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26 settembre, 2020

La contagiata Traviata scaligera

Ieri sera alla Scala penultima recita della Traviata contagiata. La mia seconda esperienza scaligera del post-lockdown è stata - dal punto di vista ambientale - ancor più deprimente della prima: perchè, oltre alla negativa impressione che ti fa una sala semideserta, ho potuto anche fare l’esperienza di un intervallo. Che tristezza il foyer popolato da fantasmi che si aggirano tenendosi a distanza, e soprattutto che atmosfera spettrale, con le mascherine che non solo celano i volti, ma mettono la sordina alle voci, così pare di stare in un istituto per muti...  

La rappresentazione di un’opera in forma di concerto è una rarità in Scala (in passato è accaduto più che altro in casi di contrattempi organizzativi) e va lodata comunque l’organizzazione che ha predisposto un semi-scenico più che accettabile. Poi i frac dei maschi e gli abiti da ricevimento delle cantanti (firmati D&G) erano abbastanza coerenti con parecchi degli ambienti presenti nel libretto.

Certo, le regole di distanziamento hanno reso alcune scene piuttosto paradossali: il povero Alfredo, per dire, è dovuto restarsene impotente a due metri dalla sua Violetta morente (è andata meglio a Mehta che, alla fine, con la scusa di farsi sorreggere dalla Rebeka, ne ha approfittato per quasi abbracciarla e baciarla!)

Ecco, Mehta, uomo dalle nove vite: cammina a stento, ma quando si siede sullo sgabello del podio pare abbia 30 anni, tanto secco, preciso ed efficace è rimasto il suo gesto. La sua è stata una direzione apparentemente rilassata, senza grandi slanci retorici, un Verdi suonato à-la-Mozart potrei dire con una battuta. (Teniamo presente che l’orchestra è praticamente confinata in fondo all’enorme scena del Piermarini, il podio del Direttore è ben al di là del proscenio nella configurazione con buca, e tutti suonano sullo stesso piano, niente rialzi come nella configurazione per concerto; ciò che arriva in sala... ve lo lascio immaginare.)

Con Mehta trionfa l’altro giovanissimo della compagnia, tale Leo Nucci, un tipo che promette bene e farà carriera di sicuro! Lui poi, oltre a cantare come 50 anni fa, sa ancora correre con la leggerezza di un levriero...   

Marina Rebeka merita un voto più che discreto: 18 mesi fa non aveva proprio fatto un figurone, ma oggi devo dire che è progredita (non solo per il famigerato MIb) e il pubblico l’ha gratificata - con Leo e Zubin - di applausi a scena aperta e ovazioni finali... con sordina!

Dell‘Alfredo del carioca Atalia Ayans mi limito a dire che potrà sempre far meglio... Tutti gli altri al loro posto, ecco. Il coro di Casoni era relegato al lati e al fondo della caverna, quindi bravi ad aver fatto arrivare i suoni fino alla platea (e spero anche più su...)

Che dire, in conclusione: accontentarsi, dati i tempi che corrono, è come minimo doveroso... ma è dura davvero!

12 gennaio, 2019

Alla Scala sempre la stessa Traviata


È dal 1990 che La traviata che si rappresenta alla Scala è sempre la stessa: sì, certo, quella di Verdi. Ma io mi riferisco alla messa in scena da Liliana Cavani. Per dir la verità un’eccezione (ma proprio unica) si è registrata negli ultimi tempi: fu a SantAmbrogio del 2013 con la produzione del genio Tcherniakov (Gatti sul podio e Lissner alla soprintendenza). Poi già nel 2017 tornò quella che era stata impiegata in ben altre 8 stagioni (91-92-95-97-01-02-07-08) dopo quella dell’esordio.

Delle due l’una: o nei magazzini del teatro sono andate a fuoco le scene (ma anche i testi della sceneggiatura) del regista russo, oppure mi sa proprio che quella del 2013-14 non fosse una produzione destinata ad entrare nella storia...
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Ecco, sistemati rapidamente l’epicedio per Tcherniakov e l’epinicio per Cavani, vengo al sodo, cioè alla parte strettamente musicale della serata. Che ha avuto per protagonista Myung-Whun Chung, già da come si è presentato con il Preludio, attaccato con un ppppp quasi impossibile, e poi caratterizzato (in ciò farà il paio con l’altro preludio) da sapienti incertezze di agogica che sembravano descrivere l’instabilità fisica (e pure psichica) della protagonista.

La quale è Marina Rebeka da Riga, che mi è parsa progredire nel corso dei quattro quadri dell’opera, dopo un avvio non proprio impeccabile, compreso l’attacco del primo Sempre libera. Forse (e senza forse) erano per lei gli isolati ma chiari buh piovuti dalla seconda galleria all’uscita dopo il primo atto: certo, se motivati solo dall’assenza del famigerato MIb finale, allora sarebbe da buare il buatore. Non particolarmente memorabile anche l’interpretazione, un po’ carente di... carisma; tutto sommato una Violetta appena discreta, che però, come detto, è cresciuta via via e ha finito per meritarsi i consensi arrivati alla fine. Adesso, passata quasi indenne dalla rottura del ghiaccio, c’è da aspettarsi che possa solo migliorare ancora.   

Francesco Meli è invece un Alfredo ben centrato sul personaggio. Mi pare stia ultimamente un po’ esagerando con l’impiego della mezza-voce, voce che per il resto è sempre un piacere ascoltare.

Leo Nucci ormai ha l’età di... nonno Germont! Ma è un nonno che canta ancora come e meglio del figlio (cioè di Germont-padre, sia chiaro, non vorrei offendere Meli). Efficace anche (come sempre, del resto) la sua interpretazione, efficacia già manifestatasi all’entrata in scena, proterva e minacciosa. Così come il progressivo... ammorbidimento, fino al conclusivo mea-culpa.

Tutti gli altri - la Flora di Chiara Isotton, Douphol di Costantino Finucci, Grenvil di Alessandro Spina e Obigny di Antonio Di Matteo - su standard più che dignitosi, come quelli degli accademici Caterina Piva (Annina), Riccardo Della Sciucca (Gastone), Sergei Arbkin (Giuseppe) e Jorge Martiniz (domestico).

Tutto sommato, una compagnia bene assortita cui ha... tenuto compagnia il solito splendido coro di Bruno Casoni (anche qui dopo una partenza non centratissima).

Durante la recita applausi a scena aperta sempre piuttosto contenuti; alla fine e alle singole uscite invece il consenso è cresciuto e i protagonisti - compresa l’immarcescibile Liliana Cavani - hanno avuto la loro buona dose di applausi.  Per il Direttore, anche ovazioni e bravo! (pienamente meritati).

Che dire, questa è una di quelle proposte dove i rischi superano di gran lunga le speranze di successo; quando invece il successo (pur contenuto) arriva... la scommessa è vinta.

16 dicembre, 2013

Violetta alla Scala: impressioni dal vivo

 

Ieri sera terza recita (in una Scala che presentava qualche buco in platea e parecchi vuoti nei palchi) del titolo che ha aperto a SantAmbrogio. Come accade non da oggi, dopo una prima contestata, quella di ieri (ma, dicono, anche la seconda) è invece stata accolta da convinti applausi e soprattutto senza aperti dissensi (per la verità è mancato il giudizio sulla regìa, renitente al momento delle uscite finali).


In ogni caso sul fronte dei suoni il risultato mi è parso di livello notevole, grazie ai tre protagonisti principali.

Diana Damrau si è confermata una Violetta di gran spessore, particolarmente convincente in quei passaggi di maggior lirismo (che lei canta a fior di labbra, quasi a bocca chiusa) ma sicura anche nel canto spiegato (e non solo per quel MIb che ieri ha staccato con grandissima autorità). Se proprio dovessi trovarle un pelo nell’uovo, direi di qualche acuto un filino calante e della cosiddetta ottava bassa che faticava a… percorrere gli enormi spazi del Piermarini. Per lei, un trionfo totale.

Piotr Beczala era partito un filino contratto e piuttosto impreciso nei passaggi di maggior virtuosismo, ma poi si è via via migliorato e nessuno ha trovato da ridire sulla sua prestazione complessiva.

Anche Željko Lučić (per la verità l’unico personaggio che il regista ha… lasciato in pace, smile!) ha confermato la prova discreta dell’esordio, ieri oltretutto anche Gatti lo ha supportato meglio che a SantAmbrogio.

Quanto ai comprimari, mi vien da citare per tutti il Gastone di Antonio Corianò. Sui suoi standard il coro di Bruno Casoni.

Daniele Gatti? La sua è una direzione improntata all’intimismo, quasi cameristica, che potrà non piacere del tutto a chi ama un Verdi più sanguigno. A me non è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico si è mostrato di questo avviso: qualche timido dissenso  è stato ampiamente coperto da applausi calorosi su cui si è inserita una raffica ritmata di bravo, bravo, bravo! proveniente (mi è parso) da un singolo punto della prima galleria (evidentemente un supporter particolarmente agguerrito…)

Chi non si è fatto vedere, come detto, è il regista, sottrattosi all’esame-finestra: così non possiamo sapere se il pubblico di ieri abbia gradito oppure no la sua proposta.

E allora ci torno sopra io, cominciando col dire che la visione dal vivo non mi ha fatto cambiare idea rispetto a quella di SantAmbrogio in TV. Questo di Cerniakov è uno spettacolo assolutamente coerente in se stesso, incentrato su una visione attualizzata del soggetto originale, ma dove l’attualizzazione, ahinoi, comporta uno scollamento tanto evidente quanto stridente fra ciò che si vede in scena e ciò che si ascolta dalle voci e dagli strumenti, cioè da ciò che Piave e Verdi ci hanno lasciato. 

Ora, per non dar l’impressione di emettere giudizi sommari senza motivarli, prendo alla lettera il motto di Lissner (non siamo qui per farvi divertire, ma per farvi riflettere) e  provo precisamente a fare qualche riflessione. Lissner mi perdonerà se in queste mie riflessioni parlo di un prodotto (uso qui il linguaggio universale anche se freddo del business) che lui mi ha venduto come originale e genuino (a giudicare dalla locandina) e che io (sulla fiducia) gli ho comprato, pagandolo, e profumatamente, in anticipo.

Per non farla troppo lunga, parto direttamente dalla fine (del resto in ogni opera in fundo stat dulcis…) Dunque, nella Traviata di Verdi-Piave (musica-libretto) abbiamo una giovane donna che muore. Di cosa? Di una malattia del fisico, del corpo, già ampiamente diagnosticata come letale e della quale Violetta è perfettamente cosciente da tempo: sintomi si sono manifestati già nel primo atto; poi, pur senza nominarla, ne ha fatto cenno a Germont-sr nell’atto secondo. Certo, una malattia potenzialmente aggravata da componenti psicologiche avverse, prima fra tutte una felicità tanto improvvisa, insperata, inimmaginata e totalizzante rapidamente distrutta da fenomeni estranei a lei e alla persona che l’ha resa felice.

Ma una cosa è lampante, straordinariamente chiara: Violetta, che sa di morire (devolve in carità gli ultimi spiccioli) muore però contro-voglia, mentre vorrebbe cocciutamente vivere; immediatamente prima del finale collasso… si rialza rianimata - ci spiega Piave - e canta Cessarono gli spasimi del dolore… in me rinasce… m’agita insolito vigor! Ah!… ma io… ritorno a viver!… oh gioia! La vita le viene strappata proprio mentre le cause della drammatica interruzione della sua felicità sono state interamente rimosse, e ripristinate le condizioni (di natura privata e pubblica) perché quella felicità possa tornare concreta, tangibile, possibile e praticabile. Insomma, Violetta vuole vivere! E per questo c’è una drammaticità commovente in quel suo sfogo Gran Dio! …morir sì giovane.

Chi le è vicino al momento del trapasso? Precisamente quattro persone care (Grenvil, vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...) di cui sarà bene ricordare ruoli ed atteggiamenti. In primo luogo Alfredo, che da quando se n’è innamorato non ha cessato di amarla, e non solo nelle tre lune trascorse con lei (contenta in quegli ameni luoghi!) ma anche successivamente, persino mentre sfogava platealmente contro di lei tutto il suo risentimento. In fondo, si era reso conto ben presto che lei era stata costretta a fingere di tradirlo, con il solo nobile senso di salvare l’onore suo e della sua famiglia. Poi papà Germont, sinceramente pentito per aver interrotto quella felicità, ed ora pronto ad ogni riparazione. E il medico, che amorevolmente accorre ripetutamente al suo capezzale (trascurando magari migliori opportunità di guadagno) per curarla e per confortarla. E infine Annina, ormai una fedele amica, prima ancora che donna di casa.

Scenario strappalacrime ottocentesco? Improponibile e ridicolo ai giorni nostri, dove le lacrime sono merce sconosciuta a pochi e risorsa esaurita per i più? Forse, ma è precisamente a questo scenario che stupendamente si attagliano i versi di Piave e - soprattutto! - la musica di Verdi. Per dire, le 23 battute che precedono lo spirare della donna che vorrebbe a tutti i costi vivere sono una vera e propria Tod-und-Verklärung ante-litteram (rispetto a Strauss ma anche al Wagner di Isolde e al Puccini di Mimì). E da questo punto di vista benissimo ha fatto Gatti a riprendere l’orchestrazione del 1853, facendo suonare i due soli violini à-la-Lohengrin (l’abbassamento di un’ottava del 1854 è ormai appurato fosse esclusivamente dovuto alla palese insufficienza di strumenti e strumentisti dell’epoca…)

Ecco, questo è il prodotto che uno spettatore che riflette - caro Lissner - si attende di ricevere in cambio del (salato) prezzo del biglietto. Il regista ci metta pure (e ci mancherebbe!) tutta la sua fantasia e sensibilità, ma il prodotto finale deve avere quella sostanza, e in primo luogo possedere piena coerenza con quella mirabile miscela di parole e musica che gli autori ci hanno consegnato. Altrimenti è solo una (per quanto accurata) contraffazione

 

Che prodotto ci consegna invece Lissner, per tramite del suo regista russo? Una donna malata e morente sì, ma affetta da una tipica malattia nervosa (lo abbiamo constatato durante l’intera opera, anche ben prima della stroncante irruzione di Germont-sr); una donna malata non ai polmoni ma alla mente (grottesca davvero la scena di Grenvil che ammicca ad Annina indicando la condizione di Violetta con un inequivocabile picchiettare dell’indice della mano contro la tempia, mentre canta la tisi non le accorda che poche ore… !) una povera donna distrutta nella psiche, una che non sta curando con farmaci un male fisico, ma una che sta impasticcandosi con droghe e riempiendosi di alcol col risultato di aggravare il suo stato psicologico. In poche parole: una donna alienata che non vuole (più) vivere! In questo scenario la sua esternazione Gran Dio! …morir sì giovane suona come una stridente contraddizione.

 

E chi si agita attorno a lei? Persone innamorate, pentite e caritatevoli? Nemmeno per idea: tre persone che – letteralmente! – non vedono l’ora che lei tiri le cuoia! Alfredo, che sembra infastidito, proprio come fosse lì controvoglia e avesse altro di meglio da fare. Suo padre che le si avvicina quasi timoroso (proprio come si fa con i matti…) E il dottore, che resta lì impalato, quasi fosse impaziente di tornare al suo ambulatorio per fare visite più lucrose. Alla povera Annina non resta che cacciarli tutti perché quella disgraziatissima Violetta possa finalmente morire senza disturbatori attorno.


Orbene, e vengo al punto cruciale dell’intera questione: con una scena simile la musica di Verdi (ma anche il testo di Piave, infatti in parte cassato, cosa del resto non nuova) ci sta proprio come i cavoli a merenda. Meglio le si attaglierebbe magari la musica che fu composta (80 anni dopo!) per un altro capolavoro: Lulu…

E al resto dell’opera si possono tranquillamente estendere le considerazioni fatte riguardo al finale: Cerniakov – a differenza della sua Violetta - non è mica fuori di testa, e quindi tutto il suo spettacolo è coerente con la sua concezione, fin dall’inizio non fa che preparare adeguatamente quel finale.

Non altrimenti si spiega l’approccio letteralmente parodistico del regista alla scena dell’incontro di Violetta con Alfredo e a quella successiva di Violetta sola: nella prima Alfredo dovrebbe lanciare un seme (Di quell’amor…) che germoglia in Violetta nella seconda (A quell’amor…) Noi invece vediamo un Alfredo di credibilità zero e una Violetta che sembra farsi beffe dei suoi sentimenti.

E così la scena d’esordio del second’atto viene banalizzata in modo indisponente, a partire dall’ambiente: invece di un salotto dove gli oggetti principali dovrebbero essere dei libri e l’occorrente per scrivere (capita l’antifona, Cerniakov?) noi siamo in cucina, in mezzo ad ingredienti assortiti per pizze e minestroni. E con Alfredo che ci racconta della sua nuova vita al fianco di Violetta con parole e musica che esprimono rapimento e felicità celestiale, mentre lei si aggira proprio lì attorno, impegnata come lui in prosaiche faccende domestiche. Dico: una presa in giro!  

Poco dopo, solo una Violetta isterica (che è diverso dallo sconvolta e preoccupata) può aggredire letteralmente a pugni e spintoni un esterrefatto Alfredo cantandogli …perché tu m’ami, tu m’ami, Alfredo, non è vero?

Prima di trattare del secondo quadro, un’osservazione di passaggio sulla cervellotica idea di fare l’intervallo lungo fra le due parti del second’atto. Non parlo degli aspetti legati alla struttura stessa dell’opera, che prevede, canonicamente, un finale d’atto in crescendo, con il concertato conclusivo, ma semplicemente degli aspetti pratici, proprio terra-terra, della questione. Dunque, qui ci sono tre intervalli: questo, lungo ben 40 minuti, più altri due – pubblico inchiodato alle poltrone - di ben 8 minuti ciascuno, in corrispondenza della fine del primo e del secondo atto. Totale, 56 minuti. Adesso, anche un bambino che sa far le somme arriva a capire che, a parità di tempo totale, dividendo l’opera come si deve, si potevano fare due intervalli di 25 minuti fra gli atti, più uno di 6 minuti fra i due quadri del secondo. Cosa normalissima per chiunque ed ovunque, ma qui le cose normali evidentemente sono considerate delle stupidaggini.

Ecco, la festa in casa di Flora. Si potrà anche sorridere dell’idea di Verdi-Piave di aprirla con i due cortei di invitati mascherati da zingarelle e toreri, ma ci spiega Cerniakov perché la trasforma in una specie di goliardico de-profundis per il povero Alfredo? Che arriva una prima volta per ricevere le condoglianze da parte degli invitati, prima di uscire per poi subito rientrare al momento previsto dal libretto? Quello che, con un riso nevrastenico, fa volare per aria mazzi di banconote per pagare Violetta non è un individuo alterato che sfoga dolorosamente il suo rancore, ma un povero idiota, in preda ad una crisi di nervi.   

La finisco qui (ma ci sarebbe ancora assai da contestare): insomma, un’idea-portante dello spettacolo semplicemente bizzarra e cervellotica (per quanto realizzata con indubbia maestrìa) che – manco a dirlo – è del tutto inconsistente con la musica e le parole che si ascoltano.

Ecco, caro Lissner: questo è ciò che uno spettatore che cerca di riflettere – eh sì, non un talebano infiltratosi in loggione – deduce dall’osservazione del tuo prodotto. Giudizio: buh!

08 dicembre, 2013

Ancora due cosette sulla Traviata scaligera

 

Come si è ben visto – anzi, udito – i dissensi finali hanno colpito principalmente (ma non solo) la regìa di Cerniakov. Il quale ha seguito l’ormai classico – e quasi sempre deleterio – processo che ha come obiettivo quello di impiegare l’opera in questione per rappresentare (in funzione pseudo-maieutica) scenari e problemi di attualità. Nella fattispecie, come deve aver ragionato il regista russo?

 

1. Verdi (con Piave) intendeva mettere in scena uno spaccato di certa società degli anni 1850, contemporanea quindi a lui e al suo pubblico;

2. vivendo noi negli anni 2000, bisogna trovare qualcosa che rappresenti aspetti e comportamenti radicati nella nostra società, che è oggettivamente diversa da quella di 150 anni orsono;

3. una di queste caratteristiche – ormai lo abbiamo imparato a memoria, da Freud sui libri e da Strindberg, per dire, a teatro – è la nevrosi (indotta in tutti noi da questa nostra società alienante) che impedisce agli esseri umani di vivere compiutamente e in modo spontaneo e… umano anche il rapporto più importante: l’amore;

4. e quindi Violetta e Alfredo il loro amore lo devono vivere in uno stato di perenne isteria, che porta lei nientemeno che alla morte e lui a vedere quella morte come un’autentica liberazione da un incubo.

 

Noto di passaggio che il regista non si deve essere fatto tradurre bene in russo il testo dell’aria di esordio dell’atto secondo, che ci racconta del tipo di ménage Violetta-Alfredo più e meglio di un’intera raccolta di Racconti di Liala… Forse questo ha portato il regista ad immaginare che i bollenti spiriti fossero riferiti ad un minestrone di verdura, che infatti Alfredo si mette solertemente a cucinare (smile!)

 

Se qualcuno obietta che il soggetto di Cerniakov sarà pur interessante ed attuale quanto si vuole, ma non ha nemmeno un capello in comune con quello di Verdi-Piave, la risposta è già bell’e pronta: chi se ne frega! qui si fa teatro, amico, mica siamo al museo!

 

Beh, a qualcuno invece pare che gliene freghi parecchio, a giudicare dai buh di ieri sera. Di cui val la pena anche di interpretare il senso, essendo stati apparentemente… schizofrenici (proprio come questa Violetta, smile!) Allora: alle prime uscite singole tutti gli interpreti (con una sola eccezione) hanno ricevuto soltanto consensi, da quelli trionfali alla Damrau fino a quelli moderati, andati persino a Lucic. L’eccezione è stato Beczala, accolto da un mix di applausi e buh. Poi i buh son diventati un fiume alla comparsa di Gatti, cui evidentemente non si sono perdonati certi elastici nei tempi e magari  - forse contagiato dal regista - un approccio più consono a Berg che a Verdi. Infine sono diventati appunto un oceano per il regista. Dopodiché però hanno continuato ad imperversare anche sui singoli, alle uscite successive. Perché mai? Ecco, a me pare che questi ultimi fossero dissensi espressi verso gli interpreti in quanto complici – convinti o meno – del risultato complessivamente negativo della serata. Come dire: cara Diana, tu avrai anche cantato benissimo, ma la tua Violetta in complesso ci ha deluso, e poco conta che la colpa sia del regista, perché in scena c’eri comunque tu.        

 

Radio3, in una specie di fuori-onda al termine della trasmissione, ha captato il pistolotto di addio di Lissner (questo era il suo ultimo SantAmbrogio, e meno male, aggiungo io…) alle masse scaligere. Indirizzo concluso con la ripetizione del suo ritornello ormai trito e ritrito: la missione della Scala non è far divertire il pubblico, ma farlo riflettere!

 

Beh, in linea di principio si potrebbe anche concordare, ma a condizione che il pubblico sia portato a meditare sui contenuti che Mozart, Wagner, Verdi ci hanno trasmesso nei loro capolavori. Meno, se veniamo costretti a sorbirci i contenuti dei vari genialoidi sponsorizzati da Lissner: Carsen, Guth e Cerniakov; che per farsi belli, ricchi e famosi loro (e far salire l’ingaggio del soprintendente!) non esitano a sequestrare, per poi riconsegnarceli dovutamente adulterati, quei capolavori del teatro musicale.

 

Amen.


Ah, dimenticavo che ce n’è anche per Gatti. Tutti ricordano come reagì al fiasco del SantAmbrogio 2008: richiesto di commentare i fischi piovutigli addosso, rispose un filino piccato (prima di sbattere la porta) che non ne aveva udito alcuno!

Ieri sera, intervistato da Pedone di Radio3 dietro le quinte, e con il frac ancora inzuppato di buh, il nostro ha serenamente ammesso che le contestazioni erano la legittima manifestazione di libero pensiero. Ohibò, due Gatti e due misure? Mah, credo che la spiegazione non sia poi così difficile: quel Don Carlo rappresentava per lui una specie di esame di ammissione al concorso per un posto di Direttore musicale alla Scala, e la bruciante bocciatura doveva parecchio rodergli dentro. A 5 anni di distanza il nostro si deve essere messo il cuore in pace, quanto meno accettando il fatto che la prossima opportunità gli verrà offerta quando avrà raggiunto l’età che ha oggi Riccardo Chailly (smile!) Ecco perché, almeno per un po’ di tempo, può permettersi di fare il signore…


Ri-amen.

07 dicembre, 2013

Alla Scala una Traviata… isterica


Sì, isterica sulla scena (la prossima, per contrappasso, avrà la personalità di barbie) e – alla fine – in loggione.

 

La regìa, che si può abbastanza bene giudicare anche dalla TV, mi è parsa di una puerilità disarmante. E non certo per la sfoglia e i cetrioli…

 

Le voci è un po’ difficile apprezzarle quando si sente un suono che arriva da un microfono posto sull’ugola del/della cantante. Comunque la Damrau mi è parsa all’altezza (salvo che nel MIb opzionale) mentre Beczala è partito discretamente, ma alla fine mi pareva in difficoltà anche sui SOLb (non parliamo di come ha fatto il DO all’attacco della ripresa di Oh mio rimorso). Lucic meno peggio dell’immaginabile, anche se Gatti non mi pare l’abbia aiutato, con tempi francamente troppo celeri. La Zampieri-Wanna mondiale!



In loggione c’erano evidentemente quelli che Alberto Mattioli chiama amichevolmente, e anche un po’ grillescamente, care salme… Per ripicca, han fatto loro il funerale al regista (smile!)

11 marzo, 2010

Eurotrash revival

Divertente questa recensione, fatta da un musicista del Wiltshire, della Traviata ripresa quest'anno alla Komische Oper Berlin (si replica fino a maggio, per i patiti del genere).

Protagonista di questo trash (del 2008) il genialoide Hans Neuenfels, ovviamente osannato dalla critica (ma solo quella di cui si pubblicano estratti sul sito del teatro, toh!) per le sue geniali intuizioni.

Fra le quali il nostro Guy Edwards ci elenca la guardia del corpo di Violetta (per difenderla da se stessa, non dagli ammiratori) che Alfredo ammazza, e a cui poi strappa il cuore; Giorgio Germont che ha una zampa zoccolata di animale al posto del piede sinistro (in Provenza deve far comodo); Alfredo e Douphol che non giocano a carte, ma a chi meglio infilza un cuore (di Violetta?) messo su un vassoio.

Ma il meglio arriva alla fine, quando, durante il baccanale, la guardia del corpo di Violetta ricompare, provvisto di enormi coglioni gonfiabili, che poi infilza – prima di andarsene - con uno stiletto, facendoli così esplodere.

perdonami lo strazio recato al tuo bel core

15 ottobre, 2009

La Traviata al regio-TO

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Ascoltata per radio, la prima di ieri sera non ha – per me – deluso le aspettative.

(Certo un livello complessivo di un gradino sopra a quello della Traviata del Maggio, forse fatta troppo in… economia!)

Qui una recensione di Amfortas dell’ascolto radiofonico che mi sento di condividere largamente.
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13 ottobre, 2009

Gianandrea Noseda inaugura il Regio-TO con Traviata

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Mercoledi 14 ottobre il Regio di Torino apre la stagione con Traviata. Sul podio il suo Direttore Musicale, Gianandrea Noseda.

Da suo concittadino, mi piace riportare qui una pagina di uno dei periodici locali, La Gazzetta del Nord Milano di Sesto San Giovanni, in cui si ricorda come il Direttore abbia salito i gradini della fama internazionale grazie all’educazione musicale impartitagli da papà Tarcisio e dalla Scuola Donizetti di Sesto. (click sull'immagine per ingrandirla)