Oggi
pomeriggio un'affollatissima Scala ha ospitato la prima (per gli abbonati) di un vecchio
DonCarlo (non scaligero): quello del venerato
Per carità, questo potrebbe anche essere un complimento (quindi riprendere Abbado-Ponnelle del 1968 sarebbe stato altrettanto plausibile): sempre meglio di qualche ardita attualizzazione che trasponga Filippo II in Juan Carlos I, Don Carlo in Felipe VI, Rodrigo in Carles Puidgemont e l’Inquisitore in Santiago Abascal!
Insomma: siamo proprio nella Spagna del 1560, come ci ricordano anche gli appropriati costumi della Squarciapino, e quindi niente armi automatiche, smartphone e lunghi cappottoni in pelle made-in-DDR. E del resto, un testo dove un ragazzo ingenuo di 15 anni chiama madre una sbarbata di soli tre mesi più matura (!) che a sua volta lo chiama figlio, st-riderebbe assai con ambientazioni anche di un solo secolo posteriori…
Quanto al lato cosiddetto attoriale dell’interpretazione, trattandosi di attori che conoscono la loro parte come le loro tasche, mi pare che il regista abbia pensato bene (o male, visti i risultati?) di fidarsi di loro, piuttosto che imporgli posture, atteggiamenti e moine assortite, magari non condivise.
Chailly
ha – per me – tenuto un approccio (quello che Verdi chiamava la tinta
dell’opera) assai cupo e tempi (eccessivamente?) sostenuti. Una direzione che
alla prima non era stata unanimemente condivisa, mentre oggi devo dire
che ha ricevuto solo consensi. Ma che è del tutto coerente con l’approccio
registico, che nulla ha concesso all’esteriorità, come testimonia la
soppressione (imposta - sono parole dello stesso Chailly - da Pasqual) dei ballabili
de La Pérégrina. Insomma, qui sul francese esprit de finesse ha prevalso
l’ispano-italico (e un po’ teutonico) esprit de géometrie!
Il coro di Alberto Malazzi non si smentisce mai e anche oggi ha saputo esprimere al massimo tutte le sue potenzialità, sia nei passaggi più cupi (il mortorio iniziale) che in quelli più sfacciatamente estroversi (Atocha) o drammatici (il popolo del terzo e quarto atto).
La
coppia di bassi. Un Pertusi gigantesco (la tachipirina evidentemente ha
fatto miracoli…) ha messo in ombra (purtroppo per lui) il malcapitato Jongmin
Park, subentrato in extremis all’indisposto Anger a sostenere, oltre
che quella iniziale del Frate, anche la parte impervia dell’Inquisitore. Il
basso coreano ha messo in mostra un gran vocione, ma il suo Inquisitore ha
fatto paura come la farebbe un orco affamato, non un Cardinale del Sant’Uffizio!
La
coppia degli sfortunati amanti. Netrebko sontuosa, come sempre, nella
voce, un po’ meno nella recitazione (ma non è colpa dei registi, è una sua
perdonabile attitudine). Forse fin troppo musicalmente cattiva con la rivale,
quasi una Eboli-2-la-vendetta! Ma dopo le Vanità gli applausi son durati
un paio di minuti… Meli tutto l’opposto: fin troppo lezioso e remissivo,
nemmeno ad Atocha ha tirato fuori le p… (dicasi gli acuti, che il passare degli
anni gli divengono sempre più vietati).
La coppia di outsider. Garanča superlativa (per me, nel complesso, la migliore). E non solo per le due perle (Velo e Don) ma sempre, in particolare nel duetto con Meli. Bene Salsi, ma forse non perfettamente a suo agio in una parte più romantica che truce (dove va a nozze...)
Su livelli standard tutti/e gli/le altri/e.
In definitiva, un’inaugurazione assolutamente dignitosa, ma non certo indimenticabile, della quale si continuerà a parlare più che altro per via della provvidenziale presenza (il 7 dicembre) del protagonista fuori-scena: il convitato di pietra Marco Vizzardelli!
Applausi a scena aperta dopo le arie principali; alla fine applausi e ovazioni per tutti (compreso Pasqual, intrufolatosi furbescamente in mezzo agli altri, così in pochi l’avranno riconosciuto…) con qualche schiamazzo dai loggioni che ha lasciato del tutto indifferente la Digos (!)
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