XIV

da prevosto a leone
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12 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#12

L’ultima Orchestra Ospite del Festival è la Toscanini di Parma, guidata da Omer Meir Wellber (al suo esordio in Auditorium) che ci ha presentato un concerto già dato nei giorni scorsi a Como e a Parma (quindi ormai… collaudato).

Vi troviamo le tre principali componenti della produzione mahleriana esplorate dal Festival: Sinfonia, Lieder e orchestrazioni di musica altrui (Schumann, nella fattispecie).

Si è quindi aperto con l’Andante-Adagio, unico movimento portato (quasi) a compimento della Decima, che Mahler mise sulla carta nell’estate del 1910 a Toblach, la sua ultima estate e per di più quella più dolorosa (almeno quanto quella del 1907 a Maiernigg): perché vi arrivò la terza martellata che il superstizioso Mahler aveva cancellato dal finale della sua Sesta (anzi, potremmo dire fosse in realtà la quarta martellata): il tradimento di Alma! Un colpo che peraltro il compositore, riavutosi dallo choc della sorpresa, incassò con grande dignità, ammettendo le sue colpe (inadempienze ai doveri del letto matrimoniale, per essere precisi) nei riguardi della moglie e correndo fino a Leiden per farsi aiutare da Freud a rimediare alla catastrofe. 

Ed in effetti Alma decise di rimanere stoicamente al suo fianco, mentre il marito arricchiva gli schizzi della nascente Sinfonia costellandoli non già di note, ma di sfoghi, invocazioni, imprecazioni e lamenti. Mahler si dovette poi occupare della trionfale prima dell’Ottava a Monaco e infine partì per NewYork, dove imperterrito continuò a lavorare alacremente con la NYPO, dirigendo un concerto dietro l’altro, fino a che… il cuore già da sempre malmesso fu attaccato dallo sbifido virus che provocò la fatale endocardite. 

E della Sinfonia Mahler lasciò quindi solo lo scheletro (ma una specie di Frankenstein, senza una chiara indicazione di quali fossero le braccia, le gambe, il torso e il bacino, tanto per dire…) Lo stesso movimento completato doveva essere presumibilmente il secondo dei cinque sbozzati in Particell (1-2-3-4-5 righi musicali al massimo) e arrivati a noi dalla moglie Alma che li rese pubblici nel 1924.

E persino su questo movimento giuntoci in manoscritto nella sua interezza (orizzontale e… verticale) possiamo star tutt’altro che certi che sarebbe rimasto proprio così se l’Autore avesse avuto il tempo materiale per ulteriormente rivisitarlo e rifinirlo, come fece per tutte le sue Sinfonie precedenti.

Ne è prova che persino curatori diversi della pubblicazione di questo Adagio non hanno concordato fra loro. Ad esempio, nell'ormai lontano 1964, proprio nel periodo in cui Deryck Cooke – Alma permettendo - stava facendo eseguire la sua prima versione dell'intera sinfonia, Erwin Ratz, nella sua prefazione all'edizione Universal del solo Adagio, scriveva papale-papale: 

Ciò che sta scritto su questi fogli (i manoscritti mahleriani, ndr) era completamente intellegibile dal solo Mahler, e nemmeno un genio sarebbe capace, da questo stadio di sviluppo del lavoro, di divinare l'approccio alla sua forma definitiva. 

Ma questa sentenza - un grosso siluro a Cooke - veniva pubblicata proprio nella prefazione all’Adagio, che Ratz aveva a sua volta editato (come risulta dal corposo Revisionsbericht…) in quanto incompleto la sua parte, e in base alla considerazione che ormai quel movimento era entrato nel repertorio di tutte le orchestre, e tanto valeva dargli una veste, per così dire, ufficiale, con la benedizione della Internationale Mahler Gesellschaft di Vienna.  

Se si confrontano le due partiture dell’Adagio – di Ratz e Cooke – si possono rilevare differenze di varia natura: alcune sono bizzarrìe belle e buone, come notare un FA bequadro (Cooke) invece di un MI diesis (che Ratz non si accontenta di indicare in chiave, ma scrive esplicitamente davanti alle note); in altri casi troviamo indicazioni agogico-dinamiche divergenti (dove Cooke è assai più ricco ed esplicito di Ratz); infine abbiamo differenze non da poco nell'orchestrazione, dove ad esempio Cooke impiega flauti, oboi, clarinetti e tromboni a4 (mentre Ratz li limita a3), prevede clarinetto basso e controfagotti (assenti nella versione Ratz) e a volte ispessisce il suono aggiungendo oboi e flauti sopra gli ottoni (peraltro sempre in modo distinguibile rispetto al contenuto del manoscritto).

Certo, ad un ascolto superficiale son differenze magari impercettibili, che non cambiano poi di molto la sostanza, ma che testimoniano dell'incompletezza del lavoro mahleriano, che dobbiamo accontentarci di immaginare, più che di assaporare compiutamente.

Meir Wellber – a giudicare dagli strumenti messi in scena – deve aver dato ragione a Ratz. Comunque, Ratz o Cooke, sempre Mahler é… e il Direttore israeliano e la Toscanini lo hanno valorizzato al massimo, facendo emergere i tratti più espressionisti della partitura (che si muove ormai ben oltre i confini della tonalità) insieme alla nobile cantabilità del tema principale. 
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Ancora Mahler con i cinque Rückert-Lieder (qui alcune mie brevi note sui contenuti) interpretati da quel Christoph Pohl che avevamo giorni fa ammirato ed applaudito, con la SantaCecilia, nei Lieder dal Wunderhorn.

Dato che Mahler non indicò alcuna tassativa sequenza di esecuzione, Pohl ha comprensibilmente posto in coda alla sua performance i due Lieder più corposi e di maggior effetto: Um Mitternacht e Ich bin der Welt. Per lui scroscianti applausi, ovazioni e ripetute chiamate.
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Ha chiuso la parte ufficiale del concerto la Quarta di Schumann rivisitata da Mahler. Le differenze rispetto all’originale che anche un non esperto può individuare sono: la mancanza del da-capo dell’esposizione nel movimento iniziale (ma questo è ciò che può fare chiunque…) e i rinforzi dei corni a dare splendore ad alcuni passaggi topici.

Meir Wellber l’ha diretta a memoria, non negandosi/negandoci suoi personali tocchi interpretativi, soprattutto a livello agogico, che hanno impreziosito la Sinfonia ben al di là del valore aggiunto mahleriano.

Alla fine il trionfo (applausi ritmati, urla) non è mancato, cosicchè è stato ricambiato dal mascagniano Intermezzo dalla Cavalleria.    

22 febbraio, 2012

L’Aida alla Scala: continua il calvario


Ieri sera terza rappresentazione di Aida in un Piermarini abbastanza gremito e che, fino alla fine, era parso come il proverbiale MET, dove si applaude sempre (quasi) tutto e tutti. Poi è ri-scoppiato il putiferio già udito per radio alla prima.

Dopo la quale, la critica (ufficiale e ufficiosa) non si era stranamente divisa sul giudizio sui cantanti – tutti da protestare con richiesta di risarcimento, pareva – ma su chi dava tutte le colpe del disastro al povero ebreo errante Wellber e chi lo difendeva a spada tratta, puntando minacciosamente i missili della IDF contro quelle terribili armi di distruzione di messa (in scena) costituite dai buu del loggione, ma soprattutto da cerbottane e archibugi che alcuni cecchini annidatisi in buca avrebbero impiegato per colpire a tradimento l'impavido Kapellmeister

Cito letteralmente due (autorevoli?) giudizi – apparsi dopo la prima - sul Maestro e chiedo (e mi chiedo): in che mondo viviamo? 

Scriveva tale Carla Moreni sul Sole24Ore: Wellber in questa Aida della Scala rappresentava l'unico in locandina veramente da applaudire: per il dominio tecnico nel rapporto buca-palcoscenico, per la quantità di idee musicali in orchestra, per la tensione teatrale complessiva. Gli si poteva rimproverare di non aver forgiato in maniera unitaria i cantanti, che andavano ognuno per la sua strada e con una propria lingua, ma non certo di non saperli accompagnare, con duttilità e sicurezza, senza mai errori. A suo agio con il lessico dell'ultimo Verdi, diabolico nel passaggio repentino dalla massa debordante al dettaglio minuto. Il terzo atto, restituito nella sonorità notturna, increspato nelle tinte laminate degli archi, drammatico nello sbalzo degli accenti spostati, trapuntato di mille finezze, era un autentico pezzo di bravura, reinventato col viso aperto dei trentenni.

Lo stesso direttore, nella stessa serata, era così giudicato dal barcacciaro Stinchelli: Insalvabile, per quanto riguarda la concertazione, Omer M.Wellber: una direzione pessima, trasandata, moscia, demotivata. (…) A fronte di un simile s-concertatore, che definire "incapace" è forse un delicato eufemismo, la barca non poteva che affondare.

Insomma, anche i paludati si sono lasciati andare ad epinici ed epicedi tipici da tifoseria, e quindi costituzionalmente poveri di realismo e sobrietà. Perché Wellber – parliamoci chiaro – non è di certo (ancora quantomeno…) il Toscanini risorto, ma nemmeno è uno salito sul podio ieri mattina per la prima volta.

Poi c'è la critica ruspante, che ben si configura come i classici ultras-folgore vs commandos-tigre. Questi alcuni tipici commenti:

Wellber non sa tenere insieme l'orchestra, tuonano gli ultras-in-kefiah. Sta lì solo perché raccomandato da Barenboim e dai banchieri ebrei!

Manco per niente - replicano le tigri - basta vedere come ha tenuto insieme le orchestre di Valencia e di Bassano del Grappa! Sono i Trepper che fanno schifo!

Ma allora – urlano i folgorini – com'è che gli schifosi Trepper quando arriva tale Harding si trasformano nella bella copia dei Berliner?

Perché sono invidiosi di chi fa carriera in fretta, soprattutto se ebreo, inveiscono i commandos

Beh, direi che il paragone calcistico (compreso qualche tipico flavour razzista) torni proprio a pennello, poiché orchestra e direttore sono esattamente – dal punto di vista dello sviluppo dei rapporti interni ai gruppi organizzati - come la squadra e l'allenatore. Da che mondo è mondo esistono allenatori che fanno sfracelli con la squadra A, mostrando di saperla tenere in pugno con assoluta sicurezza… per poi cadere miserevolmente quando chiamati ad allenare la squadra B, che magari sulla carta sembra migliore della A. Tale Marcello Lippi vinse n trofei con la Juve ma poi – passato all'Inter - dovette dileguarsi col favore delle tenebre per sfuggire ad un linciaggio. Ed è la stessa persona che ha poi vinto un mondiale, mostrando di saper tenere insieme una squadra-di-prime-donne-isteriche, per perderne schifosamente un altro dove si era portato dietro solo i più scodinzolanti yes-men del momento… E nel business, quante volte capita che un CEO porti alle stelle la Corporate-X e poi, assoldato a peso d'oro dalla Corporate-Y, la porti invece sull'orlo della bancarotta? 

È vero che nel calcio (come in quasi tutti gli sport) i risultati sono determinati in modo abbastanza oggettivo, e cioè dai gol fatti e subiti (oltre che anche dal culo, dalla sfiga, dai pali, dai gol-in-fuori-gioco e dall'arbitro-venduto) mentre all'opera si vince o si perde a seconda di come è composto il pubblico giudicante (5% del totale, a dir tanto) e di quanto fiato ha da spendere… però, insomma, il clima che si crea fra squadra e allenatore un minimo di importanza ce l'ha. Ergo, se fosse vero, come si dovrebbe purtroppo dedurre da ciò che si è letto su giornali e web, che fra la squadra dei Trepper e l'allenatore Omer non corre buon sangue, la regola vorrebbe che fosse quest'ultimo a togliere il disturbo, non foss'altro perchè è uno solo da sostituire invece di 18-20 (nel calcio… qui, addirittura, invece di 80-100!) E quindi il presidente del club meneghino (nella fattispecie tale Stefano Lisseneri) non dovrebbe far altro che convincere il suo facpocum-scaligero a rimandare il pupillo Wellber ad allenare il Valencia e il Chievo. In attesa che, chissà – proprio come sta accadendo al mitico Harding, inizialmente vituperato e irriso – fra qualche anno anche Omer possa tornare alla Scala da profeta… 

Ma siamo poi sicuri che il problema stia lì? Torniamo a ieri sera. Intanto, di cerbottane e archibugi in buca non si è vista l'ombra. Poi, durante la recita solo applausi (scarsi, ma chiari); anche per il maestro ai rientri. Poi, chiusa la pesante lapide sui due poveri disgraziati Aida-Radames, ecco ciò che non ti aspetti: uscita collettiva dei cantanti (manca il povero dulcamara Maestri, morto nel frattempo, che si è visto negare la singola alla fine del terz'atto per mancanza di… stimoli) e applausi convinti. Uscita collettiva di cantanti, più Wellber e Casoni e – fra convinti applausi – un coro di buu e di vergogna! in particolare dal secondo loggione! Ohibò, a chi diretti? Dovremmo capirlo alle successive uscite singole: per tutti i cantanti chiari e forti applausi; poi esce Wellber e si prende, fra gli applausi, solo qualche buu rachitico… L'unico a non uscire da solo è Casoni: ergo, si dovrebbe dedurre che i vergogna! erano tutti e solo per lui (e per il coro)? Mi parrebbe francamente assurdo, quindi… che dire dell'arbitro
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Adesso però, anche se so benissimo che non frega nulla a nessuno, devo esprimere – per dignità verso me stesso - la mia impressione su questa recita. In assoluto la giudicherei discreta: nel cast dei cantanti, nel coro e anche nell'orchestra e nel direttore. Che vuol dire in assoluto? Che non ho rilevato errori marchiani, stonature clamorose, abissali scollamenti fra buca e palco, né attacchi fuori tempo. Ma basta questo, alla Scala? Ecco, non me ne vogliano i bocia, ma questo risultato (forse) basta dalle parti di Bassano del Grappa. La Scala deve dare di più, non foss'altro perché chiede di più, molto di più, e a tutti: pubblico, istituzioni e sponsor.
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PS-1: a rincarare la dose è arrivato anche il papà (anzi, il… bisnonno) di questo allestimento, giudicato irriconoscibile! Ma Zeffirelli non se l'è presa col povero Marco Gandini (colpevole di… qualche bacetto di troppo fra Radames e Amneris) bensì con il cast e la produzione musicale in genere, che avrebbero rovinato la reputazione della sua mirabile creatura (!)
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PS-2: da abbonato alla stagione d'opera ricevo ieri una lettera - su carta e in busta rigorosamente giallo-Scala - che mi avverte con profonde scuse del default di Semyon Bychkov per la prossima FroSch… ecco, questo sì che è Customer-Relationship-Management! (Invece, sulla mini-locandina cartacea, è scritto che quella di ieri sera era la quarta rappresentazione: forse la terza l'han fatta sul ponte di Bassano?)

 

31 ottobre, 2011

Wellber alla Scala per DonGnocchi

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Serata alla Scala per un concerto in favore della Fondazione Don Carlo Gnocchi. Sul podio Omer Meir Wellber e al pianoforte Emanuel Ax, per un programma di gran tradizione, ulteriormente impreziosito in apertura dal pucciniano quartetto denominato Crisantemi (ovviamente qui in versione per orchestra d'archi). Una delicata miniatura, anno 1890, che pochi anni dopo Puccini impiegherà nella sua Lescaut (3° atto, scena di Manon e DesGrieux alla finestra del carcere e 4° atto, morte di Manon).

Emanuel Ax si è cimentato con il beethoveniano Imperatore, accolto con grandi applausi già dopo l'iniziale Allegro e naturalmente alla fine. Prestazione apprezzabile la sua, completata con un bis chopiniano, in onore alla sua Polonia.

Poi Ciajkovski e la sua Quarta, che rischia spesso di trasformarsi in una stomachevole mappazza, se non maneggiata con cura. Cosa che mi è parso invece fare Wellber, che ha scatenato gli elementi nei momenti giusti, ma ha saputo anche valorizzare le parti meno retoriche e magniloquenti della partitura: ad esempio l'irrompere di clarinetti e fagotti nella sezione in SOL maggiore dell'Andantino (magari un filino troppo spedito…) e anche il contrasto fra l'Allegro in pizzicato e il Meno mosso – protagonisti gli oboi – dello Scherzo. Per il resto, enfasi e fracasso sono prescritti e dovuti e devo dire che – a parte qualche incertezza dei soliti ottoni – i Filarmonici scaligeri se la sono cavata più che discretamente. Wellber, che li ha disposti in configurazione alto-tedesca (bassi a sinistra, violini secondi al proscenio e corni sulla destra) li ha diretti con il suo ormai caratteristico gesto ampio ed efficace (forse le incomprensioni fra il ragazzo e l'orchestra, che caratterizzarono in passato le prove della Tosca, sono state rimosse e archiviate).


Insomma, una serata piacevole sul fronte musicale e degna della miglior Milano su quello della solidarietà verso una delle istituzioni ormai storiche, oltre che benemerite, della metropoli. Don Angelo Bazzari, la cui canutissima capigliatura spiccava al centro della platea, ha di che essere soddisfatto.
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23 febbraio, 2011

Tosca (di Bondy, purtroppo) alla Scala


Dopo Cavalleria-Pagliacci (o viceversa!) ecco ancora un classico del melodramma italico fine-800 alla Scala. Introdotto da una corposa presentazione del professor Michele Girardi (da non confondersi con Enrico Girardi, occhio…) un'autorità in merito, nel consueto appuntamento Prima della prima del 9 scorso. In effetti – sarò sadico, magari, in questa esortazione – ma prima di entrare in teatro a godersi (o a maledire) lo spettacolo, chiunque dovrebbe leggere - meglio ancora: studiare - analisi come questa (vedi pagg. 37 e seguenti) redatta proprio da Girardi, anni fa, per La Fenice. Di sicuro, dalla lettura di un'analisi come questa ci si farebbe un'idea concreta (meglio ancora se si buttasse anche uno sguardo alla partitura) di ciò che è l'originale, in modo da poter poi apprezzarne o censurarne la rappresentazione – scenica e musicale - con un minimo di cognizione di causa, e non sulla base di estemporanee e più o meno viscerali sensazioni. In caso contrario, meglio non far assurgere le proprie pur rispettabili, ma viscerali, sensazioni a giudizi assoluti, di condanna o santificazione che siano. (non parlo qui di giudizi – in un senso o nell'altro – a vario titolo interessati).


Cast annunciato da mesi e mesi e – regolarmente – smontato pezzo per pezzo alla vigilia della prima. C'è ancora un intero mese di inverno, quindi sono da aspettarsi altre vittime (una già annunciata per Britten, ma scommetto che si salverà Francesconi) Però, fossi Mozart, Puccini, Gounod, Verdi e Rossini, non mi fiderei neanche di primavera ed estate: dentro il Piermarini le correnti d'aria devono essere sempre più sbifide.

La prima del 15 – tenuta rigorosamente segreta, come ogni altra replica, alla diffusione radio-tele-web (coda di paglia, come l'inversione Pag-Cav, caro Lissner?) – pare fosse passata secondo recente tradizione: fra irrisioni, più che contestazioni, alla regìa, e alcuni chiassosi, contestati buh per il povero Kapellmeister. Da taluni definito, in pratica, un maestro di cappelle, nel mentre altri lo hanno già elevato al rango di profeta (sarà forse per via della sua provenienza da luoghi biblici, smile!) Accoglienza mista che – sempre stando alle cronache – si era ripetuta anche alla seconda (che recuperava la Dyka) e alla terza, in cui era riemerso dal nulla il bel Jonas. Ieri? Invece, pure. Il loggione mi è parso diviso fra centro-destra (battimani fragorosi e bravi! a josa) e sinistra (secondo piano, in particolare, da cui sono piovuti pesanti buh ai principali protagonisti, direttore escluso peraltro). Che il loggione sia diventato uno specchio del Paese politico, diviso in fazioni ed opposti estremismi?

Ieri sera la prestazione di Omer Meir Wellber mi è parsa francamente apprezzabile, forse perchè alla quarta tornata l'affiatamento con orchestra e interpreti ha potuto migliorare. Qualche fracasso che personalmente trovo eccessivo (non le campane, come riportato da qualcuno per le precedenti recite) ma per fortuna mai a coprire il canto; per il resto una direzione rispettosa della partitura, quindi tutt'altro che da stigmatizzare, né tanto meno da buare. Certo, da qui a vedere in Omer il messia ce ne corre assai e del resto, avendo 30 anni, il nostro non può che migliorare ancora, a meno che non cada vittima della sindrome da notorietà precoce.

Zeljko Lucic è uno Scarpia indecente sotto il profilo della recitazione, ma ciò è quasi certamente da addebitarsi al regista (vedi sotto). Viceversa i suoni che sono usciti dalla sua bocca, pur non incantando, mi son parsi perlomeno dignitosi e lui non meritevole della porzione di buh arrivatigli insieme agli applausi. Imponente la sua entrata nel primo atto ed abbastanza efficace anche la sua prestazione nel secondo, forse con qualche eccesso di declamato/gridato. Per me, comunque, dovrebbe citare il regista per procurato danno di immagine.

Oksana Dyka, come già di recente in Pagliacci, ha mostrato doti naturali notevoli accompagnate da una certa immaturità. Paradigmatico il suo Vissi d'arte (unica aria su cui il pubblico è intervenuto, col loggione diviso fra brava! e buh) in cui ha sfoggiato gran chiarezza di suono, accompagnata da una certa monotonia nell'espressione (e da un singhiozzino anticipato, sul Signor, ah) Insomma, una dignitosa prestazione da parte di questa 33enne, per me meritevole di incoraggiamento.

Il divo-redivivo Jonas ormai lo si conosce, in tutto e per tutto: a voce spiegata, un autentico gigante; nei mezzo-forte e nei piano, o di gola o di testa. Sulla scena è l'unico a fregarsene (anche qui: nel bene e nel male) del regista: lui è sempre lui, Werther, Josè, Mario, tutti fatti con lo stesso stampino. Alla fine anche per lui il mix di bravo! e buh: in questo caso (per me) abbastanza appropriati in proporzione alle qualità positive e negative sopra descritte (smile!)

Bravo lo Spoletta di Luca Casalin, almeno come rapporto prestazione/difficoltà.

Renato Girolami era il Sagrestano, che il regista ha pervicacemente ridicolizzato. Da sufficienza la sua prestazione vocale.

Un discreto Angelotti è stato Deyan Vatchkov, mentre Davide Pelissero e il prezzemolo Ernesto Panariello si son guadagnati la pagnottina, nei panni di Sciarrone e Carceriere. Da elogio anche la prestazione della "pastorella" Barbara Massaro.

Sui suoi abituali standard il Coro di Casoni, integrato da bianche voci, che ben ha reso la scena madre del Te-deum, a dispetto della regìa.

Ecco appunto, la messinscena: il fatto che il MET e München già ci avessero messo sull'avviso nulla toglie alla sensazione di autentica pena che si prova assistendo a questa pagliacciata. Purtroppo, oltre a soffrire le contingenze di stagione, Tosca deve avere un qualche strano e arcano potere: risultare indigesta a parecchia gente. È rimasta famosa l'idiosincrasia di Mahler per quest'opera (non per Puccini, attenzione) da lui definita, al primo e forse unico ascolto, un lavoro magistralmente abborracciato, che qualunque apprendista-calzolaio era in grado di scrivere… e conseguentemente e coerentemente mai diretta in vita sua.

Ecco, Luc Bondy si deve esser fatto suggestionare dal giudizio di Mahler, e quindi ha deciso – bontà sua - di riscrivere Tosca. Interessante ed istruttivo quanto si ascolta in questa sua intervista, dove il regista spiega il suo approccio. Attorno a 1':10" il nostro afferma candidamente che il libretto (parla dell'omicidio di Scarpia) è stupido e che quindi lui (il genio!) ci ha dovuto mettere le mani, mostrandoci Tosca che minaccia di buttarsi dalla finestra (apperò!) Poco dopo (1':43") per giustificare le sue efferatezze, Bondy spara un'autentica carognata, affermando che Sardou fu spesso in disaccordo con Puccini riguardo a scelte del libretto, e proprio mentre si parla del finale secondo. Ciò è un clamoroso falso: ci furono, effettivamente, divergenze fra Sardou e i librettisti di Puccini, ma sempre il compositore si schierò con il drammaturgo, e convinse i suoi librettisti a seguirlo. La chiusa dell'atto è pari-pari, ma proprio nei minimi dettagli, come la descrive Sardou, non come ce la mostra Bondy! E lo stesso dicasi per il finale terzo, dove Puccini impose di rispettare il dramma di Sardou (Tosca che si getta dallo spalto) ai suoi librettisti, intenzionati a farne una ridicola, tristaniana Liebestod. Ancora, a 2':02" il candido Luc afferma "non è originale!", e poi "non è nulla di originale, né di speciale, in fondo è solo un'opera". E quindi rivendica il diritto di farne strame (?!) Insomma: parodia e dissacrazione elevate a principio assoluto. A 2':45" si incarta poi in un ragionamento senza capo né coda, affermando che Puccini non è Berg (ma l'ha ascoltata bene la scena della tortura, il nostro genio?) e che Schönberg era un ammiratore di Puccini, ma che fra loro ci fu sempre rivalità (sic!) Poi, bontà sua, riconosce che Tosca (insieme a Salome) è il top dell'opera, è molto buona, ma che ciò non basta (?!) Mah, o era ubriaco, oppure è del tutto fuori di melonera.

Domanda: ma se un'opera non ti va a genio, mio caro Luc, perché non ti limiti semplicemente ad ignorarla, come fece il saggio Gustav? Occupati d'altro, di cioccolatini ad esempio, invece di accanirti su un oggetto che disprezzi. Questa regìa fu sonoramente contestata al MET nel 2009, poi a Monaco nel 2010: si disse, ad opera di nostalgici di Zeffirelli. Ma buare è ancora nulla: qui ci vorrebbero punizioni e multe severe per chi si macchia di simili nefandezze. Come gridava Bracardi? In galera!

A Milano il nostro – mostrando pure una buona dose di vigliaccheria (leggi: non avere il coraggio delle proprie scelte) – ha edulcorato o eliminato i particolari più dissacranti (chi non ha visto dal vivo le recite del MET e di Monaco, o si è perso la diffusione di arte, può trovare ampi documenti su youtube che testimoniano delle scelte al limite della provocazione fatte dal regista svizzero) credendo così di farla franca a buon mercato (o pensando che il pubblico italiano sia fatto da trogloditi bigotti, non abbastanza intelligenti per capire un genio come lui). In pratica, dal suo mix dissacrazione+parodia ha tolto la dissacrazione. Quindi indovinate voi cosa è rimasto…

La sua vittima principale, quanto a rappresentazione dei personaggi, è il povero Scarpia, che non è propriamente un comprimario insignificante, ma nientemeno la zeppa che sostiene l'intera volta strutturale dell'opera. Nel primo atto, in chiesa, alla fine del Te Deum, lo Scarpia di Bondy evita (come faceva al MET) di palpeggiare la statua della Madonna (forse perché qui siamo a Milano, a duecento metri dalla Madunina) ma le si avvicina fin quasi a baciarla sulla bocca! Sarebbe questo il modo di rappresentare la sua perversa personalità, il suo abietto uso della Religione e della Politica per soddisfare la sua concupiscenza (Tosca, mi fai dimenticare Iddio)?

Nella scena iniziale del secondo atto, avevamo visto (al MET e a Monaco) Scarpia farsi pompinare non da una, ma da tre puttane, regolarmente pagate in contanti dallo Spinelli… ops, dallo Sciarrone di turno. Alla Scala il blowjob è censurato (c'è paura del mite Tettamanzi, per caso?) ma il risultato non cambia. Bondy – da svizzero, pur zurighese – dovrebbe conoscere un po' di italiano; altrimenti, chieda al primo che passa per la strada di spiegargli cosa canta Scarpia, in modo da farsi un'idea di quale pasta sia fatto il barone siculo al servizio dei borboni appaltato dal Vaticano. Ha più forte sapore la conquista vïolenta che il mellifluo consenso. Che è la splendida, fulminante e concisa rappresentazione dell'originale di Sardou: Une femme qui se donne, la belle affaire... J'en suis rassasié, de celles-là!... Mais ton mépris et ta colère à humilier... ta résistance à briser et à tordre dans mes bras!... Pardieu, c'est la saveur de la chose, et ta résignation me gâterait la fête!... Queste parole, Luc Bondy, che non può non conoscere il francese, le ha lette? Ha idea di cosa raccontino della personalità di Scarpia? Evidentemente no: lui, come ha del resto candidamente ammesso nell'intervista di cui sopra, del libretto (e della musica?) dell'opera che deve allestire, non si cura, essendo una cosa stupida.

Ancora Scarpia: Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco mi appago. Non so trarre accordi di chitarra, né oroscopo di fiori, né far l'occhio di pesce, o tubar come tortora! Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto, vòlto a nuova esca. Ora, cosa vediamo noi in tutta la scena della tortura? Uno Scarpia che fa il cascamorto con Tosca, che le fa precisamente l'occhio di pesce e che comicamente tuba come tortora. Roba da matti… anzi, da Berlusconi, con il terzo piano di (quello che dovrebbe essere) Palazzo Farnese ridotto a scantinato da bunga-bunga, vomitevole.

Quanto a Floria, Bondy ne ha attenuato, a Milano, i caratteri di schizoide, nevrotica, volgare e pure scema e vanesia che le aveva appioppato al MET. Resta la stupidaggine dello sfregio al dipinto della Maddalena (a proposito, scusate: ma qualcuno ha imposto che abbia sempre la tetta sinistra al vento? Ronconi, Carsen e adesso Bondy così ce la rappresentano) E resta l'assurdo finale secondo: dopo aver pugnalato Scarpia nelle palle (il libretto, si sa, è stupido e prescrive una sola coltellata al cuore) gli dà un'altra coltellata, precisamente sull'unico colpo di piatti previsto in partitura, proprio al cuore (altrimenti il bruto farebbe una fine atto come Amfortas nel Parsifal) e poco dopo, altre due coltellate (l'ultima a due mani, orripilante) sulle parole muori, muori, muori! Poi fa per buttarsi dalla finestra (appunto, a proposito della stupidità del libretto… di Bondy!) quindi ci ripensa e si stende stanca, ebete ma soddisfatta sul sofà, ad asciugarsi il sudore col ventaglio dell'Attavanti (?!)

E pensare che Puccini nel comporre Tosca ci ha messo tutta la sua inventiva e la sua pignoleria, arrivando a scrivere in partitura particolari come questo:
Di cui Bondy si sbatte altamente i coglioni, come di tutto il resto… Il terzo atto è addirittura stravolto nella sua originaria drammaticità. Non parlo della partita a scacchi fra Mario e il carceriere, roba da avanspettacolo. No, è che per Bondy i due protagonisti si comportano come se fossero consapevoli che l'imminente esecuzione sarà proprio vera e non simulata: già la scena rimane sempre avvolta nella totale oscurità (la fantastica alba su Roma dev'essere stupida cosa, ovviamente) e poi Cavaradossi che appallottola e getta via il salvacondotto, i due che cantano il Trionfal come fossero al funerale… insomma, siamo al totale ribaltamento della situazione emotiva costruita dal libretto (e dall'originale di Sardou) il che priva il finale del drammatico colpo di scena determinato dalla non simulazione della pena. E, coerentemente con la stupidità della sua regìa, Bondy fa salire Tosca lungo una scala, con studiata compostezza e la fa lentamente scomparire in una torre. Penoso.

E che dire delle scene di Peduzzi? Ma perché continuano (no anzi, continuiamo noi!) a pagarlo per le sue scenografie sempre uguali? Per restare solo alla Scala negli ultimi anni: Tristan, Carmen, Casa di morti, Tosca: tutto uguale! Muraglie da archeologia industriale, cupe e deprimenti. Sant'Andrea, Palazzo Farnese, Castel Sant'Angelo: non c'è differenza alcuna fra una basilica barocca, una quasi-reggia rinascimentale ed un castello di origine adriana, il tutto è ridotto peggio delle più sconce stazioni del metro del Bronx.

Quanto ai costumi della Canonero, sono almeno vagamente plausibili, e ciò va tutto a suo merito.

Non aggiungo altro, salvo la constatazione che la stagione – iniziata così-così con Wagner e proseguita cosà-cosà con il dittico – non mi pare si stia riprendendo alla grande con questa Tosca, passabile sul fronte musicale, ma deprimente su quello scenico. E ci attende ora una Morte… già depauperata del primattore.

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Girovagando attorno a Tosca.

Sui cambi d'abito.

Qualcuno si è - del tutto a torto – scandalizzato per il fatto che l'abito indossato nel terzo atto da Tosca in questa edizione è visibilmente diverso da quello che la cantante indossa nel secondo. Perché a torto? Perché la cosa è invece naturale e direi quasi doverosa (e infatti quasi tutte le produzioni ce la propongono così). In effetti chi ha presente il dramma di Victorien Sardou (cui si ispirarono Giacosa-Illica per il libretto del melodramma) può essere tratto in inganno, poiché in Sardou il colloquio finale fra Scarpia e Tosca non avviene a Palazzo Farnese e nel bel mezzo di una festa in onore della regina, ma proprio a Castel Sant'Angelo, nell'appartamento di Scarpia, a due passi dalla prigione dove è detenuto Mario e a tre dalla piattaforma sulla quale verrà fucilato. Tosca vi è stata portata dopo la drammatica serata-nottata nella casa di campagna dell'amato (atto III) durante la quale lei ha rivelato il nascondiglio di Angelotti, poi suicidatosi. Lei veste (verosimilmente) ancora gli abiti da cerimonia che indossava precedentemente (atto II) a Palazzo Farnese, a meno di ipotizzare un suo passaggio da casa a cambiarsi, prima di andare da Mario, cosa peraltro inverosimile, data la fretta che Tosca ha di cogliere in flagrante i supposti trescanti (e poi è tutto sommato ininfluente sulla questione dibattuta qui). Dopo aver ucciso Scarpia (fine atto IV) Tosca si reca immediatamente alla prigione di Mario (inizio atto V) e quindi non può certo avere un abito diverso da quello indossato nei tre (o come minimo due) atti precedenti. Si noti che Tosca non fa cenno alcuno a Mario di eventuali preparativi da lei fatti in vista della fuga (non ne avrebbe avuto materialmente la possibilità): si limita a dire che loro hanno da 4 a 7 ore di margine (prima che si scopra l'ammazzamento di Scarpia) per abbandonare lo Stato e che non avranno problemi a raggiungere Civitavecchia, disponendo della carrozza che Scarpia ha (meglio: disse di aver…) messo a loro disposizione.

Invece sappiamo che il libretto del melodramma prevede che il colloquio, seguito dall'accoltellamento, fra Tosca e Scarpia avvenga appunto a Palazzo Farnese, al piano superiore a quello in cui è in corso la festa per la regina, di cui Tosca è stata la protagonista canora. E quindi Tosca, prima del terzo atto dell'opera, deve necessariamente spostarsi (di circa 1 Km) da Palazzo Farnese a Castel Sant'Angelo. Una volta lì, cosa racconta a Mario? Cito dal libretto: (mostrando la borsa) io già raccolsi oro e gioielli… una vettura è pronta. Questa frase, del tutto assente in Sardou (vettura a parte) e inventata di sana pianta dai librettisti di Puccini, ci dice senza la minima ombra di dubbio che Tosca, dopo aver abbandonato Palazzo Farnese e prima di recarsi a Castel Sant'Angelo, è passata da casa, a recuperare oro e gioielli (non poteva di certo averne portato con sé una borsa piena a Palazzo Farnese, quando l'ultima cosa che poteva immaginare era la brutta piega che avrebbe preso la serata!) e procurarsi una carrozza. E quindi non può non aver ragionevolmente approfittato di questa sosta anche per cambiarsi d'abito, togliendosi quello (verosimilmente ingombrante, scomodo ed appariscente) della cerimonia regale, per indossarne uno più adatto all'imminente viaggio (che sarebbe in verità una fuga in piena regola).

La richiesta di grazia alla regina

A proposito di inesattezze (un assoluto dilettante come me ci gode un mondo a prendere simpaticamente in castagna qualche autorità…) nel peraltro interessante ed approfondito scritto del prof. Giulio Paduano pubblicato sul programma di sala, si sostiene che l'onnipotenza di Scarpia sia tratto innovativo della situazione operistica rispetto a Sardou (…) in Sardou la posizione di Scarpia è subalterna (…) Tutto questo orizzonte è sgombrato nell'opera di Puccini per lasciar posto ad un incontestato diritto di vita e di morte, a proposito del quale non fa aggio neppure il potere della regina; è nominato sì: da lei Tosca può ottenere la grazia per Mario, ma Scarpia ha il potere di far sì che arrivi troppo tardi. In poche parole, Paduano cerca di convincerci che Illica-Giacosa-Puccini siano più convincenti di Sardou, portandoci un esempio che… dimostra proprio il contrario! Vediamo perché.

Nel dramma di Sardou Tosca è, come sappiamo, a Castel Sant'Angelo, quasi all'alba. Pur avendo una carrozza a disposizione (come le garantisce Scarpia) Tosca dovrebbe: uscire dal castello, andare a Palazzo Farnese (e fin qui son pochi minuti); ma poi farsi aprire, buttare letteralmente giù dal letto la regina (!?) convincerla a firmare la grazia e tornare al castello in tempo per bloccare l'esecuzione. Francamente una mission impossible, come la poveretta deve subito constatare, convinta dell'inutilità dei suoi sforzi dalle parole di Scarpia che l'avverte che la grazia arriverebbe con almeno un'ora di ritardo. Cosa forse esagerata quantitativamente, ma ben plausibile nella sostanza, dato che Scarpia potrebbe far impiccare Mario, detenuto lì accanto, nel giro di pochi minuti.

Invece nel libretto italico le cose stanno in modo assai diverso ed assai meno plausibile: perché, nonostante Scarpia cerchi di dissuadere Tosca affermando che a Mario resta solo un'ora di vita, è pur vero che Tosca si trova a distanza di pochi metri dalla regina (terzo e secondo piano dello stesso Palazzo Farnese); e la regina è probabilmente ancora sveglia, o si sta appena preparando a ritirarsi, dopo la festa; e soprattutto, se convinta da Tosca, potrebbe addirittura convocare Scarpia seduta stante per ingiungergli di non dar corso all'impiccagione, se non addirittura di far immediatamente riportare lì il Cavaradossi in carne ed ossa. E del resto – a differenza del dramma di Sardou - Scarpia non ha Cavaradossi lì accanto (il condannato è per strada verso Castel Sant'Angelo) e non potrebbe quindi farlo giustiziare in pochi minuti. Perciò il fattore-tempo, addotto dal barone per far desistere Tosca, qui è assai debole: su questo punto è Sardou ad essere impeccabile quanto a plausibilità e realismo, molto meno i librettisti di Puccini.

Il terzo atto, prima e dopo

Sempre sul programma di sala di questa edizione di Tosca, compare un interessantissimo articolo di Pier Giuseppe Gillio, che riporta documenti inediti riguardanti la prima versione del libretto del terzo atto, ad opera di Luigi Illica, con successivi interventi di Giuseppe Giacosa. Versione che fu ampiamente tagliata e drasticamente modificata per arrivare a quella finale.

La didascalìa che Illica aveva steso per presentare l'inizio dell'atto (largamente espunta nell'edizione definitiva) reca una minuziosa descrizione dei rintocchi di campana che si odono dopo la canzone del pastorello (che mancava in questa originaria versione). E si può verificare sulla partitura come Puccini vi abbia tenuto fede, peraltro dilatandone poi l'estensione. Illica scrive: Lontanissimo, nell'estremo fondo, da San Pietro Montorio viene fioco fioco il suono di campana che chiama a mattutino. In effetti la chiesa si trova a sud di Castel San'Angelo, a circa 1.500m in linea d'aria. In partitura Puccini segna questo suono con indicazione lontanissimo e con una successione di 3, poi 4, poi 5 minime (siamo in 4/4) separate da una pausa di minima. La nota è SI naturale sotto il rigo della chiave di violino. Prosegue Illica: subito, dopo breve intervallo, vi risponde la piccola campana del convento di Sant'Onofrio, nel medio fondo, a destra. In effetti Sant'Onofrio si trova a circa 500m a sud-ovest di Castel Sant'Angelo, quindi giustamente a destra, guardando dal castello. Puccini indica meno lontano e segna il suono come una successione di semiminime (campana piccola!) di RE naturale, intervallate da pause di semiminima. I primi cinque rintocchi si alternano-sovrappongono a quelli di San Pietro Montorio. Ancora Illica: poi, sola ancor, e più accelerata, la campana della Chiesa de' Miracoli, vicinissima, a sinistra, batte mattutino. Qui Illica si prende una certa libertà, in quanto la chiesa è sì a sinistra (sta a nord-est del castello) ma non è proprio vicinissima (è a circa 1.000m di distanza). Puccini indica vicino e segna il suono come tre serie di 3, 4, 5 semiminime consecutive (più accelerata!) separate da una pausa di semiminima. Come si vede, una rappresentazione musicale assolutamente fedele alla descrizione del librettista, descrizione poi espunta dal testo dato alle stampe.

Puccini poi estende la presenza dello scampanìo fino a far intervenire, prima dell'aria di Mario, anche il campanone di San Pietro, segnato come MI naturale gravissimo in minime.

Di qualche interesse anche l'orario degli avvenimenti. Nel libretto definitivo il terzo atto si apre poco dopo le tre del mattino, come si può dedurre dal fatto che l'esecuzione avviene alle 4 (suonano le 4 del mattino, è scritto in didascalìa) e prima il carceriere ha avvertito Cavaradossi con il famoso vi resta un'ora. Invece Illica, nella stesura originale, posticipava tutto di ben due ore (suonano le ore sei, si legge sul libretto originario al momento dell'esecuzione di Mario, dopo il famoso inno latino, che Puccini sbeffeggiò come trionfalata, cassandolo senza pietà). Credo che tutto sommato abbia avuto ragione Puccini a restar fedele ai tempi di Sardou, anche per ragioni, come dire… astronomiche: non dimentichiamo che siamo al mattino del 18 giugno, praticamente al solstizio d'estate!

Di grande interesse anche la versione originaria dell'epilogo. Illica ne voleva fare un finale à la Lucia, o Linda, o Macbeth (così scriveva Eugenio Checchi nel 1897, come ci informa sempre l'articolo di Pier Giuseppe Gillio). In realtà a me pare che il modello più calzante fosse il wagneriano Liebestod. Tosca tesse le lodi dell'amato rivolgendosi a donne preganti; poi chiude con questi versi, rivolti ad un immaginario gondoliere: Non è morto – Sai. Dorme… è stanco. Via tutti, via tutti! – L'onde dei tremuli – Canali baciano – Le vecchie istorie – Le vecchie glorie… - Non cantar gondoliero… piano, piano… - Voglio un grande silenzio a noi d'intorno – Silenzio eterno con eterno amore… (E Tosca, col cadavere di Mario in grembo, rimane immobile col dito sulle labbra nell'atto di imporre silenzio al fantastico gondoliero che essa vede nel suo pensiero). Roba da chiodi! Un monumento a Puccini per aver dato retta a Sardou, e definito 'sta roba come aria del paletot.
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