particolare a quelli fra marito e moglie e fra padre e figlia. E all’evoluzione psicologica che ne deriva su tutti i principali personaggi della storia.

Purtroppo, il prezzo che lo spettatore deve pagare per apprezzare fino in fondo l’essenza di questi drammi (scongiurando rischi di reazioni di rigetto a fronte di un approccio passivo al loro fruimento) è lo sforzo necessario a sviscerarne, o almeno ad individuarne, il sostrato concettuale. La differenza fra i testi di questi, e in particolare di questo dramma wagneriano, e quelli di quasi tutti i libretti d’opera, anche i più raffinati, è che qui non basta leggerli e comprenderli, ma è necessario farci una preventiva esegesi approfondita (facendosi magari aiutare da che già l’ha compiuta…) e spesso collegandone i contenuti ad altri che sono venuti originariamente alla luce (anche musicalmente, tramite i cosiddetti Leit-Motive) addirittura in drammi precedenti!

In ciò sta, a seconda dell’approccio dello spettatore, la grandezza di queste opere o il loro limite più pesante: essere caratterizzate (per parafrasare una simpatica battuta di Rossini) da qualche sporadico momento di musica accattivante annegato in esasperanti mezz’ore di menata-di-torrone!

Capisaldi del dramma sono le parallele evoluzioni di Wotan e Brünnhilde: il primo passa dall’orgogliosa sicurezza (sul suo piano di consolidamento del potere) alla tragica realizzazione del suo fallimento. A beneficio di qualche regista, è curioso scoprire, in riferimento alla nostra attualità, come l’IA, tramite la sua ricerca profonda, risponda (in 56 secondi) alla domanda: Trump è come Wotan? Quanto alla figlia prediletta del dio supremo, assistiamo al suo passaggio dallo stato divino a quello umano, indotto proprio dall’incontro con i due umani che si ribellano al padre divino, provocandone la disfatta in forza dell’amore.

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David McVicar ha perseverato nel suo approccio, già palesatosi in Rheingold, di mantenersi su una posizione equidistante fra una frusta tradizione e una spinta modernità, sperando con ciò di accontentare tutti. Il risultato è stato quasi fallimentare, vista l’accoglienza ostile che ha accompagnato lui e il suo team all’uscita finale.

Scene quasi spoglie, con pochi oggetti simbolici: il frassino con la spada ivi conficcata; ambiente inospitale per i drammatici eventi del second’atto; un’enorme testa supina (di Wotan?) che alla fine si apre per mostrare una delle tre grandi mani già comparse all’inizio del Rheingold, sulla quale Wotan adagia la Valchiria addormentata.

Per il resto, qualche discutibile trovata: l’intera masnada di Hunding che irrompe nella di lui stamberga; i corvi di Wotan che svolazzano all’inizio del second’atto; gli arieti di Fricka, impersonati da due figuranti che trascinano faticosamente (in discesa!) la dea; Grane impersonato da un figurante che si muove a balzelloni su protesi agli arti inferiori (simili a quelle degli atleti paralimpici) così come gli otto cavalli delle Valchirie (un gruppo LGBTQ+, tutti maschi!); Hunding che dà un secondo colpo di grazia a un Siegmund che insiste a non morire sul primo colpo. Più plausibile il Wotan che, al momento di uscire di scena, si veste da Viandante, come lo vedremo… a giugno.

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Simone Young forse pensa di trovarsi ancora giù nell’Orchestergraben di Bayreuth, da dove i suoni faticano ad emergere fino alla sala: così tiene un volume mediamente più alto del dovuto, il che provoca qualche problema ai dettagli, e soprattutto rischia la copertura delle voci. Per lei, comunque, un’accoglienza tutto sommato positiva.

Come quella per l’intero cast delle voci. A partire dal navigato Michael Volle, che ci ha riproposto un solido Wotan, voce e presenza scenica autorevoli, grande efficacia nel proporci tutte le diverse, e opposte, sfaccettature della personalità del dio: una perla il suo Leb’wohl.  

Franco successo per Camilla Nylund, una convincente Brünnhilde, capace di emozionarci nella sua umanissima scoperta del valore e della vera natura dell’amore umano; e nel suo dignitoso porsi nei confronti del padre.  

Elza van den Heever è una solida Sieglinde, commovente nei suoi slanci amorosi, come nel senso di colpa e, infine, grande nel momento culminante di quell’O hehrstes Wunder, le cui note ritroveremo solo alla fine di Götterdämmerung!

Siegmund è Klaus Florian Vogt, non proprio un Heldentenor (anche se ormai si cimenta anche in Siegfried…) ma che come Siegmund non sfigura proprio, restituendoci, con la sua voce di tenore lirico, il personaggio del giovane che il padre costringe ad una vita assai grama, per poi addirittura condannarlo a morte!   

Okka von der Damerau  è una solida Fricka, cui il regista forse toglie un poco della moglie petulante e noiosa, mostrandocela come una gattina morta che vuol convincere il marito con qualche moina. Il suo momento più forte (Deiner ev’gen Gattin heilige Hehre) mi è parso poco efficace (la Young forse ha qualche colpa…)

Lo Hunding di Günther Groissböck ha ben meritato, forse gli è mancata un poco più di… cattiveria musicale (in quella scenica invece il regista ha persino esagerato).

Le otto Valchirie, che tengono banco con il loro parapiglia nella prima scena dell’atto finale, hanno svolto più che bene il loro non facile compito.

Che dire, in conclusione? Nulla di storico, ma uno spettacolo che merita ampia sufficienza, che il pubblico (non proprio da tutto-esaurito…) ha accolto (regista a parte) con unanimi ma contenuti consensi. Resta da chiedersi se la Scala possa fare di più.

 

30 maggio, 2019

Il trionfo di Korngold alla Scala


Rieccomi qua, dopo sanitaria sosta, a commentare questa strepitosa Die tote Stadt, finalmente (è bastato aspettare un secolo, ecché ‘ssarà mai...) comparsa sulle tavole del Piermarini.

Note tecnico/musicali: a) contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro fino a poche ore dall’inizio della prima, l’opera è stata presentata nella sua struttura originaria, quindi con entrambi gli intervalli fra i tre quadri; b) sempre contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro, il ruolo (secondario?) di Brigitta passa da una brasilera (Kismara Pessatti) ad una rumena (Cristina Damian).

Già detto nel telegrafico intervento di ieri notte di un teatro con ampi spazi vuoti, colpa del secolo d’età di un’opera finita nel dimenticatoio (e conseguente disinteresse - per ignoranza - del vasto pubblico) o della teoria di Pereira sul ritardo dell’allineamento della domanda all’offerta? O di entrambe le cause? Fatto sta che lo spettacolo visto martedi, se non passerà proprio alla storia (mai esagerare con gli epinicii...) di certo resta - parere mio personale - una delle migliori produzioni degli ultimi tempi. E forse qualcosa di più delle pur lodevoli iniziative del Teatro - conferenza e tavola rotonda - andava fatto per promuoverlo.
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Alan Gilbert ha saputo mettere in risalto le diverse qualità della musica, che ha richiami tardoromantici, ammiccamenti da operetta e tratti espressionisti, ma sempre impiegati con appropriatezza e mai lasciati al caso o destinati al puro effetto. L’Orchestra si è evidentemente ritrovata con questa musica, non facile sicuramente da eseguire, ma certamente stimolante per gli esecutori, oltre che per gli spettatori. Da incorniciare i diversi passaggi sinfonici, come il finale primo (il turbamento psichico di Paul e l’apparizione di Marie); l’attacco del secondo quadro (la spettrale Bruges nella quale il protagonista si inoltra); la processione religiosa (che si trasforma in marcia minacciosa e spaventevole); e l’introduzione al terzo quadro, che evoca la notte tumultuosa passata a letto da Paul e Marietta, costellata di... orgasmi! Ma splendidamente resi anche gli afflati più lirici (l’aria del liuto e il Lied di Pierrot) che richiedono delicatezza e raffinatezza di supporto alle voci, senza però scadere in toni eccessivamente operettistici. Insomma un Direttore e un’Orchestra che, in perfetta unità d’intenti, hanno saputo deliziarci con questo coloratissimo caleidoscopio sonoro di Korngold.       

Il Coro di Casoni è impegnato in modo non proibitivo (nel terzo Quadro) e ha fatto benissimo la sua parte. Meglio ancora i piccoli dell’Accademia, perfetti nella scena della processione.

Klaus Florian Vogt è un convincente Paul: la sua vocina è timbricamente perfetta (per me) per caratterizzare questo personaggio-bambino, pieno di complessi e ossessioni. Se in ruoli (pur da lui ricoperti) come Lohengrin, per dire, può sembrare eccessivamente efebico (un Kind-Heldentenor) qui invece rende alla perfezione tutte le turbe mentali che portano Paul ad auto-imprigionarsi nel suo sacrario psicologico, prima ancora che materiale. E passa benissimo dall’assurda euforia iniziale (per il creduto ritrovamento della moglie) alla tremenda dissociazione che la sua psiche subisce (quadro secondo, al momento di assistere alla demoniaca - meyerbeeriana - resurrezione di Marie e di cedere infine a Marietta) all’inferno che invade la sua mente al passaggio della processione-marcia; per finire all’ebete rassegnazione conclusiva, sottolineata musicalmente dalla riapparizione sì della dolcissima canzone del liuto, ma ora a supportare un’amara constatazione: nella vita non c’è resurrezione.  

Marietta (+Marie) è Asmik Grigorian, che si sdoppia benissimo nei due personaggi: quello, limitato nel tempo ma fondamentale, dell’apparizione della moglie defunta e quello ben più esteso della sua pretesa reincarnazione, con tutt’altra personalità. Eccellente la sua performance - con i soci della compagnia teatrale - nel secondo Quadro, dove si è distinta anche per qualità e doti di danzatrice-soubrette. Insomma, una Marietta perfetta nel canto ma anche nella... professione. Per sorridere un po’, mi domando con quale credibilità avrebbe potuto ricoprire questo ruolo una Cerquetti (! ho fatto volutamente un riferimento fuori dall’attualità.)

Anche Markus Werba incarna (come originariamente previsto da Korngold, ma forse anche per ragioni di... spending review) due personaggi. E lui lo fa con la grande professionalità che lo contraddistingue, porgendoci il serioso e quasi pedante Frank (che nella sezione onirica si trasforma però in uno sbifido quanto falso traditore di amici) intercalato dal romantico e patetico Fritz, nell’aria del quale ha modo di mettere in luce tutta la sua vena lirica e quasi belcantista.   

La 42enne Cristina Damian ha sostituito quasi all’ultimo momento la brasilera Kismara Pessatti nei panni di Brigitta, questa anziana badante un po’ bigotta ma assai premurosa. Il mezzosoprano rumeno la interpreta con garbo e discrezione, mostrando voce ben impostata in tutti i registri, anche se non proprio superdotata di decibel.

Da elogiare gli altri quattro interpreti, gli accademici Marika Spadafino, Daria Cherniy e Sergei Ababkin e lo sdoppiato Sascha Emanuel Kramer.
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Vengo ora allo spettacolo, firmato da Graham Vick.

Il soggetto non si presta molto a interpretazioni di carattere ideologico (dove il nostro spesso si lascia prendere troppo la mano dalle sue convinzioni leftist) tuttavia il regista albionico non rinuncia ad inventare anche qui qualcosa di estraneo al libretto e dal sapore politico. Si tratta dell’interpretazione data alla processione e poi soprattutto alla bestiale marcia che occupa la seconda scena del quadro conclusivo, dove vediamo chiarissimi quanto gratuiti riferimenti a nazismo e Shoah: chierichetti fra i quali si mischiano ragazzini della Hitlerjugend (i balilla nazi) e scene di deportazione di ebrei. Fatti che certo Korngold non poteva minimamente divinare nel 1920 quando compose l’opera. Tuttavia mi sento di perdonare volentieri a Vick questa libertà, per due precise ragioni: a) questi riferimenti non intaccano, nè tantomeno sovvertono la drammaturgia originale dell’opera, sono in effetti delle materializzazioni (postume, rispetto ai tempi) di orrori che invadono la mente di Paul, quindi del tutto plausibili; b) si tratta di riferimenti che con Korngold hanno a che fare assai, visto che una quindicina d’anni dopo la composizione dell’opera il nostro fu costretto letteralmente a cambiare vita - materiale ed artistica - proprio a causa dell’avvento di ciò che Vick ci mostra in scena.

Per il resto il regista sfodera tutta la sapienza e maestrìa del consumato uomo di teatro che è. Ben supportato dal suo team - Stuart Nunn per scene e costumi, Giuseppe Di Iorio alle luci e Ron Howell per le coreografie - non ci lascia sfuggire nulla di ciò che il libretto racconta (testo e didascalie).

Geniale per efficacia è la scelta di mantenere l’ambientazione scenica di fondo sempre la stessa, nel tre quadri dell’opera: siamo nel sacrario che Paul ha apprestato in casa sua per ricordare la moglie Marie. Nel secondo e terzo quadro il tendaggio bianco sul fondo si solleverà per far entrare nel sacrario tutti gli elementi dissacranti che compaiono nel sogno di Paul: la Bruges bigotta, le beghine con Brigitta, il Frank traditore, la scanzonata e irriverente compagnia di Mariette, la processione-marcia. Ma son tutte visioni che fanno parte del sogno di Paul, quindi è giusto che si mostrino proprio in quello stesso ambiente dove il poveraccio passa le sue giornate a macerarsi nei ricordi. Detto di passaggio: questa scelta di scenografia raggiunge anche lo scopo - non secondario - di evitare allo spettatore (quando non adeguatamente preparato) di fraintendere tutto quanto avviene in scena nel secondo quadro, pensando si tratti di accadimenti reali e non di immagini oniriche che popolano la psiche di Paul.  

L’ambientazione temporale è - per i costumi - vicina agli anni di composizione dell’opera, mentre è a noi contemporanea quanto alle suppellettili del sacrario (divanetto con struttura metallica; maxi-schermo al plasma a sorreggere il quadro con l’immagine di Marie, che vedremo solo alla fine del primo quadro, al momento dell’apparizione; un inginocchiatoio e soprattutto una teca con le reliquie di Marie, fra cui la famigerata treccia di capelli dorati). C’è poi in scena un elemento assai importante: una stilizzata porta (solo lo scheletro, di plastica trasparente) profilata da neon bianchi e lampadine colorate, che rimane in permanenza in primo piano, sulla sinistra del palcoscenico, e che saltuariamente si sposta di poco, ruotando su una piccola piattaforma circolare. Cosa ci rappresenta? Mah, a parte il significato elementare di ingresso al sacrario, può essere interpretata come il punto di passaggio dalla vita reale (che sta al di qua, verso il pubblico) e la vita virtuale e poi onirica che vive il povero Paul. Il quale, ad esempio, nel terzo quadro vi si affaccia per seguire la processione; oppure attraverso la quale - nel secondo quadro - battibecca con l’immagine del Frank traditore.

Ma come non ammirare la raffinata gestione dei movimenti dei personaggi in scena. Qui faccio solo pochi cenni: alla fine della canzone del liuto, nel primo quadro, Paul e Marietta si trovano seduti per terra, con le schiene appoggiate alle estremità del divanetto; ecco, mentre l’orchestra esala le 10 mirabili battute in SIb della cadenza, la mano sinistra di Paul e la destra di Mariette, palme appoggiate al pavimento, traslano lentamente fino ad incontrarsi... un momento di estasi davvero indimenticabile, un esempio di come valorizzare al massimo grado una frase musicale! E poi tutta la scena dei commedianti del secondo quadro è gestita in modo superlativo, fino a trasformare quasi in poesia anche alcune esternazioni dove sarebbe facilissimo sconfinare nella volgarità. Memorabile, come detto, la scena della processione-marcia, che restituisce tutta la drammaticità dell’autentico incubo che invade la mente di Paul, con povera gente che in nome di dio viene maltrattata e deportata. Impressionante (e Kitsch, sì, ma proprio quanto la musica!) la comparsa del gigantesco e sovrastante teschio che alla fine prende fuoco.

Efficacissima infine la conclusione: dopo che tutte le suppellettili del sacrario sono state rimosse e portate via, la scena si svuota e Paul, chiusa la canzone del liuto con le parole Hier gibt es kein Auferstehen, sulle 11 (apparentemente?) eteree battute cadenzanti dell’orchestra si avvia a testa bassa e con atteggiamento sconsolato verso il fondo del palcoscenico. Immagine assolutamente emblematica dell’ambiguità della soluzione del dramma.

29 maggio, 2019

Una splendida città morta finalmente al Piermarini


Quasi a festeggiare l’imminente centenario della comparsa dell’opera sulle scene (1920) la Scala ospita quest’anno per la prima volta in assoluto Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Ieri sera è andata in onda la prima delle sette rappresentazioni in cartellone, in un teatro ancora con evidenti vuoti (anche le gallerie non proprio stipate): lunedi pomeriggio, alla presentazione della nuova stagione agli abbonati, Pereira ha cercato di spiegare il fenomeno come conseguenza dei suoi sforzi per aumentare l’offerta di spettacoli, al quale aumento evidentemente la domanda si starebbe allineando con ritardo (fenomeno che gli esperti chiamano isteresi); parrebbe di capire che gli spettatori totali crescano, ma - per ora almeno - non quanto l’aumento dei posti disponibili... Beh, se lo dice Pereira magari sarà così, chissà.

Dunque, finalmente Korngold è arrivato anche da noi, e devo dire che se lo meritava proprio e che aver atteso quasi il centenario per accoglierlo in Scala sa di scandalo, proprio come la scarsa partecipazione del pubblico.

Mentre invece va dato merito a Direttore, Cast e Regista di aver confezionato uno spettacolo di altissimo livello, valorizzando al massimo le qualità dell’Opera, sul piano strettamente musicale ma anche su quello drammaturgico.

Alla fine il pur scarso pubblico ha tributato a tutti un autentico trionfo. Personalmente ho pochi dubbi che si sia trattato del miglior spettacolo offerto dalla Scala in questa stagione.

Seguirà - dopo un forzato time-out - qualche commento più circostanziato.

21 maggio, 2019

Freud a Brugge: Die tote Stadt alla Scala


Fra pochi giorni al Piermarini andrà in scena la prima di Die tote Stadt, opera del 1920, uscita dalla penna di un 24enne di origine morava trapiantato a Vienna, Erich Wolfgang Korngold. Opera rimasta quasi unica nella produzione di quel ragazzo-prodigio (ammirato persino da Puccini, Mahler, Strauss...) anche a causa delle dolorose vicissitudini cui il compositore andò incontro a seguito dell’ascesa al potere di tale Hitler. Il che lo obbligò ad espatriare e a stabilirsi in USA, dove peraltro trovò l’america, come si suol dire, facendo fortuna e ricchezze in quel di Hollywood, dove divenne il pioniere delle grandi colonne sonore dei film colà prodotti. Dopo la fine della WWII tornò alla musica colta, con il (relativamente) famoso Concerto per violino e una meno famosa Sinfonia.

Visto con il senno di poi, a noi oggi pare quasi scontato che quel fenomeno - innescato da Liszt e portato a dimensioni quantitative e qualitative eccelse da Strauss - che va sotto il nome improprio di musica descrittiva, finisse per contagiare inevitabilmente il mondo del cinema, che di colonne sonore aveva bisogno come dell’aria. E così il buon Korngold, imbevuto di massicce dosi di Liszt e Strauss in salsa wagneriana, e con l’aggiunta di spruzzatine di Mahler e Lehar su moderate dosi di Debussy e di espressionismo à-la-Berg, divenne in breve il re di quel nuovo business.               

A prima vista anche l’opera che si va a rappresentare, pur di una quindicina d’anni anteriore al periodo americano, presenta già qualche tratto caratteristico della musica-da-film, come si può constatare fin dalle prime battute, con suoni che ci sembrano uscire dagli altoparlanti di una sala cinematografica dove si proietta una pellicola con Errol Flynn! Ma sarebbe ingeneroso non riconoscere a Korngold straordinarie doti creative e capacità come pochi di padroneggiare la tecnica di manipolazione dei motivi musicali al servizio del dramma.     
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Due parole sul soggetto, che poggia su un libretto scritto dallo stesso compositore, con la guida del padre - il famoso critico musicale Julius - a partire da testi preesistenti (essenzialmente Le mirage e Bruges-la-Mort di Georges Rodenbach). La città morta è Bruges (Brugge per i fiamminghi) dove si dipana il dramma di Paul, vedovo inconsolabile che fa della sua casa in quella cittadina decaduta un autentico sacrario per la moglie Marie, con tanto di ritratti, oggetti di abbigliamento e persino una lunga treccia bionda conservati come reliquie.  

Un bel giorno Paul incontra per caso Mariette, un’estroversa danzatrice di una compagnia itinerante che pare la copia-carbone della moglie defunta: se ne innamora come se quella fosse la reincarnazione della povera Marie, la invita nella sua casa-cappella, ma deve constatare che invece Mariette ha una personalità agli antipodi rispetto a quella della sua Marie. Così la sua psiche deraglia e, quando Mariette - dopo una notte d’amore di sesso con lui - deturpa deliberatamente l’immagine di Marie, Paul sbrocca e strangola la ballerina.

Finito qui, come nei riferimenti letterari originali? No no, qui c’è addirittura il lieto-fine, o perlomeno un’ambigua morale-della-favola, sospesa fra il rassegnato e il consolante. Perchè scopriamo che tutta la tragica vicenda che ha portato allo strangolamento di Mariette altro non è stato che un sogno di Paul: Mariette è viva e vegeta e se ne torna alla sua compagnia, e Paul - grazie al sogno - si può infine capacitare che la vita può continuare (mah, sarà poi così?) senza rimanere schiavi del passato nè delle futili illusioni del presente.

Abbiamo quindi scoperto una caratteristica peculiare della struttura dell’opera: che mescola un tempo reale con un tempo onirico, proprio come accade spesso nei film, che diventeranno, in USA, il pane quotidiano dell’Autore! Lo schema che segue - dove sono rappresentati i tre quadri e le 13 scene dell’opera - vuol rendere plasticamente il concetto:



Il tempo reale occupa le prime 5 scene del primo quadro e l’ultima del terzo: tutto si compie in una sola serata. Il tempo onirico occupa invece pochi minuti di quello reale (insomma, Paul fa solo un pisolino, il tempo per Marietta - dopo esserne uscita - di tornare in casa sua a recuperare l’ombrellino...) ma vi scorre, come in un film accelerato in FFW, un’intera serata-nottata-mattinata, articolato com’è nella sesta scena del primo quadro, nelle 4 del secondo e nelle prime due del terzo. Grosso modo, su circa 130 minuti di durata complessiva, il tempo reale ne occupa più o meno 50; quello onirico quasi 80, compressi in 5 minuti del primo!

Dallo schema si evince anche come il sogno di Paul sia distribuito su tutti e tre i quadri - che hanno durata simile, attorno ai 45 minuti - il che comporta che venga interrotto dagli intervalli addirittura due volte, cosa che può disorientare lo spettatore o comunque produrre cali di tensione drammatica. In particolare è la prima interruzione, dopo che il sogno è appena iniziato, a rischiare di essere deleteria. Così lo stesso Korngold ha previsto la possibilità di legare senza soluzione di continuità i primi due quadri e all’uopo ha predisposto gli opportuni tagli (138 battute: 93 alla fine del primo e 45 all’inizio del secondo quadro) alla partitura. In questo modo il sogno viene interrotto soltanto una volta, prima della notte che Paul e Marietta trascorreranno insieme. Peraltro una conseguenza di questo approccio è lo squilibrio che si crea fra le durate delle due parti: la prima di circa 90 minuti, la seconda di 40-45. Beh... non si può aver tutto.
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Per fare (o rinfrescare) la conoscenza dell’opera a buon mercato, la si può seguire in rete (fra alcune altre) in questa registrazione vintage (1975) di Erich Leinsdorf con il trio dei protagonisti (Paul, Marietta, Frank) Kollo-Neblett-Luxon, più il Fritz di Prey e la Brigitta di Wagemann.

In omaggio alla notorietà americana di Korngold, l’opera sarà affidata ad Alan Gilbert, fino al 2017 Direttore musicale della prestigiosa NYPO, in procinto di insediarsi alla Elbphilharmonie.

Paul sarà impersonato da Klaus Florian Vogt, che si può apprezzare qui, impegnato in Finlandia nel 2011, e che pare ben calato nella personalità piuttosto... disturbata del protagonista.   

Come è prassi ormai quasi consolidata (del resto è un’indicazione dello stesso Korngold) anche in questa produzione il ruolo minore (come presenza in scena, ma al quale è affidata una delle due arie più famose dell’opera, Da Ihr befehlet, Königin, nel second’atto) di Fritz (il Pierrot della compagnia di Marietta) viene accorpato - visto che ha la stessa tessitura di baritono e mai compare in scena insieme all’altro - con quello un filino più presente, anche se musicalmente meno pregiato, di Frank. Così il simpatico, oltre che bravo, Markus Werba si guadagnerà qualche minuto in più di attenzione del pubblico (e magari, glielo auguriamo, di applausi).

Ad Asmik Grigorian da Vilnius è affidato il ruolo di Marietta, che dà anche la voce all’apparizione di Marie nel primo atto; atto in cui spicca la bellissima aria (del liuto) Glück, das mir verblieb. La carioca Kismara Pessatti completa il quartetto dei protagonisti, interpretando Brigitta.

L’Accademia scaligera dà anche qui un sostanzioso contributo ai ruoli di contorno, con tre delle quattro voci. Contributo che darà anche il Coro di Casoni.

L’allestimento è del genio-(e-sregolatezza) Graham Vick, il che garantisce come minimo accese discussioni sulla sua vision del dramma. 

Dalla locandina del Teatro si dovrebbe evincere che lo spettacolo abbia un solo intervallo, come ad esempio in questa recente produzione berlinese di Carsen. Radio3 riprenderà in diretta (ore 20:00) la prima del 28 maggio. 

25 luglio, 2016

Bayreuth dei poareti

 

Bayreuth ha aperto il suo annuale caravanserraglio con un nuovo Parsifal francamente modesto (almeno all’ascolto radiofonico, ma i testimoni oculari pare estendano l’attributo anche all’allestimento). Insomma: la montagna collina verde ha partorito il classico topolino (come non fossero bastati quelli di Neuenfels!)

Quasi avessero previsto il misero parto, anche i grandi di Germania (e colonie) non si sono fatti vivi, naturalmente con la scusa che l’Isis gli potesse fare qualche scherzetto, ad esempio convertendo in kamikaze qualche insospettabile fanciulla-fiore (pare in effetti che il regista ci abbia pensato, strasmile!)

Salvo la Pankratova, che ha sfoggiato le sue notevoli doti come Kundry, e il navigato Haenchen - che è il classico vecchio marpione a cui puoi chiedere di fiondarsi a Bayreuth per debuttarvi a 70 anni con 3 settimane di preavviso, e lui ti garantisce di evitare un fastidioso forfait, oltretutto tenendo tempi che pare fossero proprio quelli di Wagner-1882! – il resto del cast mi è parso proprio scombinato: a partire dal Parsifal Nemorino di Vogt, che le note le canta tutte e bene, ma come le canterebbe Bocelli, ecco. Per non parlare di Gurnemanz e Amfortas che si debbono essere per errore scambiati le parti: così il primo è stato cantato da un baritono e l’altro da un basso...

Certo, orchestra e coro sono inossidabili e su loro nulla da dire, ma insomma mi pare abbia fatto bene l’Angelona ad evitare i rischi.  
    

14 dicembre, 2014

Fidelio: dal vivo è un filino meglio…

 

Ieri sera la terza di questa Leonore (sì, tanto vale cambiarle anche il titolo, operazione filologicamente più corretta di quella di cambiarle… l’Ouverture, smile!) Per l’occasione è tornato il titolare Florestanino Vogt dopo la parentesi (a sorpresa, pare assai gradita dal pubblico della seconda, e che è servita al Sovrintendente entrante per darsi grande lustro) del bel Jonas.

Ormai si è detto e scritto tutto di questa apertura di stagione, che sembrerebbe aver capovolto le recenti usanze (contestazioni del loggione e peana della critica paludata): a SantAmbrogio2014 solo applausi anche dal loggione, mentre dai critici solo… critiche (o quasi: personalmente ricordo un’unica eccezione in Gavazzeni sul Giornale). La costante sembrerebbe quindi da individuare nella cronica opposta ricezione dello spettacolo da parte di loggionisti e critici, quasi a prescindere.   

Poi c’è anche chi, come il sottoscritto, ha invece criticato sia le inaugurazioni recenti (Traviata, Lohengrin, DonGiovanni, per restare all’ultima terna) che questa: magari con argomentazioni diverse e riguardanti diverse componenti dello spettacolo.

La visione/ascolto del 7 in TV mi aveva fatto un’impressione decisamente negativa sul lato suoni e, diciamo così, neutra su quello dell’allestimento teatrale. Ecco, la fruizione live ha – appena appena – migliorato il mio giudizio sulla parte musicale e non è servita a migliorarlo su quella registica. Insomma: questo Fidelio per me resta una mezza delusione.

Barenboim conferma il suo approccio all’opera: che affronta come fosse… Parsifal (smile!) Già nell’Ouverture l’Adagio diventa un Largo e l’Allegro un Andante, e così via degradando: tutta la freschezza mozartiana di cui Fidelio è ricco, soprattutto nel primo atto, si perde così in uno stracco e uniforme tran-tran (non è il caso che l’atto duri quasi un’ora e mezza!) Un filino meglio il secondo atto, stante la componente altamente drammatica, ma in complesso la lettura del sostituendo Direttore Musicale non mi ha per nulla convinto. L’orchestra invece non si è comportata male (perdoneremo la tromba che – dislocata probabilmente in loggione nell’Ouverture – ha sfornato due strafalcioni in sole sei battute del secondo richiamo).

Sul fronte delle voci, pessime notizie da Mojca Erdmann e Florian Hoffmann (Marzelline e Jaquino) che evidentemente alla radio-tv si sentivano per via della collocazione… laringea del microfono (smile!) Che poi il pubblico li abbia applauditi quasi con lo stesso calore riservato a Youn, Vogt e alla Kampe la dice lunga sulle illimitate possibilità di rifilargli impunemente (al pubblico) qualunque bufala.

Ecco, la Anja Kampe ha confermato (alle mie orecchie) i limiti che già parecchi anni fa (con Abbado) aveva denunciato: difetto di potenza in particolare nella cosiddetta ottava bassa, dove è risultata poco udibile. Sugli acuti così-così, mescolando cose dignitose ad urletti che è difficile dire se emessi a bella posta per sottolineare frangenti drammatici, o… a bella posta per mascherare delle deficienze congenite. Per me, un voto appena appena sufficiente.

Una sufficienza più ampia darò alla voce sempre efebizzante (si può dire?) del redivivo Klaus Florian Vogt, che però ha almeno il pregio di farsi sentire benissimo e di avere ottima intonazione.

Kwangchul Youn è uno che in teatro ci guadagna, rispetto alla radio, che tende ad ingrossarne la voce (sempre per via dei microfoni, immagino). Forse non è un basso profondo, ma il ruolo di Rocco non è mica detto che tale debba essere per forza.

Il Pizarro di Falk Struckmann tende pericolosamente allo schiamazzo, e come al solito gli andrebbe ricordato che il cattivo non è autorizzato anche ad essere cattivo cantante, anzi! Peter Mattei fa il suo compitino (cammeo, si dice in gergo) con diligenza ed è quanto basta. Il Coro di Bruno Casoni mi è parso migliorato rispetto alla prima, e bene hanno fatto i suoi due membri (Oreste Cosimo e Devis Longo) chiamati a parti solistiche nel primo atto.

A proposito di udibilità, quasi nulla si è sentito delle parti parlate: qualcuno potrebbe concludere con un grandissimo chi-se-ne-frega (tanto nessuno capisce il crucco e anche se lo capisce chi se ne frega lo stesso perché non è cantato…) Allora però andrebbe riconsiderata la decisione di continuare a proporre (sia pure ampiamente mutilati) questi residui obsoleti del Singspiel!

La regìa della Deborah Warner guadagna poco rispetto alla ripresa TV (che ha il vantaggio, se usata sapientemente, di alternare primi piani a campi lunghi). Al di là di tutte le dotte spiegazioni filo-socio-antropologiche, si tratta di una pura e semplice lettura del libretto, il quale presenta un soggetto archetipico, ergo facilmente trasportabile sotto qualunque tempo e latitudine. Quindi la Warner, come si dice in gergo, ha solo fatto il suo dovere, mettendoci poi qualche puerile ingrediente di attualità: costumi casual e strumenti di lavoro da oltre-cortina-anni50. Se c’è una critica seria da fare all’allestimento è probabilmente il suo costo: secondo me, ogni euro speso in più di 100.000 è stato buttato al vento (e sono soldi nostri!)

Sembra un paradosso, ma uno dei pochi pregi di questa produzione è la rinuncia all’inserimento della Leonore3 prima dell’ultima scena: a parte che non avrebbe avuto senso a fronte della scellerata decisione del Direttore di cambiare l’Ouverture, ma almeno ci ha permesso di apprezzare la grande efficacia drammatica del finale così come mirabilmente concepito – e con quale fatica! - da Beethoven. Non saprei dire se l’unico, isolato buh che è arrivato dal loggione al calar del sipario fosse per Warner o Barenboim (che però all’uscita ha ricevuto solo applausi).  

Tirando tutte le somme, siamo alle solite: con i costi e la prosopopea della Scala abbiamo uno spettacolo di livello non superiore a quello di molte produzioni cosiddette provinciali. Con le tutte le risorse che ci si investono, si avrebbe il dovere di dare di più.

07 dicembre, 2014

Un Fidelio… lumaca apre la stagione scaligera

Eccomi qua a commentare a caldo immagini e suoni (arrivati sotto forma di… pixel&bit) del Fidelio scaligero che ha aperto la (lunga, causa Expo) stagione del Piermarini.

La prima constatazione è l’insopportabile lunghezza dell’interpretazione di Barenboim: che è troppo abituato a Wagner (dove effettivamente eccelle, bisogna riconoscerglielo) ma poi pretende di mettere tutti su quel letto di procuste. Se si esclude il finale (e ci mancava pure…) i suoi sono stati tempi letargici, a partire già dall’Ouverture.

E a proposito non posso esimermi dal fare l’ennesima considerazione sulla bizzarra idea di Barenboim di propinarci la Leonore 2 in luogo dell’Ouverture che Beethoven (sì, proprio un tale Beethoven, guarda te!) aveva faticosissimamente composto per la versione definitiva dell’opera (mai più riveduta o emendata nemmeno col binocolo, nei 14 anni che ancora restarono da vivere al genio di Bonn!) Il colmo della faccenda è che la presentazione dell’allestimento dell’opera nel video pubblicato sul sito del Teatro é accompagnata proprio dalle note dell’Ouverture giusta!

Siamo alle solite, il Kapellmeister di turno (mi spiace dir questo di un Direttore che considero un grande uomo, prima ancora che famoso musicista) vuol farci credere di saperne di più dell’Autore in persona, così butta nel cesso l’ultima trovata dell’Autore medesimo per ripescare… che cosa? La penultima? Che sarebbe perlomeno una gustosissima mela matura: la Leonore 3. Invece no, proprio no, quella che ci viene propinata è la Leonore 2! Il che ti fa lo stesso effetto del mangiare una mela ancora un filino acerba, quando in testa hai il dolce gusto della mela matura: un effetto decisamente sgradevole. Sì, perché sappiamo che per l’uomo tutto è relativo, e tornare indietro è sempre in qualche modo irritante; o ammissibile soltanto se motivato da ragioni, diciamo così, scientifiche. Il che nel mondo musicale si traduce in pratiche ben precise: un festival, o un concerto o al massimo un CD. Ma un SantAmbrogio è – nel bene e nel male – un pranzo di gala dove, se proprio si decide di boicottare le arance, andrebbero almeno servite le mele mature, mica quelle acerbe!

Quanto alla sequenza dei primi due numeri dell’opera (duetto e aria di Marzelline) nel video succitato (a 3’43”) la Warner accenna ad una discussione avuta con Barenboim e a divergenze di vedute rispetto alle sue (di lei) consuetudini. Ora, lei ha già messo in scena Fidelio a Glyndebourne, dapprima nel 2001, poi ancora nel 2006 (da dove è stato prodotto un CD) e sempre nella versione definitiva, quindi quelle che lei chiama sue consuetudini sono in realtà lo standard: prima il duetto e poi l’aria. Ma allora perché parla di divergenze con il maestro? La spiegazione più plausibile è che Barenboim, come fa nel suo CD, scegliendo la Leonore 2 dovesse poi anticipare l’aria, per ragioni di rapporti tonali. E questo è ciò che ci si aspettava facesse anche qui. Invece non è così: abbiamo ascoltato tutti che in apertura c’è il duetto. Come si spiega? Evidentemente lo scambio voluto dal maestro non era accettabile dalla Warner perché ne sconvolgeva l’impostazione registica! E così alla fine la regista deve aver convinto il maestro a ripristinare la sequenza di Beethoven (che però male si armonizza con l’ouverture scelta da Barenboim!) Ora, il solo pensare che due personaggi profumatamente pagati (dai soldi nostri!) abbiano passato ore e ore e forse giorni a discutere del miglior modo per travisare la volontà di Beethoven è davvero deprimente. Purtroppo queste sono, lo ripeto, pisciatine di cane, spacciate per filologia/filosofia. Shame!     

Lo spettacolo della Warner è sostanzialmente lo stesso di Glyndebourne, nel bene e nel male. Domanda: perché non acquistare il prodotto esistente, invece di rifarlo (con tutto ciò che questo avrà comportato a livello di costi) praticamente uguale?

Ho detto nel bene e nel male perché la regista non si inventa cose strane né storie fantasiose: siamo in una prigione (che poi sia una ex-fabbrica, è cosa che nè guasta, né arricchisce) dove una donna travestita cerca il marito ingiustamente incarcerato e alla fine riesce a farlo liberare, approfittando di una provvidenziale ispezione del ministro della giustizia. Apperò, proprio come scritto nel libretto… che noia (smile!) Quindi tutto bene, non fosse che la Warner si fa contagiare dalla stessa malattia di Barenboim (quella delle mele acerbe) e così fa finire l’opera, mentre suona un DO maggiore da spaccare i timpani e abbagliare le pupille, come era nella prima versione del 1805, al buio e sotto una nevicata, invece che sulla piazza assolata del carcere! Certo che Beethoven era proprio un bambino ingenuo che credeva alle favole…

Anja Kampe è Leonore/Fidelio: siccome la ricordo nel ruolo con Abbado (2008) dove nel piccolo Valli di Reggio Emilia già si sentiva poco, aspetto di sentirla dal vivo per verificare se nel frattempo ha imparato a… farsi sentire (smile!) anche senza un microfono in bocca.

Klaus Florian Vogt è il Florestan all’età di 12 anni (stra-smile!) Effettivamente Pizarro doveva essere proprio un pazzo maniaco  per incarcerare un bambino. A parte le battute, va bene che il personaggio non è proprio da Heldentenor, anzi, ma qui si sta esagerando in senso contrario. Perché non basta fare le note giuste, o sbaglio? E il fatto che a Bayreuth lo abbiano catapultato nei panni di Lohengrin dimostra soltanto che anche lassù sono fuori di testa. Fra l’altro, nei parlati sembra invece avere una voce da adulto!

Il migliore, e di gran lunga, del cast è il Rocco di Kwangchul Youn: ma non lo scopriamo oggi, e in fondo ha fatto lodevolmente ciò che ci si aspetta da un grande professionista.

Falk Struckmann è un Pizarro dignitoso, ma nulla più: forse i tempi strascicati di Barenboim non lo aiutano, e così sembra faticare a reggere il fiato.

Onesta e non più la prestazione di Peter Mattei come Don Fernando.

La seconda coppia dell’opera non mi è parsa particolarmente eccitante: Mojca Erdmann e Florian Hoffmann si arrabattano alla meglio, come Marzelline e Jaquino, ma senza mai dare un colpo d’ala.

A parte un incespicamento (così mi è parso, potrei sbagliare) nel finale, si salva per fortuna il coro di Bruno Casoni, che fornisce anche due solisti (Oreste Cosimo e Devis Longo) che non avrebbero fatto peggio dei titolari dei ruoli di Jaquino e Pizarro.

Per il pubblico pare sia andato tutto bene, e anche di più: beati loro e per quanto mi riguarda spero proprio di essere smentito a breve.