XIV

da prevosto a leone
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27 gennaio, 2020

Tristano-2 a Bologna


La seconda recita del bolognese Tristan und Isolde ha visto in scena i due protagonisti del (cosiddetto) secondo cast, Bryan Register e Catherine Foster, che hanno rimpiazzato la coppia titolare (Vinke-Petersen) esibitasi lo scorso venerdi. Devo dire che (almeno ricordando l’ascolto radiofonico) i due secondi non mi son parsi inferiori agli alfieri.

Ovviamente è rimasto il barbaro taglio del gran duetto dell’atto secondo, che mi lascia sempre l’amaro in bocca nelle orecchie e nel cervello, ma tant’è, accontentiamoci di tutto ciò di positivo che comunque questa produzione ci ha propinato.

A cominciare dalla Direzione di Juraj Valčuha, che già mi aveva impressionato (almeno riguardo l’agogica) all’ascolto radiofonico (i tempi sono stati praticamente identici a quelli della prima) e che ieri ha fatto altrettanto anche sotto il profilo delle dinamiche (che dalla radio arrivano sempre inevitabilmente distorte). L’intero Preludio e l’attacco dell’atto terzo sono per me (e non solo per me) la cartina di tornasole che rivela l’eccellenza di un’interpretazione, e il Direttore slovacco ha superato la prova in modo impeccabile. Ma ovviamente il giudizio positivo va doverosamente esteso all’intero arco delle quasi quattro ore di musica, e necessariamente alla prestazione maiuscola dell’orchestra, che evidentemente deve essersi preparata in modo particolare per questo appuntamento.  

Bryan Register (già protagonista nell’edizione belga dello scorso anno) non sarà certo un Tristan che passerà alla storia, ma la sua prestazione è stata apprezzabile sotto il profilo della sensibilità intrepretativa. La voce non è (più?) stentorea ma ancora ben proiettata e la tenuta alla distanza è stata più che soddisfacente.

Catherine Foster ha un gran vocione, ma un po’ fuori controllo, come testimoniano gli acuti stentorei ma spesso poco puliti (un paio di calate e proprio il conclusivo Lust ghermito alla sperindio); centri non troppo solidi e scarsamente penetranti. Lei è stata un’Isolde arrabbiata (una maschera davvero luciferina) dalla presenza scenica invadente.

Discreta la Brangäne di Ekaterina Gubanova, che si è fatta apprezzare nei due interventi nel duettone (sfrondato...) del second’atto.

Il Kurwenal di Martin Gantner mi ha abbastanza convinto: voce solida e ben impostata, sempre passante e... perfettamente comprensibile. Ammirevole, per portamento e presenza, l’inossidabile Albert Dohmen, un Marke nobilissimo e commovente.

Degli altri due comprimari ho apprezzato Klodian Kaçani, come marinaio, bravo anche a rompere il ghiaccio al levar del sipario; come Pastore, normale amministrazione. Dignitoso Tommaso Caramia, che aveva le due parti più contenute della compagnia.

Efficace il coro maschile di Alberto Malazzi, che accompagna con i suoi interventi, culminanti nella trionfale chiusa del prim’atto, il viaggio da Irlanda a Cornovaglia.
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Tristan - si sa - è un’opera quasi impossibile da rappresentare in modo efficace, tale è la sua astrazione da qualunque clichè tradizionale. Lo scoprì per primo proprio... Wagner! Personalmente detesto le interpretazioni secolarizzate (mi viene in mente Guth) poichè ci presentano la materia prima grezza e prosaica invece del prodotto finito distillato da Wagner, un’entità astratta che vive nello spazio metafisico.

Ecco perchè ho apprezzato assai l’impostazione del regista Ralf Pleger e del suo scenografo Alexander Polzin, che hanno cercato (magari con alterni risultati) di guidarci alla scoperta di questo universo immateriale, spogliato da ogni drammaturgia, per lasciar posto esclusivamente alle oscure sensazioni (uso un termine mahleriano) che solo la musica (questa musica!) sa suscitare nel nostro animo.
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Pubblico folto (ma con diverse poltrone vuote) e comunque ben disposto e prodigo di applausi per l’intera compagnia di musicanti e allestitori. Insomma - torno ad usare la mia metafora sportiva - una partita di alto livello in serie-A2!

(E infine grazie a Bologna ed Emilia per aver ridimensionato un buzzurro che l’arte non sa nemmeno dove stia di casa...)

25 gennaio, 2020

Tristano (monco e deturpato) a Bologna


Ieri il Bibiena ha ospitato la prima recita di Tristan und Isolde. Perchè monco? Ma perchè - come è purtroppo costume deteriore - è stato amputato di una parte essenziale del duetto del second’atto. Già in altra occasione ho spiegato perchè - fosse anche splendida l’esecuzione - non potrei considerarla di serie-A. É un vero peccato che Bologna, una seconda patria per Wagner, non abbia voluto (potuto?) rispettare l’integrità di questa partitura, che ha nientemeno che condizionato tutta la musica composta dalla sua comparsa.

L’ascolto su Radio3 ha messo in luce (a mio avviso) le grandi qualità del Direttore, il redivivo a Bologna Juraj Valčuha, per il resto mi astengo da giudizi sempre aleatori dopo ascolti di tal fatta.


Due parole sulla durata dello spettacolo (iniziato quasi 20 minuti dopo le 18 anche, non solo, per un doveroso omaggio al gran vegliardo Marino Golinelli, benefattore del teatro, avendo generosamente offerto il restyling della platea). Il sito del Comunale porta la seguente indicazione (si presume derivata dai tempi della generale): 75+75+70 = 220 minuti di musica e 30+30 = 60 di intervallo; totale: 280 minuti. Ieri i tempi registrati sono stati, all’incirca: 80+70+80 = 230 e il totale lordo 300 (quindi sia musica che intervalli più lunghi del previsto).

Perchè deturpato? Perchè alla fine un troglodita è riuscito a rovinare precisamente l’ultima battuta del Liebestod, con uno schiamazzo che meriterebbe la galera, come si addice a chi deturpa un dipinto o una scultura in un museo!

(Commenti nel merito più avanti.)

14 novembre, 2019

Lo strampalato Fidelio svizzero a Bologna


Nella bomboniera del Bibbiena è andata ieri in scena - in pomeridiana - la terza delle sei rappresentazioni della nuova produzione di Fidelio, co-realizzata con l’Opera di Stato di Amburgo, dove è passata all’inizio dello scorso anno non senza contestazioni quasi unanimi (pubblico e critica) soprattutto al regista, ma un poco anche al direttore. E pensare che erano (e sono) la coppia-più-bella-di-Amburgo (Delnon-Nagano): sovrintendente e direttore musicale del Teatro! Come se alla Scala venisse censurata una messinscena di Otello con regìa di Pereira e direzione di Chailly (nulla di più probabile, direbbe qualcuno, haha...)

Domenica scorsa Radio3 aveva irradiato la prima che - ad essere sincero - non mi aveva particolarmente entusiasmato: direzione di Asher Fisch piuttosto incolore e impacciata, e cast mediamente poco sopra il minimo sindacale. Ma si sa che l’ascolto tecnologico è ingannatore: infatti quello dal vivo è stato... quasi peggio (!)

Al Direttore israeliano riconosco un sicuro merito: la scelta dell’Ouverture giusta (ad Amburgo Nagano optò narcisisticamente per la Leonore3) e la rinuncia all’usanza mahleriana di infilare la citata Leonore3 prima del finale. Per il resto, siamo più alla magmatica prosopopea di Wagner (del quale Fisch è obiettivamente un grande esperto) che alla trasparente asciuttezza del Ludovico, ecco. Non sono comunque mancati momenti emozionanti, come il coro del primo atto (Leb wohl, du warmes Sonnenlicht) e lo scioglimento delle catene di Florestan da parte di Leonore (O Gott, welch ein augenblick!Meritevole di elogio anche il finale del coro di Alberto Malazzi.

Note miste (e per me in parte sorprendenti) per le voci. Su tutti il Pizarro di Lucio Gallo, veterano del ruolo che interpreta con il giusto grado di sbifidezza, ma senza esagerare: la voce è sempre potente, anche se non priva di qualche forzatura, però, avercene! Sorpresa negativa la Simone Schneider: voce spesso chioccia in acuto e carente nell’ottava grave; una Leonore francamente sotto le mie aspettative. Al contrario, dopo l’ascolto radiofonico che mi aveva quasi orripilato, il Florestan di Erin Caves mi è parso un altro cantante. Tanto per cominciare: niente stonature; e poi buona proiezione della voce e discreta tenuta fino in fondo. Degli altri, sufficiente la Marzelline di Christina Gansch, che se non altro si fa sentire senza problemi (poi se gli acuti fossero meglio controllati meriterebbe quasi un voto discreto...) Di male in peggio gli altri tre interpreti maschili: inudibile (vocina opaca e anonima) il Jaquino di Sascha Emanuel Kramer; vocione artificialmente gonfiato, cavernoso e sgradevole quello di Petri Lindroos (Rocco) e del tutto privo della necessaria autorevolezza (leggasi: una voce di basso corposa ma morbida) il Ministro di Nicolò Donini. Meglio di loro han fatto i due coristi del Comunale, Andrea Toboga e Tommaso Novelli, voci soliste del gruppo di prigionieri.

Pubblico per nulla oceanico e assai freddo durante lo spettacolo: applausetti a scena aperta solo dopo Ouverture, le arie di Pizarro e Leonore nel prim’atto, l’aria di Pizarro e il duetto Leonore-Florestan nel secondo. Applausi un po’ più convinti per tutti - ma di breve durata - alla fine.
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In compenso (?!) tutto quanto di male era stato scritto in Germania a proposito della regìa si è puntualmente quanto inevitabilmente ripetuto nella ripresa bolognese, giustamente (a mio parere) stroncata in questa autorevole recensione della prima.

Io sarò un po’ meno severo, derubricando l’accusa da quella di lesa maestà a Beethoven nell’altra di semplice velleitarismo e banalizzazione del soggetto, da parte di un regista in cerca di Konzept discutibili (la caduta della DDR, le citazioni da opere di Müller e Büchner più fuorvianti che altro) e di trovate da avanspettacolo (vedasi la Marzelline isterica insidiata da Jaquino e Pizarro mentre si suona la mirabile introduzione all’atto secondo).

Insomma: uno spettacolo francamente modesto, di cui temo nessuno si ricorderà... In ogni caso, chi proprio volesse prenderne visione (con il secondo cast) lo può fare stasera stessa collegandosi con lo streaming del Teatro.

12 novembre, 2018

La Fille è ritornata a Bologna


Ieri pomeriggio la bomboniera del Bibiena ha ospitato la terza delle sei recite de La Fille du régiment, una ripresa della fortunata produzione del 2004. Sala con parecchi vuoti (ahinoi) ma pubblico ben disposto e propenso all’applauso.

Sul podio il simpatico Yves Abel (qui una sua interpretazione a Vienna nel 2007, con siparietto della Caballè che canta – alla faccia di Donizetti – il suo amato 'g Schätzli) ha guidato l’orchestra con autorevolezza, confermando le sue buone qualità (quest’estate mi era piaciuto nel Barbiere al ROF).

La compagnia di canto (primo cast) ha dignitosamente fatto il suo dovere, per così dire, grazie allo spilungone Maxim Mironov (Tonio) che, a dispetto di una voce poco squillante e non potentissima (rilievi da me fattigli anche in occasione del citato Barbiere di Pesaro) ha però dato spessore al personaggio, sciorinando anche senza difficoltà i diversi DO dell’aria del prim’atto (Pour mon âme) e pure il DO# della romanza del secondo (S’il me fallait). Certo, chi ha ancora nelle orecchie il Florez del 2004 forse non ne sarà stato entusiasta, ma il pubblico, dopo l’aria dei 9 DO gli ha tributato almeno 3 minuti di orologio di applausi e richieste di bis.    

La protagonista Hasmik Torosyan a corrente alternata: bene nei passaggi più ispirati (esempio la cavatina con cello obbligato Par le rang del second’atto) con acuti ben portati; quando invece c’è da forzare, allora gli acuti escono stimbrati e vetrosi. Anche a lei si applica la constatazione di una voce non proprio penetrante.

Discreta la Marchesa di Claudia Marchi; passabile il Sulpice di Federico Longhi. Tutti gli altri li accomuno in una ampia sufficienza.

Encomiabile la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, che in quest’opera è forse più protagonista ancora degli stessi singoli interpreti.

Un discorso a parte (e la musica c’entra poco, a dir il vero) riguarda la presenza di Daniela Mazzucato nel ruolo (solo recitante) della Duchessa. Non mi capacito davvero di come questa straordinaria cantante (certo, a fine carriera, a 72 anni!) abbia accettato di fare da comparsa (perchè di ciò si tratta) per 10 minuti nei quali ha giusto emesso un urlo e nulla più (oltretutto è stato tagliato il suo ingresso in scena all’inizio del second’atto). Presentata poi (qui c’entra anche la regìa) come duchessa di Casalecc, fra uno stuolo di altre comparse... del circondario bolognese. E forse gran parte del pubblico manco l’ha riconosciuta, così che a lei sono andati pochi clap all’uscita finale. Insomma, una cosa (per me, ma forse anche per lei) umiliante. Vero è che questo particolare ruolo lei lo sta ricoprendo da un paio d’anni, in giro per il mondo, ma almeno dovrebbe essere riempito con qualcosa di speciale: proprio come fecero a Vienna con la grande quanto vetusta Caballè nella citata edizione del 2007.

E a proposito di allestimento, quello originale di Emilio Sagi è oggi ripreso da Valentina Spinetti: chissà se è lei l’autrice del misfatto nella scena dell’arrivo degli ospiti per il matrimonio... una trovata piuttosto discutibile, ecco. Per il resto si tratta invece di uno spettacolo piacevole, in un’ambientazione (di Julio Galan) primo-novecento: in un’osteria dove si ritrovano gli svizzeri e poi i soldati del 21° reggimento (primo atto) e una vasta sala del palazzo della Marchesa (secondo atto). Simpatici i costumi ed efficace l’impiego delle luci.

In definitiva, una proposta godibile, a parte le citate cadute di stile.

09 maggio, 2018

A Bologna Romeo&Juliet secondo Bellini


Ieri pomeriggio il Comunale bolognese ha ospitato la seconda delle 6 recite de I Capuleti e i Montecchi, una produzione che promuove nuove leve di interpreti, emerse dalle selezioni di OperaNext, l’iniziativa mirante a sviluppare talenti per il teatro musicale. Co-produzione italo-spagnola, già presentata a Tenerife a fine 2017. Dopo la prima di domenica scorsa (trasmessa da Radio3) ieri in scena il cosiddetto secondo cast.

Devo però spiegare il titolo del post, che dà la falsa impressione che l’opera di Bellini si rifaccia a Shakespeare. Nulla di più impreciso (ma anche in questo caso c’è un po’ di responsabilità della regìa, come vedremo): chè il libretto (riciclato, oltretutto) di Felice Romani ripesca le radici italiane (del ‘400) della storia, radici utilizzate - con ben altra genialità, si dovrà pur ammettere - dallo stesso bardo da Stratford. Così il testo di Romani, rispetto al dramma shakespeariano (ancora poco conosciuto in Italia, va detto, nei primi decenni dell’800) resta parecchi gradini al di sotto, viaggiando nell’aurea mediocrità dei classici libretti di melodramma italico.

Le figure di entrambi i protagonisti mancano della fortissima personalità dei rispettivi corrispondenti albionici, a partire da Giulietta, che in Shakespeare - a dispetto della giovanissima età - mostra una maturità e una forza d’animo straordinarie, quando invece in Romani la troviamo nei panni di una ragazza piena di ansie, dubbi e rimorsi, succube del padre e indisponibile a compiere gesti estremi, come quando rifiuta di fuggire con l’innamorato. Quanto a Romeo, in Shakespeare è un ragazzo che scopre fulmineamente l’amore e se ne fa condizionare in modo assoluto, arrivando a immaginare il suicidio di fronte alla prospettiva di perderlo, e diventando (quasi a sua insaputa) un omicida per voler difenderlo. In Romani-Bellini lui è invece un capo militare che millanta ferocia guerresca, ma poi evita lo scontro con il rivale Tebaldo, a cui anzi offre il petto pur riconoscendolo colpevole indiretto della morte dell’amata. Della quale è già innamorato, ma non si sa nè come nè da quando... e addirittura nella sua proposta da ambasciatore spunta una motivazione super-politica per giustificare la sua richiesta di matrimonio con la figlia del capo della fazione opposta (!?)

Forse l’unico aspetto che si fa preferire in Romani è la figura di Lorenzo, che non è un frate ma un medico, ergo plausibilmente più credibile come inventore (senza speziali intermediari) di preparati galenici (quale il sonnifero somministrato a Giulietta). Però lui non può certo unire i due amanti in matrimonio, nè promuovere e alla fine benedire la riconciliazione fra le opposte fazioni!

Per il resto si osserverà come lo scenario politico in cui si svolge l’azione di Romani sia uno stato di vera e propria guerra permanente fra Guelfi (Capuleti) e Ghibellini (Montecchi) con tanto di schieramento di eserciti e con ambasciatori in missione... altro che una pura e semplice (per quanto cruenta) faida fra ragazzotti viziati di due famiglie-bene dell’opulenta Verona. Come detto, nell’opera di Bellini Romeo e Giulietta sono già da tempo innamorati (cosa poco plausibile proprio a causa dello scenario di guerra, che rende invece verosimile che Tebaldo, braccio destro armato di Capellio, sia promesso alla figlia di costui): la scena del ballo, che in Shakespeare è drammaticamente fondamentale perchè serve proprio a mostrarci il colpo-di-fulmine che scuote i due giovani, in Romani diventa prosaica occasione per festeggiare il matrimonio di Tebaldo e Giulietta, da questa indesiderato.

Insomma, ancora una volta, ciò che salva un soggetto francamente deboluccio è - manco a dirlo - la musica di Bellini!

Federico Santi, giovanissimo Direttore che sta facendo esperienza al Marinski (!) all’ascolto radiofonico mi aveva dato l’impressione di tenere un approccio eccessivamente focoso e bandistico. E purtroppo non si trattava delle inevitabili distorsioni prodotte dalla ripresa audio, poichè dal vivo la sua direzione mi è parsa assai poco equilibrata e meno ancora rispettosa dell’estetica belliniana. Ne hanno fatto le spese le voci, spesso coperte alla grande. La stessa Orchestra non mi è parsa al meglio, già a partire dalla fanfara di corni della Sinfonia...

Le voci (vedi locandina) sono tutte o quasi di giovani e giovanissimi esordienti: ciò va riconosciuto prima di emettere giudizi sommari. Le cinque udite ieri, a parte la perfettibilità di canto e interpretazione (che verrà, caso mai, con anni di studio e di esperienze) non mi hanno impressionato nemmeno dal punto di vista delle doti naturali: voci mediamente piccole (e infatti Santi le ha proprio strapazzate) e carenti soprattutto nelle note gravi, praticamente inudibili.

Ma - appunto - si tratta di nuove leve che non potranno che migliorare... Sui suoi standard il coro di Faidutti.
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Come accennato, note dolenti, ahinoi, per la regìa. Siamo alle solite: Silvia Paoli, volendo o dovendo strafare per giustificare la sua presenza, si inventa (no, per la verità scopiazza cose viste, riviste, trite e ritrite, mi viene in mente il Martone scaligero dell’Oberto del 2013 e poi della Cena delle beffe del 2016) una storia di mafie e ‘ndranghete nel sud-Italia di tempi recenti che avrà pure una sua interna coerenza, ma che è - piccolo, insignificante dettaglio - agli antipodi rispetto al soggetto originale! (E poi... visto che ormai le mafie sono di casa al nord più che al sud, già che c’era la regista poteva mantenere nella Verona di oggidì l’ambientazione della sua immaginifica storia, invece che spostarla nella Calabria anni ‘70...)

La regista pare mescolare Shakespeare e Romani (già sbagliando, per quanto detto sopra) quando sceglie l’ambientazione moderna: nel primo caso quella più calzante sarebbe uno scontro fra tifoserie o baby-gang. Restando invece fedeli a Romani-Bellini, allora il parallelo non potrebbe che basarsi su uno scenario politico. In entrambi i casi, non certo di criminalità organizzata: eh sì, perchè Guelfi e Ghibellini non erano cosche mafiose, ma partiti politici con precisi riferimenti alle due più alte istituzioni pubbliche del tempo, il Papato e il Sacro Romano Impero (o era mafioso anche un certo Dante?)

Altra idea portante della messinscena è la supposizione che l’uccisione del figlio di Capellio da parte di Romeo sia avvenuta quando i due erano in tenera età (diciamo 10-12 anni): la circostanza viene già mostrata durante l’esecuzione della Sinfonia, poi continuamente ricordata dalle apparizioni in scena di bambini. Com’è venuta in mente alla regista questa idea invero strampalata? Dall’interpretazione gratuita quanto assurda di una frase cantata da Capellio nella seconda scena: poiché fanciul partia vagò Romeo di terra in terra... E così, secondo la regista Romeo doveva avere 12 anni al massimo quando, dopo aver ammazzato durante giochi cruenti un coetaneo (delitto nemmeno perseguibile, per un minorenne di quell’età...) si auto-esiliò da Verona, vivendo per anni da latitante chissà dove? Roba da chiodi! Basta invece ascoltare ciò che canta lo stesso Romeo (finto ambasciatore ghibellino) nella scena successiva per riportare le cose nella giusta prospettiva: se Romeo t'uccise un figlio, in battaglia a lui diè morte... Chiaro abbastanza, no? Romeo (un ragazzo sì, ma pienamente in possesso delle sue facoltà, non un bambinello immaturo) uccise il fratello di Giulietta durante uno scontro armato in piena regola fra i due contrapposti gruppi paramilitari. Ma i registi, si sa, del testo che sono pagati per inscenare fanno ciò che più gli aggrada. (La Paoli viene dalla scuola di Michieletto, quello che si è inventato di sana pianta l’infanzia di Faust - La Damnation, Roma 2017 - e la vecchiaia di Elena e Malcom - La donna del lago, ROF 2016.)

Lorenzo: come detto, in Shakespeare è un frate autorevole, in Romani un medico; per la Paoli è un barista! Che evidentemente - dato l’ambiente in cui vive - traffica in droghe leggere e pesanti, così può rifornire Giulietta di sonnifero e Romeo di veleno (mah...) E non essendo lui un religioso, come si è detto, non può sposare i due amanti. Così la regista si inventa un auto-sposalizio dei due durante il duetto che chiude la prima parte.

Altre piacevolezze indotte dall’ambientazione moderna riguardano le solite incongruenze spicciole fra testo e scena, delle quali mi limito a ricordare il confronto fra Romeo e Tebaldo nella terza parte, dove i due ingaggiano un duello impugnando comicamente due revolver, per poi deporli e proseguirlo con più plausibili serramanico... Ma la ciliegina sulla torta la mette Giulietta, sparandosi un colpo di pistola alla tempia sulla salma di Romeo (!)  

Insomma, il Konzept della regista è proprio sballato del tutto e (inutile dirlo) totalmente irrispettoso dell’originale, di cui snatura completamente il soggetto. Che poi lo spettacolo in sè e per sè sia di discreto livello non basta a cancellare il reato, nè ad estinguere la pena (quella che prova lo spettatore appena-appena... informato dei fatti, guardando ciò che avviene in scena nel mentre risuonano le parole di Romani e le note di Bellini).

Pubblico scarseggiante per quantità, ma anche per calore. 

15 marzo, 2018

Dialoghi di convento a Bologna


Il Comunale di Bologna ha in cartellone in questi giorni (ultima recita domani) la più famosa opera di Francis Poulenc, i Dialogues, una produzione franco-belga del 2013 ripresa poche settimane fa anche a Parigi.
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Antoine Quentin Fouquier-Tinville. Chi era costui? Beh, senza volerlo è un personaggio (materialmente in scena o... appostato dietro le quinte) implicato in ben due diverse opere liriche ambientate negli ultimi giorni del terrore rivoluzionario del 1794. Precisamente gli otto giorni che vanno da giovedi 17 luglio (ghigliottinamento delle 16 carmelitane) a venerdi 25 luglio, quando la testa fu separata dal corpo di tale André Chénier.

Il nostro era il Procuratore del Tribunale Rivoluzionario, che in pochi mesi spedì al patibolo qualche migliaio (un’inezia...) di francesi - privati dei diritti di difesa! - fra i quali le 16 carmelitane di Compiègne (esaltate da Bernanos e poi da Poulenc) e subito dopo il poeta immortalato dalla coppia Giordano-Illica.

Per la cronaca già lunedi 28 luglio (tre giorni dopo la sentenza Chénier) la spietata legge del contrappasso reclamò i suoi diritti dal ghigliottinatore Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre. Ma non molto dopo il contrappasso colpì anche il solerte magistrato, poichè giovedi 7 maggio 1795 toccò alla sua testa rotolare ai piedi dell’affilata lama del dottor Guillotin.

Piccoli dettagli che nulla tolgono alla gloria di quella Rivoluzione che ci ha regalato le meravigliose istituzioni che ancora reggono la nostra convivenza civile, oggi così degnamente illustrate da tipi come Renzi, Berlusconi, Salvini e DiMaio... Evabbè.
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Fra l’ispiratore Bernanos (il suo dramma teatrale è del 1947, rappresentato postumo nel ‘52) e il compositore Poulenc (l’opera venne composta fra il ’53 e il ’57) c’erano differenze quasi abissali sul piano, diciamo così, ideologico-filosofico-politico: il drammaturgo fu un monarchico conservatore (per non dire tout-court un reazionario, ma di quelli di sani principii, che gli impedirono di schierarsi con le dittature) mentre il musicista era un repubblicano sincero democratico. Forse l’unico comun denominatore fra i due era la fede cattolica, il che plausibilmente può spiegare l’innamoramento di Poulenc per il soggetto di Bernanos.

Peraltro l’opera - ancor più che il dramma teatrale - si concentra prevalentemente sugli aspetti controversi e problematici della personalità della protagonista Blanche, che portano in secondo piano quelli legati allo scenario politico in cui è ambientato il soggetto. Blanche è - si può ben dire - figlia della paura, quella che attanagliò sua madre e ne provocò il parto prematuro e fatale. La paura che la rende diffidente della realtà che la circonda e le consiglia il (sicuro?) rifugio in convento. La paura che la coglie di fronte al cadavere della Superiora che è spirata sotto i suoi occhi. La paura che le fa prillare fra le mani il piccolo Re, che cade in frantumi. La paura che la coglie dopo aver pronunciato (ma ne siamo proprio sicuri?) il voto del martirio, e che la fa fuggire verso la vecchia dimora, pur diventata per lei un luogo di schiavitù e non di agiatezza e sicurezza. La paura che alla fine sarà vinta (forse) da una paura ancor più insopportabile: quella di dover continuare a vivere!

Al proposito sono nate scuole di pensiero sulla definizione da dare del sacrificio di Blanche: un eroico gesto di martirio, di professione di fede, di compassione e comunità con le consorelle; oppure un suicidio in piena regola, proprio per sfuggire le proprie responsabilità, e come tale da condannare e non da santificare.

E immancabilmente anche le regìe teatrali non si sono lasciate sfuggire l’occasione. Il colmo è stato raggiunto quando il genio Cherniakov (Monaco 2010) si inventò, ma proprio nel vero senso della parola, un racconto invero strampalato (rispetto al soggetto originale): mostrando le suore come adepte di una sorta di setta satanica che alla fine decide un suicidio collettivo e Blanche che arriva ad impedirlo, per poi morire lei stessa. Per la prima (e credo unica) volta nella storia, organi di giustizia (primo, secondo grado e Cassazione francesi) sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dei contenuti di una regìa di teatro (musicale). L’accusa (degli eredi di Bernanos e Poulenc) era di contraffazione dell’originale, e la pena richiesta era la proibizione della vendita del DVD. Primo grado a favore di Cherniakov (in realtà della BelAir, casa distributrice del DVD). Il secondo grado ribalta la sentenza, dando ragione ai ricorrenti e bandendo la vendita del DVD. La Cassazione (giugno 2017) ripristina la sentenza di primo grado. (Cosa che deve aver fatto felici gli adulteratori di Rolex e Lacoste e i madonnari che spacciano per autentici i loro vanGogh!)
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Il povero Olivier Py non ebbe e non avrà la soddisfazione - e la pubblicità - di subire un triplice grado di giudizio per vilipendio dell’abito monacale e falsificazione di soggetti teatrali, così impara a mettere in scena precisamente ciò che il librettista-musicista ha pensato, scritto e composto (peggio per lui...)

L’allestimento è in effetti quanto di più calato nello spirito (la lettera qui conta davvero poco...) del testo di Bernanos e della musica di Poulenc. Dei quali restituisce la profonda riflessione sulla vita, la morte, l’ossessione esistenziale, il distacco fra l’individuo e il mondo circostante, la fede e la disperazione: semplicemente rendendo visibili quei concetti che il testo e la musica così mirabilmente evocano.

Gli ambienti spogli e prevalentemente bui, illuminati da lame di luce taglienti come le spade che trafiggono i cuori (e mozzano... le teste); la gestualità dei personaggi, la mancanza di cromatismo di scene e costumi: tutto congiura nel portare lo spettatore ad immergersi in quest’atmosfera da esercizi spirituali, senza peraltro aggiungere alcunchè di estraneo o di surrogato al soggetto originale.

Lodevole anche la parte tecnica dell’allestimento, che impiega mezzi apparentemente semplici, ma manovrati con grande sapienza, e sfrutta anche un paio di palchi di proscenio (nel terzo atto) per rendere fluido il procedere del dramma, senza dover ricorrere a complicati cambi di scena.

Meritati gli applausi che alla fine hanno accolto, primi ad uscire, i tecnici protagonisti della parte scenica.
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Poulenc dichiarò pubblicamente di rifarsi a Debussy, Monteverdi, Verdi e Musorgski (più Mozart, non nominato per... rispetto) mentre si tenne sempre alla larga dal modello wagneriano. Tuttavia (proprio come Debussy nel suo Pelléas) anche Poulenc nei Dialogues fa ampio uso dei Leit-motive, temi ricorrenti associabili a personaggi e soprattutto ad atmosfere e stati d’animo. Come ad esempio i temi della paura, dell’ansietà e del timore, che evocano principalmente le pulsioni della psiche di Blanche; alla cui personalità viene peraltro riservato un motivo delicato e dolcemente mosso; e poi il tema della pacificazione (o della rinuncia, o del conforto divino) che chiude il primo quadro e che significativamente ricompare proprio nelle battute finali dell’opera. E così via, una rete di motivi che sottolineano i caratteri dei personaggi e le situazioni che si dipanano sotto i loro (e i nostri) occhi.

Davvero memorabile la scena conclusiva, con uno dei Salve Regina più strazianti che si ricordino in musica. Poulenc altera la sequenza delle esecuzioni rispetto alla storia, invertendo le posizioni di Constance e della Priora: nell’opera è quest’ultima la prima ad essere ghigliottinata, Constance l’ultima, dovendo incontrare Blanche e vedere compiuto così il suo sogno di morire con lei.

Le 15 suore (Marie è fuggita) sono divise in due gruppi: primo gruppo (soprani): Priora, Constance e 6 Suore; secondo gruppo (mezzosoprani): Jeanne, Mathilde e 5 Suore. Blanche arriverà poi, cantando la giaculatoria conclusiva dal Veni Creator. I due gruppi di suore cantano praticamente in unisono (le sole eccezioni essendo rappresentate da poche note che sono abbassate di un’ottava per i mezzosoprani). In sottofondo il coro completo (SATB) che rappresenta la folla, commenta a bocca chiusa o con semplici vocali (oi-a-o-u) le esecuzioni. Qui sotto ho inserito nel testo sacro cantato i 16 sordi tonfi della lama e (a fianco; suora-gruppo) la vittima di ciascuna calata:

Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et spes nostra, salve.
et spes nostra, salve.<1>                                                (Priora)
Salve, Regina, Mater misericordiae,   
vita, dul<2>cedo et spes nostra, salve.                            (S1 g2)
Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et <3>spes nostra, salve.                            (S1 g1)
Ad te clamamus, ex<4>sules filii Hevae.<5>                    (S2 g2) - (S2 g1)
Ad te suspira<6>mus, gementes et flentes                       (S3 g2)
Ad<7> te suspiramus, gemen<8>tes et flentes                 (S3 g1) - (S4 g2)
in hac lacrimarum, lacrimarum valle.
E<9>ia ergo, advocata nostra, illos tuos                          (S4 g1)
misericor<10>des oculos ad nos converte.                      (S5 g2)
Et<11> Jesum, benedictum fructum ven<12>tris tui,      (S5 g1) - (S6 g1)
nobis, post hoc exilium, osten<13>de.                            (Mathilde)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.                     
O dulcis Virgo Mari<14>a.                                              (Jeanne)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo M<15>...                       (Constance)

Deo Patri sit gloria
Et Filio qui a mortuis surrexit Paraclito
In saeculorum saecula. In saeculorum<16>...                  (Blanche)

I colpi di ghigliottina arrivano a intervalli irregolari, talvolta nel bel mezzo di una parola: un tocco questo di macabro realismo.
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Il giovane Jérémie Rhorer ha guidato l’Orchestra del Comunale (cui non possono andare che elogi) con forse eccessiva foga: con il risultato di mettere sì in risalto tutte le preziosità della partitura, ma al prezzo di non valorizzare al meglio le voci, spesso coperte allorquando chiamate a declamare e quasi a parlare.

A proposito di voce, lo stesso Poulenc indicò persino dei modelli di vocalità per le sue 5 protagoniste, mutuati dai suoi modelli di compositore: Thaïs (Blanche), Amneris (Croissy), Desdemona (Lidoine), Kundry (Marie) e Zerlina (Constance). E devo dire che la compagnia (tutta francofona) di carmelitane ha degnamente risposto all’appello. Su tutte metto personalmente la Lidoine di Marie Adeline Henry, che ha sciorinato una gran voce, in potenza ed espressività (il suo arioso è stato davvero travolgente). Ma anche la Croissy di Sylvie Brunet e la Marie di Sophie Koch sono state assolutamente all’altezza. Benissimo anche la Constance di Sandrine Piau, efficacissima con la sua voce acuta e impertinente; appena un filino sotto la pur brava protagonista, Hélène Guilmette, un poco in difficoltà sui centri e sui gravi (ma complice, come detto, il Direttore).

Splendido lo Chevalier di Stanislas de Barbeyrac, una gran voce da tenore lirico-eroico che penso farà sempre più parlare di sè. Da elogiare in blocco tutti/e gli/le altri/e, incluso il coro di Faidutti che arriva solo alla fine, fuori scena e senza profferire parole articolate, ma contribuisce a creare quella mirabile atmosfera del Salve Regina.

Successo davvero strepitoso, salutato da un pubblico non proprio foltissimo ma entusiasta.

22 gennaio, 2018

A proposito di osti e vino


L’ispirazione per questo scritto un filino... ehm, politically-uncorrect, mi è venuta dalla produzione della Bohème (di Mariotti-Vick) attualmente in cartellone a Bologna. Premetto di non aver ascoltato la prima su Radio3, nè di essere in grado di assistere ad una delle prossime rappresentazioni, e nemmeno alle prossime trasmissioni nei cinema, nè su RAI5 (cause di forza maggiore). Ergo, lungi da me il trattare di cosa (quasi) sconosciuta.

Invece mi ha incuriosito un aspetto (che non dev’esser certo nato con questa Bohème) che spiega il titolo di questo post: che allude, come si può facilmente arguire, al tema (vecchio quanto il mondo, per carità) dei conflitti di interesse.

Mi spiace prendere qui di mira una mia illustre conterranea, la musicologa Roberta Pedrotti da Lumezzane (bresciana come me quindi, solo di una valle attigua). La sua figura e il suo curriculum sono ispezionabili sul sito L’Ape musicale, da lei fondato qualche anno fa. Come si può notare, lei ha studiato a Bologna e colà è Direttrice scientifica del Concorso Città di Bologna, che promuove nuovi talenti nel mondo dell’opera.

Veniamo a questa benedetta Bohème: mentre non c’è traccia (sul sito del Teatro, nè sul web) di video di presentazione dell’opera prodotti in prima persona dal Comunale, si trovano su youtube alcuni video (due in particolare sulla Bohème, altri indirettamente ad essa legati) prodotti dal canale della rivista, come risulta dall’indicazione dell’uploader dei filmati e dall’indirizzo del sito che compare perennemente in sovrimpressione sulle immagini.

Nel primo video, dove Mariotti parla della produzione (curiosamente soffermandosi sugli aspetti filo-socio-esistenziali più che su quelli musicali) a 1’40” pare proprio che il Maestro si rivolga alla nostra Roberta: il che è più che verosimile, visto che la ripresa è fatta dalla rivista. In un secondo video è Vick a raccontare la sua vision sul soggetto. In un terzo, si direbbe che sia la Pedrotti a fare una domanda riguardo la programmazione RAI del Don Giovanni di Vick del 2014, già da lei recensito in occasione delle recite bresciane (il link alla recensione è pubblicato proprio in calce al video).

Insomma, mettendo insieme tutte le circostanze citate, chiunque è indotto a pensare (andreottianamente, per così dire) che fra il Teatro e la Pedrotti ci sia un qualche rapporto privilegiato, quale ne sia la natura (formale-informale). In sostanza: la Pedrotti non ci fa – nella specifica circostanza - la figura di un critico musicale indipendente, ecco.    

E allora arrivo al punto: leggiamo la recensione che la Pedrotti scrive dopo la prima di questa Bohème: un autentico panegirico (e faccio sinceramente i complimenti alla straordinaria penna della mia conterranea)!  

Però, qui pare proprio che l’ostessa stia decantando (in tutti i sensi) il suo vino.

19 maggio, 2017

2017 con laVerdi – 20


Continuando una ormai consolidata tradizione, laVerdi inserisce nel programma della stagione principale l’esecuzione di un’opera lirica in forma di concerto (ricordiamo Chénier, Butterfly, Cavalleria...) Quest’anno è la volta di Gianni Schicchi, affidato alla bacchetta di John Axelrod e alle voci della Scuola dell'Opera del Comunale di Bologna.

“...come l’altro che là sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sè Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma.”

Così Dante, Inferno, XXX. Si parla di Gianni Schicchi  che si sostituì al morto Buoso Donati che nel testamento olografo aveva lasciato tutti i suoi beni ai monaci, e in sua vece dettò al notaio un falso (ma registrato come regolare) testamento, dove indicò sè medesimo come erede dei beni del Donati. Fra essi "la donna de la torma”, che non è una specie di regina-delle-amazzoni, ma la mula più pregiata di tutta Firenze (Madonna Tonina era il suo nome, come ricordò Orazio Bacci in una sua lettura pubblica del canto dantesco il 10 maggio del 1900 in Orsanmichele a Firenze). Il principale gabbato fu il figlio (o fratello secondo alcuni) del Buoso, Simone, che aveva ingaggiato Schicchi per farsi nominare erede universale nel falso testamento, e invece si ritrovò con un pugno di mosche.

Il racconto particolareggiato della vicenda (dove il protagonista è chiamato Sticchi) si ritrova nel Commento alla Divina Commedia d’Anonimo fiorentino del secolo XIV°, originariamente pubblicato nel 1866 da Pietro Fanfani in appendice alla sua edizione del poema dantesco. Ne ho trovata traccia anche in una riedizione (Sansoni 1957) della D.C. con il commento di Tommaso Casini (1892) che mi fu regalata come premio scolastico 60 anni fa (!)


Orbene, a partire da questi scarni tratti di sapida cronaca fiorentina (e anche dai riferimenti al Volpone di Ben Jonson del 1605, compreso l’indirizzo finale del protagonista al pubblico) il genio di Giovacchino Forzano seppe costruire uno splendido libretto di cui Puccini letteralmente si innamorò a prima vista, dandogli la precedenza assoluta nel musicarlo, abbandonando momentaneamente la SuorAngelica.

Innanzitutto: in luogo del solo Simone il librettista schierò in scena l’intero parentado di Buoso (8 adulti più il piccolo Gherardino) e ciò diede modo a lui e a Puccini di creare le esilaranti e tragicomiche atmosfere che caratterizzano l’intera commedia. Poi aggiunse un tocco di genio con l’invenzione del personaggio del medico, che rese possibile la brillante scenetta del test di credibilità del travestimento di Schicchi. Ancora ecco l’invenzione dei rintocchi di campana a morto che gettano (solo momentaneamente) nella disperazione parenti e simulatore. Infine introdusse, legandola mirabilmente al soggetto principale, l’immancabile vicenda sentimentale, con annessa coppia soprano-tenore, tanto per garantire la presenza di un paio di arie e duetti... Il tutto con lo sfondo della magnifica Firenze, socialmente e culturalmente arricchita da apporti del vicinato: Val d’Elsa e Mugello (viene citato persino il Medici, che nel 1299 era ancora di là da venire.) 

Insomma, un vero gioiello, che non a caso è rapidamente divenuto il più famoso e rappresentato dei tre componenti del trittico, ovviamente grazie anche alla musica di Puccini, che dall’esecuzione in forma di concerto viene ancor più messa in risalto. 

Come per Verdi il Falstaff, lo Schicchi rappresenta per Puccini l’unica opera buffa, o semiseria, o commedia brillante che dir si voglia. Non c’è dubbio che Puccini abbia guardato a Falstaff come ad un eccelso modello, mutuandone l’umorismo sottile ed anche aspetti apparentemente marginali. Cito ad esempio una similitudine, microscopica nella dimensione, ma illuminante nel significato: fra l’espressione di Schicchi (“...cinque lire”) mentre annuncia il ridicolo lascito per Frati e SantaReparata, e quella di Falstaff (“...un’acciuga”) mentre legge la lista dell’oste:


Non mancano riferimenti a musicisti contemporanei a Puccini: Strauss fa capolino qua e là, e una reminiscenza mahleriana si riconosce nella chiusa del duetto finale Rinuccio-Lauretta:
 
Non a caso il duetto si è chiuso con “...il Paradiso” e il Ruhevoll della 4a di Mahler apre appunto le porte alla “vita celestiale”.
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Un Auditorium non propriamente preso d’assalto ha tributato un grande successo a tutti i protagonisti della serata: il Direttore e l’Orchestra, che hanno fornito una prova maiuscola (l’unico appunto che mi sento di fare ad Axelrod è di aver esagerato con il fracasso - pareva l’ottava di Mahler - con il quale ha sottolineato il parapiglia che segue l’uscita di scena del notaio, coprendo così le voci) e i bravissimi cantanti della Scuola bolognese, una piacevole sorpresa che testimonia della vitalità del mondo della lirica.

Mi limito a citare i tre protagonisti principali: Marta Torbidoni, il cui Babbino non ha mancato di ricevere l’applauso a scena aperta (innescato da... Axelrod); Rosolino Cardile (Rinuccio) che ha sfoggiato voce squillante e ben impostata; e lo Schicchi di Alex Martini, davvero convincente sia nel canto che nella sensibilità interpretativa (la contraffazione della voce del Buoso).

Insomma: una piacevolissima serata, che si ripeterà oggi e domenica.

24 marzo, 2017

Matrimoni e divorzi in quel di Pesaro


L’ultima newsletter del ROF dà notizia della partnership triennale (a partire già da questo 2017) fra il Festival e l’OSN, che diventa quindi la principale produttrice di suoni non vocali per le prossime tre edizioni.

Il programma preliminare del ROF (di cui è sovrintendente Gianfranco Mariotti) ancora a gennaio 2017 indicava per le tre manifestazioni ora assegnate alla OSN la presenza ormai tradizionale dell’Orchestra del Comunale di Bologna (di cui è Direttore musicale il pargolo Michele Mariotti, comunque assente quest’anno a Pesaro).

Con l’Orchestra bolognese se ne va anche il coro di Faidutti, rimpiazzato da quello ascolano del Ventidio Basso.

Che dire? Dissapori in famiglia Mariotti o fra i Mariotti e Nicola Sani?