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20 febbraio, 2025

Onegin visto da Martone alla Scala.

Dopo quasi 16 anni (luglio 2009, produzione targata Bolshoi, della coppia Cherniakov-Vedernikov) tornano alla Scala le scene liriche di Ciajkovski. Affidate ora alla messinscena di Mario Martone e alla guida musicale di Timur Zangiev (un giovane alano sufficientemente non-putiniano da poter prendere, nel marzo del 2022, il posto del bandito Gergiev per la Dama di Picche).

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Una curiosità che lega l’Opera con la biografia dell’Autore consiste nella palese analogia fra la relazione Tatjana-Onegin e quella fra Ciajkovski e Antonina Ivanovna Miljukova, sua ex-allieva al Conservatorio di Mosca e poi (ma solo per l’anagrafe…) sua moglie.

Entrambe le giovani donne si innamorano perdutamente (e impulsivamente?) di un uomo maturo; entrambe prendono l’iniziativa (inconsueta nel 1820 come nel 1877) di dichiarare apertamente, per lettera, il loro amore all’uomo. 

Prima domanda: c’è un qualche nesso causa-effetto fra la composizione dell’Onegin e la relazione del compositore con la ex-allieva? La prima lettera di Antonina precede o segue la composizione (che iniziò proprio con la scena della lettera di Tatjana?)

E poi: Ciajkovski aveva verso l’altro sesso una totale preclusione (sia pure di natura antipodica rispetto a quella di Onegin: attitudine congenita, la sua, vs rifiuto da sazietà, quella del personaggio dell’opera) e in un primo momento tenne verso le avances di Antonina lo stesso comportamento di Onegin verso Tatjana: un fermo, sia pur cortese, rifiuto. Ma poi cambiò quasi subito atteggiamento nei confronti della giovane, decidendo di accontentarne i desideri di matrimonio.

Senza però modificare in nulla le sue attitudini, e promettendole quindi un amore non più che fraterno (o paterno). Per quale motivo? Per provare a sfruttare quell’occasione per tacitare le dicerie su di lui e – almeno nella forma - rientrare nella normalità? O per evitare, chissà, di doversi pentire in futuro (proprio come Onegin) di un rifiuto senza appello?

Sta di fatto che questa vicenda umana assunse aspetti di miserevole prosaicità, arrivando persino a minacciare la salute, e come minimo la creatività del compositore (che venne salvato dalla provvidenziale presenza della vonMeck) oltre che a rovinare l’esistenza della donna.

E a queste differenze fra arte(-finzione) e realtà prova a rispondere persino l’oracolo-IA.

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Torniamo ora all’opera… Partendo dall’interpretazione del soggetto datane dal regista. Cha sceglie un approccio abbastanza minimalista per le scene (di Margherita Palli) e l’ambientazione dei tre atti: nel primo, mettendo al centro la natura, la sterminata steppa russa, rappresentata da campi di grano da poco mietuto e da una semplice casupola ingombra di cataste di libri (la camera di Tatjana…); nel secondo (l’onomastico della deuteragonista) una specie di arena con tribunetta, spazio-barbecue e altre cataste di libri, qui come infilati su grossi spiedi, che alla fine infausta della festa verranno inghiottiti dalle fiamme; nel terzo un velo rosso a chiudere la scena, poi solo lampadari e poi… praticamente nulla, ad evocare evidentemente il totale vuoto esistenziale che si crea attorno ai due protagonisti del dramma.

Costumi (di Ursula Patzak) della moderna attualità, peraltro senza esagerare in orpelli ridicoli (per dire… le cuffie che indossa Tatjana all’inizio del primo atto sono quelle insonorizzanti - niente smartphone! - che le servono a isolarsi dalla cagnara circostante per leggere il suo libro in pace).     

Le luci di Pasquale Mari seguono il precipitare degli eventi: dal solare chiarore estivo dello sbocciare dell’amore, al cupo inverno della tragedia, alle silhouette del ballo finale per finire al buio totale dello scioglimento del dramma. Daniela Schiavone cura le coreografie, tendenzialmente caotiche, presenti nelle scene di varia umanità dei primi due atti e (solo per la scozzese) del terzo. Di Alessandro Papa sono le proiezioni video, limitate allo sfondo ambientale.

Qualche trovata sopra le righe non manca (per giustificare la… parcella del regista): l’arrivo, per la festa di Tatjana, di un plotone di soldati; il duello trasformato in roulette russa, con presenza interessata di allibratori e scommettitori; la decisione di far suonare la polonaise a sipario chiuso (per riempire il secondo intervallo e coprire il cambio-scena?)     

Tutto sommato efficace la recitazione dei singoli, qualche caduta di stile, come anticipato, in quella delle masse corali.

Tirando le somme: una messinscena forse animata dal desiderio di dire qualcosa di nuovo senza però stravolgere il soggetto dell’opera; insomma: non deludere troppo i passatisti (che vorrebbero vedere il gran ballo a palazzo Gremin) e, sull’altro fronte, gli amanti della de-strutturazione e della ri-ambientazione del soggetto (che so, conoscendo Martone, inventando Onegin e Lensky come due picciotti che finiscono per contendersi a colpi di lupara la zoccola di passaggio…)

Come è finita? Un autentico disastro! Materializzatosi in un uragano di buh – già uditi al termine della polonaise (per l’astinenza da ballo?) - sceso dal secondo loggione a coprire l’ingresso sul palco del team del regista! Per la cronaca, accompagnato da un sottofondo di applausi della maggior parte del pubblico.

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Buone, ma non strabilianti, notizie dal fronte musicale, a partire dal Direttore, che evidentemente ha questa musica nel DNA, ed ha guidato l’Orchestra scaligera in gran forma ad una prestazione apprezzabile che, a mio avviso almeno, ha adeguatamente servito lo spirito – appunto – lirico della partitura.

A partire dalla delicatezza dei temi di carattere intimo e romantico; e poi alle pene d’amore di Tatjana, agli slanci vibranti di Lensky, o ai patetici ricordi di Larina e Filippevna, al cinismo di Onegin, alla sfrontatezza e ingenuità di Olga, alle leziosità di Triquet e al senile appagamento di Gremin. Qualche eccesso di decibel ha creato un paio (non più) di problemi alle voci, ma si può perdonare, in una prima.

Trascinanti anche le esecuzioni dei famosi brani a piena orchestra, il walzer e la mazurka del second’atto e la polonaise e la scozzese del terzo. [A proposito, qui la polonaise è mutilata – ma è cosa assai frequente e prevista comunque come opzione in partitura – delle 8 battute nella prima esposizione della sezione principale].

Sempre all’altezza il Coro di Alberto Malazzi, che qui ha un ruolo di primo piano, pur in assenza di scene da grand-opéra.

Alexey Markov è un Onegin scenicamente a posto, mentre la voce (per i miei gusti) manca un po’ di brillantezza e di varietà di accenti. Meglio di lui la sua bistrattata Tatjana, Aida Garifullina, che ha sfoggiato bella voce da soprano lirico (mai troppo impegnata da Ciajkovski negli acuti, salvo proprio il SI finale) e ha retto da par suo la massacrante e interminabile aria della lettera.

Il mattatore della serata è stato il Lensky di Dmitry Korchak, da qualche tempo sbarcato alla Scala (da Pesaro) e divenutone ormai un beniamino. Le sue due arie (in particolare quella famosa che precede il duello) sono state lungamente applaudite.

Bene Dmitry Ulyanov, un Gremin nobile ed accorato nella sua patetica esternazione sull’amore che non ha limiti… stagionali e simpatico il Triquet di Yaroslav Abaimov, il cui siparietto anima la festa per Tatjana.

Elmina Hasan (Olga), Alisa Kolosova (Larina, che pare all’aspetto la sorella minore delle sue figlie!), Julia Gertseva (una premurosa Filippevna) hanno dignitosamente fatto la loro parte. Come Huan Hong Li (Capitano) e Oleg Budaratskiy (Zeresky).

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Come detto, applausi per tutti (Korchak in testa, con Zangiev) e aperte contestazioni a Martone. Personalmente approvo pienamente i primi e trovo francamente esagerate le seconde… 

17 aprile, 2024

Il dittico verista di Martone ripreso alla Scala

Dopo la produzione originale del 2011 (parzialmente ripresa nel 2014, senza Pagliacci e poi nel 2015) la Scala ripropone il classico dittico con la messinscena di Mario Martone e con Giampaolo Bisanti sul podio (calcato ai tempi da un giovine Harding). A differenza di 13 anni fa, la sequenza di presentazione è quella che si può considerare standard: prima Mascagni, poi Leoncavallo.

Liquido subito la regìa, riproponendo per filo e per segno le mie impressioni originali (diciamo… sostanzialmente positive, ma con qualche perplessità, ecco) che questa ripresa non mi ha certo convinto a modificare.  
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Giampaolo Bisanti ha confermato le ottime prove delle sue recenti (22-23) apparizioni in Scala (Adriana, Ballo e Macbeth) guidando con autorevolezza la buca e il palcoscenico: equilibrio nelle dinamiche, attenzione a dettagli, colori e sfumature. Incomprensibile un isolatissimo buh arrivatogli dal loggione all’uscita finale, in mezzo a convinti applausi (di un pubblico non proprio oceanico…)

Sempre sui suoi (alti) livelli il coro di Alberto Malazzi, particolarmente in Mascagni.       

In Cavalleria, detto dell’ennesima, miracolosa prestazione dell’inossidabile nonna Zilio, su tutti la Santuzza di Elīna Garanča, encomiabile nello scolpire questo personaggio di donna alla mercè dei pregiudizi di una società patriarcale (oggi siamo ancora lì?)

IL Turiddu di Brian Jagde ha ben meritato: voce squillante, con buona proiezione, acuti puliti e otttima presenza scenica; per lui un debutto scaligero più che lusinghiero.

Onesta ma non eccezionale invece la prestazione di Francesca Di Sauro, che mi è parso aver messo poca grinta (a dispetto della voce… robusta) nell’interpretare l’enigmatica personalità di Lola.

Alfio era Amartuvshin Enkhbat. Lo avevo sentito solo in Rigoletto e devo confermare il mio giudizio: vocione poderoso ma ancora da mettere bene sotto controllo, ecco. Il giudizio vale anche per il Tonio nei Pagliacci, ovviamente. Il pubblico lo ha comunque accolto con molto calore, il che speriamo lo spinga a migliorarsi ancora.

In Pagliacci metto davanti a tutti il Canio di Fabio Sartori, la cui professionalità garantisce sempre il risultato!  

Irina Lungu ha messo la sua ormai più che ventennale esperienza – voce e presenza scenica - al servizio del controverso personaggio di Nedda: anche per lei solo applausi.

Bene anche Mattia Olivieri, che ha rivestito ll personaggio di Silvio (che Martone trasforma da contadinotto in tamarro…) con la sua calda voce baritonale.

Applausi infine anche per il Peppe di Jinxu Xiahou, che conferma le sue ottime doti, già manifestate nelle sue recenti presenze in Scala.
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In conclusione, una piacevole serata di musica!    
   

19 agosto, 2023

ROF-44 live - Aureliano

Il mio secondo passaggio al ROF-live ha avuto come oggetto Aureliano in Palmira, la produzione del 2014 firmata da Mario Martone, produzione che avevo abbastanza duramente criticato al suo apparire; critiche che la ripresa di Daniela Schiavone non ha per nulla fugato.

Come scrissi allora, in effetti si tratta di una messinscena di sconsolante banalità, priva di una qualunque cifra interpretativa: sembra il compitino in classe di un ragazzino cui si è fatta leggere la favola della regina Zenobia. Una cosa fra la scimmiottatura di Zeffirelli e la parodia di un filmaccio di Maciste. La scena dei pastori, in particolare, è di un deprimente… realismo: tre caprette che entrano sul palco a brucare stoppie! Velleitaria l’idea di mettere in scena il continuo (la brava Hana Lee al fortepiano): sarà pure più vicino ai cantanti, ma è 30 metri più lontano dal pubblico!

Ma davvero insopportabile è la trovata finale: per mostrare a tutti che la sua è una regìa impegnata, Martone che ti inventa? Mentre i protagonisti stanno cantando il concertato conclusivo, lui fa scendere un pannello su cui viene proiettata sopra la storia vera (!?) di Zenobia. Così il pubblico si impegna per leggere il pistolotto e si perde tutto il finale! Pistolotto che si conclude con un riferimento di tutta attualità: ciò che accade oggi in Medioriente, e in Siria-Iraq in particolare, altro non è se non uno strascico antimperialista di quelle vicende di 2000 anni fa; insomma, i criminali tagliagole dell’ISIS sono i nipotini di Zenobia! 
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Avanzo qui un’altra considerazione, seguita da una domanda: dato che il trasferimento dal Teatro Rossini all’Arena (palcoscenico assai più vasto con in più la passerella che circonda l’orchestra) ha costretto necessariamente ad apportare modifiche piccole o grandi alla messinscena, non sarebbe stato il caso di cogliere l’occasione – che non tornerà tanto presto - per proporre dell’opera, anzichè la versione completa e lunghissima, quella più breve, pur prefigurata come la prima dall’edizione critica di Will Crutchfield? Il che avrebbe anche avuto un senso dal punto di vista filologico, nel rispetto degli obiettivi del Festival che ormai, chiuso definitivamente - con Eduardo & Cristina - il ciclo delle prime, deve necessariamente percorrere vie nuove. 

In effetti l’ascolto integrale dell’opera lascia intuire le ragioni del suo scarso successo lungo gli anni, e degli innumerevoli tagli cui è stata regolarmente sottoposta: a dispetto del grande spessore della musica, incredibilmente innovativa se pensiamo al 1813, la sua lunghezza smisurata e la scarsa consistenza del soggetto (si pensi solo allo stucchevole succedersi di battaglie, tregue, trattative cui seguono altre battaglie…) la rendono difficilmente digeribile nella versione completa.

Opera altamente innovativa, appunto, e non a caso Rossini dedicò alla composizione di Aureliano tempo e fatica insoliti per lui, in quei primi e vorticosi anni della sua produzione. Un chiaro indizio di ciò è il trattamento riservato alla Sinfonia: a differenza dei suoi successivi imprestiti (ad Elisabetta e Barbiere, opere dove non ha alcun riferimento ai contenuti)  motivati quasi esclusivamente da fretta e mancanza di tempo, qui la Sinfonia è parte integrante dell’opera, anticipandone alcuni motivi peculiari: l’introduzione lenta in MI maggiore, che udremo (trasposta in MIb) nel second’atto, allorquando Arsace si inoltra nei boschi dopo essere fuggito dalla prigione di Aureliano; la sezione finale del primo tema (in MI minore); il cantabile in SOL maggiore (seconda sezione del secondo tema) e il successivo famoso crescendo e cadenza conclusiva che chiudono il primo atto.

Insomma, Rossini qui fece le cose con il massimo impegno e la massima cura, e i risultati si sentono! E se ne rese conto lo stesso Autore che, a dispetto dello scarso successo delle prime rappresentazioni alla Scala, pescò abbondantemente nell’Aureliano per successive opere; a parte la sinfonia, ne riutilizzò, rielaborandole ma senza renderle irriconoscibili, alcune melodie: il coro iniziale (Sposa del grande Osiride) fu impiegato nel Barbiere per la cavatina d’esordio di Lindoro (Ecco ridente); la cabaletta di Arsace (Non lasciarmi in tal momento) divenne parte dell’aria di Rosina (sempre nel Barbiere); e di lì a poco anche il Sigismondo mutuerà più di uno spunto dall’Aureliano.
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Ieri sera il pubblico (Arena non proprio esaurita) ha tributato un grande successo alle due voci femminili del cast: Sara Blanch, una Zenobia che non fa rimpiangere la sontuosa Pratt del 2014; la perla è stato il suo MIb sovracuto (Per donarvi libertà) che ha fatto impazzire gli spettatori; e poi l’Arsace di Raffaella Lupinacci, che nel 2014 impersonò la più modesta (come parte) Publia, quest’anno affidata alla promettente Marta Pluda: due perle le sue desolate esternazioni dopo le batoste subite in battaglia. Ma anche insieme, le due hanno scatenato l’entusiasmo del pubblico, culminato in un interminabile applauso dopo il duetto finale, chiuso sulla passerella, sopra il podio del Direttore.

Alexey Tatarintsev ha a sua volta riscosso consensi: più per gli stentorei acuti (DO e REb) sparati con grande sicurezza, che non per la prestazione complessiva, dove ha mostrato ancora qualche limite, che potrà superare continuando a impegnarsi con studio e dedizione.

Degli altri, detto del discreto ritorno di Marta Pluda, una menzione va ad Alessandro Abis, che ha dato risalto alla parte limitata quantitativamente del Gran Sacerdote. Bene anche il Licinio di Davide Giangregorio, mentre come Oraspe (nel 2014 era quel Dempsey Rivera poi prematuramente scomparso) Sunnyboy Dladla ha mostrato qualche carenza di penetrazione della voce, pur chiara e ben impostata. Elcin Adil si è dignitosamente comportato nella piccola parte del pastore.

Su buoni standard il coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha qui una parte assolutamente di rilievo.

Del Direttore ateniese George Petrou devo confermare la buona impressione fatta alla prima alla radio: gesto sobrio, attacchi puliti, agogiche sostenute e dinamiche settecentesche, come si addice a questo dramma serio; qualità messe in luce già dall’esecuzione della famosa Sinfonia. L’Orchestra Rossini si merita a sua volta un encomio per la brillantezza del suono e la compattezza mostrata in tutte le sezioni.

In definitiva, un meritato successo per tutti, ferme restando (ma qui parlo per me soltanto) le perplessità sull’allestimento. 

16 ottobre, 2022

Fedora alla Scala: discreta la prima

Eccomi quindi a riferire della prima della Fedora di Umberto Giordano, affidata alla premiata coppia Armiliato-Martone. Piermarini discretamente affollato e pubblico assai caloroso, che ha decretato un chiaro successo per tutti gli artefici dello spettacolo.

Sonya Yoncheva è stata – meritatamente – la trionfatrice della serata. Alla potenza del suo strumento ha saputo abbinare anche una presenza scenica apprezzabile, e in questo direi che sia assai migliorata negli ultimi anni.   

Con lei Roberto Alagna, che quasi 16 anni dopo quella fuga dall’Egitto (!) è tornato ad essere beniamino del loggione scaligero, pur se la voce mostra qualche inevitabile segno di stanchezza, compensato da grande sapienza nel gestirla oculatamente.

Serena Gamberoni si è confermata interprete ideale di queste parti leggere e un po’ svampite, quale è la Olga di Giordano.

George Petean è stato un dignitoso De Siriex, che ha portato onorevolmente a termine il suo compito, per la verità non proibitivo, incentrato sull’elogio della donna russa.

Degli altri, tutti meritevoli di encomio; citerò il cocchiere (no, qui autista) Cirillo, cui ha dato voce Andrea Pellegrini.

Sui suoi standard il Coro di Francesco Malazzi, che qui ha un impegno tutt’altro che proibitivo.

Marco Armiliato mi è parso padroneggiare bene questa partitura che forse, ma solo in apparenza, può sembrare facile. L’Orchestra scaligera lo ha ben assecondato: tempi appropriati, dinamiche mai sbracate ed efficace supporto alle voci, mai coperte.

Quindi, la parte musicale è da promuovere a quasi-pieni voti.

Martone? Beh, ogni tanto tira fuori il genio che è in lui, lasciando perdere la sregolatezza! Quindi ambientazione ai giorni nostri (smartTV da 50 pollici che trasmette una partita a beneficio del piccolo Dimitri, per dire) ma vivaddio lontano da mafie, camorre e ndranghete! E persino i servizi segreti, che pure hanno parte importante nel libretto, non invadono più di tanto la scena.

Insomma, il Martone serio di Chénier, per dire, non quello strampalato delle Beffe o di Oberto e pure di Rigoletto! Il che forse gli varrà l’accusa (non certo da me) di gretto tradizionalismo. Dato che il plot dell’opera è piuttosto contorto, lui ha provato anche ad essere didascalico, ad esempio mostrandoci – durante la confessione di Loris a Fedora – anche gli altri tre  protagonisti (silenziosi) della tresca: Wanda, la governante, e soprattutto Vladimir, cui lascia il compito di gettare a Fedora le sue lettere d’amore indirizzate a Wanda… Mah, forse a qualcuno ciò può aver ulteriormente confuso le idee.

In ogni caso il pubblico ha apprezzato assai e per tutti ci sono stati solo applausi e ovazioni.

21 giugno, 2022

Il nuovo Rigoletto di Martone-Gamba piace a metà

Dopo 28 anni, è arrivata al Piermarini una nuova produzione di Rigoletto. Che la metà abbondante del folto pubblico ha accolto con calore (non calor-rosso, per la verità) ma che una robusta minoranza ha invece mostrato di non gradire, prendendosela proprio con i due artefici della proposta, sonoramente buati (più il regista) alle uscite finali.

Personalmente sarei più accomodante con Michele Gamba, che il suo compitino lo ha svolto con diligenza, forse con eccessivo distacco e con venature veriste mutuate dall’approccio interpretativo (il famigerato Konzept) di Mario Martone.

Il quale regista, volendo a tutti i costi attualizzare ai tempi nostri il soggetto, e non trovando esempi calzanti, ha fatto la facile scelta (per lui non nuova, ergo recidiva – vedansi i suoi Oberto e Cena delle beffe scaligeri) di ricorrere al trito riferimento alla malavita organizzata. Cioè dal Palazzo del Louvre (Hugo) e dal Palazzo ducale di Mantova (Piave) che sono – a dispetto delle malefatte dei loro inquilini – sedi del potere costituito, lui ci ha portato dai… Casamonica! E notoriamente alle feste dei Casamonica si balla il perigordino (! mamma mia!) E Monterone è evidentemente il capo di una cosca rivale cui il Duca ha fatto le scarpe riducendolo in miseria, e per di più sottraendogli (per ingropparsela) la figlia… Ben si spiega quindi la scena sulla quale cala l’ultimo sipario: l’irruzione dai Casamonica di una banda rivale che mette tutto a ferro e fuoco!

II lato-b della scena girevole (il cui lato-a è la villa dei Casamonica) dove dimora Rigoletto, è quindi il più orripilante quartiere degradato della più degradata periferia dei nostri tempi; nell’atto terzo si trasforma nel bordello gestito da Sparafucile e soreta: puro verismo!

Al Duca Verdi riserva uno squarcio di umanità (Ella mi fu rapita…) che Martone gli nega proditoriamente mostrandocelo mentre si dispera tracannando un whisky dietro l’altro… Gilda da parte sua non pare proprio una Maria Goretti sinceramente innamorata, ma piuttosto una ragazza moderna insofferente ai divieti che le impone un padre-padrone.

Insomma, una concezione francamente lunatica, quindi (per me) deludente, ecco.
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Il fronte dei suoni ha risollevato abbastanza la media. Detto della concertazione poco… emozionante di Gamba, vanno elogiati il Coro di Malazzi (sempre una sicurezza) e le voci dei due bassi Fabrizio Beggi e Gianluca Buratto, davvero all’altezza dei due ruoli comprimari (Monterone e Sparafucile).

I protagonisti: apprezzata assai la Gilda di Nadine Sierra (fu già parte del cast della ripresa del 2016): bella voce calda, penetrante ed espressiva, che le ha meritato applausi a scena aperta (Caro nome) ed ovazioni finali.

Anche Piero Pretti (praticamente un veterano del ruolo qui alla Scala, avendolo cantato nel 2012 e 2016) si è ben distinto, anche se la sua emissione mi è parsa un tantino, come dire, vetrosa, soprattutto nella zona di passaggio.

Il Rigoletto di Amartuvshin Enkhbat ha un portentoso vocione da far tremare la struttura del teatro: troppo spesso peraltro tende a declamare invece che cantare e ad emettere urla belluine che poco hanno a che fare con i requisiti estetici del ruolo (non lo vedrei male spostato sul Wagner di ceffi tipo Fafner o Hagen o Hunding…) Ma è sperabile, se non certo, che possa crescere ancora… insomma è uno che merita la fiducia che gli ha espresso il pubblico di ieri. Da notare il rispetto filologico della partitura: il follia lo ha cantato sul MI e non (come tradizionalmente si fa) sullo stentoreo/eroico SOL.

Fra i personaggi di contorno cito la Maddalena di Marina Viotti, che spero non me ne voglia se dico di aver apprezzato il suo (castigato) spogliarello quanto la sua calda voce contraltile. Agli altri sette (vedi locandina) va un doveroso riconoscimento di aver fatto ciò che loro è richiesto.
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Che dire, in conclusione? Voto complessivamente discreto, ma fatto di un quasi-buono ai suoni mediato da un mediocre alla regìa.

28 febbraio, 2019

La Chovanščina è tornata alla Scala


Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima delle 7 rappresentazioni di Chovanščina, una nuova produzione affidata a Mario Martone e, per la parte musicale, al confermato (dopo il 1998) Valery Gergiev. Chiudo subito la questione tagli rispetto alla versione-Shostakovich: Gergiev conferma l’approccio che tiene da diversi anni e cioè elimina le trombe di Pietro in chiusura di second’atto, sostituite con una dissolvenza e con il passaggio senza soluzione di continuità all’atto successivo; nel terzo atto taglia completamente la canzone di Kuzka e Strelcy; chiude infine l’opera dopo il coro dei raskolniki, ripreso in orchestra e omettendo quindi il finale di Rimski (trombe di Pietro) e le aggiunte di Shostakovich (moscoviti e alba). Il tutto per una decina di minuti in meno di musica.

Gergiev si conferma, ce ne fosse bisogno, un profondo conoscitore di questa complessa partitura: nulla gli sfugge e tutto concorre a creare l’atmosfera così profondamente russa di cui l’opera è intrisa. Dove squarci di assoluto lirismo si affiancano a scene di rozzezza animalesca, momenti di intimità privata a sguaiate manifestazioni popolari, sfoghi di forza bruta ad espressioni di profonda religiosità. Il Maestro russo ottiene sempre dall’orchestra (in gran forma) e dalle voci il massimo dell’efficacia, senza che la tensione si abbassi mai nel corso delle più di tre ore nette di musica.

Ma encomiabile è anche l’affiatamento con la parte scenica dello spettacolo di Martone, che a sua volta interpreta con grande coerenza lo spirito dell’opera. Dove non si mandano messaggi nè si presentano posizioni politiche o sociologiche o ideologiche, ma si descrive semplicemente e dolorosamente un’epoca storica travagliata e caotica della vecchia Russia, un immenso paese sconvolto da fenomeni tipici del trapasso politico da medioevo a modernità, nonchè dal cambio radicale di modelli culturali: da quelli tipici dell’Asia ad altri mutuati dalla civiltà occidentale. Peccato che qualche gratuita (quanto evitabile) forzatura del regista (ci torno nel seguito) abbia compromesso una messinscena tutto sommato intelligente, tanto da guadagnare a Martone gli unici buh uditi alla fine.

Il cast delle voci merita un encomio cumulativo: ciascun interprete ha saputo dar vita al personaggio con efficacia e appropriatezza. Ecco quindi il volgare Ivan Chovanskij di cui Mikhail Petrenko mette in risalto le attitudini di vecchio possidente privo di cultura, ma pieno di boria, prepotenza e cinismo.

Splendido Alexey Markov come Šaklovityj: e non solo per la grande aria del terz’atto, davvero esposta con nobiltà, portamento e con il supporto di una splendida voce baritonale, ma anche per l’efficacia con cui ha incarnato questo personaggio caratterizzato da tratti inafferrabili, ambigui e contraddittori. 

Il santone Dosifej è impersonato da Stanislav Trofimov, praticamente perfetto in questa parte che coniuga la nobiltà di ideali religiosi con il cieco dogmatismo e l’intolleranza di chi arriva persino al sacrificio della propria vita pur di non dover vivere in una società nella quale non si riconosce più.

Evgeny Akimov incarna da par suo la figura di Vasilij Golicyn, personaggio tanto raffinato, laico e progressista quanto schizofrenicamente schiavo di assurde superstizioni. La sua è una figura che passa come una meteora (lo vediamo e sentiamo solamente nel second’atto, poi ne sentiremo solo parlare nel quarto...) ma - anche grazie all’integrità della partitura, preservata da Shostakovich e da Gergiev - ha modo di mettere in mostra la sua voce squillante (un po' meno nei centri e bassi) e le sue notevoli qualità espressive.

Discreta anche la prestazione di Sergey Skorokhodov, un Andrej Chovanskij dalla personalità instabile (con quel padre...) che lo trasforma da bestia assatanata di sesso in bambino piagnucoloso e disperato al momento del redde-rationem.

Lo scrivano è impersonato da Maxim Paster: ottima la sua resa di questo personaggio tremebondo, qualunquista e meschinello, in particolare nella scena con Šaklovityj e nella ricomparsa al terz’atto.

Penalizzato dal taglio della sua canzone della calunnia, Sergej Ababkin (uno dei sei accademici scaligeri di questa produzione) si è rifatto aggiungendo al personaggio di Kuzka anche quello, piccolo piccolo, di Strešnev.  
   
Gli altri cinque dell’Accademia vanno accomunati in un elogio collettivo: ciascuno ha meritevolmente dato vita a personaggi che saranno pure di contorno ma richiedono pur sempre (ad esempio il Pastore protestante) sensibilità interpretativa e voci adeguate.

Vengo ora al gineceo: qui il personaggio che torreggia (è l’unico presente in tutti i cinque atti dell’opera) e quello di Marfa. Bene, Ekaterina Semenchuk è assai efficace nella parte: memorabili la sua profezia e la canzone, ma di grande spessore anche tutti gli altri suoi interventi. Sostenuti da una voce di bel colore brunito e dagli acuti potenti, anche se nell’ottava bassa qualche decibel in più non guasterebbe.

I due soprani hanno parti non proibitive, ma proprio per questo non si possono permettere pecche: devo dire che sia la Emma di Evgenia Muraveva che la Susanna di Irina Vashchenko hanno messo in mostra buone qualità, voci ben impostate e corpose, e non si son fatte trascinare dalla foga che caratterizza i due personaggi e che potrebbe facilmente portare ad emettere schiamazzi invece che canto.

Il coro di Casoni è chiamato ad un compito oltremodo difficile, dovendo passare - i maschi - dalle sguaiatezze dei buzzurri moscoviti e dei prepotenti Strelcy alle stolide esternazioni dei monaci e alle esaltate preghiere dei raskolniki; ma anche dare nobiltà e religiosità ai cori degli stessi moscoviti. Le donne devono pure loro sdoppiarsi fra gentili e timide contadinelle che cantano canzoncine da educande e mogli degli Strelcy inferocite e vociferanti, oltre che in popolane esultanti per Ivan e in vecchie credenti invasate. Bene, come al solito la compagine scaligera ha dato il meglio di sè, a dispetto del... russo!

Detto ciò, mi sembra quasi superfluo aggiungere che tutti, ma proprio tutti, hanno avuto alla fine un calorosissimo riconoscimento da parte di un pubblico entusiasta, che evidentemente non ha avuto problemi a sopportare più di quattro ore di spettacolo.
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Spettacolo che ha avuto in Mario Martone il protagonista della parte scenica e drammaturgica. L’ambientazione è in un tempo-fuori-dal-tempo, un mix di passato, presente e (forse) futuro, dove convivono oggetti, suppellettili e abbigliamenti di provenienza eterogenea, come il consunto sidecar dello scrivano carico di residuati di strumenti elettronici, o gli smartphone impugnati indifferentemente da modernisti (Golicyn) e passatisti (Dosifej); c’è anche una specie di drone che attraversa la scena proprio all’inizio; i costumi sono pure di fogge svariate, dai cappottoni di Ivan e Dosifej all’impeccabile abito scuro, con valigetta 24-ore, da funzionario FBI (più che KGB...) di Šaklovityj; le scene lasciano percepire un generale stato di caos e degrado, che ben rappresenta la situazione vissuta dalla Russia nel periodo oggetto del testo di Musorgski. Meno efficace invece la differenziazione fra l’ambiente in cui vive Golicyn da quello di Chovanskij (ma di quest’ultimo parlerò più avanti).

Martone inventa encomiabilmente alcune trovate di carattere didascalico, che aiutano lo spettatore meno addentro alle contorte vicende del libretto (e alle prese con i problemi di lingua...) a capirci qualcosa in più. La ricorrente presenza in scena (accuratamente evitata, pur se inizialmente contemplata da Musorgski) di Sofia con i due piccoli zar ne è esempio illuminante. I tre appaiono proprio all’inizio dell’opera, sulla musica dell’alba, dove possono rappresentare, soprattutto Pietro, il-nuovo-che-avanza; poi tornano al momento in cui lo scrivano esce di scena, e va a consegnare la lettera delatoria di Šaklovityj alla zarevna. La quale, significativamente, la fa leggere anche al piccolo e intelligente Pietro, per poi consegnarla appallottolata nelle mani del grandicello ma minorato mentale Ivan! Alla fine del primo atto Sofia abbandona i piccoli zar per... abbandonarsi ad un amplesso con Golicyn, comparso a chiarire in anticipo il significato della lettera (no... un sms) d’amore che la zarevna gli invia all’inizio dell’atto successivo. Infine i tre tornano sulla scena nel secondo quadro del quarto atto a chiarire come il padrone della situazione resti, da solo, Pietro (che però, a 10 anni, difficilmente poteva essere già solitario al potere... ma questo è un problema di Musorgski).

Nell’atto iniziale citerei ancora l’incomprensibile mancanza di reazione di Marfa al tentativo di accoltellamento da parte di Andrej, il che dà modo a Emma di ricambiarle il favore (?) difendendola dall’energumeno. Azzeccata invece la permanenza dello stesso Andrej con il gruppo di vecchi credenti (mentre il padre e gli Strelcy entrano al Kremlino) che sta a prefigurare la sorte del poveraccio, come si materializzerà nel quarto e quinto atto. Poco da dire sul second’atto (il bicchiere che sostituisce la bacinella d’acqua non fa troppi danni...) Efficace la resa del turbolento convegno a tre e delle irruzioni da Marfa e Šaklovityj.

Come detto, il secondo e il terzo atto vengono accorpati e c’è assoluta continuità musicale fra la dissolvenza che chiude l’uno e l’attacco dell’introduzione che apre l’altro. Il coro dei monaci (che erano presenti e ben visibili nell’atto secondo) viene qui cantato a sipario chiuso (scelta del tutto condivisibile); sipario che si alza quindi sulla canzone di Marfa, che vediamo ingabbiata come una belva, per nulla feroce, peraltro. Gabbia che rappresenta - direi - un’allegoria: la costrizione psicologica che attanaglia la donna, prigioniera dei suoi bei ricordi dei momenti passati con Andrej ed anche della sua fede talebana in una religione fossilizzata e ormai minoritaria. Gabbia dalla quale viene liberata dal santone Dosifej che la invita ad accettare fatalisticamente ciò che il futuro le riserverà.

A questo punto arriva (secondo me e credo per buona parte del pubblico) la prima caduta di stile, e non solo, di Martone. Il quale ci mostra un Šaklovityj che canta quel mirabile e accorato arioso sulla situazione della sua povera Russia e contemporaneamente dà ordine ai suoi sgherri di arrestare Ivan Chovanskij! Davvero un’invenzione sopra le righe, poichè sappiamo già che Šaklovityj vuole Chovanskij morto, ma lo farà ammazzare nell’atto successivo e senza di certo imprigionarlo prima. Così siamo costretti a vedere Ivan che fa l’ultimo appello ai suoi Strelcy, invece che da casa sua, da una gabbia di penitenziario, dopodichè, nell’atto quarto, torna libero come un uccello (anzi con una dotazione di doppiette per sparare ai volatili) nella sua residenza di campagna, dove si gode i canti delle sue contadinelle. Mah... che siano arresti domiciliari all’acqua di rose, tipo quelli di Tiziano Renzi e consorte?  

Ma il peggio arriva adesso, con la danza delle persiane: un siparietto da volgarissimo avanspettacolo, con lap-dance, strip e strusciamenti, culminante nell’uccisione di Chovanskij per mano (anzi, per fucilata) di una delle zoccole! Qui siamo caduti proprio in basso... e in basso si resta alla fine del quadro successivo dove, in barba alla grazia concessa da Pietro agli Strelcy, alcuni di questi vengono platealmente ammazzati da tagliagole dell’ISIS! (Certo, sappiamo bene che 15 anni dopo Pietro il Grande farà ammazzare come cani gli Strelcy, ma nell’opera non è così e allora: perchè si deve correggere a tutti i costi Musorgski?)

Ecco, una regìa apprezzabile che si è in parte rovinata per voler strafare. Così alla fine, mentre per tutti c’erano solo applausi e bravi!, per Martone sono piovute sonore contestazioni. Ma chi è causa del suo mal...  

14 dicembre, 2017

Chénier in corpore vili


Ieri sera terzo appuntamento per l’opera che ha inaugurato la stagione scaligera, in un Piermarini discretamente affollato.

Dedico l’apertura alla Direzione d’orchestra, che secondo me merita in pieno tutte le lodi che ha ricevuto già dalla sera di SantAmbrogio: Chailly evidentemente non scherzava quando esaltava le qualità di questa musica, che anche ieri lui ha saputo valorizzare al meglio. E l’Orchestra gli ha risposto in maniera adeguata, facendo risaltare la brillantezza della strumentazione di Giordano, senza mai peraltro recar danno all’udibilità delle voci. Non sarà certo un capolavoro assoluto, lo Chénier, ma se viene suonato come si deve il suo figurone lo fa, eccome! E a ciò contribuisce anche la mancanza di soluzione di continuità nel fluire musicale, che fu fortemente voluta dal compositore e che Chailly ha fatto rigidamente rispettare, riportando l’opera alla sua vera natura di dramma, che i tradizionali e pur meritati (dagli interpreti) applausi a scena aperta finiscono per svilire a mera vetrina di gorgheggi privi di sostanza.

Anna Netrebko ha sciorinato la sua voce nobile e ciò è bastato a fare di lei la protagonista della serata. Se la sua presenza scenica fosse pari alla qualità del canto, farebbe forse dimenticare anche Callas, Tebaldi, Stella e tutte le altre interpreti del ruolo di Maddalena (perlomeno da 60 anni a questa parte)!

Il maritino azero (uno dei pochi islamici che persino i leghisti non demonizzano) Youssef Eyvazov è ancora abbastanza acerbo per poter aspirare all’empireo; la sua voce mi vien di definirla secca (in opposizione a morbida...) e quindi per ora finisce (selon moi) alla ghigliottina in quel limbo dove son finiti prima di lui altri cantanti che la Scala ha provato ad inventare quasi dal nulla a SantAmbrogio in anni recenti: Storey e Rachvelishvili, tanto per non far nomi ma cognomi... Limbo da cui gli auguro di uscire in fretta, ma dipende solo da lui, i mezzi naturali non gli mancano di certo, solo vanno meglio disciplinati, il che richiede tanto... olio di gomito.  

Luca Salsi è un buon baritono, ma più in là di così - nelle lodi - non mi sentirei francamente di andare: solida presenza scenica, voce robusta ma (stesso rilievo fatto al tenore) non gestita al meglio, direi, con alcune vociferazioni e sguaiatezze che rischiano di trasferire il verismo in... osteria.

Chi invece è credibile sotto ogni punto di vista è un... Incredibile: Carlo Bosi infatti non si smentisce, da splendido caratterista qual’è, capace di calarsi alla perfezione in ogni personaggio di contorno gli venga affidato: voce sempre squillante e bene impostata, eccellente presenza scenica; come e cosa pretendere di più?

Nei panni della Bersi Annalisa Stroppa (al suo secondo SantAmbrogio consecutivo) se la cava dignitosamente, mettendo in evidenza, sul piano scenico, la sua evoluzione (stando perlomeno a Illica) da servetta a... ehm, puttanella. Vocalmente, la sua parte (a differenza della Suzuki di un anno addietro) è quantitativamente e qualitativamente circoscritta, ma la lei la disegna con efficacia e sensibilità. Con qualche decibel in più salirebbe ulteriormente in classifica... Altrettanto valido Gabriele Sagona (anche lui tornato dopo il 7 dicembre 2016): voce di buona corposità ed emissione sempre ben controllata che gli ha permesso di proporre un convincente Roucher, ruolo peraltro già da lui sostenuto anni fa a Napoli. Mariana Pentcheva è una brillante Contessa, e la giovane Judit Kutasi si cala efficacemente nella parte di... sua nonna (!) la strappalacrime Madelon. Meritevole di elogi anche Francesco Verna, che incarna con appropriatezza scenica e voce ben passante quel mezzo invasato del sanculotto Mathieu. Agli altri comprimari darò un cumulativo voto di ampia sufficienza, ecco.

Benissimo al solito il coro di Casoni, sia negli impegni separati della componente maschile che di quella femminile e nei turbinosi episodi promiscui in piazza e nel tribunale.
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Sulla regìa mi sono già favorevolmente espresso dopo visione RAIca, e qui non posso che confermare quella positiva impressione. Devo quindi complimentarmi con il regista che, a differenza di altre sue esperienze scaligere, e anche in forza degli stretti vincoli imposti dal soggetto, non si è permesso – per fortuna, aggiungo io - di inventare alcunchè. Cosa che non gli ha impedito di allestire uno spettacolo di alto livello, il che a sua volta ha contribuito a valorizzare i contenuti musicali dell’opera.

L’attenzione con la quale Martone ha predisposto la sua messinscena è attestata anche da alcuni (apparentemente) trascurabili dettagli, che il regista ha curato in modo quasi maniacale, mettendo riparo anche a problemi che Illica, nella sua foga narrativa, ha creato con le sue minuziosissime didascalie. Mi limito a citare un paio di esempi.

L’Abatino, quando nel primo quadro ragguaglia i presenti sul clima politico che si respira a Parigi dovrebbe, secondo il libretto, gustare della marmellata, offertagli dalla Contessa: dapprima assaggiandola timidamente, poi affondandovi platealmente e avidamente il cucchiaio. Atto che potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, che nulla sa del contenuto della tazza. Allora il regista opta per una soluzione forse più banale, ma certo più efficace, facendo sorseggiare all’Abatino una tazza di caffè (o the, o cioccolata, plausibimente).

Altro esempio riguarda un particolare del terzo quadro: dopo il drammatico incontro-scontro con Maddalena, Gérard promette di far di tutto per salvare Chénier e subito scrive un biglietto che consegna a Mathieu perchè lo recapiti a Dumas (il Presidente del Tribunale); peccato che Illica si dimentichi quasi del tutto di questo particolare e che quindi lo spettatore, oltre a non poter proprio immaginare a chi è destinato lo scritto, fatichi poi a decifrare il cenno di assenso fatto da Mathieu a Gérard. Di più, del biglietto si perde totalmente traccia. Ebbene, Martone trova la soluzione anche a questa evidente sbavatura del libretto: lasciando lo scritto in mano a Gérard, che lo consegna poi personalmente a Dumas al momento di accusarsi di aver falsificato le prove contro Chénier.

In altri casi il regista propone scenari improbabili, anche se lo fa con evidente intento didascalico. Ad esempio il letto che compare in scena nel terzo quadro, nel locale del tribunale: pezzo d’arredamento che lì è del tutto fuori posto, ovviamente, ma serve a mostrarci Gérard convalescente dalla ferita infertagli da Chénier alla fine del quadro precedente, e poi a far da teatro verista alla minaccia di stupro (però con lei... consenziente, obietterebbe cinicamente l’avvocato difensore) di questo Scarpia-ante-litteram ai danni di Maddalena.

Non mancano anche trovate di carattere volutamente più sarcastico che didascalico: in apertura del secondo quadro Mathieu (secondo Illica) si lamenta della polvere che ricopre il busto di Marat e si mette subito a spazzolarla via. Martone lì ci mostra una cittadina che scopa il tetto dell’edificio che sovrasta il busto, facendovi piovere sopra la polvere, che poi sarà la ex-servetta Bersi a rimuovere con tanto di piumino.

Ma a parte queste piccole curiosità, tutto l’insieme funziona assai bene, sia nelle scene di massa (villa Coigny, piazza di Parigi, tribunale) come in quelle di carattere intimistico o drammatico, dove i movimenti di gruppi o dei singoli sono studiati sempre con appropriatezza e totale aderenza al libretto.

Insomma, una regìa per la quale l’aggettivo tradizionale è – perlomeno per quanto mi riguarda - un grandissimo complimento.
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Ieri sera applausi convinti e reiterati per tutti. Ai quali personalmente mi sono associato e mi associo. 

07 dicembre, 2017

Chénier in TV


RAI1 ogni tanto ne combina una giusta, a livello di programmazione, e anche quest’anno ci ha permesso di godere la prima di SantAmbrogio senza dover chiedere prestiti in banca per potervi assistere dal vivo. Sulla qualità delle riprese (audio e video) mi pare che qualcosa sia migliorato rispetto al passato (sui conduttori un po’ meno...)

Detto ciò – e rimandando all’audizione dal vivo i giudizi su cantanti e suonatori – è possibile commentare per ora la messinscena che (pur con il filtro della regìa televisiva) penso si possa valutare anche senza andare materialmente a teatro.

Partiamo da un fatto abbastanza scontato: un soggetto come questo, per mille ragioni, è praticamente impossibile da ri-ambientare (o ri-concettualizzare) sia a livello spazio-temporale, che a livello di relazioni fra i personaggi. Sostituire a Chénier ghigliottinato dal terrore di Roberspierre, per dire, un Mejerchol'd fucilato dal terrore di Stalin (solo perchè a noi un po’ più vicino) farebbe semplicemente ridere. Così come trasformare la lotta politica fra giacobini e girondini in una guerra fra moderne cosche mafioso-camorristiche (corleonesi vs casalesi). O anche ambientare il classico triangolo amoroso in un paesino siciliano, scimmiottando la Cavalleria...

E quindi il buon Martone – che con i suoi Oberto e Beffe scaligeri si era preso libertà per me eccessive - ha dovuto fare buon viso e restare allo scenario originale, cosa che di per sè farà magari venire l’orticaria a qualcuno che non può soffrire i musei, ma peggio per quel qualcuno. A me l’allestimento – che ha fatto tesoro delle minuziose ed efficacissime didascalide di Illica - non è per nulla spiaciuto e vi ho ritrovato tutto ciò che ci si può aspettare precisamente leggendo il libretto. Ed anche sbirciando la partitura – qui faccio una piccola invasione nel campo musicale – che Chailly ha presentato proprio come Giordano la pensò e la fece pubblicare, cioè come un continuo flusso sonoro (tipo Wagner, per intenderci) e senza soluzioni di continuità. In ciò assecondato dalle scene girevoli della Palli, che consentono rapidi mutamenti di quadro. Ben fatti i costumi (di ricchi&poveri) ideati dalla Patzak così come assai efficace l’impiego delle luci da parte di Mari. Anche il Corpo di Ballo della Schiavone ha avuto modo di distinguersi nella scenetta delle Pastorelle.

I tre protagonisti hanno mostrato diverse qualità, diciamo così, attoriali: Salsi è stato decisamente quello che (mi) ha convinto di più, anche perchè il suo è un ruolo così poliedrico e sanguigno (veramente... verista) che di per sè si presta (se il cantante non è proprio una cariatide) a grandi effetti scenici e drammatici. Eyvazov ha un fisico da armadio (il futuro è da Pavarotti, a parte la voce...) che non pare proprio il più confacente  a quello dello smilzo poeta francese, e per di più – per non correre troppi rischi sul piano musicale – canta quasi sempre volgendo lo sguardo al Direttore, con grave danno alla scioltezza di movimenti e di espressioni. Ma peggio ha fatto la signora Eyvazov (haha!!) che ha proprio cantato come una bambolotta (dal faccione purtroppo gonfiatosi pericolosamente in questi ultimi tempi) piuttosto rigida e quasi priva di reazioni proprie.

Più sciolti gli altri comprimari, dei quali citerò la Stroppa, Sagona e Bosi per tutti. Ben guidati dal regista i movimenti delle masse, esemplare al proposito la scena del processo.


Per ora è quanto basta, in attesa di mettere il dito.

19 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Torvaldo e Dorliska


Terza recita anche per Torvaldo&Dorliska, ieri sera al Rossini, in un ambiente che anche logisticamente ti trasporta indietro di secoli, proprio ai giorni in cui la musica che si suona e si canta venne ideata e composta dal grande Gioachino. Bomboniera gremita e pubblico cosmopolita ben disposto al gradimento e all’applauso.

Opera che meriterebbe di essere riproposta più spesso, anche da altri teatri, stante il livello dei contenuti musicali: è un Rossini ancora giovane (1815) ma già alla sua 16ma fatica; è al suo esordio sulla piazza di Roma, dove poco dopo otterrà (a valle dell’iniziale fiasco) il successo destinato a divenire imperituro del Barbiere. E forse proprio la fama del Figaro ha finito per oscurare, immeritatamente, quella della sorella maggiore, che invece presenta struttura (arie, duetti, terzetti e concertati) e ispirazione davvero degni del miglior Rossini.

Il quale anche qui non si smentisce, quanto ad auto-imprestiti; ne segnalo almeno un paio: il primo è in uscita, il tema in LA maggiore (poi in RE) della Sinfonia che nei due anni successivi a quel 1815 migrerà dapprima nella Gazzetta e da lì nella Cenerentola. L’altro, in entrata (in FA maggiore, ad accompagnare Giorgio e il coro in apertura dell’atto II) viene immediatamente dal Sigismondo (1814) ma remotamente (1812) dall’introduzione della Scala di seta...

Sono le tre voci gravi del cast a innervare l’opera, fin dalle prime due scene, in cui spicca quell’impareggiabile terzetto con coro (si cercherà, si troverà) che anticipa proprio la cavatina di Figaro (Figaro qua, Figaro là) ma qui raggiunge vette esilaranti proprio per il continuo passare da una voce all’altra. E i tre interpreti sono anche stati i maggiori trionfatori della serata. Nicola Alaimo, la cui presenza scenica ha fatto da degno supporto ad una prestazione canora impeccabile; poi Carlo Lepore, presentatosi con il braccio sinistro al collo (una costante di questo ROF, dopo quello di Abbado...) che ha sfoderato tutta la sua proverbiale verve di autentico buffo rossiniano. Ma bene si è portato anche Filippo Fontana, che si è inoltre esibito come scalatore di alberi nella sua strampalata aria (sopra quell’albero vedo un bel pero) a metà del primo atto.

Dmitri Korchak ha confermato in pieno le sue doti che in pochi anni lo hanno portato ad emergere non solo nel repertorio rossiniano (ma presto vestirà i panni e soprattutto... la voce di Arnold): svettante negli acuti, sempre squillanti e capaci di penetrare anche i fracassi degli insiemi, ma assai efficace anche nei momenti più lirici e intimistici, dove sa sfoderare apprezzabili mezze voci.

Salome Jicia è certamente cresciuta, dopo la debuttante Elena dello scorso anno. Ma ancora mi pare debba lavorare sodo per raggiungere livelli di eccellenza: gli acuti sono spesso forzati e urlacchiati con timbro sgradevole (complice anche la regìa che la costringe a volte a cantare supina... posizione non ideale davvero); comunque una più che passabile Dorliska.

Raffaella Lupinacci ha pure lei mostrato qualche vetrosità nella tessitura acuta, comunque all’interno di una prestazione mediamente onorevole.

Altrettanto va detto del Coro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha anche dovuto affrontare difficoltà, come dire, logistiche, impostegli dall’eccentricità delle soluzioni registiche.

Francesco Lanzillotta si conferma più che una promessa: la sua è una direzione e concertazione precisa, attenta e rispettosa delle voci; e l’Orchestra Sinfonica G.Rossini ha dimostrato come anche piccole compagini di provincia sino perfettamente all’altezza di eseguire adeguatamente opere come questa. Gianni Fabbrini e Anselmo Pelliccioni hanno egregiamente sostenuto il ruolo del continuo (fortepiano e cello) nei recitativi, il primo ha pure vestito estemporaneamente i panni di comparsa...

Alla fine applausi, ripetute chiamate singole e collettive e ovazioni per tutti. Meritate, direi proprio.
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La regìa di Mario Martone era già sicuramente vecchia, come concezione, 11 anni fa, ed oggi è proprio irrimediabilmente passata. L’idea di ignorare il palcoscenico per portare l’opera in platea potrà piacere agli amanti dell’avanspettacolo, ma va decisamente a detrimento innanzitutto della precisione dell’esecuzione (un coro sparso per l’intera platea difficilmente sarà perfetto negli attacchi, col Direttore che gli volta le spalle...) e poi anche dell’ottimale fruizione da parte del pubblico un filino più... esigente.

Così, avendo sprecato l’intera scena per collocarvi il bosco (cui nel libretto semplicemente si accenna) ecco che al regista sarebbe rimasto solo il proscenio per ambientarvi l’intera vicenda: pretesto quindi per dislocare in sala passerelle, scale retrattili che scendono dai palchi del primo ordine, una gabbia che sale e scende proprio alle spalle del Direttore a far da cella per il povero Korchak, altre scale che portano nella buca dell’orchestra... insomma, un armamentario francamente bizzarro e soprattutto penalizzante per la concentrazione di interpreti e di pubblico. Ciliegina sulla torta, i volantini rossi con la scritta Viva Rossini fatti piovere dal loggione all’inizio del second’atto, in corrispondenza con il patriottico ingresso dei popolani di Ordow.   

Insomma, un allestimento fra il goliardico e il varieté, che peraltro in molti avranno anche apprezzato.