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30 maggio, 2019

Il trionfo di Korngold alla Scala


Rieccomi qua, dopo sanitaria sosta, a commentare questa strepitosa Die tote Stadt, finalmente (è bastato aspettare un secolo, ecché ‘ssarà mai...) comparsa sulle tavole del Piermarini.

Note tecnico/musicali: a) contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro fino a poche ore dall’inizio della prima, l’opera è stata presentata nella sua struttura originaria, quindi con entrambi gli intervalli fra i tre quadri; b) sempre contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro, il ruolo (secondario?) di Brigitta passa da una brasilera (Kismara Pessatti) ad una rumena (Cristina Damian).

Già detto nel telegrafico intervento di ieri notte di un teatro con ampi spazi vuoti, colpa del secolo d’età di un’opera finita nel dimenticatoio (e conseguente disinteresse - per ignoranza - del vasto pubblico) o della teoria di Pereira sul ritardo dell’allineamento della domanda all’offerta? O di entrambe le cause? Fatto sta che lo spettacolo visto martedi, se non passerà proprio alla storia (mai esagerare con gli epinicii...) di certo resta - parere mio personale - una delle migliori produzioni degli ultimi tempi. E forse qualcosa di più delle pur lodevoli iniziative del Teatro - conferenza e tavola rotonda - andava fatto per promuoverlo.
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Alan Gilbert ha saputo mettere in risalto le diverse qualità della musica, che ha richiami tardoromantici, ammiccamenti da operetta e tratti espressionisti, ma sempre impiegati con appropriatezza e mai lasciati al caso o destinati al puro effetto. L’Orchestra si è evidentemente ritrovata con questa musica, non facile sicuramente da eseguire, ma certamente stimolante per gli esecutori, oltre che per gli spettatori. Da incorniciare i diversi passaggi sinfonici, come il finale primo (il turbamento psichico di Paul e l’apparizione di Marie); l’attacco del secondo quadro (la spettrale Bruges nella quale il protagonista si inoltra); la processione religiosa (che si trasforma in marcia minacciosa e spaventevole); e l’introduzione al terzo quadro, che evoca la notte tumultuosa passata a letto da Paul e Marietta, costellata di... orgasmi! Ma splendidamente resi anche gli afflati più lirici (l’aria del liuto e il Lied di Pierrot) che richiedono delicatezza e raffinatezza di supporto alle voci, senza però scadere in toni eccessivamente operettistici. Insomma un Direttore e un’Orchestra che, in perfetta unità d’intenti, hanno saputo deliziarci con questo coloratissimo caleidoscopio sonoro di Korngold.       

Il Coro di Casoni è impegnato in modo non proibitivo (nel terzo Quadro) e ha fatto benissimo la sua parte. Meglio ancora i piccoli dell’Accademia, perfetti nella scena della processione.

Klaus Florian Vogt è un convincente Paul: la sua vocina è timbricamente perfetta (per me) per caratterizzare questo personaggio-bambino, pieno di complessi e ossessioni. Se in ruoli (pur da lui ricoperti) come Lohengrin, per dire, può sembrare eccessivamente efebico (un Kind-Heldentenor) qui invece rende alla perfezione tutte le turbe mentali che portano Paul ad auto-imprigionarsi nel suo sacrario psicologico, prima ancora che materiale. E passa benissimo dall’assurda euforia iniziale (per il creduto ritrovamento della moglie) alla tremenda dissociazione che la sua psiche subisce (quadro secondo, al momento di assistere alla demoniaca - meyerbeeriana - resurrezione di Marie e di cedere infine a Marietta) all’inferno che invade la sua mente al passaggio della processione-marcia; per finire all’ebete rassegnazione conclusiva, sottolineata musicalmente dalla riapparizione sì della dolcissima canzone del liuto, ma ora a supportare un’amara constatazione: nella vita non c’è resurrezione.  

Marietta (+Marie) è Asmik Grigorian, che si sdoppia benissimo nei due personaggi: quello, limitato nel tempo ma fondamentale, dell’apparizione della moglie defunta e quello ben più esteso della sua pretesa reincarnazione, con tutt’altra personalità. Eccellente la sua performance - con i soci della compagnia teatrale - nel secondo Quadro, dove si è distinta anche per qualità e doti di danzatrice-soubrette. Insomma, una Marietta perfetta nel canto ma anche nella... professione. Per sorridere un po’, mi domando con quale credibilità avrebbe potuto ricoprire questo ruolo una Cerquetti (! ho fatto volutamente un riferimento fuori dall’attualità.)

Anche Markus Werba incarna (come originariamente previsto da Korngold, ma forse anche per ragioni di... spending review) due personaggi. E lui lo fa con la grande professionalità che lo contraddistingue, porgendoci il serioso e quasi pedante Frank (che nella sezione onirica si trasforma però in uno sbifido quanto falso traditore di amici) intercalato dal romantico e patetico Fritz, nell’aria del quale ha modo di mettere in luce tutta la sua vena lirica e quasi belcantista.   

La 42enne Cristina Damian ha sostituito quasi all’ultimo momento la brasilera Kismara Pessatti nei panni di Brigitta, questa anziana badante un po’ bigotta ma assai premurosa. Il mezzosoprano rumeno la interpreta con garbo e discrezione, mostrando voce ben impostata in tutti i registri, anche se non proprio superdotata di decibel.

Da elogiare gli altri quattro interpreti, gli accademici Marika Spadafino, Daria Cherniy e Sergei Ababkin e lo sdoppiato Sascha Emanuel Kramer.
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Vengo ora allo spettacolo, firmato da Graham Vick.

Il soggetto non si presta molto a interpretazioni di carattere ideologico (dove il nostro spesso si lascia prendere troppo la mano dalle sue convinzioni leftist) tuttavia il regista albionico non rinuncia ad inventare anche qui qualcosa di estraneo al libretto e dal sapore politico. Si tratta dell’interpretazione data alla processione e poi soprattutto alla bestiale marcia che occupa la seconda scena del quadro conclusivo, dove vediamo chiarissimi quanto gratuiti riferimenti a nazismo e Shoah: chierichetti fra i quali si mischiano ragazzini della Hitlerjugend (i balilla nazi) e scene di deportazione di ebrei. Fatti che certo Korngold non poteva minimamente divinare nel 1920 quando compose l’opera. Tuttavia mi sento di perdonare volentieri a Vick questa libertà, per due precise ragioni: a) questi riferimenti non intaccano, nè tantomeno sovvertono la drammaturgia originale dell’opera, sono in effetti delle materializzazioni (postume, rispetto ai tempi) di orrori che invadono la mente di Paul, quindi del tutto plausibili; b) si tratta di riferimenti che con Korngold hanno a che fare assai, visto che una quindicina d’anni dopo la composizione dell’opera il nostro fu costretto letteralmente a cambiare vita - materiale ed artistica - proprio a causa dell’avvento di ciò che Vick ci mostra in scena.

Per il resto il regista sfodera tutta la sapienza e maestrìa del consumato uomo di teatro che è. Ben supportato dal suo team - Stuart Nunn per scene e costumi, Giuseppe Di Iorio alle luci e Ron Howell per le coreografie - non ci lascia sfuggire nulla di ciò che il libretto racconta (testo e didascalie).

Geniale per efficacia è la scelta di mantenere l’ambientazione scenica di fondo sempre la stessa, nel tre quadri dell’opera: siamo nel sacrario che Paul ha apprestato in casa sua per ricordare la moglie Marie. Nel secondo e terzo quadro il tendaggio bianco sul fondo si solleverà per far entrare nel sacrario tutti gli elementi dissacranti che compaiono nel sogno di Paul: la Bruges bigotta, le beghine con Brigitta, il Frank traditore, la scanzonata e irriverente compagnia di Mariette, la processione-marcia. Ma son tutte visioni che fanno parte del sogno di Paul, quindi è giusto che si mostrino proprio in quello stesso ambiente dove il poveraccio passa le sue giornate a macerarsi nei ricordi. Detto di passaggio: questa scelta di scenografia raggiunge anche lo scopo - non secondario - di evitare allo spettatore (quando non adeguatamente preparato) di fraintendere tutto quanto avviene in scena nel secondo quadro, pensando si tratti di accadimenti reali e non di immagini oniriche che popolano la psiche di Paul.  

L’ambientazione temporale è - per i costumi - vicina agli anni di composizione dell’opera, mentre è a noi contemporanea quanto alle suppellettili del sacrario (divanetto con struttura metallica; maxi-schermo al plasma a sorreggere il quadro con l’immagine di Marie, che vedremo solo alla fine del primo quadro, al momento dell’apparizione; un inginocchiatoio e soprattutto una teca con le reliquie di Marie, fra cui la famigerata treccia di capelli dorati). C’è poi in scena un elemento assai importante: una stilizzata porta (solo lo scheletro, di plastica trasparente) profilata da neon bianchi e lampadine colorate, che rimane in permanenza in primo piano, sulla sinistra del palcoscenico, e che saltuariamente si sposta di poco, ruotando su una piccola piattaforma circolare. Cosa ci rappresenta? Mah, a parte il significato elementare di ingresso al sacrario, può essere interpretata come il punto di passaggio dalla vita reale (che sta al di qua, verso il pubblico) e la vita virtuale e poi onirica che vive il povero Paul. Il quale, ad esempio, nel terzo quadro vi si affaccia per seguire la processione; oppure attraverso la quale - nel secondo quadro - battibecca con l’immagine del Frank traditore.

Ma come non ammirare la raffinata gestione dei movimenti dei personaggi in scena. Qui faccio solo pochi cenni: alla fine della canzone del liuto, nel primo quadro, Paul e Marietta si trovano seduti per terra, con le schiene appoggiate alle estremità del divanetto; ecco, mentre l’orchestra esala le 10 mirabili battute in SIb della cadenza, la mano sinistra di Paul e la destra di Mariette, palme appoggiate al pavimento, traslano lentamente fino ad incontrarsi... un momento di estasi davvero indimenticabile, un esempio di come valorizzare al massimo grado una frase musicale! E poi tutta la scena dei commedianti del secondo quadro è gestita in modo superlativo, fino a trasformare quasi in poesia anche alcune esternazioni dove sarebbe facilissimo sconfinare nella volgarità. Memorabile, come detto, la scena della processione-marcia, che restituisce tutta la drammaticità dell’autentico incubo che invade la mente di Paul, con povera gente che in nome di dio viene maltrattata e deportata. Impressionante (e Kitsch, sì, ma proprio quanto la musica!) la comparsa del gigantesco e sovrastante teschio che alla fine prende fuoco.

Efficacissima infine la conclusione: dopo che tutte le suppellettili del sacrario sono state rimosse e portate via, la scena si svuota e Paul, chiusa la canzone del liuto con le parole Hier gibt es kein Auferstehen, sulle 11 (apparentemente?) eteree battute cadenzanti dell’orchestra si avvia a testa bassa e con atteggiamento sconsolato verso il fondo del palcoscenico. Immagine assolutamente emblematica dell’ambiguità della soluzione del dramma.

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