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16 aprile, 2022

Arianna torna - col trucco rifatto - alla Scala

Dopo quasi esattamente tre anni è tornata a Nasso alla Scala la straussiana Ariadne, che fu accolta da un buon successo nel 2019 nella produzione targata Wake-Walker / Welser-Möst.

Oggi però l’allestimento è quello di Sven-Eric Bechtolf e sul podio va quel Michael Boder che si fece le ossa proprio in Italia (a Firenze sotto le ali di due autorevoli chiocce: Muti e Mehta).

Curiosamente le vicissitudini di questa produzione ricordano da vicino quelle che caratterizzarono la nascita e la vita dell’opera medesima, sulle quali si è scritto e detto quasi tutto (anch’io ho presuntuosamente dato un modesto contributo). E così è successo che Bechtolf abbia in un primo tempo (estate 2012, centenario della prima assoluta di Stoccarda) allestito l’opera a Salisburgo nella versione originale del 1912 e poi, qualche mese dopo e successivamente nel 2014 a Vienna, abbia impiegato lo stesso allestimento (opportunamente riadattato) per proporre la seconda (e definitiva) versione dell’Ariadne (Vienna, 1916).

Della produzione di tre anni fa sopravvivono oggi due importanti superstiti: la grande Krassimira Stoyanova (Ariadne) e l’altrettanto famoso quanto bravo Markus Werba (Maestro di musica).

Bechtold ambienta il soggetto ai tempi della composizione, come si deduce principalmente dai costumi (di Marianne Glittenberg) prima ancora che dalle scene (del di lei marito Rolf) e la cosa, oltre che non nuova, è anche sensata e convincente. Efficaci sempre - in particolare nel finale - anche le luci curate da Jürgen Hoffmann.

Il regista fa entrare in scena (ovviamente solo come comparse) il Maestro di musica e, ancor più corposamente, il Compositore, anche nell’Opera, oltre che nel Prologo, e lo fa a buon titolo, sia per vivacizzare alcune scene (vedi il lungo assolo di Zerbinetta, che il Compositore en-travesti accompagna virtualmente alla tastiera e alla quale passa premurosamente fogli di spartito per i gorgheggi che precedono il famoso Als ein Gott kam jeder gegangen) ma soprattutto per introdurre mirabili tocchi di filosofia di vita, per così dire. Ecco che alla fine, prima che il sipario cali, vediamo il Compositore riunirsi alla soubrette, evidentemente a sancire un sodalizio esistenziale già prefigurato al momento del loro incontro-scontro nel Prologo.

E, a proposito di rapporti fra esseri umani e fra artisti, e fra vita reale e teatro, ecco un altro colpo di Bechtolf da vero maestro: dopo la loro ascensione finale verso... le stelle, Bacchus e Ariadne, che la finzione teatrale di Hofmannsthal e la sbudellante musica di Strauss hanno miracolosamente e sublimemente unito in modo indissolubile, escono di scena da parti opposte, in aperta lite fra loro, a testimoniare dei comportamenti miserevoli che i due hanno nella vita reale, già intravisti nel Prologo, allorquando ciascuno dei due cercava egoisticamente di far tagliare la parte dell’altro/a.

Ma direi che tutta la recitazione è stata curata con la massima attenzione, anche ai dettagli, e questo si applica alla parte esclusivamente parlata del Maggiordomo, come a quelle dei quattro amanti di Zerbinetta, del Maestro di danza e - nell’Opera - delle tre ninfe. In sostanza, un allestimento di gran pregio che, dopo i precedenti successi all’estero (e a livello di DVD...) meritava proprio di essere proposto anche qui da noi.
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Michael Boder per me (forse un po’ meno per il pubblico, che gli ha riservato applausi di circostanza) ha guidato bene la smagrita orchestra dei Trepper, creando la giusta atmosfera low-profile (ma high-quality) che caratterizza questa partitura straussiana, ricca di raffinatezze quanto parca di slanci eroici.

A proposito di eroismi, l’Heldentenor che qui incarna Bacchus, il sessantenne Stephen Gould, ci ha messo tutto il fiato che ancora gli resta (e non è poco... oltretutto per una parte relativamente contenuta) anche se proprio l’ultimo SIb lo ha ghermito alla bell-e-meglio (in pratica: un’acciaccatura sul LAb). Per lui successo di stima, più che trionfo.

Chi ha trionfato sono le due protagoniste femmine-femmine: la Krassimira Stoyanova ha confermato le sue qualità e la sua capacità di immedesimazione nel ruolo della donna abbandonata; quanto alla Erin Morley, la sua è una Zerbinetta accattivante, brillante ed anche patetica quando serve, poi i RE e i MI acuti li ha strappati con la massima sicurezza, il che le ha garantito un lungo applauso a scena aperta. Entrambe accolte alla fine da meritate ovazioni.

La femmina-maschio era Rachel Frenkel (cui subentrerà la titolare Koch per le prossime recite): prestazione che definirei più che dignitosa, in una parte di per sè difficile, più Singspiel che canto...  

Bene anche le altre tre rappresentanti del gentil sesso (Caterina Sala, Svetlina Stoyanova e Olga Bezsmertna) le ninfe che accompagnano la povera Ariadne dalla disperazione alla finale trasfigurazione, dapprima con accorata partecipazione, poi con cullanti ed eteree melodie.    

Ora resta solo da dire degli altri... maschi: su tutti ovviamente Markus Werba, che mette la sua voce rotonda e passante, ma anche la sua grande disinvoltura scenica, al servizio della figura un po’ anguillesca del Maestro di musica. All’altezza della parte il Maestro di danze Norbert Ernst, efficaci i quattro amanti di Zerbinetta: su tutti, data la parte più corposa, l’Arlecchino di Rafael Fingerlos, ma bravi anche Jinxu Xiaho, Jongmin Park e Leonardo Navarro a completare il quartetto in monopattino. Oneste le prestazioni dei restanti tre della compagnia: Hyun-Seo Davide Park, Paul Grant e Sung-Hwan Damien Park.
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In conclusione: spettacolo godibilissimo e di gran pregio, che personalmente affianco ad altre proposte di ottimo livello di questa stagione scaligera della ripresa post-Covid.

07 novembre, 2019

Elena scalizia


Ecco quindi arrivata al Piermarini anche questa Die ägyptische Helena snobbata per quasi un secolo... Ma purtroppo ier sera l’ha snobbata anche il vasto pubblico, almeno a giudicare dagli abissali vuoti che presentava il Piermarini. Va detto però che i rari nantes presenti si son fatti in quattro per decretare comunque un franco successo allo spettacolo. Successo il cui merito va equamente distribuito fra tutti: direttore, orchestra, cantanti, coro e team di regìa. Oltre ovviamente a quelli del compreso musico e dell’incomprensibile (?!) poeta.

Parto dal Kapellmeister: Welser-Möst ha mostrato di padroneggiare alla grande questa partitura che sembrerebbe facile all’apparenza, ma che alle divine leggerezze da Rosenkavalier affianca asprezze degne di Salome o Elektra. Un unico personale appunto mi sento di fare al Maestro di Linz: qualche eccesso di decibel che più di una volta ha (quasi) coperto due voci di per sè potenti come quelle dei due protagonisti. Ma in complesso la sua è stata una direzione encomiabile, cui ha fatto riscontro una prestazione lodevole dell’ipertrofica Orchestra, che ha saputo valorizzare le raffinatezze della mirabile strumentazione straussiana.

Trionfatore assoluto della serata il Menelas di Andreas Schager, ormai approdato al traguardo come Heldentenor di razza, che ha saputo domare da par suo un ruolo a dir poco massacrante. Inizio un po’ difficile, con eccessivo vibrato, poi un continuo crescendo fino all’ultimo SI naturale (heilige Sterne) davvero imperioso. 

Ricarda Merbeth ha un gran vocione che esplode negli acuti, peraltro un filino... sfacciati, come dire. Nell’ottava bassa mi pare migliorata rispetto a prestazioni passate (vedi lo scaligero Fidelio). Piuttosto impacciata sul piano attoriale, dove ha forse enfatizzato troppo il suo status di sovrana un po’ pigra.

Molto bene anche Eva Mei, già a suo agio nella lunga ed accorata esternazione che apre l’opera e poi sempre efficace nel suo femminista indaffararsi pro-Helena. Mi pare anche corretto il suo tedesco, grazie alla decennale esperienza iniziata 30 anni fa con Mozart. Pregevole poi la sua prestazione da attrice consumata. La sua vongola (!) Claudia Huckle si è ben portata, pur mostrando una voce non proprio potentissima.

I due buzzurri dell’Atlante su dignitosi livelli: Thomas Hampson è stato un solido Altair, che ha saputo esprimere protervia e libidine senza per questo sconfinare in sguaiatezze. Attilio Glaser ha messo in bella mostra la sua voce di tenore lirico, in una parte per la verità non proibitiva, ma non per questo meno importante.

Su standard più che dignitosi le due ancelle Tajda Jovanovič e l’accademica Valeria Girardello, misuratasi anche come quarto Elfo. Efficaci le presenze impertinenti anche degli altri tre Elfi solisti: Alessandra Visentin e le accademiche Noemi Muschetti e Arianna Giuffrida. La loro collega Caterina Maria Sala ha scolasticamente compitato l’unico verso che canta come Hermione.

Il resto degli Elfi (atto I), i giovinetti e gli schiavi di Altair e le teste di cuoio di Poseidon (atto II) erano impersonati da un gruppo piuttosto sparuto di coristi di Mario Casoni. Gli Elfi e i ragazzi di Altair erano sistemati in quattro palchi di proscenio (dovendo essere quasi sempre invisibili). Pur essendo un impegno non sovrumano, hanno tutti ben meritato.
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Ora, lo spettacolo. Bechtolf e il suo team ambientano questa specie di fiaba ai tempi della composizione dell’opera. La scena è sempre occupata dal gigantesco involucro di una radio a valvole (che appariranno, enormi, nel second’atto) dalla quale arrivano all’inizio le notizie portate dalla vongolona e il cui frontale si apre poi di volta in volta per creare gli spazi della camera nuziale nel primo atto o dell’Atlante nel secondo. Brevi filmati vi corrono sullo sfondo a rappresentare vuoi il naufragio oppure scene di guerra (delirio di Menelao e caccia nel second’atto).

Anche i costumi sono da teatro anni’30. Scarse suppellettili sparse qua e là, ma sempre in modo appropriato e rispettoso delle didascalie del libretto. Assai efficace (l’impacciata Merbeth a parte...) la recitazione dei personaggi, in specie Aithra e Menelas. Moderato l’impiego di figuranti e movimenti coreografici.
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Alla fine tutti applauditi per parecchi minuti (con ovazioni per Schager) da un pubblico di pochi-ma-buoni. E a proposito di pubblico, mi sentirei di suggerire ai melomani di non perdersi questa grande musica; a chi pensasse invece di vedere la guerra di troia... beh: fate almeno un minimo di compitini a casa, ma poi andate e godetevi lo spettacolo! 

02 novembre, 2019

Alla Scala è in arrivo una novità assoluta


C’è sempre una prima volta... mai dire mai, insomma. Ecco, dal 6 novembre la Scala ospiterà - a soli 90 anni di distanza dalla sua apparizione sulle scene! - Die ägyptische Helena, la nona opera (decima, contando le due Ariadne) di Richard Strauss, completata a Garmisch sabato 8 ottobre 1927.

Ma prima che di Strauss si deve parlare di Hugo von Hofmannsthal, il geniale letterato viennese che fornì - sesta di sette volte, sempre contando entrambe le Ariadne - al birraio (per parte di madre) bavarese la materia prima poetica da rivestire di sontuose e mirabili note. E da dove il grande Hugo prese a sua volta lo spunto per il suo libretto? Intanto va confermato che sì, questa Helena è precisamente la mitica Elena di Troia. Meno immediato è però spiegare l’attributo che Hofmannsthal le appiccica nel titolo dell’opera: egizia? Egizia poichè il soggetto tratta dell’arrivo forzato e della permanenza di Elena e Menelao sull’isola egiziana di Etra (poi molto più a ovest, alle pendici dell’Atlante, come minimo nell’attuale Tunisia) ospiti dell’omonima principessa, che è accasata con Poseidon(-Nettuno) ed ha doti soprannaturali, oltre a possedere una gigantesca vongola che ha qualità di veggente. Invenzioni di Hofmannsthal? Non proprio. E allora la prendo alla lontanissima...

A scuola abbiamo imparato (oh, parlo di tempi remoti, oggi non saprei dire cosa si insegni nelle aule...) a conoscere Elena dall’Iliade di Omero (che le più precise ricerche ci informano essere vissuto in un breve periodo che va dal 1100 al 700 avanti Cristo!) In realtà l’Iliade tratta solo degli ultimi giorni della guerra di Troia (in particolare dell’ira di Achille contro Agamennone...) e Omero relega il ricordo del motivo scatenante di tale guerra in pochi versi dell’ultimo libro del suo poema. Dove riferisce del rifiuto di Giunone (, Nettuno) e Minerva a restituire ai troiani il corpo del caduto Ettore, rifiuto motivato dal persistente odio verso Troia delle due dee, a suo tempo offese da quel Paride - giudice monocratico al concorso di miss-Olimpo - che a loro aveva preferito Venere, in cambio dell’accesso alla proprietà della donna più bella del creato (oltre che già accasata...)

L’Egitto? Per Omero nell’Iliade non esiste, ma lo si trova nell’Odissea (Libro IV) dove Menelao, tornato a Sparta e riconciliatosi con Elena, racconta a Telemaco (colà in cerca del padre Ulisse) di esser stato costretto - di ritorno da Troia - a far sosta in Egitto e precisamente sull’isola  di Faro, dove regnava Proteo (un dio del mare tirapiedi di Nettuno, capace di trasformarsi in qualunque cosa e dalle qualità divinatorie) e dove una figlia di costui, Eidothea, lo soccorse, aiutandolo poi a carpire al padre il segreto per riprendere il mare e tornare a casa. Questi particolari cominciano a farci capire da dove Hofmannsthal abbia potuto trarre l’idea per il suo soggetto: l’isola di Etra dell’opera sarebbe quindi Faro; l’Etra personaggio può incarnare Eidothea, mentre sullo sfondo appare anche Poseidon. Sono comunque tutti particolari che riguardano il viaggio di ritorno di Elena e Menelao da Troia.

Ma dal libretto dell’opera scopriamo qualcosa che in Omero è del tutto assente: l’esistenza di due Elene, perbacco! Etra rivela a Menelao che la Elena fuggita a Troia con Paride era in realtà un fantasma (eidôlon) creato dagli dei per salvare Menelao dagli effetti del patto scellerato proposto da Venere a Paride: la vera Elena è sempre rimasta lì, addormentata in un palazzo ai piedi dell’Atlante, in attesa di essere risvegliata da Menelao! Di nuovo: invenzioni di Hofmannsthal? Nossignori. Esiodo (700-600 a.c.) poi Stesicoro (600-500 a.c.) e ancora Euripide ed Erodoto (400 a.c.) - per citare solo qualche nome di aedi della mitologia greca - ci hanno raccontato la storia (anzi più storie) delle due Elene. Per farla breve: dopo aver rapito la donna col favore di Venere, Paride si mette in viaggio (quello di andata, per Elena) verso Troia. Finiscono però a Faro, dove Proteo produce l’incantesimo, consegnando a Paride la fake-Elena (l’eidôlon) e trattenendo presso di sè l’Elena genuina.

Ora va detto però che Hofmannsthal non crede una parola di Esiodo, Stesicoro, Euripide ed Erodoto: nel suo libretto c’è una sola Elena, quella reale, quella rapita da Paride e portata a Troia, e poi recuperata da Menelao dopo 10 anni di assedio. La Elena che Menelao, credendola consenziente e offertasi non solo a Paride, ma anche a fratelli ed amici (l’epiteto che oggi affibbiamo alle prostitute non viene forse da lì?) non riesce a perdonare ed è tentato continuamente di uccidere - nella realtà, sulla nave, ma anche nel delirio provocatogli dagli Elfi di Etra - per punirne il tradimento. L’Autore trasforma genialmente la stravagante storia delle due Elene in un’invenzione della maga, che la usa per convincere Menelao che Elena sia rimasta pura e casta come quando gli fu rapita. E per completare l’opera fa bere ad entrambi i coniugi un filtro dell’oblio, prima di metterli comodamente a letto, sul quale li farà volare ai piedi dell’Atlante (fine dell’atto primo) perchè vi trovino l’ambiente adatto per riconciliarsi pienamente. 

A proposito di incantesimi, Hofmannsthal introduce appunto i due filtri magici di Etra (oblio e ricordo) che paiono a prima vista mutuati da Götterdämmerung. In realtà è ancora Omero, sempre nel Libro IV dell’Odissea, a narrare di filtri dell’oblio e del buonumore versati proprio da Elena nel vino offerto ai suoi visitatori; e poi (Libro IX) a raccontare degli analoghi effetti del loto. Il trattamento che Hofmannsthal fa dei filtri sembra peraltro richiamare in parte anche il Tristan: Menelao (atto secondo) è convinto di bere un filtro di morte, che lo riunirà alla vera Elena, che crede di aver ucciso (atto primo) in preda al delirio; invece - grazie alla coraggiosa decisione della donna di affrontare a viso aperto la realtà - è il filtro del ricordo che ottiene il ritorno e il trionfo dell’amore, suggellato dal ricongiungimento della piccola Ermione con i riappacificati genitori. Un chiaro segno - già esplicitamente emerso dalla FroSch - dell’attenzione degli Autori ai problemi della condizione femminile e del loro riconoscimento del Weibes Wert.

Un’ultima osservazione sul libretto riguarda la presenza sulla scena dei guerrieri di Altair e del giovane Da-ud e la scena di caccia che ne segue. Lo spunto può essere vagamente venuto ad Hofmannsthal dalla lettura di Euripide ed Erodoto, che narrano due (peraltro diverse) storie di scontri di Menelao&C con il popolo di Proteo in Egitto, prima di poter salpare finalmente verso casa. Ma il drammaturgo viennese va assai al di là di questi prosaici dettagli: da un lato la scena gli serve per far rivivere quasi in sogno a Menelao il momento della perdita di Elena (rapitagli mentre lui era fuori a caccia) e i giorni di Troia (Da-ud = Paride); ma anche per proporci una riflessione sulla guerra (...tutti quanti gli altri che per me sono morti senza premio!): non dimentichiamo che Helena nasce proprio a pochi anni dalla fine dell'orrendo massacro della WWI, dalla quale anche i due Autori erano usciti sconfitti...
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Insomma, un libretto mirabile uscito dalla penna (e ovviamente, prima ancora, dalla mente) di un grandissimo letterato; ma un testo difficile da afferrare d’acchito (prova ne sia che i due Autori sentirono il bisogno di produrre sinossi e spiegazioni da distribuire agli spettatori delle prime rappresentazioni) e che può apparire bizzarro, astruso, contorto ed eccessivamente simbolista o... freudiano. Si spiegano forse così le alterne fortune dell’opera, compresa l’indifferenza della quale fu gratificata in Italia, dove arrivò (a Cagliari) solo nel 2001, e ben tagliata!

Un testo che sembra ricalcare - nel consolante finale che riafferma il predominio dell’amore coniugale e dei legami famigliari - le precedenti (e magari più fortunate) esperienze del Rosenkavalier, di Ariadne e della FroSch e in qualche modo anche la successiva Arabella. Concetti che - magari praticati assai più prosaicamente - furono sempre condivisi anche dal compositore.

Ed ecco perciò arrivato il momento di dire due parole sulla musica. Quando l’Helena vide la luce (Dresda, mercoledi 6 giugno 1928) erano passati due anni e mezzo da quel lunedi 14 dicembre 1925 che aveva visto nascere, a Berlino, il Wozzeck di Berg! Per dire quanto duro a morire fu il tardo-romanticismo straussiano, pur minato da ogni parte: dalla tragedia della WWI sul piano dell’attualità dei soggetti da portare in scena, e dalla rivolta espressionista-seriale su quello musicale, che avevano originato, appunto, il Wozzeck. (E Strauss ebbe la forza e la cocciutaggine di mantenersi sempre fedele al modello della sua vita, producendo immortali capolavori anche dopo la nuova tragedia della WWII e il crollo del nazismo, che poco dopo avrebbero aperto la strada alla più masochistica stagione della musica occidentale...)

Nella Helena ritroviamo, si potrebbe dire, il solito Strauss: melodie entusiasmanti costruite col più piatto diatonismo; effetti timbrici straordinari e di grande raffinatezza; orchestrazione lussureggiante senza mai essere opprimente. Insomma, un piacere per l’orecchio, che resta appagato senza dover fare sforzi di comprensione o decifrazione, precisamente il contrario di ciò che si rende necessario riguardo al testo! 

In compenso - e anche questa è di certo una concausa delle non brillanti fortune dell’opera, insieme alle difficoltà di comprensione del soggetto - la partitura richiede la presenza di tre-quattro voci davvero importanti: in particolare poi quelle dei due protagonisti, impegnate allo stremo.

Dell’opera esistono due versioni ufficiali (a parte tutte quelle spurie ottenute tramite tagli dai vari Direttori...): a quella del 1928 Strauss apportò alcune varianti (1933) accogliendo suggerimenti di Clemens Krauss e del regista austro-americano Lothar Wallerstein, che principalmente riguardano il second’atto (cifre 150-162 della partitura). Fra pochi giorni alla Scala i responsabili dello spettacolo saranno Franz Welser-Möst e Sven-Eric Bechtolf, con un cast che si annuncia assai promettente. Stay tuned (...se vi pare).

05 settembre, 2017

Una simpatica fiaba musicale alla Scala


Ier sera un Piermarini ricco – ahinoi – di poltrone e palchi vuoti ha ospitato la seconda recita di Hänsel und Gretel, nella nuova produzione del Progetto Accademia: sul palco il secondo (almeno in ordine di apparizione) cast dei giovani cantanti dell’Istituzione scaligera.

Rispetto alle prime indicazioni comparse sul sito del Teatro, redatte evidentemente in fretta da qualcuno poco/male informato (anche da questi dettagli apparentemente insignificanti si desume l’approssimazione e la provincialità della gestione scaligera delle relazioni con il pubblico) che indicavano in 90 minuti la durata dello spettacolo, si è tornati alla realtà e così, a parte i 25 minuti di intervallo prima del quadro finale, l’opera dura circa 1 ora e 45 minuti, il che significa: niente tagli (e ci mancava pure...)

Marc Albrecht ha quindi sciorinato questi 105 minuti di piccola-grande musica con lodevole sensibilità, alternando sonorità delicate e sognanti a esplosioni di decibel sempre coerenti con il contesto: l’Orchestra accademica ha mostrato di non aver alcunchè da invidiare a quella di ruolo, tanto negli archi (da incorniciare la cavata dei celli) e nei fiati, con corni e trombe in evidenza.

Le voci non saranno (e certo non potrebbero essere) già ai livelli dei professionisti più navigati, ma fanno ben sperare per il loro futuro. Dorothea Spilger (Hänsel) è emersa con maggiore efficacia, ma anche la Gretel di Sara Rossini non ha demeritato (chissà se con lo studio riuscirà a perforare di più i grandi spazi). Dignitose le prestazioni di Paolo Ingrasciotta, cui fa pure un po’ difetto la quantità di decibel, a fronte di una buona impostazione della voce, e della moglie (in palcoscenico) Ewa Tracz, vocione da controllare meglio, ma se non altro appropriato al personaggio. I due maghi (sabbiolino e rugiadino) Enkeleda Kamani e Celine Mellon (che sono le uniche a cantare tutte le 8 recite) hanno fatto scrupolosamente la loro parte. La strega era ieri uno... stregone, Oreste Cosimo, voce di tenore a surrogare quella di mezzosoprano: il risultato non mi è parso esaltante, non perchè lui abbia cantato male, ma perchè a teatro siamo abituati da secoli ai ruoli en-travesti dove un contralto fa il maschio... un po’ meno a quelli speculari dove un tenore fa la femmina! Bravissimi i piccoli di Marco De Gaspari, nella loro ristretta ma assai impegnativa parte nel finale.

Da promuovere (quasi) a pieni voti la regìa di Sven-Eric Bechtolf, che mi pare abbia saputo coniugare nella sua idea di messinscena gli aspetti più fanciulleschi e innocenti del soggetto con quelli (più o meno cripticamente) richiamanti una morale-della-favola che deve far meditare anche e soprattutto i grandi. I 14 barboni che fin dal Vorspiel si vedono aggirarsi con carrelli colmi di cianfrusaglie e che poi tornano per realizzare il cambio-scena del primo atto, poi ancora in veste di angeli-custodi nel secondo e infine arrivano a condividere la festa finale, ma recando due alter-ego di H&G senza vita (!) sono la più perfetta interpretazione dello scenario delle canzoni e poesie raccolte dai Grimm e dagli Arnim&Brentano (che ispirarono i fratelli Humperdinck) a ricordare all’umanità le tragiche sofferenze della povera gente nella guerra dei 30 anni, come in tutte le guerre e tragedie che ancor oggi fanno da contraltare al nostro benessere. 

Insomma, uno spettacolo che merita di essere visto, goduto e applaudito come pochi.

31 agosto, 2017

La Scala riapre anticipando Natale


Solitamente proposta come fiaba natalizia per i piccoli, Hänsel und Gretel viene invece programmata ancora in (piena) estate alla ripresa scaligera dopo la pausa agostana. Si tratta di una produzione del Progetto Accademia della Scala, che prevede 8 recite, a partire da sabato 2 settembre.

L’opera, che ebbe sin dalla sua prima (1893) un enorme successo in Germania, è stata invece accolta con il contagocce (anche se sempre con buon gradimento) all’estero: a Milano debuttò il 6 aprile 1897 (in traduzione italiana); Toscanini la diresse alla Scala nel 1902, poi nel 1903 a Buenos Aires; l’ultima apparizione al Piermarini risale a 58 anni fa: Antonino Votto sul podio e un cast di prima grandezza, che includeva Renata Scotto, Fiorenza Cossotto e Rolando Panerai. L’unica altra presenza scaligera nel dopoguerra è del 1952 (sempre in italiano, diretta da Argeo Quadri):


La direzione e concertazione sono affidati ad un solido direttore di tradizione teutonica, Marc Albrecht, apprezzato qui già nel 2012, quando arrivò in emergenza a dirigere la straussiana Fr-o-Sch, mentre l’allestimento è del salisburghese Sven-Eric Bechtolf

Il sito del Teatro riporta una durata (senza intervalli, ovviamente) di 90 minuti, che è nettamente inferiore a quella di un’edizione completa (ad esempio questa di Solti, tuttora una delle esecuzioni di riferimento) che ne conta 105-110: ciò lascia pensare a tagli non proprio marginali apportati alla partitura... staremo a sentire.

Per un sommario inquadramento dell’opera, mi permetto di rimandare chi legge ad alcune mie note di presentazione, pubblicate un paio d’anni fa in occasione delle pregevoli rappresentazioni del Regio torinese