XIV

da prevosto a leone
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01 dicembre, 2020

Il Moro di Firenze

Ieri sera RAI5 ha diffuso in streaming un apprezzabilissimo Otello dall’Opera di Firenze.  

Mehta e la sua Orchestra sempre più in forma, cast senza stelle ma... planetario!

E sabato prossimo Roma apre (RAI3 alle 16) con il Barbiere della coppia Gatti-Martone.

Nonostante tutto, ci sono Teatri (Firenze e Roma sono solo gli ultimi esempi di una lunga serie) che continuano a fare... teatro d’opera!

La Scala invece... teatro di varietà?

24 febbraio, 2020

Roma ospita un Onegin di alto livello


Ieri pomeriggio il Costanzi - abbastanza, ma non troppo affollato - ha ospitato la terza recita dell’Onegin, una produzione di Carsen del lontano 1997 per il MET, poi già ripresa da altri teatri e qui portata da Peter McClintock. Sul podio il torinese (pro-tempore) James Conlon. Radio3 aveva trasmesso la prima del 18, che mi aveva fatto un gran bella impressione, pienamente confermata dall’ascolto dal vivo.

Come le altre, anche questa recita è edicata al ricordo della grande Mirella Freni, ultima interprete romana di Tatiana nel 2001.

L’allestimento di Carsen compie 23 anni, ma non li dimostra, come accade per ogni opera di valore. L’idea portante del regista è di mettere al centro della vicenda Onegin, che non per nulla appare sempre per primo in scena in apertura dei tre atti: durante il Preludio lo si immagina ricordare ciò che... accadrà, leggendo una lettera; all’inizio del second’atto facendo un sopralluogo nella sala dove si svolgerà la festa che lo porterà ad offendere Lensky e a dare inizio alla tragedia; infine all’inizio del terzo atto, quando verrà abbigliato a dovere per la festa-funerale che preparerà la sua fine ingloriosa.

L’ambientazione rispetta il libretto, nella Russia ottocentesca, come testimoniano i costumi di Michael Levine, il quale cura anche le scene: ambiente praticamente vuoto, di volta in volta popolato da poche suppellettili, piccoli tavoli da lavori domestici, sedie e tavolini da soggiorno. All’inizio il pavimento è ricoperto da (finte) foglie dai tipici colori autunnali (giallo, marrone, rossiccio, verde scuro) per restare via via completamente spoglio. Le luci di Jean Kalman supportano l’idea del regista di illuminare le tre pareti nude con colori diversi e cangianti, a seconda del carattere dei diversi quadri: il giallo della natura e della vita serena per i quadri iniziali dei primi due atti, in casa Larina; il blu-notte nel secondo quadro del primo atto (la lettera di Tatiana) e nel corrispondente del secondo (il duello all’alba, con il sole che sorge poi a inquadrare la silhouette di Onegin piegato sul defunto Lensky); grigio nel terzo quadro del primo atto (la disillusione di Tatiana); bianco nel primo quadro del terz’atto (a far da sfondo ad un nero... funerale) e ghiaccio nel quadro finale (il distacco definitivo).

Una scelta che ai tempi fece discutere è quella di collegare direttamente la fine dell’atto secondo (morte di Lensky) con l’inizio del terzo (festa a palazzo Gremin) che il libretto colloca invece a distanza di anni. (L’idea fu poi scopiazzata - in molto peggio, per la verità - da Kasper Olten, in una produzione passata anche a Torino anni fa.) Ma anche questa si spiega con la concezione di Carsen di porre Onegin al centro dell’opera e quindi vedere la realtà con gli occhi di lui, che dopo l’omicidio dell’amico vede tutto nero e così la festa per lui diventa proprio un funerale, anzi il funerale di Lensky, portato via sulle spalle degli inservienti del Principe, in mezzo agli invitati (maschi e femmine) tutti vestiti di nero, come becchini o pipistrelli. Proprio mentre in orchestra esplode la musica della polacca brillante, qui assurta a grottesca marcia funebre! Insomma, Carsen trasferisce il lancinante contrasto: da quello presentato nel libretto, fra la festa spensierata e il cuore desertificato di Onegin; a quello fra cerimonia funebre e musica brillante che l’accompagna.

A proposito della musica della polonaise, ho sempre considerato l’iniziale esposizione del tema principale come un modo escogitato dal compositore per caratterizzare un ambiente da nobiltà parassitaria: insomma un po’ da... sboroni, ecco. Dopo la fanfara introduttiva e l’approccio degli archi, il motivo principale è di 8 battute e viene esposto due volte, prima che subentri un controsoggetto di 10 battute, cui segue la ripresa del tema principale e la coda conclusiva. Orbene, ci si aspetterebbe che le due esposizioni del tema siano sostanzialmente identiche e quindi sfocino entrambe sulla dominante RE. Invece la prima delle due sfocia inaspettatamente un tono sopra (MI, e in minore, tonalità relativa del SOL) con un effetto francamente poco gradevole, che sembra appunto tipico di chi voglia strafare, mettersi in mostra a tutti i costi, insomma fare una vuota ostentazione di ricchezza... (Ben diversa è invece la condotta del walzer che apre il second’atto, in un ambiente genuinamente e simpaticamente campagnolo e provinciale.)
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James Conlon mostra non solo di conoscere a fondo, ma anche di adorare letteralmente questa partitura, tanta e tale è la cura che mette nel dirigere, quasi prendendo per mano i singoli strumentisti e le voci sul palco. Mai un effetto gratuito, nessuna indebita libertà nella scelta dei tempi, dinamiche mai esasperate, nel pieno rispetto dell’ambientazione sonora che l’Autore volle dare a queste sue scene liriche.

Voci tutte all’altezza, con punte di eccellenza per Markus Werba, un Onegin quasi perfetto, dalla vocalità (per me) appropriata ad un cattivo che però è anche giovane. Benissimo Saimir Pirgu (accolta trionfalmente la sua celebre aria prima del duello). Ottimo anche John Relyea (Gremin) la cui parte è quantitativamente ridotta, ma è fondamentale (forse il parallelo con un Filippo o un Marke è eccessivo, ma insomma...)

Le due sorelle mostrano una grande padronanza e consuetudine con le parti, soprattutto Maria Bayankina è una Tatiana davvero eccellente, capace di immedesimarsi mirabilmente nella ragazza romantica e insieme temeraria (la sua lettera è stata un capolavoro di espressività delle sue passioni) e poi nella rigorosa signora che rispetta fermamente i sacri doveri che la società le impone. Yulia Matochkina le ha fatto da sorellina spensierata e in po’ frivola con buon portamento e bella voce di mezzo.

Discrete le due voci femminili di contorno (Irina Dragoti e Anna Viktorova) cui rimprovero magari un po’ di carenza di... decibel. Efficace e simpatico il Triquet di Andrea Giovannini e oneste le prestazioni degli altri due comprimari, Andrii Ganchuk e Arturo Espinosa.

Benissimo anche il coro di Roberto Gabbiani, che nel second’atto ha pure... ballato. E a proposito di danza, completano il quadro i cinque membri del Corpo di ballo del Teatro, guidati dal coreografo Serge Bennathan.
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Al termine almeno 10 minuti di applausi equamente distribuiti tra tutti i protagonisti di questo spettacolo che merita proprio di esser visto e goduto (RAI5 lo metterà in onda prossimamente). 

18 marzo, 2019

L’Orfeo di Carsen-Capuano-Vistoli a Roma


L’Orfeo di Gluck ieri pomeriggio in un Costanzi piuttosto affollato (ma non esaurito) è arrivato alla seconda recita delle 5 (+1) in programma.  

Carlo Vistoli era al centro dell’attenzione e devo dire che il combinato disposto della scrittura di Gluck, piuttosto sobria, e delle dimensioni non proibitive del teatro (dotato fra l’altro di buona acustica) ha contribuito a garantire alla sua prestazione un’accettabile efficacia, non facendo troppo rimpiangere i robusti suoni di contralto che da sempre siamo abituati a sentir uscire dalla bocca di Orfeo. Personalmente, avendo ascoltato (solo in registrazione, devo precisare) il sopranista Jaroussky (a Parigi nel maggio 2018) mi sentirei di dare un voto più alto a Vistoli, non fosse altro che per la miglior appropriatezza della sua voce di contraltista rispetto alle caratteristiche del personaggio. Ottima anche la sua presenza scenica.   

Onesto e non di più il contributo dei due soprani Mariangela Sicilia (Euridice) ed Emőke Baráth (ormai specialista del ruolo di Amore): due vocine abbastanza piccole e debolucce nei centri e nei gravi. Lodevole invece l’apporto del coro di Roberto Gabbiani (invero fondamentale in quest’opera).

Tutti autorevolmente concertati dall’esperta bacchetta di Gianluca Capuano (esordiente sul podio romano, ma che gli appassionati de laVerdi conoscono bene per le comparse in Auditorium con il suo ensemble vocale nel repertorio barocco). Al direttore mi sentirei di muovere un solo modesto rimprovero: qualche eccesso di... foga riguardo ai tempi. Senza pecche l’orchestra, con un plauso all’oboe per il suo intervento che anticipa il wagneriano venerdi santo.

Nonostante la durata dell’opera originale sia già abbastanza contenuta (circa 90’ netti) qui alcuni tagli (un paio relativamente piccoli, nel second’atto: da-capo omessi nei balli e nel coro finale; uno invece assai corposo: l’intero ballo, nel finale ultimo) la riducono a circa 75’: a parte la citata speditezza dei tempi di Capuano, c’è da esser certi che questo esito sia legato alle scelte estetiche e interpretative di Carsen (riprendo l’argomento più avanti). Un altro modesto (e quasi irrilevante) intervento sulla partitura riguarda il ballo degli eroi (in SIb) del second’atto: spostato - anche qui direi per esigenze sceniche (lo svestimento di Euridice nell'Eliso) - da prima a dopo il recitativo di Orfeo.

In definitiva, una prestazione musicale di cui ci si può accontentare, ecco. E anche il pubblico romano ha mostrato di gradirla, riservando applausi (non da stadio, peraltro...) per tutti quanti.
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Come noto, la messinscena di Carsen è una rivisitazione di suoi precedenti lavori (2006 e 2011) quindi di essa già si conoscevano pregi e difetti. Le scene di Tobias Hoheisel sono ispirate a severo minimalismo (tipo Wieland Wagner, per intenderci) in modo da concentrare l’attenzione dello spettatore sul canto e sulla recitazione dei protagonisti: uno spoglio e scuro terreno sabbioso circondato da un cyclorama bianco sul quale a volte si stagliano le silhouette dei personaggi. Costumi (pure di Hoheisel) di foggia moderna quanto anonima. Luci (Carsen e Peter van Praet) gestite con la proverbiale abilità del regista: illuminazione laterale, obliqua, retrostante.

Carsen, perseguendo l’obiettivo di enfatizzare gli aspetti più esistenzialisti del dramma, abolisce poi ogni sovrastruttura accessoria (non certo per fare della spending-review...) Quindi, oltre al minimalismo con cui caratterizza le scene, minimalizza o cancella tutto ciò che striderebbe con la sua concezione dell’opera: come i balli e le conseguenti coreografie. Che peraltro furono concepiti da Gluck-Calzabigi come parti integranti e non certo accessorie dell’opera, come ci conferma Giovanni Bietti nel suo intervento sul programma di sala. Sul quale è però sorprendente leggere un’affermazione del regista - nell’intervista rilasciata a Leonetta Bentivoglio - secondo il quale nella versione originale viennese del 1762 non ci sono danze! Beh, come spiegazione dei suoi barbari tagli, non c’è male...

In definitiva - a parte lo scippo consumato ai danni dell’ascoltatore, che si perde parecchia musica di ottima fattura - lo spettacolo rischia di diventare fin troppo serio se non monocorde. Se osserviamo la macro-struttura dei tre atti dell’opera, la potremmo (usando un termine musicale) definire come un semplice rondò: A-B-A-B-A. Dove le sezioni A sono caratterizzate da: giorno, luce e natura idilliaca; le B da notte, oscurità e natura orrida e infernale. Orbene, Carsen ci presenta invece solo uno scenario di tipo B, se si esclude il finale (Trionfi amore) peraltro abbastanza slavato. E meno male che il regista non ha ripetuto l’operazione perpetrata all’Alcina, dove aveva tagliato di netto il lieto-fine!

Parliamo adesso di Natura e Poesia. Se prendiamo ad esempio la prima scena, nell’originale ci troviamo una cerimonia funebre che avviene in un luogo incantevole, in mezzo ad alberi e fiori di ogni specie: il che accentua il contrasto lancinante con il dolore insostenibile di Orfeo - evocato dalla mirabile musica di Gluck - che in quegli elementi naturali riconosce i compagni dei suoi giorni felici passati con Euridice (In ogni tronco scrisse il misero Orfeo, Orfeo infelice: «Euridice, idol mio, cara Euridice»). Ebbene, se le parole hanno un senso, esso è totalmente tradito dalla scena proposta da Carsen, dove non c’è la minima traccia di Natura. Quanto alla Poesia, ditemi dove la si può trovare in una distesa di sabbia scura e in un corteo di popolani vestiti come becchini!  

Vengo ora ad Orfeo. Secondo Carsen è un poveraccio (everyman) come tutti noi, vittima di un destino avverso che gli ha tolto la persona più cara. Cosicchè, già al funerale, tira fuori un serramanico e cerca il suicidio... anticipato (rispetto a Gluck-Calzabigi). Sì, anticipato, perchè libretto e musica ci dicono che l’istinto suicida insorge in Orfeo soltanto dopo la seconda morte di Euridice, della quale lui si sente (ed è) unico responsabile, a causa della sua debolezza. Al funerale invece il suo atteggiamento è di temeraria sfida (Ho core anch’io...) ai numi di Acheronte e Averno che gli hanno sottratto la sposa, che lui si ripromette di recuperare alla vita prima ancora che Amore arrivi a supportarlo nell’impresa.  

Poi, per giustificare l’idea che si è fatto di Orfeo (un uomo qualunque, come tutti noi) ecco che Carsen (sempre nella citata intervista) afferma che nel testo di Calzabigi e nella musica di Gluck non ci sarebbe alcun riferimento allo status di artista (poeta e cantore) di Orfeo! Quando invece basta leggere il libretto e ascoltare gli interventi dell’arpa per convincersi del contrario. Insomma, il buon Carsen non ce la racconta giusta! 

Per lui i compagni di Orfeo, le Furie dell’Averno e gli Eroi dell’Eliso sono sempre le stesse persone: prima vive, poi morte e infagottate in bianchi sudari, poi rinate nell’Eliso e infine tornate vive ad accogliere i due amanti restituiti alla vita. Beh, a me pare una banalizzazione eccessiva del soggetto, conseguenza della sua totale smitizzazione perpetrata dal regista. Che poi ignora del tutto le precise modalità con le quali il mito pretende si realizzi la riconquista (e la seconda perdita) di Euridice. Le prime due scene dell’atto terzo (quella dove avviene il fattaccio e l’altra dove arriva provvidenzialmente Amore) dovrebbero essere ambientate ancora nell’aldilà infernale, poichè solo lì vale il divieto di sguardo. Invece Carsen già all’inizio dell’atto ci mostra Orfeo che trascina Euridice nell’aldiqua, rientrandovi precisamente dallo stesso passaggio impiegato per inoltrarsi nell’oltretomba (la fossa in cui la fanciulla era stata inumata) e ritrovandoci la giacca abbandonata a fine del primo atto, con annesso serramanico da usarsi per il secondo (per Carsen, non per Gluck) tentato suicidio. Ma se i due sono già riemersi nel mondo reale, non si capisce perchè lo sguardo debba esservi ancora vietato... 

Insomma, una serie di forzature (per me) francamente eccessive e giustificabili solo a fronte della scelta interpretativa di fondo compiuta dal regista. 

Ecco, come posso sintetizzare il tutto? Dicendo che: se ci si dimentica totalmente dei contenuti del soggetto originale e si fa propria la vision del regista, allora si può godere lo spettacolo e magari anche emozionarsi, poichè la suggestione che suscita questa messinscena è innegabile. 

Viceversa, è difficile andar oltre il rispetto e l’ammirazione per la professionalità con la quale l’allestimento è stato realizzato.

13 marzo, 2019

A Roma torna un Orfeo maschio


Al Costanzi sta arrivando (questa sera la primina giovani) l’Orfeo di Gluck, una co-produzione italo-franco-canadese affidata a Robert Carsen e già collaudata (mediamente con successo) nel 2018 a Parigi e prima ancora, nel 2011, a Toronto. Messinscena che Carsen ha peraltro riproposto rimaneggiando quella del 2006 a Chicago.

Come si sa, il ruolo del protagonista alle prime recite del 1762 a Vienna fu affidato ad un famoso castrato, il contralto Gaetano Guadagni, mentre nella versione francese del 1774 venne rivisto per la tessitura di tenore acuto. Tramontata l’epoca dei castrati, nella versione originale la parte venne tradizionalmente affidata ad un contralto en-travesti (prassi inaugurata già nell’800, con la sua versione ibrida, da Hector Berlioz). Ebbene, in questa produzione torna invece a sostenerla un maschio: è già successo l’anno scorso a Parigi (con Philippe Jaroussky, direzione di Fasolis) e alla COC nel 2011 (con Lawrence Zazzo, direzione di Bicket); ed era successo a Chicago nel 2006 (dove si esibì David Daniel, sempre con Bicket). Anche qui la cosa si ripete, protagonista Carlo Vistoli, il quale non è evidentemente (e per sua fortuna...) castrato ma - come i colleghi citati più sopra - controtenore.

Sull’opportunità e l’efficacia dell’impiego di queste voci (contraltisti come Vistoli, o sopranisti come Jaroussky) ci sono diverse correnti di pensiero: c’è chi lo disapprova, sostenendo che un contralto femmina en-travesti sia da preferire, poichè canta con voce naturale (come i castrati, per i quali furono scritte parti come quella di Orfeo); e chi all’opposto sostiene che un falsettista (se ben preparato) può imitare efficacemente la vocalità dei castrati, con il vantaggio di essere... di sesso maschile, quindi di per sè più appropriato, anche scenicamente, ad interpretare un ruolo di tal genere (poichè un Orfeo femmina rischia di trasportare la vicenda a... Saffo).

Beh, staremo a vedere e soprattutto sentire. Venerdi 15 ore 20 su Radio3 e - per ciò che mi riguarda - domenica 17 dal vivo.

18 dicembre, 2017

Faust (con chiassata) a Roma


La terza recita della Damnation all’Opera di Roma è stata ieri teatro di una clamorosa contestazione, durante e alla fine del Quadro I. Di questo colorito episodio sono in grado di riferire qualche dettaglio sfuggito al pubblico, dato che casualmente mi trovavo proprio nello stesso palco di platea dove sedeva, ad un posto di parapetto, davanti a me, la solitaria contestatrice.

Trattasi di signora diversamente giovane, francese (di Marsiglia), melomane incallita e abituale frequentatrice del Costanzi, che prima dell’inizio aveva intrattenuto i compagni di palco sciorinando una dongiovannesca lista di frequentazioni di teatri europei (ultimo, Valencia per un DonCarlo col Topone). Spazientita già alla vista del povero Faust michielettiano, affetto da mille complessi, aveva cominciato a dimenarsi emettendo sordi mugugni; ma poi, di fronte alla scena dello smutandamento del protagonista da parte dei tre bulli compagni di classe, ha cominciato ad inveire con termini irripetibili (pur se in lingua gallica, ma erano dei vaffa... e peggio). Devo dire di essere personalmente e rispettosamente intervenuto, a gesti e parole, suggerendole di rimandare le contestazioni a più tardi, evitando di disturbare la recita in corso. Cosa che lei ha fatto, a dir il vero.

Peccato che due minuti dopo, chiusa la Rácóczy, Gatti abbia abbassato la bacchetta per permettere al pubblico di applaudire (meritatamente) l’orchestra (in effetti la marcia è un pezzo di grande effetto e fa quasi da ritardata ouverture all’opera). Apriti cielo! La nostra non vedeva l’ora di poter riprendere la sua rumorosa e lunga lista di improperi, suscitando qualche sporadico fischio di altri contestatori, subito subissato dagli applausi dei più. Qualcuno dalla platea le ha gridato di andarsene, cosa che lei ha fatto davvero, all’inizio del Quadro III... per rientrare poi nel palco solo alla fine della recita (?!)
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Ora, io non voglio certo giustificare le sue intemperanze, davvero maleducate, ma per una come lei che evidentemente conosce il testo di Berlioz a memoria, il biglietto da visita del regista dev’essere stato proprio insopportabile. Ciò mi dà modo di affrontare subito il tema regìa, sul quale mi ero già laconicamente espresso dopo visione televisiva, parlando sostanzialmente di eccesso nel voler strafare da parte di Michieletto.

Il peccato originale della sua impostazione, secondo me, non sta certo nell’aver contestualizzato il soggetto ai giorni nostri, ma di aver palesemente cambiato i connotati al Faust ante-Mephisto (per così dire). In effetti, tutto ciò che il regista ci mostra dopo l’entrata in campo del diavolaccio è perfettamente compatibile con il soggetto di Berlioz(Goethe) che si allontana manifestamente dalla realtà sensibile per inoltrarsi su un territorio di pura speculazione e di metafisica. Dove Faust è tornato giovane e come tale torna anche a provare sentimenti e desideri (e anche a commettere errori) tipici di un giovane, uscendo dallo stato di totale indifferenza per la vita (e di tentazione al suicidio) cui l’aveva portato – attenzione però – l’eccesso di attaccamento morboso alla cultura e non un passato di disgrazie familiari (il padre alcolizzato, la madre morta prematuramente) e di umiliazioni da bullismo patite a scuola, come si inventa il regista di sana pianta!

Per un attimo mi era venuto di pensare che l’idea di Michieletto - mostrarci anche all’inizio dell’opera un Faust adolescente e non maturo - fosse derivata dalla lettura delle Memorie che Berlioz stesso ci ha lasciato, pubblicate in due volumi, e in particolare da quanto si legge nel Capitolo 40, titolato Variété de spleen. L’isolement. Lì troviamo sorprendenti riferimenti ai primi due e al quarto Quadro della Damnation, ma addirittura la prefigurazione dei desideri di Faust! Dunque, Berlioz racconta di quando, ancora studente sedicenne a Côte-Saint-André (suo paese natale, al centro della pianura fra Lione e Grenoble) si trovò un mattino a leggere, sdraiato sull’erba all’ombra di una quercia, un romanzo (di un francese) ambientato a Posillipo. In quel momento arrivarono alle sue orecchie canti di una processione propiziatoria del raccolto, con versi quali Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Magdalena, ora pro nobis (che ritroviamo pari-pari nella cavalcata verso l’abisso del Quadro IV dell’opera). Ma soprattutto la vista delle Alpi maestose all’orizzonte gli provocò un irrefrenabile desiderio di andare di là, verso l’Italia, verso Napoli e Posillipo, dove la sua immaginazione, eccitata dalla lettura del romanzo, gli faceva balenare alla mente passioni, felicità, segreti, amori, la gran vita! (pare proprio Faust...) E invece lui si ritrovava lì, a rotolarsi a terra, stringendo ciuffi d’erba e... margheritine (!)

Ecco il senso di isolamento, che lo colse allora e che sarebbe tornato a coglierlo più volte in futuro. Qui Berlioz fa sfoggio anche di ardite nozioni chimiche, paragonando i moti del suo animo e del suo corpo ad un processo termodinamico: una ciotola d’acqua ed una di acido solforico messe sotto una campana di vetro da cui viene aspirata l’aria, creandovi il vuoto; l’acqua va in ebollizione e viene assorbita dall’acido; quella poca che resta, per reazione esotermica, diventa un blocco di ghiaccio. Una simile reazione viene provocata, dal senso di isolamento, nel corpo del compositore: nel suo petto si crea un vuoto che fa evaporare il cuore; il resto del corpo si surriscalda, mentre la vita sembra sfuggire verso i quattro punti cardinali. Tuttavia non c’è desiderio di morte, nè di suicidio, al contrario cresce un desiderio di vita e di felicità, da soddisfare con immensi, furiosi e divoranti godimenti. Solo dopo arriva lo spleen, che è il blocco di ghiaccio che rimane al termine della reazione chimica; l’effetto è di creare nel soggetto che lo subisce la più grande indifferenza verso l’intero universo (Quadri I e II...)

Ora, dal passo citato emerge chiaramente la personalità di un ragazzo dotato di una straordinaria carica positiva, che gli deriva da attività intellettuali (la lettura di libri, caratteristica del Faust di Goethe come di quello di Berlioz) e non la personalità nichilista di una povera vittima di eventi nefasti. Per Berlioz, e quindi per il suo Faust, lo spleen, che porta all’indifferenza per ogni cosa e all’idea del suicidio (poi scongiurato da un richiamo religioso) arriva dopo una fase di grandi slanci vitali e non a fronte di una serie interminabile di disgrazie e vessazioni come quelle che colpiscono il povero Faust di Michieletto.
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Le Mémoirs contengono poi (secondo volume) la Terza lettera a Humbert Ferrand, dove troviamo un riferimento dettagliatissimo alla Marcia ungherese che Berlioz impiega per chiudere il Quadro I. Essa viene composta in un battibaleno a Vienna, alla vigilia della tappa ungherese del viaggio del compositore nell’Impero austro-ungarico. Nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto, e non gli par vero di infilarci, come brano di chiusura (sempre in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese!)

Ebbene, smentendo tutte le preoccupazioni e i timori (per le accuse di lesa-maestà) della vigilia, la marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va in delirio, la interrompe con manifestazioni di giubilo, la si deve ri-eseguire e alla fine Berlioz è letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, viene infilata da Berlioz nel Quadro I, appositamente ri-ambientato in Ungheria!

Michieletto? Ce la propina come colonna sonora dello smutandamento del suo povero Faust da parte dei tre bulli suoi compagni di classe! Beh, diciamolo francamente: come non comprendere – pur senza giustificarle – le escandescenze della babbiona marsigliese...
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I quadri (il cui titolo appare sul grande schermo) che Michieletto sovrappone alle scene di Berlioz sono tutto sommato rispettosi (esclusa, come ripeto, la rievocazione del passato di Faust) del soggetto originale, pure interpretato in modo... originale!

Ad esempio la premonizione (Faust preparato ad un’operazione al cervello – cui non sopravviverà - su un lettino di ospedale durante la ninnananna di Méphistophélès e il coro di gnomi e silfidi) che vediamo nel Quadro II è una efficace trovata per chiarirci che Faust è ormai vittima del suo diavolo interiore, che alla fine lo perderà.     

Non mancano anche immagini poetiche, come quella dei due bambinetti che impersonano Faust e Marguerite nel Quadro III, in bilico sull’asse di equilibrio nel tentativo di congiungersi, e che vengono sul più bello scaraventati a terra dall’irruzione del bieco Méphistophélès; e poi, poco dopo, la mela che lo stesso Méphistophélès (= serpente di un Eden di cartapesta destinato a crollare miseramente) fa calare ad interporsi fra le bocche dei due amanti, vicinissimi a scambiarsi un estatico bacio.

Ma a proposito di baci, ecco invece uno dei non pochi momenti di caduta-di-stile del regista: il bacio vero, e proprio sulla bocca, che si scambiano Faust e Méphistophélès, puerile quanto becera, e credo controproducente, propaganda pro-matrimoni-gay. E poi la scena di un mezzo stupro consumato dallo sbifido diavolo sulla povera Marguerite (?!) o i nudi (peraltro ipocritamente castigati nel... bottom) infilati un po’ a caso.

Strampalate (anche se evidentemente sono conseguenza del suo... peccato originale) mi sembrano altre trovate del regista: la figura del padre alcolizzato di Faust, che compare in scena infilandosi nello stesso letto del figlio (talis pater...) e che poi scopriamo essere l’indossatore della pelle di topone (no, non Placido, haha!) che serve a supportare la filastrocca di Brander (peraltro efficacemente presentata, tipo-sanremo).

E poi il mistero della chiave, che compare fin dal secondo Quadro sulla bara della madre di Faust, poi è portata da Marguerite sull’asse di equilibrio dove salgono i piccoli alter-ego; quindi ancora protagonista – in centinaia di esemplari – quando il diavolo ne butta un’intera scatola ai piedi della povera ragazza, che invano cerca quella giusta per aprire la porta che la condurrebbe da Faust, per salvarlo. Chiave giusta che poi lei trova, ma in ritardo, e che poserà sulla bara di Faust alla fine. Ora, rileggendo parola per parola il testo di Berlioz, l’unico appiglio per una possibile spiegazione di questa criptica trovata è la frase che Méphistophélès pronuncia per indurre Faust a firmare il patto con lui (ultimo Quadro) in risposta al ragazzo che lo implora di salvare Marguerite: È ancora in mio potere aprirti questa porta! Ma sarà così? E quanti hanno una spiegazione più convincente?
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Il coro, anzi i cori: nella Damnation troviamo contadini, soldati, studenti, folletti, diavoli e angioletti. La loro gestione in scena sarebbe assai complicata (anche se ad un regista come Michieletto non dovrebbero mancare spunti per trovate sorprendenti...) e forse questa è la ragione per cui il regista ha deciso di presentare il coro in-forma-di-concerto (!)

Ecco, vengo alla musica. Gatti su tutti, mi sentirei di dire, per come ha saputo tirar fuori le bellezze e pure le... stranezze del sempre ostico Berlioz. L’orchestra mi pare abbia risposto bene: apprezzabili soprattutto i passi più delicati, in pianissimo, che sottolineano le scene oniriche dell’opera.

Quanto alle voci, rispetto all’ascolto radio-tv le cose sono andate un filino meno bene (ma è normale che il microfono-in-bocca di cui vengono dotati i cantanti per le riprese falsi irrimediabilmente la resa). Mantengo un giudizio largamente positivo solo su Alex Esposito, retrocedendo a sufficiente+ la Veronica Simeoni (con il limitato, nei tempi di canto, s’intende, Goran Jurić) e a sufficiente- Pavel Černoch.

Per tutti, comunque (team registico escluso, poichè non-pervenuto sul palco alla fine) grandi applausi e ovazioni, in un Costanzi piacevolmente affollato. Quindi, una trasferta (per quanto mi riguarda) tutto sommato proficua.

13 dicembre, 2017

Il Faust in versione Michieletto


Tempo addietro si usava l’espressione andare in super-allenamento per descrivere ciò che accadeva ad atleti che, esagerando con i ritmi di preparazione fisica, finivano per compromettere poi le loro prestazioni, anzichè migliorarle.
   
Ecco, dopo aver visto (in TV, per ora) il risultato, mi sentirei di usare questa espressione per descrivere ciò che dev’esser successo a Damiano Michieletto nella preparazione di questa gara messinscena della berlioziana Damnation che ieri ha aperto la stagione all’Opera di Roma.

Se si volesse censire, catalogare, descrivere, commentare e criticare tutta la montagna di idee, di trovate, di intuizioni e di stranezze di cui il regista ha infarcito il suo spettacolo si riempirebbe una Treccani! Sì, perchè, se è vero come è vero che Berlioz si prese, rispetto a Goethe, mille libertà, allora Michieletto, rispetto a Berlioz, se ne è prese un milione. Ottenendo il risultato di dar piena ragione a chi (Berlioz per primo) ha sempre ritenuto e ritiene che la Damnation sia opera per l’orecchio e non per l’occhio.

E devo dire che (pur con le cautele da usare a fronte di un ascolto non dal vivo) Daniele Gatti – insieme al cast, ovviamente - l‘orecchio (per lo meno il mio) lo ha pienamente gratificato.

10 dicembre, 2017

Faust in versione Berlioz apre le danze a Roma


Lasciato spazio (noblesse oblige) al SantAmbrogio meneghino, anche il centro-sud sta aprendo la stagione 17-18. Ieri sera il SanCarlo ha ospitato la pucciniana Fanciulla (non disprezzabile, almeno all’ascolto radiofonico) mentre l’Opera di Roma si appresta ad inaugurare il suo cartellone con una proposta non meno intrigante dello Chénier milanese: La damnation de Faust, affidata alla coppia Gatti-Michieletto, o Michieletto-Gatti, per chi dà più importanza a ciò che il regista si inventerà, rispetto a ciò che il musicista ha composto 170 anni orsono e quindi è già noto a (o notabile da) tutti. Allestimento che si trasferirà poi a Valencia (2018, con Roberto Abbado sul podio) e più in là al Regio di Torino, teatri co-produttori.

La natura stessa dell’opera (légende dramatique, la sottotitolò l’Autore) ha fatto sì che tradizionalmente – a partire proprio dalla prima, all’Opéra-Comique, domenica 6 dicembre, 1846 – essa sia stata proposta in forma di concerto, e solo sporadicamente in versione scenica. Lo stesso Berlioz (piuttosto narcisisticamente, o forse per sfiducia nei registi, chissà...) riconobbe che “la musica ha ali talmente ampie che i muri di un teatro non le permettono di espandersi completamente”. Da qui la curiosità particolare che si riversa sul regista, atteso al varco su opposte sponde, da fan e detrattori. Già ovviamente si conosce l’approccio di fondo di questo allestimento, ma come al solito sarà meglio fare i santomaso...

Intanto val la pena notare (per stigmatizzarlo) il taglio che il Teatro ha dato alla presentazione-video dello spettacolo. Parlano i due responsabili, prima Gatti e poi Michieletto. Chiunque si aspetterebbe che il Direttore dica qualcosa sulla musica di Berlioz, sulla sua grandezza e magari anche su qualche sua magagna... Invece Gatti che fa? Un maldestro pistolotto psico-socio-politico sui problemi dell’uomo moderno, schiavo del cosiddetto progresso e delle tecnologie, che gli precludono la possibilità di provare empatia (parole sue) per il resto dell’umanità. Insomma, un discorso da Regisseur, che spiega il suo Konzept di ciò che verrà messo in scena. Musica? Nemmeno una parola, una virgola, che dico, un accenno anche remoto (???!!!) Poi arriva il vero regista e spiega con grande efficacia ciò che ha ideato per lo spettacolo, che effettivamente si preannuncia coinvolgente ed accattivante.   
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L’opera nacque negli anni-40 dell’800 come completamento e riadattamento della primissima fatica del giovine Berlioz: Huit scènes de Faust (qui l’unica incisione conosciuta) che risale al 1828. La lista sottostante riporta le relazioni fra quel primo abbozzo (titoli fra parentesi) e la stesura definitiva della Damnation:

Prémière Partie

Scène I Plaines de Hongrie
Scène II Ronde de paysans (2. Paysans sous les Tilleuls)
Scène III Une autre partie de la plaine – Marche hongroise

Deuxième Partie
Scène IV Nord de l’Allemagne  
   Chant de la Fête de Pâques (1. Chants de la Fête de Pâques)
Scène V Méphistophélès et Faust
Scène VI La cave d’Auerbach à Leipzig
   Choeur de buveurs
   Chanson de Brander (4. Ecot de joyeux compagnons, histoire d'un rat)
   Chanson de Méphistophélès (5. Chanson de Méphistophélès, histoire d'une puce)
Scène VII Bosquets et prairies du bord de l’Elbe – Air de Méphistophélès
   Choeur de Gnomes et de Sylphes, songe de Faust (3. Concert de Sylphes)
   Ballet des Sylphes
Scène VIII Final
   Choeur de soldats (7b. Choeur de soldats, Joyeuse insouciance)
   Chanson d’étudiants 

Troisième Partie
Scène IX Tambours et trompettes sonnant la retraite (7b. Choeur de soldats)
   Air de Faust
Scène X Méphistophélès et Faust
Scène XI Marguerite
   Le roi de Thulé, chanson gothique (6. Le Roi de Thulé, chanson gothique)
Scène XII Une rue devant la maison de Marguerite
   Evocation
   Menuet des Follets
   Serenade de Méphistophélès (8. Sérénade de Méphistophélès, effronterie)
Scène XIII Chambre de Marguerite
Scène XIV Trio et Choeur

Quatrième Partie
Scène XV  Romance de Marguerite (7. Romance de Marguerite - 7b. Choeur de soldats)
Scène XVI Forêts et cavernes - Invocation à la Nature
Scène XVII Récitatif et chasse
Scène XVIII Plaines, montaagnes et vallées - La course à l'abîme
Scène XIX Pandemonium
   Epilogue sur la terre
   Dans le Ciel
   Apothéose de Marguerite
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Balza subito all’occhio come nella composizione giovanile manchi totalmente la presenza di Faust, che invece nella Damnation entra in scena già all’ottava battuta. Inoltre le Huit Scènes appaiono come una serie di squarci scarsamente connessi fra loro, anche se la sequenza è sostanzialmente rispettosa di quella del testo del Faust-I al quale Berlioz (come più tardi Gounod) si ispirò; sequenza che invece la Damnation non rispetta completamente, come si deduce dallo stesso elenco sopra riportato.

Va anche aggiunto che Berlioz rimaneggiò più o meno ampiamente le parti riprese dalla composizione giovanile: un esempio eclatante è l‘ultima delle Huit Scènes, la Serenata di Mefistofele, che vi è accompagnata dalla sola chitarra, del tutto assente nella Scena XII della Damnation, dove la voce è supportata dalla piena orchestra. Altro esempio è il Canto della festa di Pasqua, che nelle Huit Scènes prevede due cori (Angeli e Discepoli) mentre nella Damnation al coro dei Cristiani si aggiunge la voce di Faust, che poi chiude la scena con un recitativo.

Quanto alle voci, Faust è un tenore lirico, Marguerite un mezzosoprano (Berlioz peraltro la indicò come soprano) e Méphistophélès un basso o baritono, laddove nelle Huit Scènes aveva una tessitura decisamente più alta, da baritenore, se non proprio da tenore lirico.

Quanto alla fedeltà al testo di Goethe (tradotto da Gérard de Nerval) Berlioz se ne occupò relativamente, o proprio per nulla; e di proposito, come lui stesso spiegò, sostenendo come assurdo il solo pensare di mettere in musica l’intero dramma di Goethe; per cui tanto valeva prenderlo solo come base di riferimento e ispirazione. Ecco quindi che il finale di Berlioz vede Faust irrimediabilmente perduto (da cui il titolo dell’opera); e l’apertura viene disinvoltamente quanto arbitrariamente trasportata in Ungheria, solo ed esclusivamente (lo ammette candidamente lo stesso compositore nella prefazione alla partitura) per avere il pretesto di infilarci un trascinante pezzo di bravura orchestrale, la celebre Marcia di Rácóczy...
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In attesa dello spettacolo romano, come termine di paragone (a futura memoria) si può proporre questa produzione belga de La Monnaie (2002) con Kaufmann e Pappano.

Martedi 12 la prima, ripresa in diretta (19:00) da Radio3 e in differita (21:15) da RAI5.

14 luglio, 2013

Un pluridecorato Muti porta il Nabucco romano a Ravenna


Come favore stagionale alla moglie (stra-smile!) Riccardo Muti ha portato a Ravenna Orchestra e Coro dell’Opera di Roma per un’esecuzione concertistica del Nabucco.

Pala De Andrè come al solito gremito in ogni ordine di posti da gente che arriva da tutti gli angoli del mondo, solo per lui, il maeschtre

Il quale non ha affatto tradito le attese (e non solo dei suoi fan) con una direzione (non esagero) davvero superlativa, con la quale ha trascinato orchestra, coro e voci ad una prestazione sontuosa.

Di cui è andato giustamente fiero alla fine allorquando, al termine di una duplice premiazione (il Premio Giustiniano dalla città di Ravenna per il suo impegno in favore della cultura, e un significativo riconoscimento da quella di Sarajevo per le sue passate iniziative in quella città martoriata) non si è lasciato scappare l’occasione per lanciare una caustica frecciatina verso chi di eccellenza si riempie solo la bocca per ottenere privilegi, invece di dimostrarla concretamente sul campo… come ha invece fatto lui con i suoi dell’Opera di Roma. Insomma, detta in milanese: O Lissner, ciapa sü, encarta e porta a ca’!

In effetti il trionfo è stato totale, costellato da ripetuti applausi a scena aperta (diciamo pure, sapientemente… agevolati dal Maestro) e da interminabili ovazioni alla fine dell’esecuzione.

Tatiana Serjan è stata la mattatrice, con una prestazione invero maiuscola, disegnando la complessa e multiforme personalità di Abigaille con grandissima efficacia e drammaticità. Muti le ha concesso qualche minuto supplementare di pausa dopo la prima parte, che le è servito per sciorinare una grande prestazione nelle prime due scene della seconda parte, entrambe accolte da lunghissimi applausi. Ma la cantante russa ha convinto sempre, fino alla drammatica confessione finale.   

A Luca Salsi manca forse qualche decibel, tuttavia il suo Nabucco è stato di grande spessore ed espressività: paradigmatico il suo non son più re, son Dio!  

Note di assoluta eccellenza per Francesco Meli, voce davvero bella in tutti i registri: un vero piacere a sentirsi (e quindi: peccato che la parte non sia più corposa!)    

Di Sonia Ganassi si conoscono pregi e difetti: dopo una partenza un pochino… problematica, si è però ben ripresa, disegnando una Fenena più che accettabile.

Ottima la prestazione di Riccardo Zanellato, voce tanto potente quanto pulita, senza ingolamenti o forzature: anche per lui applausi a scena aperta, già dal primo Freno al timor!   

Gli altri tre interpreti, diciamo così di contorno (Saverio Fiore, Simge Büyükedes e Luca Dall’Amico) hanno dato il loro lodevole contributo, in particolare il soprano turco, che ha una parte non proprio trascurabile.

Eccellente la prova del coro, che Roberto Gabbiani seguiva da vicino, seduto al di sotto, sulla sinistra; sempre preciso negli attacchi e capace delle diverse sfumature che la partitura impone: dalla grande retorica al più intimistico raccoglimento.

L’orchestra dell’Opera di Roma, in passato assai malconcia, con Muti evidentemente ha ritrovato se stessa e il Maestro ne può ben andar fiero: i suoi ormai sembrano una macchina che, una volta avviata con un attacco, sa muoversi alla perfezione anche da sola. Segno che dietro c’è tanto lavoro di prova e un invidiabile affiatamento.

Quanto a Muti, la sua interpretazione mi è sembrata improntata a grande equilibrio e sobrietà, pur senza rinunciare a far emergere – dove appropriato – un pizzico di enfasi e qualche giustificato fracasso: forse il suo non è più il Verdi sanguigno, bandistico e garibaldino dei tempi che furono (con l’età tutti si diventa più… riflessivi?) ma tutto sommato quello che si perde in superficie lo si guadagna in profondità.
        
In definitiva: una serata di quelle che… lasciano il segno!

21 agosto, 2009

Riccardo Muti, re di Roma (?!)

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Tale Francesco Muti (i refusi tipografici – penultima riga dell’articolo - fanno davvero ridere!) sta per diventare il nuovo Direttore Musicale dell’Opera di Roma.

Al di là di ogni possibile – e probabile – contestazione e sberleffo campanilistico-antiterronistico-leghista contro il Riccardone, una cosa è certa: per l’Opera di Roma si tratta del più importante passaggio degli ultimi 40 anni!

Che poi Alemanno si fregi di meriti che risalgono a Veltroni o addirittura a Rutelli, non cambia la sostanza dell’avvenimento.

Quanto ai contenuti artistici, Muti è persona troppo intelligente per riproporre – a Roma – le velleitarie e provincialotte iniziative (vedasi Wagner) che pretese di imporre alla Scala.
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