XIV

da prevosto a leone
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17 aprile, 2024

Il dittico verista di Martone ripreso alla Scala

Dopo la produzione originale del 2011 (parzialmente ripresa nel 2014, senza Pagliacci e poi nel 2015) la Scala ripropone il classico dittico con la messinscena di Mario Martone e con Giampaolo Bisanti sul podio (calcato ai tempi da un giovine Harding). A differenza di 13 anni fa, la sequenza di presentazione è quella che si può considerare standard: prima Mascagni, poi Leoncavallo.

Liquido subito la regìa, riproponendo per filo e per segno le mie impressioni originali (diciamo… sostanzialmente positive, ma con qualche perplessità, ecco) che questa ripresa non mi ha certo convinto a modificare.  
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Giampaolo Bisanti ha confermato le ottime prove delle sue recenti (22-23) apparizioni in Scala (Adriana, Ballo e Macbeth) guidando con autorevolezza la buca e il palcoscenico: equilibrio nelle dinamiche, attenzione a dettagli, colori e sfumature. Incomprensibile un isolatissimo buh arrivatogli dal loggione all’uscita finale, in mezzo a convinti applausi (di un pubblico non proprio oceanico…)

Sempre sui suoi (alti) livelli il coro di Alberto Malazzi, particolarmente in Mascagni.       

In Cavalleria, detto dell’ennesima, miracolosa prestazione dell’inossidabile nonna Zilio, su tutti la Santuzza di Elīna Garanča, encomiabile nello scolpire questo personaggio di donna alla mercè dei pregiudizi di una società patriarcale (oggi siamo ancora lì?)

IL Turiddu di Brian Jagde ha ben meritato: voce squillante, con buona proiezione, acuti puliti e otttima presenza scenica; per lui un debutto scaligero più che lusinghiero.

Onesta ma non eccezionale invece la prestazione di Francesca Di Sauro, che mi è parso aver messo poca grinta (a dispetto della voce… robusta) nell’interpretare l’enigmatica personalità di Lola.

Alfio era Amartuvshin Enkhbat. Lo avevo sentito solo in Rigoletto e devo confermare il mio giudizio: vocione poderoso ma ancora da mettere bene sotto controllo, ecco. Il giudizio vale anche per il Tonio nei Pagliacci, ovviamente. Il pubblico lo ha comunque accolto con molto calore, il che speriamo lo spinga a migliorarsi ancora.

In Pagliacci metto davanti a tutti il Canio di Fabio Sartori, la cui professionalità garantisce sempre il risultato!  

Irina Lungu ha messo la sua ormai più che ventennale esperienza – voce e presenza scenica - al servizio del controverso personaggio di Nedda: anche per lei solo applausi.

Bene anche Mattia Olivieri, che ha rivestito ll personaggio di Silvio (che Martone trasforma da contadinotto in tamarro…) con la sua calda voce baritonale.

Applausi infine anche per il Peppe di Jinxu Xiahou, che conferma le sue ottime doti, già manifestate nelle sue recenti presenze in Scala.
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In conclusione, una piacevole serata di musica!    
   

17 giugno, 2019

La giara fantasma del Regio (con Cavalleria)


Ieri al Regio-Torino quinta delle nove recite di un dittico abbastanza insolito: al dramma verista mascagnano viene infatti affiancato il balletto (precisamente: commedia coreografica) La giara di Alfredo Casella. Effettivamente un punto di contatto fra le due opere esiste (meglio dire: esisterebbe, a fronte di ciò che si vede a Torino): la Sicilia, dalla quale provengono i due autori delle opere letterarie ispiratrici, e della quale si mettono in scena - magari inventandoli - alcuni tratti naturalistici ed antropologici.   

Il soggetto della Giara è tratto dalla famosa novella di Luigi Pirandello, che narra la bizzarra vicenda di Zì Dima, un anziano artigiano esperto in riparazioni di giare e oggetti consimili, chiamato ad aggiustarne una di dimensioni enormi a casa del ricco possidente Don Lolò. Lui per sistemarla come nuova vi si introduce all’interno, e così ne rimane fatalmente imprigionato. Dopo un braccio di ferro con Lolò che pretenderebbe il pagamento della giara in cambio della sua liberazione, la storia si conclude con lo scorno del padrone di casa e il trionfo dell’artigiano.

La struttura del balletto è in due macro-parti, per una durata poco superiore alla mezz’ora. Per meglio esplorarla possiamo ricorrere a quest’unica registrazione live disponibile (che io sappia) su youtube, grazie all’amor proprio del maestro Mauro Fabbri, che l’ha diretta tempo fa in Bulgaria. Nel seguito sono evidenziati i tempi corrispondenti alle diverse indicazioni agogiche presenti in partitura, corredate, quando esistenti, dalle didascalie di scena.
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I - a) Preludio b) Danza siciliana

Preludio
(28”) Andantino dolce, quasi pastorale
(1’53”) Un poco più lento, quasi adagio
(3’02”) Allegro grottesco ed animato (Zi’ Dima passa al procenio e scompare)
(3’20”) Tempo primo

Chiòvu (Chiodo, danza popolare siciliana)
(5’00”) Allegro vivace (Scena: aia siciliana; entrano i contadini)

Danza generale
(5’40”) Allegro vivace
(6’19”) Lontano - Avvicinandosi - Brillante e giocoso
(7’17”) Sempre più forte, ma senza affrettare - Con tutta la forza - Calmato
(8’20”) Lontano - Avvicinandosi - Giocoso
(8’55”) Sempre più brillante e fortissimo - Stringendo
(9’33”) Vivace (Irrompono tre ragazze spaurite)
(9’50”) Grave, funebre (La grande giara spaccata; tutti piangono; strazio generale)
(10’51”) Vivace (Un contadino chiama tre volte Don Lolò)
(11’16”) Allegro drammatico (Don Lolò appare e scende; scena di furore; finimondo; contadini atterriti)
(12’50”) Poco a poco stringendo (Entra Nela)
(13’17”) Vivace grazioso (Nela riesce a placare le ire del genitore)
(14’13”) Allegro vivace e grottesco (Entra Zi’ Dima; i contadini lo accolgono come a una messa)
(14’32”) Allegro vivace e rustico (Tutti lo circondano e gli raccontano il fatto; lo conducono davanti alla giara)
(15’21”) Lento (Zi’ Dima esamina la giara; silenzio religioso)
(15’38”) Di nuovo animando (Zi’ Dima annuncia che riparerà la giara; “Evviva Zi’ Dima”)
(15’53”) Stringendo (Don Lolò si spazientisce e scaccia i paesani; tutti fuggono; Don Lolò esce con Nela)
(16’22”) Andante moderato (Zi’ Dima prepara la riparazione; si fa notte; fora i pezzi col trapano)
(17’16”) Vivace (Le tre ragazze spiano Zi’ Dima)
(17’40”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende il lavoro)
(17’56”) Vivace (Le tre ragazze riappaiono; Zi’ Dima non le vede)
(18’13”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende ancora il lavoro)
(18’30”) Allegro animato (Rientrano giocosamente i contadini)
(18’52”) Stringendo (Zi’ Dima viene introdotto nella giara, poi chiusa con lembo rotto)
(19’07”) Lento molto e misterioso (La giara sembra nuova; i contadini sono ammirati)
(19’32”) Pesante ed allegro (I contadini cercano si estrarre Zi’ Dima, ma la cosa non va)
(19’42”) Agitato (Zi’ Dima urla; nuovi tentativi dei contadini; nuove urla del vecchio; sforzi eroici)
(20’01”) Allegro vivacissimo (Arriva Don Lolò stravolto e fa ruzzolare a terra i salvatori; disputa violentissima fra padrone e contadini)
(20’24”) Alla breve, stringendo (I contadini vogliono spaccare la giara per liberare Zi’ Dima; Don Lolò non lo permette: prima Zi’ Dima deve pagare il danno; baruffa generale)
(20’47”) Prestissimo (Don Lolò, dispersi i contadini, risale in casa)

II - a) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” b) Danza di Nela c) Entrata dei contadini d) Brindisi dei contadini e) Danza generale f) Finale

(21’08”) Allegro animato (Un contadino torna, accende la pipa a Zi’ Dima e lo tranquillizza)
(21’22”) Lento, calmissimo (Notte; chiaro di luna; calma; dalla giara escono le volute di fumo della pipa)
(21’55”) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” (Dal fondo della campagna s’innalza un canto popolare) (testo di Alberto Favara, 25 battute musicali in FA# maggiore cantate dal tenore)


(24’00”) Vivacissimo e leggero (Nela scende dalla casa; danza attorno alla giara; chiama i contadini)
(25’29”) Allargando (Entrano tutti i contadini festosamente)
(25’35”) Pesante (Viene portato da bere)
(25’55”) Allegro deciso (Brindisi dei contadini che acclamano Zi’ Dima)

Danza generale
(26’39”) Allegro rude e selvaggio (I contadini ebbri danzano intorno alla giara)
(29’57”) Orgiastico e brutale (Don Lolò, destato dal baccano, si affaccia e vede la scena)
(30’14”) Allegro vivacissimo (Don Lolò scende come toro infuriato; spavento generale)
(30’26”) In due (Don Lolò abbranca la giara e la fa ruzzolare giù dall’altura; terrore dei contadini che si precipitano in soccorso di Zi’ Dima)
(30’47”) Allegretto molto moderato e rustico (Rientrano i contadini, innalzando in trionfo Zi’ Dima liberato)

Finale
(31’51”) Prestissimo (Don Lolò, disperato, è fuggito; Nela guida la danza generale)
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Non ci vuol molto a concludere che quest’opera si basi su tre pilastri strutturali, già sospettabili nel genere attribuitole dall’Autore: commedia coreografica. Che comporta quindi il carattere di commedia, cioè di soggetto letterario, con tanto di trama, personaggi e azioni; e comporta caratteri di coreografia, sostanzialmente di danza e di pantomimica. Ebbene, l’ineffabile regista-coreografo siciliano (si noti!) Roberto Zappalà cosa ti combina? Tiene buona solo la danza e butta nel cesso la commedia e la pantomimica! E per raggiungere questo mirabile risultato si serve pure di un Dramaturg (Nello Calabrò). Apperò, complimenti! Il suo balletto poteva e potrebbe benissimo essere indifferentemente appiccicato alla musica di Petruška o del Faune... Perchè scovarci tracce di giare, di Don Lolò, di Nela e di... Sicilia è impresa proprio disperata. Ecco perchè alcuni sparuti ma sonorissimi buh piovuti dall’anfiteatro all’abbasarsi del sipario non mi son parsi per nulla immeritati. Insomma, una Giara davvero fatta a pezzi! Peccato per i tanti bambini che i genitori avevano magari portato a teatro proprio perchè vedessero rappresentata quella storia imparata a scuola...

Battistoni (si dà sempre pose che finiscono per renderlo antipatico) ha diretto però con apprezzabile cura questa partitura in cui risuonano, oltre ad atmosfere sicule, anche accenti (vecchi di 10 anni almeno) stravinskiani. Marco Berti da lontano ha efficacemente cantato la canzoncina riservata al tenore. 
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Ecco poi la sempreverde Cavalleria. Qui le cose sono andate decisamente meglio, in quanto abbiamo appunto visto Cavalleria e non, che so... Pagliacci!!! Merito di Gabriele Lavia (che i Pagliacci proprio qui li ha già fatti, e ben... distinguibili!) Approccio assolutamente rigoroso (i soliti schizzinosi lo definiranno... soporoso, ma peggio per loro) con la Sicilia (magari non proprio quella di Vizzini, come ammette lo stesso regista) ben rappresentata da lavia lava solida (nera come la tragedia) e... liquida (rossa come il vino e il sangue che scorrono a fiotti). Movimenti di masse ben gestiti; moderato ricorso a stereotipi stantii (una Madonna e un Cristo, nulla più); e grande cura della recitazione per i protagonisti. Insomma, uno spettacolo assolutamente dignitoso e (parlo per me) del tutto soddisfacente. 

Vicissitudini di ogni tipo hanno fatto sì che il cast, rispetto alle originali scritture, sia stato quasi rivoluzionato: niente Danielona Barcellona per Santuzza (le è subentrata Sonia Ganassi) e niente Carlo Ventre per Turiddu (reincarnatosi in Marco Berti). Poi anche Marco Vratogna si è dato malato (tornerà forse per due appuntamenti) e quindi lo stoico Gëzim Myshketa si è dovuto sobbarcare finora tutte le recite come Alfio.

Devo dire che tutti tre i protagonisti se la sono cavata più che discretamente, così come la Lola di Clarissa Leonardi e la comprimaria Lucia di Michela Bregantin. Onorevole la prestazione del Coro di Andrea Secchi

Battistoni ha diretto con sufficiente sensibilità e attenzione ai particolari, strappando applausi per sè e per l’Orchestra dopo il celebre Intermezzo.
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Teatro non al completo, ma prodigo di consensi per tutti.

05 giugno, 2016

Lieber Fritz in Venedig


La Fenice ha ospitato nei giorni scorsi un amico piuttosto riservato (nel senso che si fa vedere in giro abbastanza di rado): trattasi di tale Fritz, animato dalla musica di Pietro Mascagni, che ieri si è accommiatato dopo la quinta ed ultima rappresentazione.

Opera piuttosto singolare: un verismo sui-generis, perlomeno rispetto allo stereotipo classico che vorrebbe per questo genere di opere soggetti sanguigni, se non addirittura crudi e truci. Qui siamo invece alla normale (o quasi) vita di campagna, fra viti e ciliegi, dove due giovani troveranno la felicità dopo qualche vicenda strappalacrime e grazie all’intercessione di un rabbino. L’unico momento drammatico di tutta l’azione (beh, azione si fa per dire...) si riduce alla fuga precipitosa di Fritz dalla campagna verso la città, lasciando con un palmo di naso la poverina Suzel. Qualcuno ha persino parlato di una specie di Elisir d’amore (a ruoli principali invertiti) come dire: una pièce zuccherosa e un po’ patetica, con finale degno di Harmony, ecco.     

Le cronache ci dicono che fosse proprio Mascagni, dopo il clamoroso successo di Cavalleria - che però più d’uno maliziosamente attribuiva in parti uguali alla potenza del libretto e alla musica – a chiedere al suo editore Sonzogno, impaziente di fare altri affari con una nuova opera dell’astro nascente, un soggetto di basso profilo, in modo che, per contrasto, fosse la sua ispirata musica a venire in primo piano. E così ecco che la scelta cadde su L’ami Fritz, un romanzo leggero (ma non banale, attenzione!) in 18 capitoli di Erckmann-Chatrian del 1864, poi ridotto per il teatro nel 1876, dalla quale riduzione il famoso Angelo Zanardini aveva ricavato un libretto, di cui Mascagni irrise a tal punto la poetica da convincere Sonzogno a farne rimuovere le coglionerie (sic) da tale P. Suardon (al secolo il giornalista Nicola Daspuro, anzi D’Aspuro) e infine dai fidati Targioni-Tozzetti&Menasci, onde ricavarne il comunque mediocre libretto dell’opera.



Qualche curiosità sulle differenze di scenario fra il romanzo e il libretto. Il romanzo che indirettamente ispirò Mascagni fu opera di due francesi originari della Lorena: Émile Erckmann, nato a Phalsbourg e Alexandre Chatrian, nato a Soldatenthal (dei due, Erckmann era in effetti l’autore dei romanzi, mentre Chatrian si occupava più che altro della loro... commercializzazione o riduzione per il teatro).

La collocazione geografica della vicenda è abbastanza controversa: è luogo comune parlare di Alsazia (e così sarà infatti nel libretto dell’opera) ma in realtà i nomi delle località citate nel romanzo sono o immaginari o mascherati: la cittadina dove abita Fritz (non citata nell’opera) è Hunebourg, che non esiste come tale (a quel nome corrisponde in effetti un vecchio e isolato castello alsaziano, nei Vosgi) mentre si ritiene, da indizi derivati dal contesto, che si tratti di Landau (o località in quei pressi, come Dahn) che è nel Palatinato meridionale, regione tedesca occupata da Napoleone con tutti i territori tedeschi a sinistra del Reno nel 1797, ma poi tornata tedesca nel 1815 (Congresso di Vienna) con la restituzione di Landau e dintorni al Regno di Baviera. In effetti Fritz (siamo nel 1847) si vanta di essere bavarese e non vede di buon occhio gli imperialisti prussiani che si aggirano dalle sue parti, mentre mostra più simpatia per la Francia (e per i suoi vini, per la verità...)

Anche la descrizione di Bischem, dove Fritz e Suzel ballano alla festa (episodio ignorato dal libretto) corrisponde in realtà alla cittadina di Pirmasens, 30Km circa a ovest di Landau, sempre Palatinato. Nel romanzo troviamo anche la Lauter, fiumiciattolo che scorre nel Palatinato e poi traccia il confine fra lo stesso e l’Alsazia, sfociando nel Reno. Altri due luoghi direttamente connessi con Fritz sono Meisenthal (nell’opera Mésanges, il podere di Fritz, gestito dal padre di Suzel, Hans Christel) e Sonneberg (dove Fritz possiede dei vigneti - oggetto della scommessa con il rabbino David - nell’opera Clairefontaine): a questi nomi corrispondono effettivamente due località della Lorena che però sono (la prima sicuramente) incoerenti con il contesto (Fritz va e torna a piedi in giornata da casa sua a Meisenthal... che però disterebbe almeno 50Km!) Insomma, meglio non fare troppo caso ai riferimenti geografici, oppure pensare che gli autori abbiano consapevolmente voluto mischiare le carte per trasmetterci il concetto che tutta quell’area geografica (Alsazia-Lorena-SudPalatinato) avesse in fondo delle caratteristiche assai simili di civiltà, usi e costumi.

Ciò che infatti importa rilevare è come gli autori del romanzo siano francesi e per di più ardenti patrioti (scrissero diversi lavori di argomento nazionale) ma raccontino qui una storia edificante con personaggi tutti tedeschi, in un luogo storicamente più tedesco che francese. Mostrandoci con sapienti pennellate lo spaccato di una società persino fin troppo felice, tutta dedita al lavoro e al conseguente godimento (rendita compresa, vero Fritz?) delle risorse con esso create. E ciò si spiega con la collocazione temporale della scrittura del romanzo e della vicenda in esso narrata: il romanzo è scritto nel 1864 e narra di avvenimenti del 1847 (il periodo nel quale matura l’amore fra il ricco, nullafacente e impenitente scapolo 36enne Fritz Kobus e la timida, casta e romantica 17enne Suzel Christel, figlia di un suo mezzadro). Si tratta di un periodo storico in cui ancora in Francia si aveva dei tedeschi un’immagine positiva (la vecchia, buona Germania, amica della pace). Per chi, come gli autori del Fritz, proveniva proprio dalle zone di confine, prima del 1870 era quasi normale passare nel vicino Palatinato, venire a contatto con quelle popolazioni, apprezzando la quasi idilliaca convivenza fra etnie, lingue e religioni diverse: basti pensare che Fritz è luterano, Suzel anabattista e David (che fa di tutto pur di vederli sposati) è un rabbino! E che lo stesso David e il violinista gitano Iosef (personificazioni di due figure – ebrei e zingari – che diverranno tristemente famose per le persecuzioni di cui saranno vittime nella Germania del 20° secolo) in quella tollerante società sono invece accettati quasi con naturalezza...

Tutto cambiò dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, la dolorosissima perdita di Alsazia-Lorena e il conseguente insorgere in tutta la Francia, e in particolare nelle regioni annesse dai tedeschi, di sentimenti di revanche contro l’imperialismo d’oltrereno: da allora Erckmann diventò forsennatamente antiprussiano e scrisse solo opere intrise di fazioso patriottismo francese.

Orbene, a che pro tutto questo tormentone? Semplicemente per censurare la cervellotica impostazione del libretto di Daspuro, che colloca invece la vicenda in un generica Alsazia attorno al 1890 (periodo della composizione dell’opera) quando la regione Alsazia-Lorena era da quasi 20 anni annessa alla Germania (tornerà francese dopo la WW1, di nuovo tedesca nel 1940 e ancora francese a fine della WW2). Quindi: una collocazione geografica ma soprattutto temporale che fanno letteralmente a pugni con i contenuti idilliaci della vicenda, divenuti impensabili in quei luoghi e in quel periodo (i rappresentanti della regione al Reichstag erano tutti protestatari, cioè contrari all’annessione). Peraltro il libretto ignora quasi del tutto ogni aspetto politico, etnico, linguistico e religioso presente nel romanzo - salvo il riferimento al ruolo pastorale di David e alle attitudini gitane di Beppe - per insistere principalmente sulla banale componente rosa della vicenda. E a questo punto però l’ambientazione diventa del tutto gratuita, e Alsazia-1890 potrebbe tranquillamente mutare, invento a caso, in Pannonia-1760 o in Molise-1810 o nelle Fiandre-1920... e Fritz mutare in Frigyes, Chicco, Rik, ecco.
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Beh, dopo aver denigrato a sufficienza il libretto (ma mai come Verdi, che lo bollò seccamente come scemo!) veniamo alla musica, che dalla povertà del testo avrebbe dovuto programmaticamente trarre vantaggio! E bisogna dire che da subito lo trasse, se è vero come è vero che la prima di sabato 31 ottobre del 1891 al Costanzi fu un trionfo addirittura superiore a quello di Cavalleria (e più di un critico azzardò il giudizio secondo cui Fritz superava la stessa Cavalleria in contenuti estetici).

Nel 1892 l’opera approdò nel gotha di Vienna: martedi 26 gennaio fu data in tedesco, sotto la bacchetta del venerabile Hans Richter, alla Hofoper; poi in italiano, al Prater, diretta da Mascagni in persona, giovedi 15 settembre. L’ex sovrintendente della Hofoper ricordò il primo avvenimento come greve e il secondo come ispirato: confidò queste sensazioni dopo aver udito una delle prime, se non proprio la prima rappresentazione tedesca (lunedi 16 gennaio 1893, Amburgo) diretta da Gustav Mahler, il quale da parte sua si dichiarò letteralmente entusiasta del lavoro di Mascagni. Lusinghiero era stato a Vienna anche il commento del severo Eduard Hanslick, il di cui complimento per la verità potrebbe pure essere considerato, ehm, imbarazzante; e la cronaca ci dice che lo stesso Mahler, dopo Amburgo, mai più diresse il Fritz, ma solo Cavalleria, il che non esclude quindi un certo... raffreddamento nelle simpatie del boemo verso quell’opera. La cui lenta e progressiva diluizione di comparse nei teatri (alla Fenice la prima si ebbe... non prima del 1944 e la seconda e penultima 10 anni dopo; alla Scala nel dopoguerra abbiamo una sola presenza nella stagione 63-64!) testimonia dello scarso appeal di questa musica, di cui sopravvive, ma in esecuzioni concertistiche, il solo Intermezzo che apre il terz’atto.
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E di esecuzione in forma di concerto si potrebbe parlare a proposito di questa edizione del teatro veneziano, dove regìa, scene e costumi fanno a gara nel non dare valore aggiunto alla musica (così, paradossalmente, si accontenta Mascagni!) Simona Marchini (che con quest’opera ha una relazione particolare, nata a Livorno nel lontano 1991 e ivi rinfocolata nel 2002) pensa più che altro a mettere a loro agio i cantanti, facendoli cantare il più possibile al proscenio, ben rivolti verso il pubblico e bene in vista al direttore. Massimo Checchetto propone precisamente un quadretto (con tanto di corniciona) entro il quale si sviluppa la vicenda: nei due atti esterni siamo in casa di Fritz, un tavolo, uno scrittoio e sul fondo una grande vetrata da cui si scorge (atto primo) un campanile che spunta in mezzo agli alberi sotto un cielo sereno e (atto terzo, Alsazia addio!) un gran mare sotto un cielo plumbeo, che solo alla fine ovviamente si rischiara (hai capito che intuizione!?) Nell’atto centrale siamo ovviamente nella fattoria dove abita Suzel: una gradinata coperta da moquette verde sulla quale incombe di sghimbescio una piccola serra, poi un alberello con ciliegie mature, la pompa dell’acqua e un tavolo rustico. I costumi di Carlos Tieppo sono alsaziani quanto molisani o pannonici, ma comunque i/le sarti/e avran pure faticato a tagliarli e cucirli, quindi si meritano un bravi! Nulla di speciale nelle luci di Fabio Barettin.

Fabrizio Maria Carminati fa un buon lavoro di concertazione (aiutato, come detto, dalla regìa che gli mette i cantanti proprio... in faccia). Ma efficace è anche la sua resa delle mille sfumature (troppe, diceva un tal Giuseppe Verdi!) che costellano la partitura, con i continui cambi di tempo e le ardite (a volte cacofoniche) modulazioni. Ottima l’esecuzione dell’Orchestra, guidata da Robero Baraldi, salito alla fine sul palco a ricevere meritati applausi per la sua prestazione solistica del prim’atto.

Alessandro Scotto di Luzio mi è parso un buon Fritz, bella voce squillante ed efficacia nel rendere l’animo del protagonista, esteriormente spavaldo e cialtrone, ma sotto-sotto romantico e sensibile. Con lui ha fatto coppia una Carmela Remigio che ho trovato un filino al di sotto del suo normale standard: certo, la sua voce è per natura assai appropriata al personaggio, ma ieri ha avuto qualche calata di troppo e un portamento eccessivamente affettato.

Convincente la prestazione di Elia Fabbian (David): voce solida e penetrante, a supporto di una felice espressività. La controfigura (!) di Roberto Baraldi (Beppe) era Teresa Iervolino, che forse non ha cantato come il primo violino ha suonato, ecco... però si merita comunque ampia sufficienza. Hanno degnamente contribuito al successo William Corrò, Alessio Zanetti e Anna Bordignon. Bene al solito (la parte non è peraltro proibitiva) il coro di Claudio Marino Moretti.    

Alla fine un pubblico lungi dall’essere oceanico ha tributato a tutti applausi calorosi, che si sono aggiunti a quelli a scena aperta dopo le arie e l’Intermezzo.
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Ecco, salutato Fritz Kobus, adesso si profila all’orizzonte la minacciosa quanto pagliaccesca figura di un suo coetaneo del secolo precedente, il barone Ochs auf Lerchenau, non so se mi spiego!

15 gennaio, 2014

La cavalleria della rosa alla Scala

 

Daniel Harding torna alla Scala per dirigervi - invece del tradizionale dittico Cavalleria-Pagliacci come fece pochi anni orsono (per la verità fu un Pagliacci-Cavalleria…) – un miscuglio di balletto e teatro, assortito con chissà quale criterio, sia di struttura che di contenuti. (O forse più che di un criterio si è trattato di un semplice default pagliaccesco, quando si trattò per Lissner di annunciare la stagione?) 

 

In effetti i due movimenti di ballo e Cavalleria si accompagnano proprio come i classici cavoli a merenda. Per par-condicio bisognerebbe infliggere agli abbonati della stagione di balletto una serata, che so, con Coppelia introdotta da Erwartung (smile!)  

 

Sia come sia, ieri sera il teatro era desolatamente semivuoto, persino nei loggioni…   

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Le spectre de la rose (anno domini 1911, esordio a Montecarlo) ha in sottofondo un curioso intreccio di rimandi a catena, graficamente rappresentato nella figura seguente:



L’ispiratore del balletto della compagnia di Djaghilev (coreografo Fokin e star Nijinsky) fu lo scrittore Jean-Louis Vaudoyer, grande amante della danza, che pensò di festeggiare il 100° anniversario della nascita – 1911 - di Théophile Gautier (del quale era pure ammiratore) con la proposta di un soggetto ballettistico incentrato su una lirica del poeta: si trattava per l’appunto di Le spectre de la rose, poesia pubblicata all’interno della collana intitolata La Comédie de la Mort et poésies diverses, finita di comporre giovedi 25 gennaio 1838 all’una di pomeriggio (come scrisse il poeta in calce al testo, aggiungendovi anche Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volonta’…)

Quel testo, probabilmente noto a Hector Berlioz (amicissimo di Gautier) assai prima della pubblicazione, fu musicato, insieme ad altri cinque della stessa origine, dall’autore della Fantastique all’interno della collana di sei Lieder intitolata Nuits d’été e pubblicata nel 1841 per voce e pianoforte (e più avanti orchestrata). I sei titoli sono (tra parentesi gli originali di Gautier):    

1. Villanelle (La villanelle rhythmique)   
2. Le spectre de la rose
3. Sur les lagunes (La chanson du pêcheur)
4. Absence
5. Au cemetière (Lamento)
6. L’ile inconnue (Barcarolle)

Chi però si aspettasse che il legame con il balletto immaginato da Vaudoyer passi da qui resterebbe deluso, chè quel legame passa sì attraverso Berlioz, ma un altro Berlioz, quello che poco dopo le Nuits orchestrerà una composizione per pianoforte di Carl Maria von Weber, vecchia di 22 anni: si tratta del walzer Aufforderung zum Tanz, che il futuro autore del Freischütz aveva composto nel 1819 come Rondò brillante (in RE bemolle maggiore) e che Berlioz, incaricato di una rappresentazione della celebre opera romantica nel 1841 a Parigi e dovendo a tutti i costi (come da disciplinare tecnico del Teatro) infilarci un balletto, aveva all’uopo trascritto per orchestra, trasponendolo nella più facile tonalità di RE maggiore. Qui un’interpretazione del venerabile Kna, che peraltro sembrerebbe una parodia in tono leggero della marcia funebre di Titurel (stra-smile!)

Proviamo ora a chiederci se esista (e se sì, quale sia) un qualunque nesso fra la trama (per così dire) del poema di Gautier e la musica di Weber-Berlioz.

Dunque: Gautier fa parlare in prima persona una rosa (meglio, il suo spettro…) che si rivolge alla ragazza che la recava sul seno la sera prima, ad una festa da ballo. Una rosa, colta ancora imperlata di rugiada, che per tutta la serata ha avuto il privilegio, invidiato persino da sovrani, di avere come tomba il solco intermammario (! gorge …Berlioz userà più pudicamente il termine seno) di una bella donna. E il suo spettro – sembra una minaccia, o è una dolce promessa? – avverte che tornerà ogni notte a danzare per colei che fu causa della sua morte. Ma a cui non chiede in riparazione né messe, né de-profundis… perchè viene direttamente dal paradiso.

Weber? Beh, anche lui ci spiega qualcosa del suo Rondò brillante: in particolare commenta battuta per battuta l’Introduzione (Moderato):

1-5: il cavaliere invita la dama al ballo
5-9: la dama risponde evasivamente
9-13: il cavaliere rinnova più pressantemente l’invito
13-16: la dama accetta
17-19: il cavaliere inizia una conversazione
19-21: la dama interloquisce
21-23: il cavaliere parla con maggior calore
23-25: i due si intendono
25-27: il cavaliere le si rivolge riguardo al ballo
27-29: la dama risponde
29-31: i due prendono il loro posto
31-35: si mettono in attesa dell’inizio della danza.

Qui inizia la danza, il rondò vero e proprio: Allegro vivace A – B-B1-B2 – A – C-C1 – D(Vivace)-D1 – B(A tempo)-B3 – A – B-B1-B4 – A(Coda).

Al termine della danza (Moderato) il cavaliere ringrazia la dama, lei ricambia e infine i due ritornano ai rispettivi posti.

Beh, difficile davvero trovare un nesso puntuale fra la poesia di Gautier e il programma di Weber, se si esclude il generico riferimento ad una festa danzante.

Evidentemente Vaudoyer, con un procedimento mentale che gli esperti del ramo definirebbero di lateral thinking, deve essere partito da Gautier per risalire a Berlioz e da qui, dopo aver scartato il Lied delle Nuits come manifestamente inadatto ad una scena di balletto, deve essere approdato alla trascrizione berlioz-iana del ballo di Weber.

In ogni caso, a parte la quasi totale gratuità del nesso testo-musica, la coreografia di Fokin (o Michel Fokine, come da sua francesizzazione) è davvero intrigante: ecco qui una sua moderna realizzazione, del tutto fedele all’originale, incluso il finale… balzo nel vuoto (da 8’40”) con cui più di un secolo fa il grande Nijinsky aveva lasciato letteralmente di stucco gli spettatori monegaschi.   
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Appena-appena più lineare fu il percorso di gestazione de La rose malade, la cui ispirazione venne a Roland Petit all’inizio degli anni ‘70 (1973 per la precisione) dalla poesia The sick rose di William Blake.

Nelle due strofette si narra di una rosa che nottetempo è stata attaccata da un virus, un microscopico verme che con il suo oscuro e segreto amore la corrode irrimediabilmente, fino a distruggerne la vita. Dietro ci si può leggere l’allegoria del rapporto fra amore carnale e morte della purezza, o addirittura la condanna puritana (siamo a fine ‘700 in Gran Bretagna…) dell’amore sessuale tout-court, che porta con sé i rischi di gravi e mortali (ed ereditarie) malattie: la sifilide, nientemeno! (beh, se è per quello anche oggi c’è qualche simpaticone che minaccia AIDS persino da un bacetto innocente…)     

La musica si era già interessata a questo testo nel 1943, allorquando Benjamin Britten lo aveva impiegato per il terzo dei sei brani (incapsulati fra un Prologo ed un Epilogo strumentali) della sua Serenade per tenore, corno solista ed archi, precisamente col titolo di Elegy, un Andante appassionato in MI minore-maggiore.

Evidentemente Roland Petit, che non poteva certo ignorare Britten, deve aver rinunciato ad impiegarne la musica per diverse ragioni: la presenza del canto ed anche la brevità (appena poco più di 4 minuti) oltre che la problematica adattabilità a farci sopra un balletto. Così si indirizzò sull’Adagietto della Quinta mahleriana, che grazie a Visconti proprio allora spopolava con il suo rimandare al morboso soggetto erotico-epidemico (sì, vabbè, colera invece di sifilide…) di Thomas MannQui un’edizione del 1978 con la leggendaria Maya Plisetskaya.
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Gli spettatori, come detto, erano pochini, ma son bastati a rovinare i due finali dei balletti, con applausi abbondantemente anticipati: la chiusura dell’Aufforderung si è quasi totalmente persa, così come è… morto anzitempo il morendo mahleriano, che il povero Harding ha continuato pietosamente a dirigere fino in fondo.  

Saldato il debito col balletto e pagato il pedaggio (erano ambientati sullo svincolo di un’autostrada!) ai latitanti Pagliacci… eccoci a Cavalleria. Nell’ormai lontano gennaio 2011 lo spettacolo non (mi) era dispiaciuto, a dispetto di qualche genialata di troppo di Martone. Il quale per questa ripresa mi pare abbia cambiato poco o nulla, quindi mantenendo anche quei particolari che francamente mi avevano lasciato perplesso, come la sequenza delle tappe percorse da Alfio la mattina del giorno di Pasqua: uscita di casa di buon’ora, sosta al bordello e quindi toilette dal barbiere (!?)

Avrei definito encomiabile la direzione di Harding se non si fosse lasciato prendere la mano in un paio di momenti topici, girando al massimo la manopola del volume, col risultato di coprire le voci (colpa anche delle voci? sì, ma ciò non scagiona il Kapellmeister…)

Santuzza è Liudmyla Monastyrska: che ha sfoggiato il suo vocione enorme, già udito tempo fa, ma con migliori risultati, in Abigaille.

Jorge De León ha la parte di Turiddu e direi che non se la cava per nulla male. Però, accipicchia, perché lo stornello in siculo glielo fanno cantare in Largo Cairoli?

Valeria Tornatore impersona una Lola senza infamia e senza lode: la sua canzoncina almeno si sente: evidentemente, a differenza di Turiddu, era appena dietro le quinte a cantarla.

Vitaliy Bilyy è un Alfio così e così, mi è parso anche un filino stonato, in certi passaggi del suo cavallo scalpitante.

Unica supersite del cast del 2011, la Lucia di Elena Zilio: il pubblico l’ha gratificata forse più degli altri.

Bene il coro di Casoni, che ha dato il suo contributo ad una serata tutto sommato – fatte salve le riserve sul palinsesto – abbastanza godibile… diciamo come tante altre di tanti teatri di provincia.