sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel
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23 agosto, 2025

ROF-2025 live (in Piazza). Messa per Rossini.

Il 46° ROF ha chiuso i battenti al teatro cittadino con l’esecuzione della Messa per Rossini. Messa che nacque da un’idea di Giuseppe Verdi, un anno dopo la scomparsa del genio pesarese.

Come già altre volte in passato, ho personalmente privilegiato l’ascolto andandomi a sedere su una delle 600 sedie (ieri occupate per una buona metà…) che il Comune dispone abitualmente in questa circostanza in Piazza del Popolo, dove lo streaming del concerto di chiusura viene irradiato su uno schermo gigante dislocato sotto il moderno palazzo del Comune. Lì, alla nobile polifonia sacra dei suoni che arrivano dagli altoparlanti, si aggiunge quella profana prodotta dall’animato chiacchiericcio di avventori di bar circostanti, dai piagnistei di qualche pargoletto o da interventi solistici canini (un pastore tedesco dalla voce di basso-baritono o una cockerina soprano di coloratura…) Ecco, una genuina mistura di sacro e profano, che di tanto in tanto non guasta.

Qualcosa invece si è guastato nel meccanismo dello spettacolo: prima dell’inizio il Soprintendente Ernesto Palacio ha voluto sottolineare l’importanza dell’evento -  era la prima esecuzione al ROF dell’omaggio dell’intera famiglia musicale italiana del 1869 al compositore che aveva così brillantemente rappresentato l’Italia nel mondo – e nel contempo ricordare e tributare un doveroso ricordo alla figura di colui che aveva fortemente voluto e poi creato dal nulla il Festival, l’indimenticabile Gianfranco Mariotti, purtroppo mancato lo scorso novembre.

Dopodichè, ecco l’annuncio dello spiacevole contrattempo: la (parziale, ma sostanziale) defezione di uno dei protagonisti, Dmitry Korchak, cui un’improvvisa tracheite (evidentemente contratta nell’ultimo viaggio di ritorno in mare da Algeri del giorno precedente…) ha impedito di interpretare il difficile Ingemisco (pertanto cancellato) confinando la sua presenza ai due soli numeri 9 e 12 della Messa. Evidentemente non si era pensato a predisporre alcuna cover dei solisti, in caso di emergenza (il bravo Brownlee, per dire, sarebbe stato degno sostituto…) Comunque sia, nel tragitto che mi separava dalla Stazione ferroviaria, passando davanti al retro del teatro (uscita artisti) ho potuto scorgere il bel Dmitry sgattaiolare quasi inosservato ed infilarsi dentro una Range Rover esagerata, targata Ticino, sulla quale, dopo averci caricato la Berzhanskaya e un’altra (a me) sconosciuta donzella, se l’è filata sgommando allegramente…  

Ecco, adesso qualcosa devo pur dire del concerto. Sul podio era Donato Renzetti, che aveva a disposizione l’Orchestra bolognese e le autorevoli voci della rampante Vasilisa Berzhanskaya, della splendida Caterina Piva, e dei due orientali Misha Kiria e Marco Mimica; oltre al menomato Korchak e al compatto Coro del teatro Ventidio Basso guidato da Pasquale Veleno.

Tutti han fatto del loro meglio per illustrare quest’opera di per sé eterogenea, che fatalmente ci diventa familiare solo all’ultimo, quando ascoltiamo il Libera me che il Peppino si portò dietro nel suo capolavoro per Manzoni. Opera che tuttavia ci mostra quanto fosse insospettabilmente ampio e fecondo il panorama degli autori italiani di quell’epoca, molti dei quali sono stati sepolti sotto il peso delle torreggianti figure di Verdi e poi da quelle dei suoi successori (Puccini, Mascagni, Giordano, …)    

Chiudo con il quadro sintetico della Messa, corredato da autori, numeri e voci:

  
Autore
Parte
Numero-Titolo
Voci
Antonio Buzzolla
I Introitus
1 Requiem
C
 
 
   Kyrie
 
Antonio Bazzini
II Sequentia
2 Dies Irae
C
Carlo Pedrotti
 
3 Tuba mirum
Br-C
Antonio Cagnoni
 
4 Quid sum miser
S-A
Federico Ricci
 
5 Recordare Jesu
S–A–Br-Bs
Alessandro Nini
 
6 Ingemisco
T-C
Raimondo Boucheron
 
7 Confutatis maledictis
Bs-C
Carlo Coccia
 
8 Lacrymosa
Cc-C
 
 
   Amen
 
Gaetano Gaspari
III Offertorium
9 Domine Jesu
soli-C
 
 
   Quam olim Abrahae
 
 
 
   Hostias
 
Pietro Platania
IV Sanctus
10 Sanctus
S-C
 
 
     Hosanna
 
 
 
     Benedictus
 
Lauro Rossi
V Agnus Dei
11 Agnus Dei
A
Teodulo Mabellini
VI Communio
12 Lux aeterna
T-Br-Bs
Giuseppe Verdi
VII Responsorium
13 Libera me
S-C
 
 
     Dies Irae
 
 
 
     Requiem aeternam
 
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Bene, archiviata l’avventura 2025, già si profila all’orizzonte l’edizione 47, che nel 2026 (11-23 agosto) ci offrirà Le Siège, La Scala, L’Occasione, Il Viaggio e il sommo Stabat.

19 settembre, 2024

La farsa di Rota chiude in bellezza il suo ritorno in Scala.

Ieri sera il Piermarini (pubblico non oceanico) ha ospitato l’ultima recita de Il cappello di paglia di Firenze, ritornatovi dopo ben 26 anni (1998, Direttore Campanella, regìa di Pizzi e Florez protagonista).

Questa produzione è affidata all’Accademia scaligera e dà quindi l’opportunità di mettersi in mostra a cantanti, coristi e strumentisti di belle speranze. E la farsa di Rota si adatta perfettamente a questo scenario.

Opera composta nel primo dopoguerra, in piena temperie da Neue Musik, da un musicista 34enne che rimase sempre testardamente legato alla tonalità, diventando quindi beniamino del pubblico normale, e bersaglio di lazzi e sberleffi da parte dei bidelli di Darmstadt. Ma in definitiva il tempo, essendo galantuomo, ha dato ragione a lui!

Donato Renzetti – non per nulla dirige stabilmente la Filarmonica Rossini di Pesaro! – è proprio il Direttore più adatto a cogliere i sotterranei (ma anche espliciti) richiami di Rota alla tradizione sette-ottocentesca, trasmettendoci tutta la freschezza e la poesia di questa partitura. E i ragazzi in buca lo hanno lodevolmente assecondato con una prestazione spumeggiante.

Lo stesso dicasi per il Coro di Salvo Sgrò, super-impegnato nelle folli peregrinazioni per Parigi e dintorni, cui è involontariamente costretto dall’imperativo categorico del povero Fadinard: trovare a qualunque costo il maledetto cappello di paglia!

Il cast vocale (che ha previsto nel corso delle cinque recite sette avvicendamenti, su 12 interpreti) era lo stesso della prima del 4/9 con l’unica eccezione di Anaide. E devo dire che tutti hanno mostrato ottime qualità vocali ed efficace immedesimazione nelle caratteristiche dei personaggi. Merito sicuramente di Renzetti e Acampa. Sarebbe ingeneroso per tutti stilare classifiche e assegnare voti, per cui mi limito – come del resto ha fatto il pubblico entusiasta alla fine dello spettacolo - ad accomunare tutti in un incondizionato elogio.
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L’allestimento di Mario Acampa - coadiuvato dalla scena rotante di Riccardo Sgaramella, assai adatta ai continui mutamenti di ambiente, dai simpatici costumi di Chiara Amaltea Ciarelli, dalle luci di Andrea Giretti e dalle coreografie di Anna Olkhovaya – sposta l’ambientazione in avanti di un secolo, portandoci più o meno all’epoca della prima rappresentazione della farsa (1955).

Inoltre, l’intera vicenda è vissuta come un sogno di Fadinard, povero e bistrattato garzone di bottega nella cappelleria E.Rota&Fils, che deve subire un paio di round di boxe contro il violento Emilio, che, come si dice in gergo, con un paio di cazzotti ben assestati lo manda nel mondo dei sogni! Dal quale si risveglierà proprio sulle ultime battute dell’opera, nelle braccia della sua amata Elena. Tutto ciò ci viene spiegato da Acampa nelle note sul programma di sala, ed esplicitato a scanso di equivoci con una grande scritta su uno striscione issato sopra la scena del ring.

Mah, diamo atto al regista di aver provato a metterci del suo, anche se la ri-ambientazione temporale e la trasposizione onirica sono merce ormai quasi abusata. La prima toglie francamente un po’ di rilevanza proprio all’oggetto del titolo, così centrale nell’ambiente retrivo della nobiltà parigina dell’800, ma francamente trascurabile e ininfluente in quello assai più aperto e disincantato del mondo di 70 anni fa, dove non era certo un cappellino a certificare fedeltà o infedeltà coniugali… Quanto al riferimento onirico, beh, va considerato che il genere farsa (al quale l’opera appartiene in tutto e per tutto) già di per sé comporta aspetti di irrealismo, inverosimiglianza, improbabilità e stranezze, senza doverle necessariamente spiegare con il ricorso al sogno. Insomma, tutto lo spettacolo girerebbe comunque a meraviglia anche senza questa impostazione originale!

E così infatti è stato: un vortice (la scena che si nuove come l’elica di un frullatore) che non dà mai un attimo di respiro e segue alla perfezione lo scorrere caotico di questa pazza giornata parigina. Scena che consente al regista anche di mostrarci dettagli che il libretto lascia solo immaginare, tipo le continue effusioni erotiche dei due amanti peccatori (Emilio-Anaide) mentre stazionano nell’appartamento di Fadinard.

Lascio da ultimo l’epocale diatriba sul famigerato verso È una negra! che il protagonista pronuncia nel terz’atto per convincere il cornificato Beaupertuis che non è sua moglie quella che staziona a casa sua. Ecco, già nella produzione del 1998 la frase era diventata È una scimmia! (il che sarebbe pure quasi peggio); ora abbiamo invece È un fantasma! Insomma, anche in Italia siamo ormai arrivati a ridicole censure…   

Ma in conclusione: una bella festa di giovani promesse della lirica, uno spettacolo godibilissimo e una produzione fra le migliori della stagione.

16 maggio, 2016

Donizetti ai confini della realtà (3)


Ieri pomeriggio alla Fenice (sala con parecchi vuoti) terza delle cinque recite de La Favorite. In sintesi: come fare di un Grand’Opéra una petite chose. Ci si è messa d’impegno principalmente la regista Rosetta Cucchi (che si serve delle scene di Massimo Checchetto, dei costumi assai curati di Claudia Pernigotti e delle luci sempre efficaci di Fabio Barettin) che ha usato testo e colonna sonora dell’opera di Donizetti per supportare un suo incredibile soggetto che, se proposto nel 1840 all’Opéra di Parigi, le avrebbe direttamente procurato un ricovero al manicomio. Ma essendo passati 175 anni (il progresso, gran cosa!) ecco che la sua straordinaria idea viene accolta come una manna dal cielo (!?)

In che consiste la pensata della Rosetta? Quando ho visto l’austero Convento di SanGiacomoDiCompostella trasformato nel caveau di una setta di monaci-stranamore del quarto millennio che ci conservano in enormi provette esemplari di flora (e fauna?) in via di estinzione e poi le donne che vengono trattate dai maschi come esseri subumani, non ho potuto far a meno di pensare a Giorgio Bracardi, il demenziale professor Spadone, farmacista di alto gradimento!

Insomma, un clichè (sette religiose dedite a riti esoterici e femmine bistrattate) che è buono per tutte le stagioni e per almeno un centinaio di melodrammi. Qui vediamo già nel prologo una specie di santo-gral-dei-poareti con il quale il fragile Fernand abbevera una schiera di novizie, ultima delle quali è la pia Léonor, che subito gli cade tra le braccia: così noi distratti non dobbiamo faticare qualche minuto dopo a comprendere la confessione del giovane al santone Balthazar.

L’Île-de-León ci dà subito l’idea della sottomissione delle donne: fanciulle completamente velate (oh, lì prima di Alphonse XI c’erano i musulmani, che lui aveva cacciato, ed evidentemente avevan fatto scuola!) in un ambiente che pare un harem collocato in una spa. E nel second’atto (all’Alcazar di Siviglia, non so se mi spiego) ecco ricomparire... le provette, anzi, che dico, un unico gigantesco provettone (6m di diametro per 10 di altezza, poichè anche il potere temporale non vuol esser da meno di quello spirituale) nel quale vengono ammassate le cortigiane del Re, che si presenta con tanto di manica e guanto da falconiere, perchè a nessuno sfugga la natura del suo ruolo! E nel quale si rappresenta anche il sontuoso balletto in onore della favorita: 2-danzatrici-2, qui mica siamo l’Opéra, dobbiam far le nozze con... le fiche secche (oh, sia detto con tutto il rispetto per la professionalità di Luisa Baldinetti e Sau-Ching Wong!) che a fine ballo esalano l’ultimo respiro e son trascinate come bestiole morte fino al proscenio dove rimangono fino a fine atto (così i poveri bocia del locale JockeyClub restano pure a bocca asciutta).

Ecco, poi il resto avviene in questi ambienti e su questa falsariga: una concettualizzazione piuttosto velleitaria, degna del più abusato Regietheater.
___    
Meglio sono andate le cose sul fronte dei suoni, dove Donato Renzetti ha solo un po’ esagerato con i decibel (ma ad onor del vero senza mai coprire le voci): per il resto ha diretto e concertato con la consueta sobrietà di gesto, ottenendo dall’agguerrita orchestra della Fenice (e dai singoli, come nel bellissimo attacco dell’atto quarto, con il dialogo fra l’organo e il violoncello) una bella resa delle atmosfere romantiche che caratterizzano questa partitura. Comunque a qualcuno non è piaciuto del tutto, a giudicare da qualche (timido) dissenso all’uscita finale. E bene si è portato il coro di Claudio Marino Moretti, che ha una parte di rilievo (monaci, cortigiani e cortigiane) in tutti i quattro atti.

Veronica Simeoni ha confermato le sue ottime doti di interprete, sul piano attoriale, e ha offerto una prestazione più che discreta su quello vocale, che ha una tessitura abbastanza impegnativa per un mezzo, andando dal LA sotto il rigo al SIb acuto.

John Osborn ha offerto il meglio di sè sui passaggi impervi (il DO# e i DO che abbondano) mentre non altrettanto convincente è stato su quelli più intimistici, resi con eccessivi ingolamenti della voce: ha ricevuto applausi a scena aperta dopo tutti i suoi numeri (singoli o in duo) e dopo la famosa Ange si pur (Spirto gentil) le ovazioni si sono protratte per un paio di minuti. Ma all’uscita singola due secchi buh dal loggione hanno probabilmente voluto sottolineare l’incompiutezza della sua prestazione.

Più che buono, a mio parere, il Balthazar di Simon Lim, voce robusta che ben si adatta al ruolo, e intonazione sempre corretta. Come già all’ascolto radiofonico, VIto Priante mi è parso poco penetrante e il suo Alphonse sa più di... Rossini che di Donizetti, anche se è giusto riconoscergli un’ottima presenza scenica e capacità di esibire sia il lato autoritario che quello magnanimo del carattere del Re.

Molto bene Ivan Ayon Rivas, che per radio non mi aveva impressionato più di tanto: invece dal vivo la sua voce squilla che è un piacere, anche nei concertati più fracassoni.

Pauline Rouillard ha una vocina che sarà anche adatta ad un ruolo di ancella servizievole, ma qui si esagera un po’ troppo con i piagnucolii, ecco. Salvatore De Benedetto ha svolto onestamente la sua particina.
___
Comunque dirò che, nonostante tutto, valeva la pena di una gitarella in laguna, anche perchè, come ha osservato il venetiofobo Amfortas che ha visto la prima, i gabbiani sono tornati in letargo.

(3. fine)

07 maggio, 2016

Léonor di passaggio in laguna (2)

 

Telegrafiche note sulla prima de La Favorite, seguita ier sera su RAI5.

Renzetti ha rispettato quasi completamente la partitura, limitandosi a un paio di sforbiciatine: ha eseguito anche (quasi) tutto il balletto del second’atto. La sua direzione mi è parsa corretta nei tempi e nel sostegno alle voci: insomma, lui è un vecchio marpione che sa come portare a casa la serata.

Fra le voci, bene (non dico benissimo, per via dell’ascolto via etere - o cavo – che può sempre trarre in inganno) Osborn e benino la Simeoni. Priante ha fatto correttamente tutte le note, ma mi è parso mancare di spessore (la parte di Alfonso è quasi da baritono verdiano...) Darei una sufficienza ampia a Lim e più risicata a Rivas e alla pigolante Rouillard. All’altezza il coro di Moretti.

Sull’allestimento della Cucchi mi limito a constatare come si adatti altrettanto bene male a Parsifal (infatti qualcuno ci ha già pensato) e pure alla Forza del destino e financo ad Aida. Ergo: come ogni letto di Procuste che si rispetti, l’unica certezza che garantisce è di fare danni al corpo del malcapitato che ci viene steso sopra.

Prossimamente le sensazioni dal vivo.

(2. continua)

05 maggio, 2016

Léonor di passaggio in laguna (1)


Domani sera la Fenice ospiterà la prima de La Favorite di Donizetti, che si potrà seguire in audio su Radio3 e in video su RAI5.

Dato che in Italia ci si è abituati alla versione nostrana (La Favorita) sulla quale nel tempo si sono purtroppo depositate incrostazioni poco salubri, è tanto più meritoria la proposta del Teatro veneziano, che ci consente (si spera) di apprezzare questa grande opera in tutto il suo splendore.

Come accadeva non di rado nell’800, la genesi dell’opera fu piuttosto travagliata e legata a bizzarre circostanze. Donizetti fin dal 1830 era partito alla conquista di Parigi, impresa che gli riuscirà alla grande, tanto da suscitare nel 1840 le ire di tale Hector Berlioz, che non esitò a parlare di autentica invasione donizettiana (...manco fossero cavallette). La strategia di conquista impiegata dal bergamasco era quella già sperimentata da Rossini e consisteva nell’entrare sulla piazza con opere italiane, al Théâtre Italien. Dove nel 1831 si rappresentò Anna Bolena; nel 1835 la prima assoluta di Marino Faliero (che gli attirò le critiche e i risentimenti pure di Bellini, cui era stata scippata l’intera compagnia di canto trionfante nei Puritani); nel 1837 Lucia di Lammermoor; nel 1838 Roberto Devereux; nel 1839 L’elisir d’amore e nel 1840 Lucrezia Borgia (che suscitò le ire di Victor Hugo). Il secondo stadio della conquista consisteva nel proporre opere italiane ma in traduzione (e adattamento) francese. Così nel 1839 il Théâtre de la Renaissance ospitò la Lucia tradotta da Alphonse Royer e Gustave Vaëz (che ritroveremo ne La Favorite) e nel 1840 l’Opéra ospitò Les Martyrs, versione francese (di Scribe) del Poliuto di Cammarano abortito a Napoli. Ultima fase della strategia di conquista: opere in tutto e per tutto francesi. Il primo esemplare fu La Fille du régiment, trionfante nel 1840 all’Opéra Comique, cui dovevano affiancarsi (per il Théatre de la Renaissance) L’Ange de Nisida e (per l’Opéra) Le Duc d’Albe.

E questi ultimi due titoli furono, con ruoli diversi, i protagonisti della rocambolesca nascita de La Favorite. Cominciamo da L’Ange de Nisida, libretto della coppia Royer-Vaëz (quelli della Lucia francese). Donizetti a Napoli aveva composto musica per un titolo (Adelaide) mai rappresentato e pensò di impiegarne parte per la nuova opera, il cui soggetto si rifaceva vagamente a quello di Adelaide, che rimandava a sua volta ad un testo settecentesco (Les Amants malheureux, ou le comte de Comminges di François-Thomas-Marie de Baculard d'Arnaud) già musicato anche da Pacini col titolo Adelaide e Comingio. La vicenda de L’Ange è ambientata nel 1400 a Napoli e nell’adiacente isoletta di Nisida, dove il protagonista Leone de Castaldi, militare esiliato, si reca per incontrarvi una donna (Sylvia) da lui follemente amata. Non sa, il malcapitato, che Sylvia è in realtà la Contessa di Linares, favorita (!) del Re di Napoli (Fernand d’Aragon) che per sposare lei vorrebbe ripudiare la moglie, in barba a tutte le bolle e scomuniche papali. Così Leone (consigliato da Don Gaspar, tirapiedi del Re) va a Napoli dove incontra nuovamente Sylvia. Quando il Re apprende del rapporto fra i due, fa imprigionare il militare dal suo tirapiedi. Questi suggerisce al sovrano un bel trucco per risolvere il problema-Sylvia: farla sposare a Leone (così da sistemare i conti col Papa) ma poi spedirlo subito in Spagna come ambasciatore, in modo da lasciare la Contessa a... disposizione del Re! Appena scopre il tranello, Leone si incazza leggermente e manda tutti al diavolo, ritirandosi in convento. Dove viene raggiunto da Sylvia che gli muore di crepacuore fra le braccia.

A fine 1839 Donizetti ha completato l’opera e si prepara a metterla in scena alla Salle Ventadour, dove operava il Théâtre de la Renaissance. Senonchè la compagnia teatrale va in bancarotta e la rappresentazione va a meretrici, lasciando il povero Gaetano con una partitura di fatto inutilizzabile. E qui passiamo al Duc d’Albe, la cui composizione langue in mezzo a diatribe continue, tanto che l’Opéra si convince a rimpiazzare il titolo con altra opera di Donizetti: il quale non crede i suoi occhi di poter ammortizzare i costi e lo sforzo profusi ne L’Ange per portarlo – dopo Les Martyrs - nel più famoso teatro di Parigi. Peccato che il capitolato tecnico del teatro preveda clausole che L’Ange non rispetta: ad esempio ci manca un balletto (!) E poi il soggetto è considerato troppo debole, l’ambientazione napoletana troppo angusta e provinciale... e c’è anche da accontentare un tale Eugène Scribe, restato senza il su Duc; non solo, ma la protagonista sarà la Rosine Stoltz (favorita del Direttore dell’Opéra, Léon Pillet!) che è un mezzosoprano, per la quale andrà obbligatoriamente aggiustata la parte (di soprano) di Sylvia. E allora ecco la soluzione: si imbarca anche Scribe al fianco di Royer-Vaëz (ma gli si affideranno... i balletti!) e tutti sono incaricati di cavare da L’Ange un soggetto più degno del teatro; quanto a Donizetti, si darà da fare per adattare e completare la parte musicale di conseguenza.

Ecco quindi nascere La Favorite. L’ambientazione retrocede di un secolo (1300) e si sposta in Spagna, dove viene scovata una storia che vagamente richiama quella de L’Ange: il Re di Castilla-y-Leon (Alfonso XI) ha una favorita (Leonor de Guzman) per sposare la quale ripudia la moglie. Per la verità, la somiglianza con la trama de L’Ange è tutta qui: sì, perchè il buon Alfonso storico abbandona la moglie Maria (figlia del Re di Portogallo) e i due figli avuti da lei per mettersi con la sua Leonor da cui ha non meno di 10 figli! Invece ne La Favorite, accanto al Re Alphonse, vengono introdotti personaggi dall’opera preesistente, così ecco Fernand (ex-Leone) innamorato di Léonor; ecco Don Gaspar, tirapiedi infido del Re; ecco poi il nuovo arrivato Balthazar, Superiore del convento di SanGiacomo di Compostella; e infine Inès, confidente di Léonor. Ed anche la trama del dramma viene ripresa – con maggior corposità e con parecchie differenze - da quella de L’Ange: la scena iniziale al convento è nuova, come la figura del Superiore; il matrimonio Fernand-Léonor non è un trucco del Re, ma un suo atto dove si mescolano magnanimità e risentimento; il voltafaccia di Fernand è conseguenza del disonore da cui si sente investito il poveraccio al momento di conoscere la vera identità della sua amata. Persino i luoghi dell’azione si distanziano assai: invece di Napoli-Nisida (oggi si potrebbe fare a piedi!) qui c’è addirittura un’andata-e-ritorno che attraversa da nord a sud l’intera penisola iberica (Compostella-Cadice, via-Siviglia) di quasi 3.000 Km!

Sul piano musicale, Donizetti recuperò buona parte de L’Ange, completandolo poi con le aggiunte e modifiche del caso. In particolare adattò per il grande Gilbert-Louis Duprez l’aria Un ange, une femme inconnue, dove si tocca il DO# sovracuto. Altre parti della musica de L’Ange (e della precedente Adelaide) vennero poi utilizzate dal compositore in opere successive, come ha esaurientemente spiegato William Ashbrook nel suo fondamentale testo su Donizetti.

Anche Richard Wagner (che odierà Donizetti per pura invidia, la stessa che manifesterà sempre verso Meyerbeer) entrò nella squadra che lavorò per l’opera, producendone una (peraltro pregevole) trascrizione per voce-piano, oltre che brani trascritti per trombetta!
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Ma le disavventure dell’opera non finiscono qui. Come sempre, essa fu subito importata in Italia, quindi tradotta e pure re-intitolata, ma anche variamente inquinata, e non solo per compiacere le diverse censure. Così si ebbero a Padova Leonora di Guzman (1842, Francesco Jannetti) poi alla Scala Elda (1843, Calisto Bassi, traslocata in... Siria!) ripresa alla Fenice nel 1847; ed anche una Daila (1860 a Roma). Fra le modifiche più ridicole basterà ricordare come Baldassare (Superiore a Compostella) diventa padre di Fernando e pure della Regina (che storicamente era figlia del Re di Portogallo...) e così Alfonso e Fernando diventano cognati a loro insaputa (e il cognato del Re resta all’oscuro delle tresche di costui con Leonora!!!) Mamma mia, e pensare che l’opera in italiano spopolò per tutto il secolo scorso (e la traduzione di Jannetti con Alfonso e Fernando cognati fu impiegata da Ricordi per una ristampa dello spartito addirittura nel 1960!) Soltanto nel 1999 Fausto Broussard ha prodotto una versione ritmica in italiano più rispettosa dell’originale francese (qui da pagina 42).
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Come per altri casi analoghi, è invalso l’uso di tagliare i balletti che caratterizzano i grand-opéra. Ma dalla locandina del Teatro, che riporta la presenza di movimenti coreografici e di due danzatrici, si può ipotizzare che almeno una parte di essi venga riaperta, visto che il Kapellmeister Renzetti già li eseguì integralmente in questa edizione del ’91 a Bergamo. Come sempre impeccabile, per contenuti e tempestività, il programma di sala, già disponibile in rete.  

(1. continua)

19 agosto, 2015

Il ROF-36 live (2): Messa e Inganno

 

Ieri doppia razione di ROF, con spola fra Adriatic Arena e Teatro Rossini, in una Pesaro ritornata, ma pare solo momentaneamente, quasi estiva.


Nel pomeriggio il palazzone-vongola era un barile di… sardine (evidentemente basta la sigla JDF per fare il pieno!) per un programma sacro-profano incentrato, nella prima parte, sulla rediviva Messa di Gloria e nella seconda su due composizioni giovanili per soli e coro. Avendo Roberto Abbado dovuto rinunciare, essendosi rotto… (un tendine d’achille) è toccato a Donato Renzetti (già titolare nella Gazza) guidare la Filarmonica Rossini (di cui è fresco Direttore principale) e il Coro di Bologna di Andrea Faidutti, che hanno accompagnato il quintetto di voci soliste: tenori Juan Diego Florez e Dempsey Rivera, soprano Jessica Pratt, contralto Viktoria Yarovaya e basso Mirco Palazzi.

Dapprima, quindi, la Messa corta, che vide la luce un lontano venerdi 24 marzo del 1820 (festa della Madonna dei Dolori) nella Chiesa di SanFerdinando a Napoli. Così ne ricordò l’esecuzione un rossiniano sfegatato, uno che oggi non si perderebbe un solo minuto dei ROF (da: La vie de Rossini di Stendhal, capitolo XXXVII, ultimo capoverso):

Avemmo a Napoli, nel 1819 credo, una messa di Rossini, che impiegò tre giorni a dare l'apparenza di canti di chiesa ai suoi motivi più belli. Fu uno spettacolo delizioso; noi vedemmo passare successivamente sotto i nostri occhi, e con una forma un po' differente, che dava del frizzante ai riconoscimenti, tutte le arie sublimi del grande compositore. Un prete gridò serioso: Rossini, se tu bussi alla porta del paradiso con questa messa, malgrado tutti i tuoi peccati, san Pietro non potrà rifiutarsi d'aprirti!

C’è chi mette seriamente in dubbio l’attendibilità di questa testimonianza del peripatetico Marie-Henry Beyle. E c’è chi non digerì per nulla la Messa, come un musicista crucco protestante (!) a nome Carl Borromäus von Miltitz, che deplorò il suono dell’organo durante l’intera esecuzione, con l’orchestra che suonava contemporaneamente e Rossini che chiedeva dei fortissimo ora ad uno ora all’altro degli strumentisti, con conseguente immaginabile dissacrazione della santità del luogo. (Insomma, un… inganno di messa!)

In effetti dobbiamo ammettere che più che una Messa par di ascoltare un melodramma, e qua e là compaiono motivi che richiamano opere precedenti. Sergio Ragni, sul programma di sala, ci ricorda dapprima un imprestito da Bianca e Falliero nel Laudamus; poi nel Domine Deus una chiara scopiazzatura, persino nella tonalità di MIb, del mirabile motivo di Se tu m’ami, o mia regina (Aureliano, scena seconda). E infine, proprio in apertura del Gloria, il tema che tornerà 6 anni più tardi nel parigino Siège de Corinthe (sinfonia e finale atto II): tema che non è nemmeno rossiniano in origine essendo mutuato da Atalia di Giovanni Simone Mayr, che forse lo aveva a sua volta ripreso da un Salmo di Benedetto Marcello (della serie: le combinazioni dei 12 suoni della nostra civiltà non sono infinite!) Di più: il finale fugato pare proprio essere stato composto dallo specialista in contrappunto a nome Pietro Raimondi, cui Rossini chiese aiuto per la bisogna.

JDF ha subito messo tutti in apprensione: finito di cantare il Gloria, proprio mentre Jessica Pratt si alzava per il Laudamus, lui abbandonava il palco! Fortunatamente per rientrarvi giusto in tempo per il suo successivo Gratias agimus. Dalla sua cera, a dir la verità, sembrava uno cui sono rimasti sullo stomaco gli spaghetti allo scoglio, ecco. Come abbia potuto continuare a cantare all’altezza della sua fama è per me un miracolo. A lui e alla Jessica si è aggiunto su un gran livello Mirco Palazzi, mentre un gradino sotto è rimasta la Yarovaya. Senza voto Rivera, che ha una parte invero minuscola, di sola seconda voce del tenore principale nel Christe. Discreta la Filarmonica Rossini e possente il coro misto bolognese di Faidutti. In fin dei conti, un’esecuzione di tutto rispetto.
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Dopo la Messa del Rossini maturo, ecco due opere del Rossini poco più che ragazzo. Un Rossini fantastico, anche se ancora piuttosto acerbo, come dimostra l’enfasi sparsa a piene mani sulle partiture, ricche di dinamiche spinte all’estremo (è un po’ come il primo Verdi della famosa vanga!)

La cantata Il pianto d'Armonia sulla morte d'Orfeo (per tenore, coro maschile e orchestra, testo del gesuita Girolamo Ruggia) è del 1808 (di fatto una prova di Liceo, eseguita giovedi 11 agosto di quell’anno, a Bologna).

Subito dalla Sinfonia si avverte un’ambientazione che fa pensare a Cherubini o a Gluck, o anche a Haydn, con l’introduzione lenta (DO minore e sesta napoletana) e poi con l’esposizione di un motivo serrato e protervo, che percorre in discesa e risalita l’accordo perfetto di DO minore, e si sviluppa poi nella relativa MIb e sulla sua dominante SIb. Segue un temino nell’oboe in MIb. Poi il tutto ripetuto in forma variata e con modulazione a SOL minore e chiusura in diminuendo che anticipa (come ci ricorda ancora Sergio Ragni) il passaggio che nel Barbiere chiude il temporale.

Il SOL torna dominante del DO maggiore sul quale entra il coro con una prima quartina (Quale i campi rodopei) ed una seconda (Perché i rai discioglie in pianto) sulla dominante SOL, da cui si torna a casa sul DO.

Qui entra il solista (Armonia) con un mirabile recitativo accompagnato (Sparse il lacero crine) in FA minore, poi modulante a maggiore e quindi alla sottodominante SIb. La conclusione riporta la tonalità al DO minore per introdurre l’aria (Dalle spietate furie) che vira subito alla relativa MIb maggiore, con temporaneo passaggio sulla dominante SIb.

Segue un nuovo recitativo accompagnato (Ma tu che desti già sì dolce suono) introdotto da uno splendido assolo del violoncello, passato bruscamente a SOL maggiore, sulla quale tonalità si muove il languido canto del solista. Poi si modula alla sottodominante DO, con un nuovo intervento solistico del violoncello prima della chiusa della voce.

Infine l’aria con coro in DO maggiore introdotta da un romantico e virtuosistico assolo del corno (o come ieri, del più facile clarinetto). Dopo la prima quartina, ecco la seconda (Ed Armonia) nella dominante SOL, poi si torna a DO, il tempo si agita e il corno (non ieri…) esplode in un fantastico virtuosismo mentre entra il coro (Finchè frondi e fior del Rodope) subito seguito dal solista (Finchè in pregio l’arti armoniche) che per gli ultimi due versi della sua quartina (Ogni cor pietoso, e tenero) modula a LAb maggiore, prima del trionfale ritorno a DO.

Ecco, per essere opera di un 16enne, non c’è davvero male (sì, Rossini non fu un bambino prodigio come il suo idolo Mozart, ma insomma…)  

Qui un’interpretazione del prossimo Direttore artistico del ROF, Ernesto Palacio (1990 a Bratislava).

Dopo lo spavento nella Messa, JDF (cui la Pratt ha lasciato l’onore dell’ultima parola - inversione dell’ordine delle cantate rispetto al programma) non ha tradito le aspettative delle falangi di suoi fan arrivati da ogni dove.
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Subito prima, La morte di Didone, scena lirica per soprano con cori maschili (testo dalla Didone abbandonata di Metastasio) che è del 1810 (stessa dedicataria del Demetrio, Ester Mombelli) anche se fu eseguita parecchi anni dopo (sabato 2 maggio 1818, Venezia).

Qui il birichino (che rima con Gioachino…) Rossini ha già imparato alla perfezione il trucco degli auto-imprestiti, così l’introduzione alla scena è presa quasi di peso dalla Sinfonia del Pianto

Una possente scarica del timpano introduce il coro che canta Misera, sventurata! Didone abbandonata! riprendendo di fatto l’atmosfera di DO minore della sinfonia, da cui mutua anche il successivo temino in MIb maggiore, sui versi L’amante tuo spietato alfin se ne partì, prima di tornare al DO minore per ripetere la quartina.

Un’altra raffica del timpano introduce il recitativo accompagnato di Didone (Tutto è orror, tutto è morte) dove torna il tema principale della sinfonia (Infido, sconoscente!) Il recitativo prosegue con modulazioni a SIb e persino a RE maggiore (!) prima del ritorno al MIb sul quale la protagonista canta la sua prima aria: Se dal ciel pietà non trovo, introdotta e poi accompagnata dall’accorato suono del corno inglese e dalla cadenza dei violini, uno stilema in 3/4 che ritroveremo spesso nei lavori di Rossini. Il coro interviene a contrappuntare il canto del soprano il quale, dopo un concitato crescendo supportato da un ostinato tonica-dominante, va a toccare (opzionalmente, cosa che la Jessica peraltro non ha fatto) anche il MIb sovracuto e poi chiude in bellezza sulle parole Tradita dall’amor!

Ma è una falsa chiusura, chè la scena riprende, con il coro che invita Didone a fuggire (Fuggi, Regina, fuggi!) su un concitato DO maggiore. Segue un nuovo recitativo accompagnato di Didone (Ingiustissimi dei!) che si muove dal DO al SOL, al RE e chiude sul MI, dominante del LA minore su cui si apre l’aria conclusiva (Per tutto l’orrore) dove la tonalità vira al DO (La smania, il furore). Abbiamo ora la ripetizione (tutta in LA minore) degli stessi versi.

Quindi riecco il coro (Più scampo non ci resta) che ha modulato a FA maggiore, sulla quale tonalità Didone riprende il suo canto (Ch’io ceda ad un tiranno?) contrappuntata dal coro (Di te, di noi pietade). L’ultima esternazione di Didone (Enea, l’ingrato) resta sul FA fino al ritorno del canonico DO (Precipiti Cartago) sul quale il soprano sale fino ad un ultimo sovracuto (Il cenere di lei) prima della cadenza orchestrale.

Ecco come l’ha interpretata nel 2010 un’extracomunitaria dell’est che qui a Pesaro si è direttamente… accasata, non proprio come badante (smile!) ma assumendo il difficile ruolo di nuora del sovrintendente del ROF.

Ieri l’imponente Jessica ha offerto una prova buona ma non proprio eccellente, mostrando difficoltà a farsi udire nelle note gravi; comunque per lei grandi applausi e ripetute chiamate.
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Il tempo per una piadina (!) e poi trasferimento al Teatro Rossini (non certo affollato come l’arena) per L’Inganno felice, per la quale farsa il ROF ripropone dopo 21 anni l’allestimento di Graham Vick.

 

Spettacolo assai curato nei dettagli (Vick era già qualcuno nel 1994!) e, come è caratteristica somatica del regista inglese, arricchito da (qui pochi e per fortuna innocui) tocchi di ideologia socialistoide, del tutto inventati rispetto al soggetto originale di Giuseppe Foppa.


Così una vicenda – ambientata casualmente nei pressi di una miniera - che più personale e privata non potrebbe essere (antefatto: la moglie del Duca invano insidiata dal di lui braccio-destro il quale per vendetta la denuncia al marito ottenendone la condanna) diventa per Vick l’occasione per ricordarci che un tempo anche i bambini venivano mandati a lavorare in miniera: così ne vediamo uno in particolare (con berrettino rosso vivo di ordinanza) che diventa quasi protagonista muto (tipo la gazza di Michieletto…) per movimentare un po’ la scena.

La recitazione è curatissima, anche laddove ci presenta gratuiti comportamenti di alcuni personaggi, tipo: Batone che dà una moneta al ragazzino dal berretto rosso per toglierselo di torno, moneta che però il poveretto è costretto (dal padre, si presume) a restituire. Morale? Mah, forse ci viene ricordato che il proletariato non vuole elemosine, ma parità di diritti… La stessa Nisa dapprima – da povera ex-nobile - insegna premurosamente a leggere e scrivere al minator-ino di cui sopra, ma alla fine, tornata in sella (che rima con Isabella) lo abbandona alle sue umili mansioni di pelar patate; poi impedisce al marito di lasciare un doveroso obolo al suo salvatore-protettore Tarabotto. Della serie: un nobile è socialmente utile ed accettabile solo fin quando è… decaduto!

Evabbè, rispetto alle radicali rivisitazioni di Mosè e di Tell, qui siamo ancora sul sopportabile. Vengo ora a ciò per cui (Vick permettendo) un melomane si reca a teatro.

L’Orchestra è la Sinfonica Rossini (da non confondersi con la Filarmonica, protagonista della prima metà del pomeriggio): orchestra che al ROF è ormai di casa da qualche anno e che si conferma di buon livello in tutti i reparti. Alla sua guida Denis Vlasenko, tornato qui dopo 7 anni (quando diresse un Reims dell’Accademia) che mi è sembrato davvero autorevole e attento a tutti i dettagli della partitura.

Il cast dei 5 personaggi è abbastanza ben assortito Per cavalleria parto da Mariangela Sicilia, tornata al ROF dopo due anni (ebbe parti in Italiana e Donna del Lago nel 2013): voce squillante e ben impostata, ha confermato alle mie orecchie la buona impressione già fatta alla prima radiofonica. Cito su tutto il resto l’aria (che in passato veniva spesso sostituita da altra musica) Al più dolce e caro oggetto, dove c’è fra l’altro una fugace citazione (auto-imprestito) dalla Didone udita nel pomeriggio (Ah, quanto pena un’anima).

Fra i quattro signori che contornano la protagonista i più convincenti sono stati i due bassi: Davide Luciano (già segnalatosi nell’Italiana del 2013) che mi sembra ulteriormente cresciuto e che è stato un Tarabotto poco meno che perfetto, per chiarezza e profondità della voce e sensibilità interpretativa; accanto lui Carlo Lepore, ormai veterano e beniamino del ROF, che ha ben ricoperto il ruolo semi-serio di Batone. Davvero encomiabile – in particolare – il loro duetto (Va taluno mormorando) accolto da un interminabile applauso.

Un filino al di sotto della media il Bertrando di Vassilis Kavayas, apparsomi poco intonato e dall’espressione piuttosto piatta e monotona: anche il pubblico ha avuto per lui solo applausi di stima. Personalmente lo ricordavo meglio dall’Armida dello scorso anno. Giulio Mastrototaro era il cattivone Ormondo: una parte (relativamente) leggera, con un’aria piuttosto breve (Tu mi conosci, e sai) che è stata comunque sostenuta con pieno merito.

In definitiva, una simpatica riproposta che il pubblico ha mostrato di gradire assai, ripagando tutti di applausi e consensi, dopo ciascun numero e alle uscite finali.

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