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12 dicembre, 2018

L’Attila scaligero: un nazi ante-litteram


L’Attila del Verdi rimasto affascinato dalla lettura di Werner era un tipo forse un filino talebano nell’etica (proprio binaria: 0-1, tutto o niente, bene o male, bianco o nero) e quindi estraneo a compromessi e manfrine, spietato con i perdenti e i voltagabbana... ma ammiratore e rispettoso dei nemici ispirati alla sua stessa etica binaria.

Ora, come si spiega che un individuo sanguinario come l’unno possa essere stato presentato - nel corso dell’800 - prima in un dramma e poi in un’opera musicale come un personaggio positivo? Positività che emerge inoppugnabilmente dalla musica che Verdi gli ha cucito addosso, le mille miglia lontana da quella idonea a caratterizzare un bieco e feroce dittatore dei giorni nostri (Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, PolPot, Bokassa, Saddam, Osama...) E di certo diversa da quella che Verdi avrebbe composto se - puta caso - avesse dovuto o voluto musicare un soggetto ambientato nel terrore francese, protagonisti Robespierre&C...

Credo che la risposta stia nel tipo di scenario e di contesto storico che sono sullo sfondo dell’opera. Quello dell’Attila porta alla nostra attenzione vicende remote, ambientate in un mondo dove una civiltà evoluta ma in decadenza (Roma) era minacciata da (in)civiltà primitive (perchè ospitate in parti del mondo estranee alla civiltà greca e poi romana) ma proprio per questo a modo loro genuine; e dove il barbaro Attila era mosso da istinti quasi animaleschi, ma in sostanza naturali, il che ne fa - agli occhi di Verdi e ai nostri occhi - un personaggio persino degno di ammirazione.

Sì, poichè uno stesso atto o fatto noi lo possiamo percepire in modo completamente diverso a seconda del contesto e della prospettiva storica in cui esso si inserisce. Un atto di violenza anche feroce compiuto da un seguace di Attila nel 452 certo non lo potremo mai giustificare, ma possiamo comprenderlo in ragione delle circostanze storiche in cui si è materializzato; e per questo Verdi può permettersi di rivestire le truci esternazioni del condottiero e i cori truculenti di Unni, Eruli e Ostrogoti, inneggianti a stragi e stupri, di musica positiva (modo maggiore, baldanzoso, propriamente eroico) ed è per questo che noi non solo non ci scandalizziamo di ciò, ma anzi l’apprezziamo.

Tutto però cambia se cambia l’ambientazione del soggetto. Ed è ciò che fa Davide Livermore in questo suo allestimento. Ambientato di fatto ai giorni nostri (o in giorni a noi benissimo presenti, perchè vissuti). E più precisamente ancora - nelle due parti principali che caratterizzano questa trasposizione, la prima ad Aquileia e l’altra nel campo di Attila del second’atto - ci troviamo chiaramente immersi in uno scenario che ha scoperti riferimenti nazisti. Dapprima vediamo l’Italia del post-8-settembre-1943, come risulta evidente da alcuni precisi particolari della messinscena: Odabella e poi Foresto che stringono drappi tricolori; la scena presa pari pari da Roma, città aperta di Rossellini, ambientato come ben sappiamo proprio in quel preciso periodo storico; gli aguzzini che osserviamo mentre trucidano a sangue freddo inermi cittadini, comportandosi precisamente come si comportarono i classici Kapò nazi, a noi ben noti, quali Kappler, Priebke e compari (Marzabotto, Ardeatine, ...)

Se lo scenario è questo, allora il condottiero che arriva a cavallo all’inizio dell’opera, se proprio non Hitler in persona, può benissimo riconoscersi in Albert Kesselring, comandante supremo delle forze naziste in Italia nonchè criminale di guerra riconosciuto e come tale condannato. E aggiungiamo che Ezio (ambiguo generale romano) ci fa proprio la figura del Maresciallo Badoglio, che da alleato dei nazisti - non dimentichiamo che anche Attila ed Ezio erano stati alleati, ai tempi delle spedizioni contro i Burgundi! - è ora diventato un traditore voltagabbana.

Quanto al secondo riferimento, è incontestabile che la scena del festino nel campo di Attila sia di ambientazione squisitamente nazi, mutuata scopertamente da pellicole italiane, come quelle della Cavani (Il portiere di notte) di Brass (Salon Kitty) e di Pasolini (Salo’).

Quello di Livermore è - riguardo i momenti caratterizzanti - uno scenario che ci presenta uno spaccato della nostra contemporanea civiltà evoluta all’interno della quale si è prodotta - per degenerazione cancerogena - una moderna barbarie. Uno scenario che sta letteralmente agli antipodi di quello musicato da Verdi: a differenza del buon selvaggio Attila, qui abbiamo Hitler (o chi per lui) che, non dimentichiamolo, aveva alle spalle Hegel, Marx e persino... Wagner! E purtroppo quella stessa musica positiva di cui Verdi ha gratificato gli Unni primitivi del 452 adesso ci viene cantata da aguzzini nazisti nel 1943, che magari hanno mandato al creatore nostri padri o nonni... E ciò fatalmente offende la nostra sensibilità e il nostro intelletto, oltre che offendere Verdi e la sua opera!

Insomma, in questo caso (come spesso avviene) l’attualizzazione del soggetto provoca l’intollerabile discrasia fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva. E a poco serve riconoscere che ciò che si osserva, in sè e per sè, sia opera di ingegno e professionalità, di cui non si può non dare atto a tutta l’equipe di Livermore. Ammirando - una fra tante - la geniale trovata di impiegare il famoso dipinto di Raffaello come sfondo al tableau vivant della scena dell’incontro Attila-Leone. O le efficaci proiezioni, vedi il ricordo di Odabella dell’ammazzamento del padre da parte di Attila.

Per la verità altre invenzioni del regista sono assai meno memorabili, come ad esempio la ferita che Attila provoca alla mano di Odabella consegnandole la sua arma da taglio (e perchè mai un simile gesto?); o il colpo di pistola tanto gratuito quanto fuori tempo (dal punto di vista drammaturgico) con cui Ezio ferisce Attila, che viene poi legato come un salame, il che dequalifica il successivo gesto di Odabella dal livello eroico (Giuditta-Oloferne) a quello vile (Maramaldo-Ferrucci).

In sostanza: un allestimento di alto livello purtroppo inquinato dall’ambientazione incoerente con il soggetto da rappresentare. Ho la vaga impressione che dall‘avvento del cosiddetto teatro-di-regìa (diciamo da 50 anni come minimo a questa parte) si sia verificato nel mondo dell’opera lirica (e forse non solo in esso) un fenomeno che chiamerei di dissociazione fra il contenuto (ciò che si sente) e la forma (ciò che si vede) attraverso la quale tale contenuto viene presentato. Basta che la forma sia - com’è sicuramente nel caso in questione - accattivante, e la coerenza con il contenuto diventa automaticamente un optional, al quale si rinuncia con grande disinvoltura. Il nesso causa-effetto di questo imbarbarimento (!) dei costumi è tutto da decifrare: è il Regietheater ad averlo provocato, oppure è esso stesso un effetto di quell’imbarbarimento? Ai sociologi l’ardua sentenza.
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Anche ieri sera (come già per la prima vista in TV) Riccardo Chailly non mi ha pienamente convinto. Intanto confermo la mia personale contrarietà alle scelte (sedicenti) filologiche del Direttore: la romanza di Foresto scritta per Moriani è certo apprezzabile (ed è sicuramente musica di mano di Verdi!) ma a mio parere è più debole dell’originale. Quest’ultimo (testo di Solera) è assai drammatico nella prima strofa, dove Foresto dichiara che per Odabella avrebbe fatto qualunque cosa (e non a caso Verdi lo musica in modo minore); e nella seconda (in maggiore) Foresto chiede a Dio perchè mai consenta che un angelo del cielo (Odabella, già come tale apostrofata con una frase musicale assai simile nella cavatina del Prologo) si macchi di una colpa così grave come il tradimento.

Il testo (rimasto anonimo) per Moriani è invece più sdolcinato: Foresto ricorda la sua felicità passata e il riferimento all’angelo non è più per Odabella, ma narcisisticamente per se stesso! E Verdi musica entrambe le strofe in un languido e donizettiano REb maggiore. Chi, come Emanuele Senici (sue note sul programma di sala) ha esplorato anche la versione Ivanov (testo di Piave) mi pare abbia pochi dubbi nel reputarla testualmente e musicalmente superiore.

Non parliamo poi delle 5 battute di Rossini inserite prima del terzetto dell’Atto III: lasciano davvero il tempo che trovano. Rossini stesso disse di averle composte per suonarle mentre i suoi ospiti a Passy si accomodavano chiacchierando per ascoltare il terzetto, un modo come un altro per richiamarli al silenzio!

Chailly ha infine mantenuto la promessa di far eseguire un allargando il tempo a Ezio, Foresto e Coro sull’ultimo verso dell’opera (Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!!) La cosa, oltre ad essere del tutto arbitraria (sono quelle che chiamo pisciatine di cane sulla partitura...) ha ottenuto per me un effetto assai discutibile. Insomma, è stata il degno suggello ad una direzione pulita e precisa, curatissima nei dettagli, ma troppo - sempre secondo me - cerebrale e, in termini musicali, eccessivamente sostenuta. Così facendo Chailly ci ha restituito un Attila in guanti gialli e in punta di piedi: insomma, troppo fioretto e poca vanga! Ma Attila non è Boccanegra nè Otello...

Ildar Abdrazakov si è confermato un solido Attila, scenicamente e vocalmente (anche se le note gravi non sono proprio il suo forte). Lunghissimo e meritato l’applauso a scena aperta dopo Oh miei prodi!

La Odabella di Saioa Hernández ha confermato alle mie orecchie ciò che di buono ricordavo di lei. Voce corposa e penetrante, ha tratteggiato degnamente il personaggio, sia nelle sortite eroiche che nelle esternazioni più liriche (Oh! Nel fuggente nuvolo).

Sufficiente ma non di più l’Ezio di George Petean, che ha una voce poco... ehm, verdiana; oltretutto quella stupidaggine di fare il SIb acuto sul piangerà - un vero obbrobrio - davvero se la (e ce la) poteva risparmiare (uno come Muti, per dire, lo avrebbe minacciato di licenziamento in tronco!) Ancora non ci si spiega la ragione del suo subentro al posto dell’annunciato Piazzola (che pure non è un marziano, sia chiaro) che difficilmente avrebbe fatto di peggio.

Fabio Sartori è ormai un abitué del ruolo di Foresto, che padroneggia con molto mestiere, senza pecche ma anche senza mai lasciare il segno, ecco. Fossi in lui, mi riterrei discriminato dal Direttore, per aver dovuto cantare la romanza di Moriani (degna di un Nemorino qualunque, haha!)

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) hanno fatto ben più del minimo sindacale, e per questo si meritano ampio riconoscimento.

Sui suoi alti livelli il Coro di Casoni (inclusi i piccoli) giustamente ovazionato alla fine. Pubblico caloroso e prodigo di applausi e bravi! per tutti.

01 dicembre, 2018

Aspettando i barbari


Si avvicina a grandi passi un nuovo SantAmbrogio ed è il caso di prepararsi a ricevere come si meritano i barbari che minacciano di mettere l’Italia a ferro&fuoco (alludo a gentaglia tipo Juncker, Moscovici, Dombrovskis e compari mangiapaneatradimento, hahaha!) Ma noi siamo pronti a sfidarli a piè fermo con i nostri eroici Foresto Di Maio, Ezio Salvini e Odabella Raggi, spalleggiati dal catto-comunista Leone Francesco I. 

(A pensarci bene, un assaggio di invasione di Unni l’abbiamo avuto pochi giorni fa, quando un loro - per la verità ultra-vegliardo - condottiero ci ha tenuto in scacco con la sua musica... scusate il politically-incorrect.)
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Per il 2018 Riccardo Chailly ha scelto, dopo la Giovanna del 2015 e prima del Macbeth del 2019 (?) questo Attila, che rappresenterebbe (a suo parere) la seconda delle tre pietre miliari dell’evoluzione artistica del giovine Verdi, dopo Nabucco e verso Rigoletto. (Della serie: ognuno si inventa i pretesti più bizzarri per giustificare le proprie scelte...) 

Personalmente sono un fanatico di quest’opera, dove Verdi (altro che vanga) sembra usare la ruspa... e vedere all'opera (!) una ruspa (qui ogni riferimento al Salvini è del tutto casuale) è cosa spesso eccitante, se ai comandi c’è uno che ci sa fare. Che invece siano queste tre opere quelle che più spiccatamente caratterizzano la produzione verdiana dei cosiddetti anni di galera, lo pensa il Direttore musicale, ma non è vangelo. Infatti, secondo più di un critico, la stessa Giovanna fu un chiaro passo indietro rispetto (come minimo) a Ernani e Foscari; e una certa Luisa Miller meriterebbe di entrare in questa compagnia...

Non parliamo poi di Massimo Mila, che nel suo simpatico (quanto dotto) libretto Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi elenca proprio - in compagnia di Alzira, Masnadieri, Corsaro e Legnano - la Giovanna e l’Attila! E su quest’ultima cita i giudizi non certo lusinghieri di Abbiati, Roncaglia, Casamorata, Gerigk, Holl. Poi critica il Preludio, di fattura fine, ad un’opera che già da subito scatena cori truculenti di unni, eruli, ostrogoti, ecc... Quindi fa dell’ironia sul Verdi che, proprio con Attila, aveva pubblicamente ripudiato (come una provincialata) l’impiego della banda in scena, per poi - all’arrivo del protagonista - abbandonarsi ad una vera orgia di ritmo puntato. E non manca di sottolineare ad ogni ricomparsa la stucchevole sospensione sulla settima di dominante impiegata per preparare il numero successivo, che a sua volta è molto spesso (lo aggiungo io) una cabaletta in ritmo di polacca. E aggiungo ancora che serve un numero a due cifre per censire le ricorrenze nello spartito dell’abusata sequenza discendente dominante-sottodominante-sopratonica (quella - per intenderci - dell’Amami Alfredo...)

Tutta l'analisi di Mila è una lunga elencazione di debolezze, banalità, volgarità, scadente qualità musicale (persino dell’alba sulla laguna, fatta di macchinosi congegni orchestrali, un po’ arrugginiti e cigolanti...) Insomma, una serie interminabile di vorrei, ma non posso. Va detto che, in parziale accordo con Chailly, Mila riconosce comunque ad Attila perlomeno alcuni caratteri di innovazione, quali la drastica riduzione dei recitativi o lo sfrondamento dei numeri musicali da orpelli e lungaggini estranei all’azione e nocivi al dramma.

Il maestro riconosciuto degli esegeti verdiani, Julian Budden, così chiude il suo saggio sull’Attila:

L’Attila è la più rumorosa di tutte le opere risorgimentali, brusca nello stile, impiastricciata di densi e sgargianti colori, piena di effetti teatrali senza profondità e dotata di un numero maggiore del giusto di impetuose cabalette. (...) Nonostante una genuina potenza costruttiva, gran parte dell’opera rimane, non meno dell’Alzira, sul piano del banale vigore. (...) I critici dell’epoca avevano ragione. L’Attila è un’opera di consolidamento; non è il grande passo avanti che essi (e Verdi con loro) avevano predetto. Per questo si sarebbe dovuta attendere la prossima opera: il Macbeth

Ecco, a questi luminari io personalmente dò ragione, sul piano freddamente razionale e musicologico, però rivendico anche il diritto di dichiarare che poche opere come questa mi danno letteralmente la scossa: la mia sarà pure una reazione animalesca, ma - perlomeno - in questo caso la bestia che c’è in me non viene sollecitata a buttar bombe o a bestemmiare contro il mondo-ladro (ogni riferimento a recenti prime mondiali è puramente voluto...) bensì a provare entusiasmo e appagamento. E tutto ciò grazie esclusivamente alla musica, per quanto (o forse proprio perchè...) barbara e, appunto, quasi animalesca. Mi auguro proprio che Chailly così ce la trasmetta, evitando edulcorazioni, ammorbidimenti, smussamenti o liricizzazioni fuori luogo.
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Il soggetto fu suggerito dallo stesso Verdi al Solera (ma anche Piave ci mise poi lo zampino) per farci il libretto dell’opera, e viene dal dramma di Friedrich Ludwig Zacharias Werner dei primi anni dell’800. Verdi ne aveva avuto notizia leggendo lo scritto (pag. 323) De l’Allemagne di Madame de Staël, dove il testo di Werner viene riassunto con grandi apprezzamenti.

In realtà si tratta di un polpettone inverosimile che mescola storia (poca) e moltissima fantasia, a cominciare dall’invenzione dell’arrivo di Attila a Roma; e poi e soprattutto del personaggio di Ildegonda, principessa burgunda che Werner presenta come moglie di Attila e sua assassina per vendetta contro l’uccisione del promesso sposo e di altri suoi congiunti e compatrioti da parte del condottiero unno.

La vicenda dell’ammazzamento di Attila da parte di Ildegonda, che Werner ambienta gratuitamente vicino alla Roma cinta d’assedio dagli Unni, viene in realtà da saghe e leggende teutoniche e nordiche (si va dal Nibelungenlied alla lsungasaga, divenute tanto care a Wagner pochi anni più tardi) che la collocano però nel territorio dei Burgundi, lassù lungo il Reno, collegandola nientemeno che alle mitologiche imprese di Siegfried (!) Protagonista è Gudrun/Kriemhild, sorella di Hagen, che viene trucidato da Atli (Attila) desideroso di impadronirsi del tesoro nibelungico. E lei sposa Atli solo per poter poi ammazzare prima i due figli avuti da lui e quindi lui medesimo.

Ma sulle stranezze del libretto (oltre che su qualche contenuto musicale) mi sono peraltro già dilungato abbastanza in occasione della precedente apparizione dell’opera alla Scala, nell’ormai lontana estate del 2011, e quindi rimando i curiosi a quel commento. 
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Chailly ha anche deciso (come spesso accade, per giustificare il suo stipendio) di lasciare le sue pisciatine di cane (!) sulla partitura, annunciando non una ma ben due primizie: la prima comporta la sostituzione della romanza di Foresto all’inizio dell'Atto III (Che non avrebbe il misero) con quella (Oh dolore! Ed io vivea) scritta per Napoleone Moriani e per la Scala (dicembre 1846): sì perchè la Scala non è mica la Fenice, sia chiaro. Un’altra aria sostitutiva - Sventurato! alla mia vita - era stata composta, su raccomandazione di Rossini, per Mykola Kuz'myč Ivanov per una recita di Attila a Trieste. Dato che oggi è passata da mani private (dove era inaccessibile) a mani pubbliche, Chailly potrebbe chiedere il permesso di metterla in scena in una sua prossima rivisitazione dell’opera (!?!) Ecco qui i testi delle tre versioni:

originale (Venezia, 17/3/1846)
Ivanov (Trieste, 28/9/1846)
Moriani (Milano, 26/12/1846)
DO minore - 4/4
DO minore - 4/4
DO minore - 4/4
Infida!
Il dì che brami è questo:
Vedrai come ritorni a te Foresto!
Infida!...
Fatta certezza è il dubbio...
I giuri suoi smentiva!... oh tradimento!
Straziata dal dolor l'alma mi sento!...
(come originale)
DO minore-maggiore - 4/4
LAb minore-maggiore - 3/4
REb maggiore - 4/4
Che non avrebbe il misero
Per Odabella offerto?
Fino, deh, ciel, perdonami,
Fin l’immortal tuo serto.

Perché sul viso ai perfidi
Diffondi il tuo seren?…
Perché fai pari agli angeli
Chi sì malvagio ha il sen?
Sventurato! alla mia vita
Sol conforto era l'amor!
Sventurato! or disparita
Ogni gioia è dal mio cor!

Ah!.. perché le diede il cielo
Tanto fiore di beltà;
Se ad un cor dovea far velo
Nido reo d'infedeltà.
Oh dolore! ed io vivea
Sol pensando alla spergiura
Fin l’esiglio a me parea
Men deserto e men crudel.

Ogni colpo di sventura
Mi feria ma non nel core.
Fui beato in quell'amore
Come un angelo nel ciel.

Però Chailly, sostituendo la romanza, non si deve essere accorto di aver gettato alle ortiche un importante (secondo me) connessione drammaturgica e musicale/tematica che esiste fra detta romanza e la cavatina di Foresto del Prologo (Ella in poter del barbaro) e precisamente fra i versi Io ti vedrei fra gl'angeli (cavatina) e Perché fai pari agli angeli (romanza). Nobbuono!



La seconda trovata è l’esecuzione di 5 (in lettere: cinque) battute musicali composte nientemeno che da Rossini per un happening in casa sua a Parigi e che da allora nessuno aveva mai più potuto udire, collocate prima del terzetto (Odabella-Foresto-Ezio) aperto da Odabella (Te sol, te sol quest’anima):



In ogni caso mi sento di stigmatizzare questa pratica pseudo-filologica, che evidentemente contagia - a mo’ di sindrome da onnipotenza - molti direttori, smaniosi di differenziarsi dalla massa proponendo novità inedite o versioni desuete di brani o intere opere. Mi tornano alla mente, restando in ambito scaligero e sempre riguardo a Chailly: la Butterfly-1904 presentata a SantAmbrogio2016 e le diverse versioni della Fanciulla di pochi mesi prima. Ma anche Barenboim non aveva scherzato, aprendo spudoratamente il Fidelio-2014 con la Leonore-2 (!) E che dire del Gatti-2008 che ci offrì la primizia del Lacrymosa dentro il suo Don Carlo...

Secondo me si tratta di iniziative tollerabili, o magari anche apprezzabili, se proposte nell’ambito di manifestazioni particolari, tipo i festival, oppure se producono degli allegati, in un CD. Ma scommetto che il pubblico competente del 7 dicembre sarà... attentissimo a queste straordinarie novità.

Poi Chailly trova da ridire (al Verdi non ancora abbastanza... maturo, evidentemente) sulle ultime battute dell’opera, dove Foresto, Ezio e il coro cantano Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!! Secondo il Direttore Musicale, concentrare in una sola battuta (anzi in 3 semiminime) e in tempo Allegro ancora più animato, come fa Verdi (e come quasi tutti, ad esempio Muti) i tre riferimenti a Dio, popoli e re è cosa imperdonabile e irrispettosa: così lui prescriverà a voci e strumenti un allargando proprio su quelle battute, per restituire a quei riferimenti l’importanza che si meritano (?!?) Cosa che però ha già inventato il sommo Paolo Carignani (Macerata, 1996). 
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Quanto agli interpreti, il protagonista sarà l‘imponente ldar Abdrazakov, del quale possiamo farci un’idea attilica (per me assai convincente) in questa recita del 2012 al Mariinsky con Gergiev (nello stesso 2012 il basso russo fu assai apprezzato anche a Roma con Muti).

Hildiko/Ildegonda... oh pardon, Odabella, sarà impersonata da Saioa Hernández, che esordisce nel ruolo: personalmente l’ho sentita una sola volta, lo scorso anno nella Wally, e ne trassi una positiva impressione, proprio per le caratteristiche di potenza e corposità della voce, che dovrebbe quindi bene adattarsi al ruolo della ruvida amazzone di Aquileia.

L’eroico Foresto resta quello del 2011, Fabio Sartori, che ha ormai raggiunto le dimensioni di Pavarotti e la voce... quasi, ecco; ma speriamo bene, visto che lui ha poi vestito quei panni altre volte, come qui a Bologna nel 2016 con Mariotti.

L'ambiguo Ezio (patriota o doppiogiochista?) annunciato a maggio per Simone Piazzola avrà invece la voce di George Petean, il baritono rumeno che già nel 2016 ha fatto coppia con Abdrazakov nell’Attila a Montecarlo.

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) completano il cast. Molto ci aspettiamo dal coro di Casoni, che qui ha un ruolo primario.

Chi vuol rinfrescarsi la memoria di Attila con una produzione rimasta nella storia della Scala può farlo anche senza dover comprarsi il DVD, semplicemente click-ando qui.
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L’allestimento è affidato a Davide Livermore, al suo terzo impegno scaligero, dopo il mitico Tamerlano e il buffo DonPasquale, due spettacoli di tutto rispetto anche se non esenti da qualche pecca. Vedremo come il regista(ex-tenore) torinese interpreta per noi questa vicenda pseudo-storica: io spero solo che non la carichi di contenuti eccessivamente politico-ideologici di attualità, come gli accadde anni fa per i Vespri torinesi (magari tirando in ballo proprio Di Maio, Salvini e Raggi - o Appendino, nel suo caso!)  

A parte le battute, il regista ci fa sapere cosa pensa dell’opera in questa esternazione comparsa sul sito web del Teatro. Subito Livermore sottolinea le debolezze (micro-ingenuità!) del libretto, riscattate però dalla potenza e dalla straordinaria vitalità della musica di Verdi. E fin qui non potrei essere più d’accordo con lui (!) 

Dopo aver (comprensibilmente!) esaltato la Scala, Chailly, l’allestimento e il cast vocale, il regista tratta gli aspetti politici della produzione verdiana di quegli anni, per sostenere che Attila non celebri una lotta di liberazione, ergo non sia un’opera risorgimentale. Qui il ragionamento scricchiola (Budden, uno per tutti, la pensa all’opposto) anche perchè Livermore fa un po’ di confusione con le date, postdatando Attila al 1849, quindi dopo i fallimenti dei moti del ’48 e della prima guerra d’indipendenza, mentre l’opera andò in scena alla Fenice martedi 17 marzo del 1846, in piena temperie rivoluzionaria... Ma il regista motiva la sua convinzione analizzando le figure di Attila e di Ezio, e in particolare la famosa frase del generale romano (Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me.) considerata una proposta indecente, e concludendo (prendendo a pretesto la sprezzante risposta di Attila) che l’intera opera sia una radiografia dell’Italia contemporanea (a Verdi, ma anche a... noi!): un Paese senza più principii, senza senso civico, comunitario e identitario, pronto a svendersi allo straniero per un piatto di lenticchie; e che Verdi volesse quindi prendere a schiaffoni i suoi contemporanei (e quindi anche noi, a futura memoria!)

Ecco, a me pare proprio che qui il regista sconfini indebitamente nel campo della sociologia-un-tanto-al-kilo (e spero non l’abbia messa al centro del suo Konzept dell’opera). Certo si può sorridere sul fatto che la rivolta patriottica contro l’invasore sia condotta da un Papa e da un Generale di ambigue attitudini; e non si può negare che la figura di Ezio non sia propriamente adamantina, ma così come la si può coprire di disprezzo (classico caso di doppiogiochismo all’italiana, sentenzierebbe un crucco di oggidì con i paraocchi, proprio come Attila) è altrettanto legittimo scorgervi invece un sano approccio di Realpolitik, da parte di un italiano - ambizioso sì, ma con la testa sulle spalle - che cerca di salvare il salvabile, lasciando ai barbari il resto del mondo in cambio della salvezza e sicurezza del proprio Paese! Ma poi - ciò che è più importante, visto che Livermore afferma di trovare tutti gli spunti nella partitura - è proprio la musica cantata da Ezio ad avere (come quella di Attila, effettivamente) caratteristiche di nobiltà ed eroicità; una musica che si addice ad una figura di alto spessore, non già ad un meschino traditore della patria. Non sarà un caso di certo se la melodia di Avrai tu l’universo sia quasi la stessa - armonizzazione inclusa - che sostiene, nel primo atto, l’accorata implorazione (Oh! Digli tu se anelo...) che Odabella rivolge alla buonanima del defunto padre perchè convinca Foresto delle sue intenzioni (di far secco Attila).

E poi: sappiamo bene come il pubblico di metà ’800 si riscaldasse patriotticamente all’ascolto di quella frase, chiosando la proposta di Ezio ad Attila col grido L’Italia a noi! E in chiusura dell’opera non per nulla il trio Ezio-Foresto-Odabella, dopo aver tolto di mezzo il barbaro e pagano invasore, canta perentoriamente la già citata proclamazione Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!! (O è tutta e soltanto una parodia, come aveva sentenziato il suscettibile Solera?)

Insomma, detta con un termine oggi in voga (a proposito di attualizzazione delle opere del passato): Ezio è - nel bene e nel male - un sovranista (l’accostamento al Matteo dilagante non era poi così strampalato, vero?)

Livermore non perde infine l’occasione per esaltare il teatro musicale (lui è un collaboratore dell’oste, del quale ovviamente deve vantare la qualità del vino) e l’opera come prodotto artistico e non di entertainment, come sarebbe secondo lui degenerata solo da 30 anni a questa parte (andiamo a vedere Traviata o a mangiare una pizza?) Beh, intanto qualcuno potrebbe osservare come da 30 (o magari 50) anni a questa parte abbia preso piede un’altra degenerazione dell’opera, divenuta preda di registi iper-creativi, abilissimi nel de-strutturare e ricomporre lavori a proprio piacimento, ignorando bellamente gli originali. Ma poi Livermore dovrebbe ricordare come già dal ‘700 e poi nell’800, il teatro musicale avesse spiccate caratteristiche di entertainment, come dimostra la prassi tassativamente imposta (in specie a Parigi) dell’inserimento di balletti all’interno di opere anche seriosissime (e lo stesso Verdi non esitò ad accettare tali imposizioni!)     

Ma a proposito di scelta secca fra Traviata e pizza, si potrebbe poi ricordare a Livermore che nel ‘700 (periodo glorioso per il teatro musicale) e ancora nell’800 si andava a teatro (i palchi della Scala erano in origine veri e propri pied-à-terre) anche per mangiare (e persino per... fornicare!) E io tendo a pensare che molti popolani poco scolarizzati dell’800, così come moltissimi spettatori dell’intero ‘900 frequentassero l’opera proprio come entertainment, di livello nobile, intellettuale e - in certi casi - patriottico, certo. E dopo l’opera, se ne andassero però (come oggi) ad accontentare anche la pancia in trattoria o in pizzeria, discutendo animatamente delle prestazioni dei cantanti, non a fare esercizi spirituali.

Però Livermore nell’opera come strumento di elevazione delle coscienze e di nobilitazione della natura umana ci crede (oltre che camparci!) e così chiude il suo promo con un serioso e impegnato ...e andiamo a riacquistare la nostra identità. Nobili sensi invero! per dirla con la bocca di un classico baritono verdiano. (Sulla nostra identità persino l’antimusicale Salvini sarebbe d’accordo.)
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Dagli under-30 avremo il 4 le prime reazioni, poi il 7 pomeriggio saranno Radio3 e RAI1 a portare ad orecchie e occhi lo storico evento. I miei personali sensi verranno stimolati live pochi giorni dopo: se non ne resterò tramortito, riferirò... 

28 gennaio, 2016

Un baldanzoso Attila invade Bologna

 

Ieri al Comunale di Bologna quarta rappresentazione di Attila. Si ratta di un nuovo allestimento di Daniele Abbado, che verrà successivamente riproposto a Palermo e Venezia (co-sponsor della produzione). Insieme al sottoscritto, i più (cioè il solito 1,2-1,6% dell’italica popolazione) avranno già sentito/visto (in diretta o differita, su Radio3 e RAI5) la prima del 24.

Ciò che penso dell’opera lo avevo già esternato quasi 5 anni orsono, in occasione d una recita alla Scala. Ieri era la seconda con il cosiddetto secondo cast. Devo dire subito che non mi ha fatto rimpiangere il primo: forse l’unico interprete di cui ho sentito la mancanza è stato Simone Piazzola, il cui vice, Gezim Myshketa (Ezio) mi è parso impiegare poco proficuamente il suo pur naturalmente dotato strumento: voce artatamente scurita soprattutto nelle note alte, dove invece andrebbe esibito uno squillo penetrante, e non cavernosi schiamazzi.

Tutti gli alti interpreti non hanno affatto demeritato. A partire dal protagonista, un solidissimo Riccardo Zanellato, che ha esibito grande sicurezza e profondità di accenti, oltre che autorità e portamento scenico.

Bene anche Stefanna Kybalova, cui potrei rimproverare qualche acuto troppo tirato-via (ma non il DO di ingresso, più che dignitoso). Giuseppe Gipali ha pure ben meritato come Foresto, mostrando acuti squillanti ma anche buona espressività nei passaggi più introspettivi.

Gianluca Floris e Antonio Di Matteo come da minimo sindacale. Il coro di Andrea Faidutti ha ben sopportato le asprezze imposte da Verdi, sia nelle scene più cupe e opprimenti che in quelle dove si sprecano i fortissimo.

Da ultimo lascio Michele Mariotti per tributargli un doveroso omaggio: non aver avuto tema nell’impiegare in modo persino protervo quella tanto famigerata vanga che molti schizzinosi da sempre rimproverano a questo Verdi. Dico, Attila, se suonato così, ti porta semplicemente all’entusiasmo, ecco. E comunque, come dimenticare l’alba su RioAlto, evocata con pochi tratti, ma con grandissima efficacia... Quanto alle troppe cabalette, chiunque (credo) ne vorrebbe ancora di più...

Poche note sull’allestimento della coppia Daniele Abbado – Gianni Carluccio. Eccessiva insistenza su ambienti cupi ed opprimenti, quando invece ci dovrebbero essere anche squarci di luminosità e di sereno. Suppellettili in scena piuttosto insignificanti, o forse dal significato troppo criptico, non saprei; personaggi simbolici (un cristo seminudo e un rabdomante o domatore di serpenti) che potevano esserci risparmiati.

Costumi più o meno appropriati al fine di farci ben distinguere tra gli straccioni e malnutriti invasori e le truppe scelte di Roma (rancio ottimo e abbondante, divise appena uscite dalla stireria e stivali lucidati a specchio).

La regìa dei personaggi: l’impressione che si sia lasciato a ciascun interprete di recitare a soggetto, secondo la propria personale ispirazione. Insomma, nulla di indimenticabile. 

Ma, ripeto, ciò che conta è, nella fattispecie, l’accoppiata Verdi-Mariotti: e questa ha risposto davvero alla grande!

16 luglio, 2011

Ultima di Attila alla Scala


Ieri sera ultima levata di sipario alla Scala prima della chiusura estiva, con Attila, nell'edizione dell'accoppiata Luisotti-Lavia. Teatro non proprio esaurito, ma perlomeno non così penosamente semivuoto, come lunedi scorso per l'Italiana.
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Su Attila se ne leggono di tutte. Opera del Verdi giovane e ancora immaturo (dopo Nabucco?) Del Verdi bandistico (ma non rinunciò proprio qui alla banda?) Del Verdi polacco (zumpara-pappa-pappa). Opera dalle vocalità impossibili. E così via ridimensionando. Certo, anche il Wagner del Lohengrin non è quello del Parsifal (toh!) e allora dovremmo bruciare quelle partiture giovanili e conservare solo Otello e Parsifal? No, grazie, dateci pure Attila e Lohengrin a colazione, pranzo e cena. Otello e Parsifal solo a Natale e Pasqua, dopo adeguati Avventi e Quaresime.

Insomma, sarà anche immatura, primitiva e pure barbara (smile!) ma personalmente trovo Attila un'opera musicalmente entusiasmante: a dispetto della struttura ancora tradizionale, a numeri, non lascia cadere la tensione nemmeno per un attimo; essenziale, concisa, mai prolissa. Sì, ci sono per lo più scene eroiche (con relativi fracassi e retorica) con frequenti irruzioni di cori a tutta forza, come nella cabaletta di Foresto in chiusura del prologo:
C'è tanta enfasi, come nell'attacco della cabaletta di Attila Oltre quel limite, con il suo inconfondibile (e tanto bistrattato, dai detrattori) ritmo di polacca, già comparso nella cabaletta iniziale di Odabella e che ritroveremo con Ezio, nell'Atto II:

Non parliamo poi del concertato del Finale II, con solisti, coro e tutti gli strumenti in ff, in un'autentica orgia sonora.

Ma vi troviamo anche scene liriche, dove emergono i sentimenti e gli stati d'animo, le superstizioni e la fede. O dove protagonista è la Natura, come nel sorgere del sole sulla laguna (per il quale Verdi trasse ispirazione da Le Désert di David) evocato con grande parsimonia di mezzi: un solo flauto e i violini primi, cui si aggiungono il secondo flauto e i violini secondi, poi un oboe, quindi le viole (sempre sottovoce) poi i violoncelli e un clarinetto, quindi un corno e infine i fagotti, in un lento ma continuo ispessimento del suono che bene rende il progressivo irrompere della luce sulle calme acque di Rio Alto:
fino all'esplodere del DO maggiore che sostiene il canto – L'alito del mattin – degli eremiti. E come non restare ammirati dalla semplicità disarmante del motivo in LAb - quattro misure, ripetute tre volte - che introduce ed accompagna l'accorato Non involarti, seguimi di Attila, all'inizio del quartetto conclusivo:
Insomma, in Attila ci sarà magari poca cerebralità, ma in compenso c'è vena genuina in grande abbondanza.
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Sulla plausibilità del libretto e sull'aderenza dello stesso (e della relativa fonte di Zacharias Werner) ai fatti storici sarebbe eccessivo pretendere troppo: al servizio del dramma e ad uso e consumo del pubblico italico di metà '800, le vicende storiche di Attila vennero assai manipolate, attingendo ampiamente (ed anche con libere storpiature) ad antiche saghe e leggende.

Intanto è storicamente assodato che l'Unno mai e poi mai arrivò nei paraggi di Roma, come vuole il libretto (e come già aveva fantasiosamente dipinto Raffaello in Vaticano, cui Verdi si ispirò): in realtà, nella sua spedizione contro la capitale dell'Impero non attraversò neanche il Po, fermandosi a Governolo, in quel di Mantova. Sì, perché dopo aver raso al suolo Aquileia, Attila aveva continuato invece a spostarsi da est a ovest, porgendo visite di cortesia a Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e finalmente a Milano. In pratica tracciando con ferro&fuoco il percorso originale dell'autostrada Attila-IV (oggi: A4, smile!) E a Governolo, dopo l'incontro con Papa Leone, avrebbe deciso di rinunciare. E questo è ciò che si riscontra effettivamente anche nel libretto dell'opera fino alla fine dell'Atto I. Poi, miracolosamente, nell'Atto II troviamo Attila alle porte di Roma: potenza delle leggende e delle incongruenze dei libretti d'opera!

Nella realtà storica, convinto dalla minacciosa autorità di Papa Leone - ormai la Chiesa era divenuta più importante e potente dell'Impero (primato che detiene tuttora, smile!) - ma anche dai suoi propri luogotenenti e dallo stato penoso in cui versava la truppa - fatta di gente abituata a mangiar radici selvatiche e pezzi di carne pressata fra le proprie chiappe e il dorso dei cavalli che montava, e a cui la dieta mediterranea (Oh lauta mensa, che a noi sì ricco suol dispensa) giocava brutti scherzetti – il nostro decise di tornarsene a casina, laggiù in Pannonia (non prima però di aver fatto qualche razzìa su dalle parti di Augsburg). E fu a casa propria che, sposatosi per l'ennesima volta – tanto per consolarsi della momentanea rinuncia al Campidoglio – ci lasciò le penne, soffocato dal suo stesso sangue, sgorgatogli dal naso durante il pesante sonno provocato dalle abbondanti libagioni seguite al matrimonio.

I dietrologi – prevedendone saggiamente l'impiego nel melodramma verdiano, smile! - hanno poi inventato la storia dell'assassinio di Attila da parte della neo-moglie, una discendente dei Burgundi che si volle vendicare della strage del suo popolo perpetrata dagli Unni (su comando di Roma, guarda un po'!) E questa leggenda ha trovato posto, nei secoli successivi, in diverse saghe nordiche e germaniche. Una per tutte, la Völsunga Saga (che ispirò, per altri aspetti, anche Wagner): vi si legge che Gudrun, moglie di Attila (Atli, o anche Etzel o Eceln nel Nibelungenlied) decide di vendicare la strage che il marito ha fatto dei suoi parenti, in questo modo: ammazza i due figli avuti dall'Unno, ne cucina i cuori allo spiedo, mescola il loro sangue al vino, e poi serve il tutto in tavola al marito. Quando costui chiede dove siano finiti i ragazzini, lei lo informa, con la massima naturalezza, che lui stesso se li è appena mangiati e bevuti! La notte successiva, la simpatica mogliettina completa l'opera passando Attila da parte a parte, con la di lui spada.

Beh ecco, diciamo che Werner e poi Solera&Piave ci hanno meritoriamente risparmiato buona parte di questi eccessi orripilanti, tuttavia anche il disegno dell'italica Odabella (contendere all'amato Foresto l'onere e l'onore di far secco il flagello, correndo persino il rischio di mandare a meretrici tutto il piano faticosamente messo a punto dal medesimo Foresto con l'appoggio dell'ambiguo generale Flavio Ezio e dell'inaffidabile Uldino) appare sufficientemente contorto e persino più inverosimile di quello della sua parigrado burgunda. Per nostra fortuna a musicare questo polpettone fu tale Verdi, uno capace di cavar sangue (smile!) anche dalle rape.

A proposito di Odabella, la sua figura è solitamente avvicinata a quella di Abigaille. A me piace vederci anche un'anticipazione della Hélene dei Vêpres: analoghe le motivazioni alla vendetta nei confronti di un tiranno e musicalmente vicine anche le rispettive arie di esordio:
(Poi le sorti delle due eroine tenderanno a divergere assai).

In Attila compare – per la verità abbastanza di sfuggita e in modo superficiale, con qualche accenno a Wodan – anche il conflitto fra le ataviche religioni nordico-levantine e il Cristianesimo. Guarda caso, più o meno in quegli stessi anni, Wagner componeva Lohengrin, dove quel conflitto esplode invece in modo drammatico, e musicalmente straordinario, per tramite della straripante personalità di Ortrud.

Quanto ai presunti risvolti patriottico-risorgimentali del contenuto di Attila, varrà solo la pena di constatare come i personaggi di maggior peso politico che si oppongono all'invasore siano: un Papa (!) e un generale doppiogiochista (!!) I poveri Odabella e Foresto tutt'al più potranno incarnare il naturale risentimento popolare verso gli eccessi delle orde barbariche. In compenso, è proprio il condottiero barbaro il personaggio dell'opera che possiede e mostra la statura morale più alta e una indiscutibile nobiltà d'animo…
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E come ce l'hanno propinato, Lavia-Luisotti, questo capolavoro?

Gabriele Lavia – da velleitario esponente del Regietheater – si inventa un suo Konzept dell'opera: la barbarie permanente, o ricorrente. E lo rappresenta in tre scenari diversi, accomunati dalla presenza di teatri distrutti. Secondo lui, dalla barbarie, appunto, che si accanirebbe contro i luoghi in cui si racconta l'Uomo (così scrive sul programma di sala). Per il regista, l'Attila (quello di Verdi, si badi bene, perché è questa l'opera che lui deve mettere in scena!) incarna il Mito dell'oppressione, il Mito della privazione della Libertà, il Mito della fine della Verità di cui la Libertà è l'Essenza. Attila è la "Barbarie". Ora, come si possa conciliare questa vision con la trama e i contenuti del libretto e soprattutto della musica di Verdi, è un mistero che solo Lavia deve conoscere, beato lui! A noi, poveri pirla, non resta che fare un atto di fede nella sua superiore chiaroveggenza.

Peraltro pare che il nostro predichi male e razzoli… quasi bene: del suo Konzept restano solo le scene di teatri diroccati, mentre i personaggi escono abbastanza coerentemente con libretto e musica. Rivestiti peraltro da costumi bizzarri, tutta roba chiodata, da metallari, coperta dagli immancabili cappottoni DDR. Resta da dire di un dettaglio quasi comico nella scena del tentato avvelenamento di Attila, sventato da Odabella: già è al limite dell'assurdo nel libretto, ma Lavia fa ancor di meglio. Dunque: Odabella regge la coppa di vino destinata ad Attila; Foresto, sotto i suoi occhi, ci versa il contenuto della fiala col veleno; Uldino, lì accanto, prende la coppa e la reca al suo capo; dopodiché Odabella avverte Attila del pericolo. Una cosa semplicemente grottesca.

E veniamo quindi alla musica. Luisotti non fa sconti in fattura su enfasi e bordate di ff (che per Verdi, ligio alle convenzioni, significava il più forte possibile… solo i tardo-romantici inventeranno i fff e ffff); però sa anche dosare con discreta efficacia gli ingredienti più intimistici e lirici della partitura. Da incorniciare l'alba di Rio Alto, ben assecondata anche dalle luci. In un paio di occasioni invece si fa prendere la mano (o vuol proprio strafare): il Cara patria di Foresto inizia in Allegro assai moderato, poi sul verso ma dall'alghe di questi marosi si dovrebbe fare Poco animato, indi stringendo poco a poco; invece Luisotti passa di colpo e direttamente dall'Allegro assai moderato ad un Prestissimo degno del miglior Cipollini… Stessa solfa nel travolgente Finale II, dove si dovrebbe partire da un Allegro e poi passare a un Più animato e infine ad un Più mosso; il maestro invece salta tutti i passi intermedi e si butta a capofitto in un Allegro con fuoco tanto impressionante e strappa-applausi, quanto gratuito. Ma insomma, una direzione nel complesso accettabile, e ben supportata da un'orchestra compatta, che garantisce a Luisotti un gran trionfo finale.

Orlin Anastassov (che viene più o meno dai paraggi di Attila) ha dato forfait (voci maligne attribuiscono la defezione ad un improvviso invito ad una festa in suo onore da parte di una certa Ildegonda, smile!) ed essendo indisponibile anche il vice (Pertusi) lo ha sostituito sui due piedi Enrico Iori, non nuovo per la verità a cantare il flagello. Datosi che probabilmente avrà avuto solo il tempo di scambiare quattro chiacchiere col maestro prima di entrare in scena, la sua prestazione la giudicherei più che sufficiente, e così l'ha pensata anche il pubblico.

Marco Vratogna era lo sbifido Ezio. Che però non dovrebbe cantare in modo sbifido… Comunque è rientrato nel generale livello di passabile mediocrità: per lui qualche applauso dopo il duetto iniziale con Iori, accoglienza fredda all’aria dell’Atto II e però applausi alla fine.

Elena Pankratova come Odabella non mi è dispiaciuta: più efficace nell'esordio eroico (applaudito) che nell'aria dell'Atto I, che forse le è costata (immeritatamente, per me) quegli unici buh che si sono uditi alla fine dalla seconda galleria.

Fabio Sartori è stato un Foresto abbastanza dignitoso, sempre in controllo e mai (apparentemente almeno) in difficoltà. Anche per lui buon gradimento di pubblico.

Gianluca Floris come Uldino aveva pochi versi da cantare solo, più che altro da contribuire a vari cori e concertati, e ciò ha fatto passabilmente bene.

Ernesto Panariello impersonava Leone. Il quale ha da cantare da solo 4 versi, 16 battute in tutto, poi si mescola al coro del Finale I. Però in quelle poche battute dovrebbe mettere (tonante, recita la didascalìa) tanta paura addosso al flagello, da convincerlo a rinunciare all'impresa. Ma dato che per i librettisti Attila non rinuncerà affatto, mi pare del tutto logico (smile!) che l'intervento del Papa-Panariello sia stato quanto di più fiacco e improduttivo si potesse immaginare… Il pubblico però gli è stato grato di non aver fatto finire l'Opera a metà (ari-smile!)

I coristi (adulti e bianchi) della Scala devono proprio stare sui coglioni agli estensori delle locandine web del Teatro: non parvenu. Quindi, un doppio bravi! a loro e al loro condottiero Casoni.

In conclusione: a parte l'isolata contestazione alla cicciottella Pankratova, buon successo, segno che il pubblico ha gradito (quanto e quanti spettatori poi abbiano una minima conoscenza dell'originale è oggigiorno questione non secondaria, ma… quaternaria). Prosit e – per quanto mi riguarda – looking forward to PesaROF!
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