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16 marzo, 2025

Una lunga Tosca alla Scala.

Ci sono più intervalli che opera… Così una signora di prima galleria dopo i 50’ di sosta fra il primo e il second’atto (guai non meglio precisati nel cambio-scena).

A poco più di 5 anni di distanza è tornata alla Scala la produzione (Santambrogio 2019) affidata per l’allestimento a Davide Livermore, che però è come Paganini, non ripete, e quindi cede il testimone ad Alessandra Premoli.

[Qui le mie note critiche di allora; e qui invece, qualche mia elucubrazione… filologica sull’opera; e infine un parere sulla drammaturgia di Tosca, assolutamente politically-correct, dell’omnisciente IA.]

Oggi cambia il Direttore (Gamba subentra a Chailly) mentre nel cast restano, almeno per qualche recita, due dei personaggi chiave: Meli e Salsi, più il simpatico Spoletta di Bosi.    

Le mie perplessità sulla messinscena espresse allora ovviamente rimangono tali (non essendo io un personaggio politico, non ho la necessità di ribaltarle a seconda del ruolo in parlamento…)

Quindi mi limiterò a qualche considerazione sul fronte musicale. Anticipando che il pubblico (gallerie, quanto meno) si è ampiamente diviso fra applausi e contestazioni. Che hanno colpito Francesco Meli, fin dalla Recondita armonia e poi – assai più accese – dopo il Lucevan le stelle. Contestazioni che non mi sento di condannare del tutto, poiché all’apprezzabile livello dell’espressione non sempre ha corrisposto lo smalto della voce, tutt’altro che impeccabile.

Ma persino Salsi ha avuto alla fine qualche dissenso, personalmente non condiviso. Chiara Isotton è stata una Tosca più che positiva: voce corposa, calda e sempre ben impostata, non ha fatto troppo rimpiangere la Netrebko del 2019.

Bene il Sagrestano di Marco Filippo Romano e il veterano Carlo Bosi come Spoletta. Un po’ al di sotto Costantino Fiorucci (Sciarrone) e un cavernoso Huanhong LI (Angelotti). Gli accademici Xhieldo Hyseni (Carceriere) e la piccola Anastasia Fazio (Pastore) all’altezza dei compiti.

Detto del coro di Malazzi, sempre in gran forma, chiudo su Gamba, a sua volta oggetto di qualche dissenso, in mezzo a convinti applausi. Personalmente gli rimprovero solo qualche eccesso di bandismo, che in un paio di occasioni ha finito per coprire le voci.

Alla fine, nessuna uscita singola a sipario chiuso (…) Insomma, una ripresa di questa produzione non proprio entusiasmante, ecco.

02 febbraio, 2024

Un nuovo doge alla Scala

Simon Boccanegra: opera di vecchi, per vecchi? Certo persino un adulto (non dico poi un adolescente) può faticare ad emozionarsi per le vicissitudini di un padre e di un nonno! Roba giurassica. E per di più quando i due sono genero e suocero!

Ah, Verdi aveva 44 anni quando compose la prima versione del Simone, e sulle spalle portava già da tempo i pesanti segni delle sventure che la vita (magari più prima che poi, come nel suo caso) immancabilmente riserva a tutti.

E quindi la tinta (Verdi’s copyright) dell’opera è ammantata di cupezza e pessimismo, se ai problemi personali e privati dei protagonisti si aggiungono anche gli intrighi di palazzo e le smanie di potere in un ambiente ancora medievale e oscurantista.

Dopodichè Verdi non sarebbe stato Verdi se non fosse mirabilmente riuscito a nobilitare questo scenario con le sue note!
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Ebbene, ieri abbiamo incontrato un poco più che ragazzo (ancora non ha compiuto 34 anni) che ha stupito per la profondità con la quale ha illustrato questa musica: Lorenzo Viotti!

Certo, i suoni poi li devono materialmente emettere gli strumenti cui danno anima gli strumentisti… e l’Orchestra scaligera ha magnificamente assolto il suo compito con una prestazione impeccabile. Faccio un unico esempio per tutti: la grande cavata in FA maggiore dei violini che accompagna l’epilogo del duetto Simone-Amelia del primo atto. Una cosa a dir poco sbudellante… [A proposito, Meyer in apertura ha voluto ringraziare gli strumentisti in buca e pure quelli non presenti ieri per il premio ricevuto nei giorni scorsi: la miglior orchestra d’opera oggi sul pianeta!]

Dato poi a Malazzi ciò che è… suo (il Coro in grande quanto solito spolvero) vengo alle voci.

Luca Salsi è ormai quasi stabilmente il baritono di riferimento per la Scala: qui vi ha portato il ruolo di Simone, non nuovo per lui, nel quale si è destreggiato con la consueta maestria. Nella tragicità del suo animo tormentato, come negli slanci di amor paterno e nelle colossali perorazioni pubbliche: insomma, un Simone più che positivo… ma forse non il Simone di riferimento.  

Ain Anger è stato un (non aspirante, nel libretto, ma alla fine convinto) suocero per me non disprezzabile (salvo qualche acuto vociferante). Però ha preso esclusivamente su di sé le rimostranze di qualche purista che lo ha sonoramente buato alla fine.    

L’Amelia-Maria di Eleonora Buratto ha ben meritato, calandosi alla perfezione nella parte di questa bistrattata orfanella: brava nel passare dall’ingenuità e timorosità della ragazza cresciuta senza una famiglia, al coraggio di rivendicare il suo amore fino a diventare il catalizzatore della finale e generale riconciliazione. Il tutto supportato dalla sua voce pura sì come angelo, si potrebbe dire... 

Adorno è Charles Castronovo, figlio di emigrati italiani in USA, già interprete del ruolo a Salzbug (2018) insieme a Salsi e sotto la bacchetta di Gergiev: definirei la sua un’interpretazione più che dignitosa, ecco, ma… non molto di più, almeno sul piano strettamente vocale (la voce è squillante, ma negli acuti si ingola pericolosamente). Bene invece ha fatto come attore, interprete di questo ruolo per nulla semplice, perchè caratterizzato da slanci amorosi e da furenti rancori.

Buone notizie da Roberto De Candia, che ci restituisce efficacemente lo sbifido Paolo Albiani, assatanato per il potere e per il possesso (della… gnocca!) Da ricordare i suoi ripetuti sfoghi contro Simone.

Su standard onorevoli il Pietro di Andrea Pellegrini e gli altri due comprimari: Laura Lolita Perešivana (ancella di Amelia) e Haiyang Guo (Capitano dei balestrieri).
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Daniele Abbado. Mi è parso che – magari come ricordo del padre – abbia preso come riferimento Giorgio Strehler, che con Claudio firmò la splendida produzione degli anni ’70. Ambientazione cupa e buia, con pochi e luminosi squarci… nautici (scene e costumi però impoveriti delle preziosità che oggi non sono più di moda).

Ma anche piccoli dettagli, fra i quali ne segnalo uno: l’avvelenamento. Come in Strehler, anche qui Paolo versa il veleno nella tazza di Simone facendosi… aiutare da un inserviente (là femmina, qui maschio) che gliela reca su un vassoio…

Efficace mi è parsa la recitazione suggerita ai personaggi. Complessivamente una regìa onesta e corretta, senza invenzioni ardite o discutibili ri-ambientazioni. Alla fine lui e il suo team (Angelo Linzalata per le scene, Nanà Cecci ai costumi, Alessandro Carletti alle luci e Simona Bucci per la coreografia delle sommosse) sono stati accolti da moderati consensi.

A parte il malcapitato Anger, per tutti applausi calorosi (ma non proprio un tifo da stadio, ecco). Personalmente la definirei nel complesso una proposta seria e onesta, meritevole di ampia sufficienza.

10 dicembre, 2023

Un DonCarlo d’antan

Oggi pomeriggio un'affollatissima Scala ha ospitato la prima (per gli abbonati) di un vecchio DonCarlo (non scaligero): quello del venerato HvK degli anni’80 (!)

Per carità, questo potrebbe anche essere un complimento (quindi riprendere Abbado-Ponnelle del 1968 sarebbe stato altrettanto plausibile): sempre meglio di qualche ardita attualizzazione che trasponga Filippo II in Juan Carlos I, Don Carlo in Felipe VI, Rodrigo in Carles Puidgemont e l’Inquisitore in Santiago Abascal!

Insomma: siamo proprio nella Spagna del 1560, come ci ricordano anche gli appropriati costumi della Squarciapino, e quindi niente armi automatiche, smartphone e lunghi cappottoni in pelle made-in-DDRE del resto, un testo dove un ragazzo ingenuo di 15 anni chiama madre una sbarbata di soli tre mesi più matura (!) che a sua volta lo chiama figlio, st-riderebbe assai con ambientazioni anche di un solo secolo posteriori…

Quanto al lato cosiddetto attoriale dell’interpretazione, trattandosi di attori che conoscono la loro parte come le loro tasche, mi pare che il regista abbia pensato bene (o male, visti i risultati?) di fidarsi di loro, piuttosto che imporgli posture, atteggiamenti e moine assortite, magari non condivise.

Quindi mi sento di dire: accontentiamoci di questo prudente (pavido?) e conservativo allestimento. 
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Questa musica, in fin dei conti, si fruisce con mente e cuore (e udito, va da sé) più che con la vista. Ebbene, ciò che le mie orecchie hanno udito oggi mi porta a dare un generale voto di ampia sufficienza (ben lontana da un 30cumLaude) che ora cercherò di declinare in maggior dettaglio. Adottando un approccio top-down (dal generale al particolare): quindi partendo dalla concertazione e dal suo responsabile per poi scendere agli interpreti.

Chailly ha – per me – tenuto un approccio (quello che Verdi chiamava la tinta dell’opera) assai cupo e tempi (eccessivamente?) sostenuti. Una direzione che alla prima non era stata unanimemente condivisa, mentre oggi devo dire che ha ricevuto solo consensi. Ma che è del tutto coerente con l’approccio registico, che nulla ha concesso all’esteriorità, come testimonia la soppressione (imposta - sono parole dello stesso Chailly - da Pasqual) dei ballabili de La Pérégrina. Insomma, qui sul francese esprit de finesse ha prevalso l’ispano-italico (e un po’ teutonico) esprit de géometrie!

Il coro di Alberto Malazzi non si smentisce mai e anche oggi ha saputo esprimere al massimo tutte le sue potenzialità, sia nei passaggi più cupi (il mortorio iniziale) che in quelli più sfacciatamente estroversi (Atocha) o drammatici (il popolo del terzo e quarto atto).

La coppia di bassi. Un Pertusi gigantesco (la tachipirina evidentemente ha fatto miracoli…) ha messo in ombra (purtroppo per lui) il malcapitato Jongmin Park, subentrato in extremis all’indisposto Anger a sostenere, oltre che quella iniziale del Frate, anche la parte impervia dell’Inquisitore. Il basso coreano ha messo in mostra un gran vocione, ma il suo Inquisitore ha fatto paura come la farebbe un orco affamato, non un Cardinale del Sant’Uffizio!  

La coppia degli sfortunati amanti. Netrebko sontuosa, come sempre, nella voce, un po’ meno nella recitazione (ma non è colpa dei registi, è una sua perdonabile attitudine). Forse fin troppo musicalmente cattiva con la rivale, quasi una Eboli-2-la-vendetta! Ma dopo le Vanità gli applausi son durati un paio di minuti… Meli tutto l’opposto: fin troppo lezioso e remissivo, nemmeno ad Atocha ha tirato fuori le p… (dicasi gli acuti, che il passare degli anni gli divengono sempre più vietati).

La coppia di outsider. Garanča superlativa (per me, nel complesso, la migliore). E non solo per le due perle (Velo e Don) ma sempre, in particolare nel duetto con Meli. Bene Salsi, ma forse non perfettamente a suo agio in una parte più romantica che truce (dove va a nozze...)

Su livelli standard tutti/e gli/le altri/e.

In definitiva, un’inaugurazione assolutamente dignitosa, ma non certo indimenticabile, della quale si continuerà a parlare più che altro per via della provvidenziale presenza (il 7 dicembre) del protagonista fuori-scena: il convitato di pietra Marco Vizzardelli! 

Applausi a scena aperta dopo le arie principali; alla fine applausi e ovazioni per tutti (compreso Pasqual, intrufolatosi furbescamente in mezzo agli altri, così in pochi l’avranno riconosciuto…) con qualche schiamazzo dai loggioni che ha lasciato del tutto indifferente la Digos (!) 

18 giugno, 2023

Torna al Piermarini il Macbeth di Livermore

Ieri sera la Scala ha ospitato la prima di Macbeth nella produzione che allietò (beh, insomma…) il SantAmbrogio2021, allora firmata da Chailly-Livermore. Oggi resta solo il regista, mentre il concertatore è quel Giampaolo Bisanti che poco più di un anno fa esordì brillantemente in Scala con Adriana.

Rispetto al 2021 tornano anche il protagonista Luca Salsi (per alcune recite), Ekaterina Semenchuk e Jongmin Park (allora cantarono l’ultima recita al posto di Netrebko e Abdrazakov) e la figura di contorno del Medico (Andrea Pellegrini). Più avanti si rifarà viva anche la divina Anna (cui nessuno chiede più abiure contro il macellaio Putin…)

La messinscena di Livermore (parlo per me, ovviamente) era già piuttosto deludente (e pure… vecchia) al suo primo apparire, e in questi 18 mesi non poteva certo ringiovanire, perciò lasciamola pure al suo destino e parliamo di musica.

Partendo dalla direzione di Bisanti, che evidentemente ha fatto tesoro della strada aperta nel 2021 da Chailly, mettendo in risalto, e sempre in modo appropriato, ogni dettaglio della partitura, mai andando sopra le righe anche quando vi fa capolino la proverbiale vanga di Verdi; e guidando/accompagnando le voci con equilibrio e… rispetto. L’orchestra ha confermato il suo stato di grazia, in tutte le sezioni e nei singoli.

Lode piena ai coristi di Malazzi e alle due soliste del coro di voci bianche: in questo repertorio non hanno uguali!

Luca Salsi ovviamente non è una sorpresa, ma una certezza: non una sbavatura nella sua voce, varietà di accenti e piena immedesimazione nel ruolo. Per lui ancora un gran trionfo e apprezzamenti incondizionati.

Ekaterina Semenchuk è ormai una veterana nel ruolo, che ha cantato in giro per il mondo. Si può discutere se la sua voce da mezzo sia più o meno adatta alla parte (chi predilige una Lady autoritaria e sfacciata l’apprezzerà, chi preferisce una Lady complessata e insicura avrà qualche riserva e… aspetterà la Netrebko) ma insomma, meglio l’abbondanza che la carestia, ecco. Trionfo anche per lei.

Jongmin Park, da ex-accademico è ormai diventato quasi un veterano alla Scala (fra l’altro in questi giorni, accanto a quelli di Banqo, ha ancora nel suo camerino anche i panni di Vodnik…) ha messo in luce i suoi pregi (una voce davvero imponente) e magari il difetto di non gestirla ancora al meglio, sconfinando talora in schiamazzi poco verdiani, ecco. Certo, Abdrazakov è altra pasta, tuttavia mi sento di dare ampia sufficienza al 37enne basso coreano, che non può che migliorare ancora. E il pubblico mi pare sia stato ancor più buono con lui.

IIl Macduff di Fabio Sartori merita a sua volta un voto ampiamente positivo: la parte non è certo proibitiva, avendo solo un paio di momenti topici (l’aria e il finale) ma proprio per questo va lodata la professionalità del tenore, che ci ha messo il meglio di sé.

Malcom era Jinxu Xiahou, che mi aveva lasciato una buona impressione nel suo Tebaldo (Capuleti, 2022). E ieri l’ha pienamente confermata, guadagnandosi calorosi applausi.

Gli altri comprimari (Marily Santoro, dama; Leonardo Galeazzi, domestico; Costantino Finucci, araldo/apparizione; e il citato e redivivo Andrea Pellegrini) han fatto del loro meglio per completare l’opera.

Alla fine convinti applausi per tutti, con punte per Salsi, Semenchuk e Bisanti. 

04 maggio, 2023

Il ritorno di Chénier alla Scala

Dopo il fortunato SantAmbrogio del 2017 ecco tornare alla Scala l’Andrea Chénier, con Kapellmeister e cast quasi completamente rinnovati. A parte il team registico (di Mario Martone) e ovviamente l’Orchestra e il Coro della Scala, gli unici due superstiti di quella produzione sono il signor Netrebko e l’Incredibile Carlo Bosi. Cui però si è aggiunto, ieri alla prima, Luca Salsi, arrivato in fretta e furia a provvidenzialmente sostituire l’Ambrogione Maestri.

Rimando quindi per le mie impressioni sulla regìa – sostanzialmente positive, che questa ripresa non fa in nulla mutare - a quanto da me scritto in quell’ormai lontano 14 dicembre 2017; qui invece una mia succinta esegesi dell’opera.

Pubblico non debordante (non escluderei anche qualche fuga all’intervallo…) e con atteggiamento dal tiepido al caldo, non di più: accoglienza finale direi nella media delle durate (10 min al massimo) e consensi distribuiti un po’ a tutti (a Yoncheva anche una modesta contestazione).

Personalmente, detto che Salsi evidentemente ha tenuto in cuore questo Gérard del ’17, quindi merita il massimo (al Nemico il Piermarini è esploso…), benino (non per tutti) la Yoncheva, che non è ancora (ma le auguro di arrivarci) la Netrebko. Il cui maritino mi pare migliorato nella linea della… vita (lo ricordavo ben più pasciuto, ecco) mentre in quella del canto starei un filino più cauto (discorso a parte il timbro della sua voce che non mi è mai piaciuto… de gustibus). Ottima la Zilio, una Madelon strappalacrime e strappa… applausi, oltre la semplice sufficienza gli altri.

Armiliato? Senza infamia, ma anche con scarsa lode, direi: una prestazione non più che onesta, la sua, dovuta più che altro alla buona forma dell’orchestra. Sicura come sempre la prova del coro, che non ha ostacoli insormontabili da superare.

Insomma: dopo la non stratosferica Lucia, una ri-proposta che non ha dato (a mio modesto giudizio) il classico colpo-di-reni… ci penserà forse il bel tenebroso Jonas???

05 maggio, 2022

Un nuovo (e pregevole) Ballo alla Scala

Dopo quasi 9 anni (era il luglio 2013) ritorna alla Scala Un ballo in maschera, in una nuova produzione, affidata per l’allestimento a Marco Arturo Marelli (con Marco Filibeck alle luci) e - dopo la forzata defezione di Chailly - a Nicola Luisotti (prime 5 recite) e Giampaolo Bisanti (le ultime 2) per la parte musicale.

Dico quindi subito di Luisotti, al quale ovviamente vanno concesse a-priori ampie attenuanti legate alla chiamata ricevuta a poca distanza dalla prima: perciò mi sento di riconoscergli il merito di aver concertato più che bene uno spettacolo che era evidentemente stato pensato e impostato dal Direttore musicale, poi costretto al forfait.   

Unica superstite del 2013 è Sondra Radvanovsky, che ricordo avesse avuto allora un’accoglienza più che buona (cosa da me condivisa): la sua voce sembra addirittura sovradimensionata rispetto alle esigenze imposte dal personaggio, ma timbro, qualità di emissione, espressione e portamento ne hanno fatto un’Amelia super, giustamente accolta da clamorose ovazioni a scena aperta e alle uscite finali.

La premiata coppia Francesco Meli - Luca Salsi ormai è chiamata dalla Scala (leggi Chailly...) per tutti i ruoli importanti (verdiani in particolare): di Meli come Riccardo mi era rimasto un ottimo ricordo da una produzione veneziana del 2017, e anche ieri non ha tradito a sua fama, pur senza entusiasmare, ecco. Salsi poi pare crescere (se possibile) ad ogni uscita e così, con la Sondra, è stato lungamente ovazionato sia dopo le arie che al termine.   

Yulia Matochkina impersona la millantata maga Ulrica: voce ben impostata e adeguata presenza scenica. Complessivamente una prestazione più che discreta la sua, accolta con apprezzamenti: forse un filino di cattiveria in più le avrebbe giovato...

Il personaggio di Oscar è affidato qui a Federica Guida: che mette la sua voce chiara e squillante al servizio di questa variante di Cherubino: anche per lei solo approvazioni.  

I due maschietti-mafiosetti sono Sorin Coliban (Samuel) e Jongmin Park (Tom), che hanno svolto con profitto il loro compito, così come il miracolato Silvano di Liviu Holender.

I due personaggi accessori (non me ne vogliano per l’attributo, ma diamo atto che anche gli accessori servono, e come...) sono Costantino Finucci (un giudice) e Paride Cataldo (un servo d’Amelia).

Alberto Malazzi ha guidato il rinomato Coro scaligero in modo praticamente perfetto.
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Che dire della regìa? Peste-e-corna che avevo riservato a Michieletto 9 anni orsono?

Al contrario, Marelli ci ha proposto un Ballo assolutamente fedele al libretto e alla partitura. Il regista-scenografo elvetico non ha cercato improbabili ri-ambientazioni nè rincorso chimeriche de-strutturazioni e ri-strutturazioni del soggetto originale.

Fa eseguire il Preludio a sipario alzato, e una volta tanto ciò non solo non disturba, ma aiuta ad evocare la complessa (e complessata) personalità di Riccardo: che vediamo trastullarsi con un modellino di una sala delle feste popolato da statuine in maschera. Chiara (almeno per me) indicazione della premura e dell’amore che il Conte ha per il popolo che è chiamato a governare e a rendere felice. E dei sogni che popolano la sua immaginazione, uno dei quali è impersonato da una statuina che lui prende e porta amorevolmente al petto, proprio mentre l’orchestra intona il motivo La rivedrà nell’estasi... Il modellino tornerà poi alla fine, per sottolineare anche la fine dei sogni.

Conte che ci viene mostrato poi con pennellate di regalità (la posa con mantello ed ermellino per il ritratto) poichè sappiamo che la storia risale a Gustavo III; per il resto in abbigliamento da popolano, che appunto ama mescolarsi alla sua gente.

Le scene sono assai spartane ed essenziali: quinte mobili chiudono gli ambienti e poi li aprono alla bisogna; pochissime suppellettili, per concentrare l’attenzione dello spettatore sul dramma. Una grande roccia nella scena presso Ulrica, rappresentante (ma questo lo spiega il regista sul programma di sala) il Destino che incombe sul protagonista e sul suo popolo. Altre rocce, con corvacci imbalsamati (...) nel campo abbominato, che per il resto si presenta come luogo spettrale e deserto (e non come ritrovo di battone, chi ha orecchio per intendere...) Un letto e null’altro nella casa di Renato all’inizio del terz’atto; spazio vuoto che si riempirà di popolo festante per il ballo.

Le luci di Filibeck ben supportano le diverse atmosfere che si susseguono nell’opera; i costumi sono più o meno plausibilmente dell’epoca in cui la vicenda è ambientata.

Efficace poi la gestione dei personaggi e delle masse: che mette adeguatamente in risalto le diverse personalità dei protagonisti e le attitudini del popolo nelle sue diverse manifestazioni.

Insomma, un allestimento caratterizzato da alta professionalità e onestà intellettuale, che il pubblico ha accolto con grande calore e lunghi minuti di applausi per tutti.

11 dicembre, 2021

Il Macbeth distopico

 

Livermore parte come se dovesse proporci un Macbeth di... Livermore (tipo la sua personale versione mafiosa dei Vespri siciliani) ambientato nel mondo della criminalità organizzata: è precisamente ciò che ci mostra proprio nelle prime sequenze dell’opera: due eroi salvatori della patria (hanno appena sbaragliato gli sbifidi cugini annessionisti inglesi) trasformati in due sicari alle prese con ceffi della cosca rivale! Apperò!

Certo, a parte i suoi Vespri, di trasposizioni di vicende che comportano scontri fra poteri (o fra uomini di potere) in squallide faide fra mafie e camorre ne abbiam viste a josa e non ce ne stupiamo più. Resta il fatto che trattasi di trasposizioni solo apparentemente intelligenti, in realtà superficiali e volte a stupire a buon mercato lo spettatore. Perchè, per quanto autoritari, assoluti, dispotici, sanguinari e ospiti di trame oscure per la conquista del potere, ambienti come la Corte di Scozia e quella d’Inghilterra hanno pur sempre lo status di istituzioni pubbliche: le mafie sono cose ben diverse e rispondono a tutt’altre regole.

Anche il castello di Macbeth è arredato pericolosamente in stile Casamonica, ma poi l’arrivo del Re e il suo indirizzo ai notabili sembrano rimettere un po’ le cose a posto, come se il regista fosse rinsavito (magari dietro consigli amichevoli) e così da lì in poi siamo tornati (quasi) a Shakespeare e ad una sana e corretta (si fa per dire, ma queste - come argutamente ci ricorda la Lady - erano le medievali usanze che noi scafati del terzo millennio non esitiamo a perpetuare) lotta per il potere. Però che il nuovo Re venga mostrato mentre personalmente organizza nei dettagli l’agguato a Banquo è cosa ridicola sia nei palazzi del potere che in quelli delle cosche: Piave e Verdi ci avevano spiegato tutto assai chiaramente poco prima, senza bisogno di queste didascaliche trovate del regista.   

Non ci scandalizziamo comunque se i costumi sono moderni (le armi un po’ meno, a dir la verità, ma d’altronde sostituire gli spadoni con pistole con silenziatore manderebbe in vacca mezza trama, vedi la visita della Lady sul luogo del delitto e soprattutto la sua aria del sonnambulismo, dove lei si gratterebbe... i residui di polvere da sparo) e se le scalate al potere (e conseguenti ricadute) avvengono in ascensori ottocenteschi.

Macbeth è un’opera che tratta di archetipi, non di banali storie medievali, quindi per definizione attualizzabile all’oggi. E sul versante, diciamo, politico, l’attualizzazione di Livermore è addirittura fulminante: la scena dell’esodo dei poveri Scots pare presa da un telegiornale di questi giorni che ci manda le immagini dal confine bielorusso-ukraino!

Peccato che invece Livermore non abbia pensato ad un parallelo altrettanto fulminante fra la creduloneria di Macbeth e consorte e quella di certi no-vax nostrani che si fidano di moderni stregoni... restando pedestremente fedele alle medievali streghe di Shakespeare.

L’opulenza dei mezzi impiegati ha garantito uno spettacolo epidermicamente godibile, ma in teatro assai meno che in TV (questo forse spiega i buh della prima... ieri il regista ha preferito non esporsi.) Ma del resto il grosso degli incassi di questa produzione è previsto arrivi dai diritti TV, dalla vendita di DVD e soprattutto da generose elargizioni degli sponsor, non certo dal botteghino dei teatri!

In definitiva, un allestimento che definirei in-significante, nel senso proprio del termine: che non apporta significati (e meno male che non ne apporta di diametralmente opposti rispetto all’originale). Uno spettacolo tutta forma e poco contenuto, applicabile probabilmente al 95% almeno delle opere di teatro musicale, da Rigoletto a Tristan.
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Le scelte filologiche di Chailly (ballabili e arioso finale di Macbeth) devo personalmente censurarle: che sia grande musica è fuor di dubbio, ma i 10 minuti di pantomima a casa delle streghe sono insopportabili come le fermate impreviste dei Frecciarossa in aperta campagna: magari hai di fronte un bel panorama, ma ti scoccia maledettamente di stare immobile (invece di andare a 300 all’ora per arrivare in 3 ore da Roma a Milano) e di farti sorpassare da un intercity scalcinato!

Quanto al Mal per me (ho potuto appurare navigando qua e là che Abbado effettivamente lo fece cantare a Cappuccilli nel 1975 e sul tema rimando i curiosi all’appendice al post) se Verdi nei 36 anni che gli restarono da vivere (dal 1865) mai tornò sulla decisione di reintrodurlo, una ragione ci sarà pure, credo. Ad esempio che non volle dare al personaggio quel risvolto patetico e strappalacrime - tanto melo-drammatico quanto anti-shakespeareiano - che si concede normalmente al tenore che, con la spada ancora conficcata nel petto, si rialza per cantare eroicamente l’ultima aria dell’opera! (Giustamente, invece, Otello quel regalo se lo meriterà...)

A giustificazione di questa scelta, Chailly cita un ritorno motivico fra il Preludio e le ultime battute dell’aria: sul verso Vil corona, vil corona... si odono due schianti orchestrali (FA minore - DO maggiore, tonica-dominante) che vengono dalle battute 24-25 del Preludio, dove separano l’esposizione del primo tema (quello delle Streghe) dal secondo (quello che introduce nel quart’atto il sonnambulismo della Lady). A me pare francamente una motivazione piuttosto debole: quelle due battute hanno una ben precisa funzione sinfonica nel Preludio, indipendentemente dal loro ritornare o meno nel corpo dell’opera.

Sul piano della direzione e concertazione nulla da dire, anzi molto, e tutto in positivo: all’appropriatezza delle agogiche (stacco di tempi) già positivamente giudicabile in TV si aggiunge l’attenzione alle dinamiche che il Direttore gestisce con assoluta cura, bilanciando sempre al meglio il suono della buca con il canto che arriva dal palco. Un lavoro di scavo nei dettagli della partitura che gli fa onore e gli merita l’applauso incondizionato che il pubblico (quasi da tutto-esaurito) gli ha tributato al rientro ed alla fine. Naturalmente è l’Orchestra poi a realizzare praticamente l’approccio interpretativo del Direttore, e anche ieri gli scaligeri hanno dato il meglio di sè: l’oboe di Fabien Thouand e il violoncello di Sandro Laffranchini sono le punte dell’iceberg di una prestazione davvero sontuosa.

Altrettanto dicasi del Coro di Alberto Malazzi, perfetto sia nel padroneggiare i complessi passaggi delle stregonerie che i grandi concertati che costellano la partitura. I piccoli del pensionato Bruno Casoni si sono pure fatti valere. Vengo alle voci, alle quali deve aver giovato l’esperienza della prima, nel senso di mettere ulteriormente a punto i rispettivi ruoli.

Luca Salsi ormai lo conosciamo bene (personalmente ho sentito dal vivo almeno tre suoi Macbeth, incluso quello del 1847) e anche ieri non si è smentito, riempiendo gli ampi spazi del Piermarini con la sua voce calda e penetrante, accompagnata da sapienti sfumature espressive.   

Anna Netrebko, un filino trattenuta a SantAmbrogio, ieri pare essersi liberata di paure e complessi e ha sfoggiato tutta la sua classe: si dice che Verdi volesse un’interprete più teatrale che musicale... beh, ascoltandola ieri forse si sarebbe ricreduto, ecco.

Ildar Abdrazakov ha iniziato, chissà, magari ancora un poco freddo, con un eccessivo vibrato, ma poi è uscito da par suo e ha dato spessore al suo ruolo, per di più facendo anche (come pretendeva Verdi) il morto che cammina (e, nella pantomima, si trascina pure il pargoletto attaccato al piede!)

Francesco Meli ha una parte effettivamente concentrata sull’aria e su un paio di concertati: ci ha comunque messo tutto se stesso, dando il suo prezioso contributo all’alto livello musicale di questa produzione.

Iván Ayón Rivas (lo sentivo dal vivo per la prima volta) è stato una bella sorpresa e credo che abbia tutte le carte in regola per far molta strada.

Chiara Isotton e Andrea Pellegrini rappresentano altre due perle di questa produzione: che si può permettere due voci così sontuose per due ruoli - sul piano quantitativo, sia chiaro - davvero marginali.

Tutti all’altezza del compito gli altri comprimari.

Che dire in conclusione? Un Macbeth musicalmente al top. Uno spettacolo tutto fumo e poco arrosto. Pubblico prodigo di ovazioni e - per mancanza di... bersagli - niente buh.
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Il giallo della morte di Macbeth in Abbado-Strehler   

Chailly, assistente musicale di Abbado ai tempi delle rappresentazioni scaligere del ’75-‘76, riferendosi alla sua odierna decisione di inserire prima del finale l’aria della morte di Macbeth (Mal per me...) cita proprio il precedente di 46 anni fa. Ma quell’aria fu davvero cantata (da Cappuccilli) sulla scena?

Ovviamente esisteranno molti testimoni oculari-auricolari dentro e fuori dal teatro che potrebbero confermarlo (o meno) ma chi, come il sottoscritto, non ebbe la ventura di assistere a nessuna di quelle rappresentazioni e deve quindi accontentarsi di ciò (moltissimo, ma non tutto) che passa il convento la rete, può interrogare principalmente le seguenti fonti informative: youtube, google-search, archivio storico della Scala e siti internet che vendono registrazioni ufficiali o più o meno rapinate (tipo diffusioni radiofoniche o simili).

L’Archivio storico della Scala ci fornisce intanto le seguenti informazioni ufficiali: la produzione in questione andò in scena nella stagione ’75-’76 (8 rappresentazioni fra dicembre e gennaio più tre a NewYork in tournée a settembre ‘76); poi nella stagione ‘78-‘79 (6 rappresentazioni fra aprile e giugno ’79); infine nella stagione ’84-’85 (7 rappresentazioni a maggio 1985). Un particolare interessante per le successive ricerche riguarda il cast: i tre ruoli principali sono sempre sostenuti da Cappuccilli, Verrett e Ghiaurov, mentre la parte di Macduff nel ’75-’76 (in Scala) fu sostenuta sempre da Franco Tagliavini (a NewYork si succedettero Ottavio Garaventa e Veriano Luchetti) poi nel ’79 il titolare fu sempre Luchetti e nell’85 cantarono Peter Dvorsky e Walter Donati. Altro indizio importante: il libretto dell’opera (verosimilmente parte del programma di sala dal ’75 in poi) non comprende l’aria in questione.

Veniamo ora a youtube: vi si possono vedere o ascoltare due recite: una sedicente (e falsamente, come si vedrà) del gennaio ’76 (trasmessa in video dalla RAI) e una (audio) certamente della ripresa del 1985 (18 maggio). In entrambe l’aria in questione non viene eseguita. Tuttavia scopriamo che il video RAI è erroneamente attribuito a gennaio ’76: ce lo dice la locandina che compare in testa (e poi in coda): Macduff è Veriano Luchetti! Quindi siamo per forza nel 1979, precisamente (come ci confermano sia l’Archivio Scala che la RAI) il 30 giugno (ultima recita).

A questo punto ci rimane il dubbio proprio sulla stagione ’75-’76: possibile che l’aria fosse cantata allora e poi mai più presentata (dallo stesso interprete della stessa produzione originale) nelle due riprese successive?

In effetti, allora fu cantata. Ne abbiamo due diverse fonti informative: la prima è l’edizione discografica della Deutsche Grammophon, con la quale Abbado aveva l’esclusiva, pure ascoltabile su youtube): stando alle informazioni sul CD, fu rilasciata inizialmente il primo gennaio ’76 (quindi a recite ancora non concluse!) e successivamente rimasterizzata. E qui - apriti sesamo - ecco magicamente comparire, nella penultima traccia del CD, Cappuccilli con il Mal per me!

Sempre dalle note allegate al CD scopriamo però alcuni dettagli interessanti, e pure... inquietanti: per prima cosa si tratta di una registrazione fatta in studio e non in teatro (mancano in effetti gli applausi); il tenore che interpreta Macduff è - ma guarda un po’ - il Topone Domingo! Ma soprattutto, sotto l’elenco degli interpreti troviamo le indicazioni Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, Direttore Claudio Abbado e - ma riguarda un po’ - Wiener Philharmoniker!!!

Mammamia, conoscendo ciò che avveniva già allora (e a maggior ragione oggi) nelle sale di incisione e soprattutto nella post-produzione, dove si monta (leggi: taglia e cuci!) il prodotto da mettere in commercio, ci resta il dubbio che al Piermarini l’aria non si fosse proprio sentita, e che Chailly ricordi quindi solo le prove fatte in sala di incisione.

Invece è un sito semi pirata (HouseOfOpera) a portare la pistola fumante, la registrazione radiofonica (di infima qualità, incluso il black-out che taglia fuori metà del second’atto) della prima del SantAmbrogio 1975 dove l’aria è ben presente, contornata dagli applausi del pubblico.

Ma allora una domanda sorge spontanea: perchè nel ’79 (registrazione video RAI) e nell’85 (registrazione audio) l’aria non compare? Forse che Cappuccilli la cantò solo nel ’75-’76? Ma allora com’è che lui la cantò (e questo è certissimo) a Salzburg nel 1984 con Chailly e i Wiener, per poi tornare ad escluderla un anno dopo in Scala? Domande che restano senza risposta, salvo il sospettare che qualche interesse (e qui il sospettato n°1 è la Deutsche Grammophon) non abbia imposto a tutti una specie di copyright - quindi un veto - sulla diffusione di quel brano...  

Ed è ciò che vien da sospettare prendendo ad esempio proprio la registrazione RAI del ’79. Un acuto commentatore del video su youtube ci fa osservare che l’audio della chiusa dell’aria del sonnambulismo (Verrett) sembra in realtà prelevato dal CD della Deutsche Grammophon, e io aggiungo che non vi si sente alcun applauso, cosa semplicemente incredibile! Per di più, uscita la Verrett di scena, l’inquadratura torna su un Abbado che ha tutta l’aria di riprendere a dirigere dopo un po’ di tempo (appunto: gli applausi alla Verrett). Ma quindi, insomma: se il video RAI è stato oggetto di taglia-e-cuci in quel punto, chi ci dice che anche l’aria di Cappuccilli non sia stata tagliata in studio? Torniamo a guardare quel video al momento della zuffa fra Macbeth e Macduff: Cappuccilli e Luchetti vanno a confrontarsi armi in pugno sull’estremo fondo-scena, addirittura scomparendo dentro la foresta (vera o posticcia) di Birnam. A questo punto però l’inquadratura passa sulla buca e su Abbado, che dirige il breve postludio seguito al ferimento di Macbeth. Poi dà un attacco e l’inquadratura torna sulla scena per il finale trionfo. Domanda: chi ci assicura che, durante il citato postludio, Cappuccilli non sia tornato sulla scena per poi cantare l’aria, tagliata in studio?

Ecco, come nel gioco dell’oca, siamo tornati alla casella zero: solo testimoni oculari-auricolari (dentro e fuori dal teatro) potrebbero darci smentite o conferme riguardo le altre 23 rappresentazioni (incluse le 3 di NY) andate in scena dopo la prima di quell’ormai lontano 7/12/75.

07 dicembre, 2021

Il Macbeth televisivo

Le mie impressioni a caldo dopo ascolto-visione TV sono tutto sommato positive, con buoni voti alla parte musicale (cui però farò l’esame vero fra qualche giorno, dal vivo) e discreti per lo spettacolo, che ho l’impressione sia stato pensato (come pure la Tosca del ’19) più per il piccolo schermo che per il teatro.  

Al netto delle solite messe-in-guardia, doverose quando si ascoltano i suoni portati all’orecchio dai bit e non dall’aria, devo dire che tutte le voci hanno fatto bella figura: Salsi è un Macbeth ormai super-collaudato e la Netrebko canta come doveva cantare ai tempi di Verdi la Tadolini (quindi non sarebbe piaciuta al Peppino...): se proprio le devo trovare un pelo nell’uovo, citerei la caduta di ottava sui due REb della chiusa del sonnambulismo, che lei ha separato e non legato (ma forse ne è responsabile la posizione... imbragata cui l’ha costretta Livermore). Abdrazakov e Meli hanno messo tutta la loro professionalità nei due ruoli-mignon che impersonano e lo stesso han fatto gli altri comprimari. Eccellente come da tradizione il coro passato nelle mani di Alberto Malazzi da quelle di Mario Casoni, che mantiene però la salda guida delle Voci bianche.

Chailly in gran spolvero: tempi ben misurati e buon dosaggio delle dinamiche (da verificare dal vivo, in rapporto alle voci). Orchestra in stato di grazia, evidentemente preparatasi al meglio per l’occasione.

I ballabili: da elogiare la scelta di farne delle pantomime e di coinvolgervi i protagonisti (la Netrebko ha un futuro per quando si stancherà di cantare!) Tuttavia non si può non arricciare il naso (come sempre) riguardo l’effetto-calmante che hanno sulla drammaturgia. 

Davide Livermore, parlando delle sue regìe di Attila (ieri) e Macbeth (oggi) ogni due parole aggiunge distopico. L’Italia ai tempi della comparsa dell’Attila era distopica. Il mondo di oggi che viene rappresentato nel suo Macbeth è distopico. Qualunque cosa voglia dire... Al solito si è preso ovazioni e ululati; personalmente manterrei una posizione di benevola indifferenza, non avendo lui preteso di re-inventare il soggetto, il che mi basta, ecco.

Patria oppressa sembra non si addica all’Italia di oggi, almeno a giudicare dall’interminabile applauso che ha accolto il Presidente.

11 dicembre, 2019

La Tosca in teatro: luci e ombre


Dico subito che i miei timori si sono materializzati: lo spettacolo è di alto livello, per carità, ma è fatto per il cinema (compresa la sorellina minore, la TV) e per i DVD. In teatro perde molto del suo fascino ed anzi finisce quasi per deludere. Perchè l’attenzione del pubblico viene catturata dall’opulenza della scenografia e distolta dalla componente principale dell’opera, la musica!

La ripresa TV (se fatta sapientemente, come accade abbastanza in questa occasione) riesce a coniugare le esigenze visive con quelle uditive, poichè raramente, e solo nei frangenti che lo richiedono, mostra - fissa - l’intera inquadratura dell’enorme palcoscenico. Per il resto segue da vicino, o da vicinissimo, in primo piano, e da prospettive insolite e precluse allo spettatore in sala, i protagonisti dell’azione, permettendo così a chi assiste di focalizzarsi sull’essenziale, immagine e suono. É precisamente il concetto-base del cinema, dove tutto deve congiurare a orientare l’attenzione dello spettatore sull’essenza del soggetto rappresentato.   

Caratteristica che è poi stata fatta proprio dalle riprese televisive, come quelle di un incontro di calcio, dove quasi mai viene mostrata l’inquadratura fissa dell’intero campo (quella che vede lo spettatore dagli spalti) bensì la (piccola) parte del terreno, quella dove si svolge l’azione, e magari con replay da mille diverse direzioni e angolazioni, per arricchire lo spettatore di informazioni e dettagli invisibili ad occhio nudo. E il bello è che le immagini televisive vengono oggi proiettate anche negli stadi, su schermi giganti, in modo da fornire allo spettatore dal vivo ciò che altrimenti sarebbe patrimonio solo di quello seduto in poltrona a casa sua.

Ma ora sorge la domanda: vogliamo trasformare anche i teatri in stadi, dotandoli di schermi dove proporre i close-up o i replay dell’azione (?!) Se la risposta è , bene, allora si provi a farlo, se ci si riesce... Se invece è no, allora bisogna prendere atto che l’impiego di strumenti nati con altri scopi non è compatibile con il teatro che si fa in teatro (non sullo schermo, maxi o mini).

Altro problema. Purtroppo il teatro-di-regìa non contempla alcuna staticità (siccome vuole appunto fare teatro prima che musica!) e quindi tende a movimentare di continuo la scena, anche dove ciò sarebbe da evitarsi, finendo così per disorientare lo spettatore, che fatalmente sposta l’attenzione dal contenuto essenziale (il principio attivo, direbbe il farmacologo) all’invadente eccipiente. Insomma, è l’esteriorità dello spettacolo (magari interessante e sontuoso in sè) a prendere purtroppo il sopravvento.

Esempi relativi a questa Tosca: la presenza ingiustificata e quasi continua di personaggi alieni (ma a volte anche pertinenti!) al soggetto. Qui basta ricordare le suorine che nella chiesa vanno e vengono, spostando trespoli porta-candele, da destra a sinistra e da sinistra a destra; o la folla che occupa l’ufficio di Scarpia, comprese le domestiche-religiose che gli apparecchiano e sparecchiano la tavola; il continuo spostamento di parti della scenografia (colonne o affreschi che salgono-scendono, oggetti d’arredamento o intere parti di edifici che si spostano da sole o perchè spinte da figuranti, il torrione con l’alona del santangelone che gira incessabilmente su se stesso, come una giostrina per bambini, tableau-vivant che si animano impercettibilmente - ma solo per gli spettatori che entrano in Scala dal foyer al piano terra, quelli che entrano da Largo Ghiringhelli vedono solo... i piedi, o nemmeno quelli). Ma anche dettagli pertinenti al soggetto, ma che dovrebbero restare invisibili all’occhio, proprio come lo sono ai personaggi in scena: la sala della tortura di Cavaradossi, di un realismo davvero controproducente!

Insomma, pare che l’obiettivo della messinscena sia quello di mostrare le meraviglie dei potenti mezzi di cui la Scala si è dotata dal 2005, in modo da stupire lo spettatore (come accadeva nel barocco del ‘700 con l’impiego di strabilianti macchine ed effetti speciali... ma lì erano parte integrante dell’opera!) e pazienza se l’intimo contenuto del soggetto rischia di passare in secondo piano. Insomma: la forma prevale sulla sostanza (leggi: la musica). Non si è sempre criticato il grande Zeffirelli per l’ipertrofia, la sovrabbondanza e l’eccesso di effetti scenografici? Ecco, questa Tosca sembra inscenata da uno Zeffirelli_2.0!

La fedeltà alla partitura (le indicazioni didascaliche) tanto sbandierata da Livermore/Chailly è un concetto assai elastico: ne è lampante prova il finale dell’atto secondo, dove l’intera sequenza dell’allestimento - da parte di Tosca - della camera ardente per Scarpia (è Kitsch solo se fatta in modo trasandato, altrimenti è proprio parte integrante del quadro della personalità della protagonista) viene tranquillamente rimossa, per lasciar spazio a Freud. Ironia della sorte, la responsabilità è di Chailly, che ha ripristinato la posizione del verso E avanti a lui tremava tutta Roma, che comporterebbe che quell’esternazione venisse fatta da Tosca con due candele in mano, una cosa da avanspettacolo. Ma anche il finale dell’atto terzo, con la ridicola passeggiata nello spazio della controfigura di Tosca, è opera di Chailly, che ha voluto esser da meglio di Puccini, ripristinando il pleonastico finale (al posto di Livermore, avrei fatto abbassare il sipario nero e lasciato Chailly da solo a menare il torrone sinfonico di questa chiusura pacchiana). 

Che dire poi di Tosca che entra in chiesa a mani vuote e poi ruba i fiori di qualcun altro per omaggiare la Madonna (Bel rispetto - per Puccini - direbbe Scarpia)? O delle tre coltellate a Scarpia, più strangolamento (per sicurezza) dove Livermore ha rivaleggiato con l’orrendo Bondy? E della lugubre ambientazione del terz’atto, con plumbeo cielo da temporale, che fa totalmente perdere allo spettatore il lancinante contrasto fra l’idilliaco risveglio della natura e la catastrofe che si materializzerà di lì a poco?     

Insomma, una sovrabbondanza di orpelli e trovate genialoidi che sembran fatte apposta per catturare a buon mercato l’approvazione del pubblico. Di sicuro quella di Livermore è però una regìa che ci racconta precisamente la storia di Tosca, e non quella di Lulu, ed è già una gran consolazione, con i tempi che corrono...
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Molto meglio che alla prima (personalmente seguita in TV) sono andate le cose sul fronte dei suoni: evidentemente una prova (!) in più è servita. E non solo per evitare false partenze (seconda uscita di Angelotti) o improvvise amnesie (Netrebko, atto secondo). Mi pare che Chailly abbia rimediato all’approccio eccessivamente sostenuto mostrato a SantAmbrogio (anche qui, le prove servono...) e abbia dato maggior fluidità alla sua direzione. L’orchestra si era già comportata bene e ha fatto, se possibile, ancor meglio (memorabile il dispiegarsi della melodia - richiama Ciajkovski e anticipa Mahler - che accompagna lo scampanìo del risveglio della città). Inappuntabili i cori di Casoni e De Gaspari (che ha fornito anche il personaggio del Pastorello, il bravissimo Gianluigi Sartori).

Anna Netrebko, a parte aver rimediato i due erroracci (l’attacco del Vissi d’arte e il secondo Chi m’assicura?) ha sciorinato le sue grandi doti naturali, la splendida qualità della sua voce e la capacità di esprimere sentimenti, atteggiamenti e pulsioni d’animo di questo complesso personaggio che è Tosca. Il lato attoriale non è il suo forte, si sa, ma io (con buona pace di chi mette il teatro prima della musica) confermo di preferire una cariatide che canta come si deve ad una Eleonora Duse che gracchia e pigola.

Francesco Meli non è forse il Cavaradossi ideale (altrimenti Pereira non avrebbe avuto esitazioni ad annunciarlo in programma già lo scorso 27 maggio) ma si fa perdonare con la sua voce pulita e accattivante, in aggiunta alle mezze-voci (preferisco i suoi falsettini alle ingolature di tale Kaufmann). Lui è anche un ottimo attore, il che ovviamente non guasta.

Luca Salsi mi pare il migliore del terzetto per autorevolezza. E intendo autorevolezza vocale, timbro brunito, potenza in tutta l’estensione, sfumature efficaci (l’Ebbene? sussurrato a Tosca si è perfettamente sentito dal loggione). Se invece devo giudicare il suo approccio alla personalità del Barone, allora mi vien da dire che sia più lo Scarpia di Sardou che quello di Puccini... Cioè: un individuo depravato sì (Sardou) ma non una vera bestia quale lo scolpisce Puccini.

Efficacissimo il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi, una macchietta che è stata interpretata con la giusta misura, senza mai scadere in volgare avanspettacolo. Altrettando dicasi di Carlo Bosi, la cui voce petulante ha reso al meglio il personaggio dello sbirro di Scarpia. Anche Carlo Cigni mi è parso più efficace e rinfrancato rispetto alla prima: deve rompere il ghiaccio e questa non è mai una cosa facile, ma ieri il suo Angelotti ne è uscito assai bene. Ernesto Panariello (lui è come il prezzemolo, alla Scala) ha svolto con la consueta professionalità il suo compitino di carceriere. Guido Mastrototaro è stato un dignitoso Sciarrone.

Per tutti ovazioni ed applausi (forse non si è battuto il record di durata del 7/12, ma ci si è avvicinati) con punte per Netrebko e Salsi.