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22 marzo, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.21 – Michael Sanderling

Il 21° Concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano vede il ritorno sul podio di Michael Sanderling, berlinese dell’est nato come violoncellista e poi passato (sulle orme del padre Kurt) alla direzione d’orchestra (oggi guida il KKL di Lucerna). In programma, omaggio ai 50 anni dalla scomparsa di Dmitri Shostakovich, la colossale e patriottica Settima Sinfonia, divenuta famosa fin dalle origini (1941) come Leningrado.

Sinfonia che esce da ogni schema precostituito, date le circostanze materiali in cui prese forma, essendo appunto nata con fini squisitamente politici (galvanizzare il popolo russo in un momento terribile e tragico della sua storia) più che artistici o estetici. In proposito, ecco un mio personale contributo al suo inquadramento.

Sinfonia divenuta da anni uno dei cavalli di battaglia dell’Orchestra, che la affronta oggi per la nona volta (a partire dal 2000) dopo essere stata guidata nell’impresa da direttori quali Caetani (3), Jurowski, Bushkov, Oue, Treviño e Boreyko.

Il Maestro tedesco ha ancora una volta diretto con il consueto basso profilo, non un movimento gratuito o plateale, ma gesto sobrio ed efficace. Che ha ottenuto sempre, dalla sterminata orchestra messa in campo da Shostakovich, gli effetti evidentemente voluti dall’Autore, dal colossale crescendo di suono e pathos (arrivo delle armate naziste) dell’Allegretto iniziale, all’oasi più serena, ma non senza sussulti, del Moderato (poco allegretto), all’inopinato ritorno della guerra nel religioso Adagio, fino allo smaccato Allegro non troppo del magniloquente finale, retoricamente ed anche forzatamente trionfalistico.

Così, con Sanderling la serie si è arricchita di un nuovo successo, testimoniato da entusiastici applausi, anche ritmati, di un pubblico tornato, numericamente, ad un buon livello quantitativo.

18 gennaio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.12 - Tjeknavorian

Alla ripresa della stagione principale, dopo le fatiche del Concerto di Capodanno (quattro serate in Auditorium più una al KKL di Lucerna) l’Orchestra Sinfonica di Milano propone, sempre sotto la guida di Emmanuel Tjeknavorian, un programma otto-novecentesco che ci porta da Schumann a Shostakovich.

Del romantico di Zwickau si ascolta il Concerto per violoncello, spesso criticato (come tanta sua altra musica) come difficile, contorto e, soprattutto, male orchestrato. Al punto che uno dei suoi interpreti più famosi, Mstislav Rostropovich, dopo averlo più volte suonato, chiese all’amico Shostakovich (che di ri-orchestrazioni se ne intendeva… Musorgski ne sa qualcosa) di rimetterlo a nuovo.

Il solerte Dmitry, che già nel 1959 gli aveva dedicato il suo primo, lo accontentò subito (1963). E pochi anni dopo (1966) gliene dedicherà anche un secondo! L’ascolto del concerto riorchestrato permette di percepire alcune delle novità introdottevi da Shostakovich: una chiara sovraesposizione degli strumentini (con impiego dell’ottavino) e delle trombette; l’aggiunta dell’arpa al Langsam centrale e, nel finale, alcune scariche, tipicamente novecentesche, dei timpani.

Ma curiosamente Rostropovich, dopo averne sperimentato questa versione russa, tornò… all’ovile di Schumann! Del quale oggi vengono sempre di più rivalutati anche gli originali delle Sinfonie, che tale Mahler si era permesso di… correggere, nell’intento di migliorarne l’appeal verso il pubblico.

È Jeremias Fliedl, un conterraneo e amico del Direttore e, come lui, poco più che un ragazzo (classe ’99) ad interpretare l’Op.129 così come lasciataci dal suo Autore (qui una sua recente esibizione).

Tecnica sopraffina e grande qualità del suono del suo strumento (targato Stradivari) hanno davvero restituito a questo brano tutto il suo struggente contenuto romantico, conquistando il pubblico, anche ieri assai folto e caloroso, a testimonianza che il Tjek – con gli amici che si porta dietro – sta già imprimendo un chiaro salto di quantità alle presenze in sala. Il Direttore ha chiesto uno speciale applauso anche per il primo violoncello Mario Shirai Grigolato, al cui strumento Schumann organizza un simpatico rendez-vous con quello del solista.

Grandi applausi per tutti, e così il ragazzino Jeremias si commiata ringraziando Milano per l’accoglienza con… Bach.

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Del compositore russo (scomparso proprio mezzo secolo fa) ascoltiamo poi l’enigmatica Decima Sinfonia (qui alcune mie note illustrative in proposito). Come accade anche per altri lavori legati in qualche modo a contenuti extra-musicali (nella fattispecie i difficili e altalenanti rapporti di Shostakovich con il potere sovietico, piuttosto che la sua bizzarra relazione con l’allieva azera) personalmente tendo a gustare la musica solo per se stessa, cercando se possibile di ignorare quei legami.

E se non è proprio possibile, quando si incontra, come nel finale, un’autentica gragnuola di DSCH (RE-MIb-DO-SI, la carta d’identità del compositore) beh, accettiamola come un giustificabile sfogo da parte di un uomo che – a Stalin defunto – ci teneva a ricordarci tutti i torti subiti dal regime, ecco.

laVerdi ha una tale dimestichezza con questa musica (acquisita fin dai tempi in cui incise tutte le 15 Sinfonie con Oleg Caetani) che la resa dell’esecuzione è sempre garantita, ma certo che il Tjek ancora una volta ha stupito, dirigendo a memoria questo mostro: cosa non ha saputo cavare dal finale a dir poco travolgente, aizzando il pubblico ad un vero e proprio tumulto! 


09 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.6

Dopo il Requiem verdiano, ecco un’altra specie di requiem occupare l’intero programma del concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Trattasi della cupa e funerea Sinfonia n° 11 (1957) di Dmitry Shostakovich.

Sul podio dell’Auditorium esordisce uno yankee dal cognome italico, Case Scaglione, 42enne texano (da Houston, dove per combinazione la Sinfonia fu eseguita in prima americana da Stokowski nel 1958). Dopo aver fatto gavetta in USA (fra l’altro è stato Direttore assistente alla prestigiosa NY Philharmonic) è approdato in Europa, dove è attualmente Direttore – dal 2019 - dell’Orchestre Nationale de l’Ile de FranceIl suo nome si aggiunge così a quelli di Xian, Axelrod, Treviño e de la Parra, la pattuglia di Direttori di scuola americana che negli ultimi anni hanno calcato con successo il podio di Largo Mahler.

Il lavoro fu sollecitato a Shostakovich dalle Autorità sovietiche per rievocare i 40 anni della Rivoluzione d’Ottobre, ma il compositore (che in gioventù già vi aveva dedicato la Seconda Sinfonia… e solo più tardi le dedicherà la 12ma) preferì mutarlo nel ricordo di quella che va sotto il nome di prima Rivoluzione russa, quella del 1905, come recita il sottotitolo dell’opera.

Rivoluzione che in realtà altro non fu se non la brutale e sanguinosa repressione di una pacifica dimostrazione di proletari (operai e contadini) rei soltanto di voler presentare allo Zar Nicola II una petizione dove si chiedeva al sovrano di alleviare le sofferenze del popolo, legate a guerre e perduranti carestie. Repressione che certo aprì la strada al formarsi del movimento propriamente rivoluzionario che portò all’Ottobre 1917. Ecco, di questo antefatto e delle prospettive da esso create tratta programmaticamente il lavoro.

Come altre composizioni di Shostakovich, anche questa ha sollevato dubbi, discussioni e controversie a causa di presunti suoi reconditi significati, soprattutto a livello politico. Si tenga presente che il padre del compositore, Dmitry Boleslavich, nel 1905 si trovava proprio in mezzo alla folla di pacifici dimostranti caricata dai cosacchi dello Zar Nicola II, scampando miracolosamente al massacro. E al figlio, nato l’anno seguente, non mancò di fare dettagliati resoconti di quei luttuosi fatti.

Ecco perché il lavoro - venuto alla luce quando ancora non si era spenta l’eco dello sferragliare dei cingoli dei tank sovietici nelle vie di Budapest - con i suoi espliciti riferimenti alle violenze dell’esercito zarista contro i manifestanti del 1905 fu (ed è ancor oggi) inevitabilmente interpretato anche come sotterranea condanna dei fatti di Ungheria. Ma il regime sovietico del disgelo fece finta di nulla (o di non capire…) e insignì il compositore del Premio Lenin!

I quattro classici movimenti (da eseguire sempre con… attacca) in cui si articola la Sinfonia recano altrettanti sottotitoli, tali da farli assimilare quasi a tappe di un poema sinfonico, che evocano precisamente, come da sottotitoli apposti dall’Autore, il prima, il durante, e il dopo di quella sanguinosa giornata.

Vi compaiono, citati più o meno alla lettera, molti (almeno nove) canti popolari russi di fine ’800 – inizio ‘900, riferibili a rivolte e speranze delle masse proletarie. Certo, a noi non russi che ne ignoriamo l’esistenza e il significato possono anche dire poco, ma la maestria con cui Shostakovich li impiega produce sempre un effetto musicale straordinario.

1. La Piazza del Palazzo (…d’Inverno, SanPietroburgo; Adagio): siamo in un’atmosfera algida e spettrale, in cui pare di avvertire il disagio e il malcontento del popolo che, affamato da guerre e carestie, si è dato appuntamento quel fatale 9 gennaio (22 per il nostro calendario) divenuto famoso come Domenica di sangue, per implorare lo Zar ad ascoltare il suo lamento.

Inframmezzati da squilli di trombe e corni che evocano il sopraggiungere delle forze dell’ordine, abbiamo la citazione di tre canti popolari russi dell’epoca pre-bolscevica: Ascoltate, Il prigioniero, e Signore, abbi misericordia di noi.     

2. Il 9 Gennaio (Allegro): rievoca lo sviluppo di quella giornata, citando nella prima parte brani dai Poemi su canti rivoluzionari, già musicati da Shostakovich anni addietro: O Zar, nostro piccolo padre, e poi Scopritevi il capo

Il suono cresce progressivamente, quasi a descrivere l’ammassarsi (a ondate successive e sempre più esaltate) nella piazza della folla che aspetta invano un riscontro dallo Zar, che invece aveva già abbandonato il Palazzo, temendo il peggio, e ordinando ai servizi di guardia di disperdere la manifestazione. È un’ondata musicalmente evocata da un tempo ternario, che ben rappresenta l’ondeggiare di questa eterogenea massa di poveracci.   

Dopo un ritorno del tema che aveva aperto la Sinfonia, eccoci quindi all’evocazione del massacro perpetrato dai cosacchi sugli inermi dimostranti, presi vigliaccamente a fucilate, inclusi bambini saliti sugli alberi e ammazzati come piccioni (!)

Su un tempo binario, tipicamente marziale, i tamburi militari sottolineano l’arrivo dei soldati; poi si odono i colpi secchi delle armi da fuoco, ma anche suoni martellanti, che ricordano lo spaventevole procedere di mezzi corazzati (il che fa effettivamente pensare alla Budapest del 1956…) Finita la carneficina, restano sulla neve i corpi e il sangue di morti e feriti e il tema di apertura della Sinfonia suggella mestamente l’uscita di scena dei militari, accompagnati dai rulli dei tamburini e da due ultimi, spettrali squilli di tromba. . 

3. Memoria eterna (Adagio): è un nobile Requiem, che rende onore agli innocenti caduti (Voi cadeste da vittime, tratto da una marcia funebre per gli operai) sotto i colpi di un potere assoluto e affamatore; un altro inno, Ah, la parola Libertà, occupa la parte centrale del movimento e la marcia funebre ritorna per concluderlo.

È abbastanza chiaro che si tratti di un omaggio a tutte le vittime della violenza di regimi autoritari, monarchie assolute che siano, o… repubbliche socialiste (e non).   

4. Segnale d’allarme (Allegro non troppo): squilli di ottoni prefigurano l’avvento della futura Rivoluzione del 1917! Dopo un ritorno di O Zar, nostro piccolo padre si incontrano qui il canto Vendetta, tiranni e un altro canto anti-zarista, significativamente di origine polacca (Canto di Varsavia)…  Infine torna, dapprima dolente nel corno inglese, Scopritevi il capo. Che poi, immenso ma per nulla trionfalistico, chiude la Sinfonia.

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Il simpatico Scaglione ne ha tratto un risultato entusiasmante. Il suo gesto è essenziale e preciso, i tempi scanditi con chiarezza ed appropriatezza, mantenendo sempre un perfetto equilibrio fra le varie sezioni, cosa affatto semplice in una partitura come questa, dove fiati (ottoni in particolare) e soprattutto percussioni e timpani la fanno da padroni.

E a proposito di timpani, che sono impegnati per l’80% del tempo, la mitica Viviana non li ha proprio risparmiati, mettendone a dura prova la resistenza e l'integrità: forse perché sa che, anche grazie ad un sostanzioso e generoso contributo di amici dell’Orchestra, già dal prossimo concerto potrà inaugurare le cinque caldaie nuove di zecca appena arrivate in Largo Mahler!

Ma davvero tutti si sono superati e il pubblico è andato letteralmente in delirio, come non capitava da parecchio tempo.

 

16 settembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano. Concerto inaugurale 24-25.

Anche quest’anno si è rinnovato il tradizionale appuntamento de laVerdi con la Scala, per l’apertura della nuova stagione. Su podio - per la prima volta, dopo tre presenze (19-21-23) al Piermarini come solista al violino - il nuovo Direttore Musicale, il vulcanico Emmanuel Tjeknavorian (30 anni non ancora compiuti!) viennese di origini armene e figlio d’arte (papà Loris è pure direttore).  

Sala piacevolmente affollata. Presenti in platea Riccardo Chailly, Direttore Onorario dell’Orchestra e mentore del suo giovane successore; e Ruben Jais, ex-Direttore Generale e Artistico, che ha introdotto Tieknavorian nell’ambiente prima di passare al più alto incarico di Sovrintendente della Toscanini di Parma.

I primi due brani del concerto sono stati scelti da Emmanuel in ricordo di quelli del suo primo podio (calcato a 17 anni, in un ospedale di Vienna!)

Si parte con Dmitri Shostakovic e la breve Ouverture Festiva, composta nel 1947 in occasione dei 30 anni della Rivoluzione. Il fatto che un brano come questo - abbastanza carico di facile retorica e di ingenuo entusiasmo - sia stato ideato da Shostakovich per iniziativa personale e non per compiacere all’establishment del PCUS (lo testimoniano la pubblicazione e la prima esecuzione, avvenute soltanto nel 1954, quindi parecchi anni dopo la composizione) è l’ennesima prova della sincerità dei sentimenti rivoluzionari del compositore, a dispetto di tutte le angherie che aveva dovuto (e ancora avrebbe dovuto) sopportare da parte dei bidelli (nonchè aguzzini) di quello stesso establishment.   

L’Ouverture ha una struttura assai semplice, essendo in forma-sonata priva di sviluppo. Inizia con 26 battute di solenne fanfara introduttiva di trombe, corni e tromboni (Allegretto, 3/4, LA maggiore) cui seguono i due temi dell’Esposizione (Presto, 4/4 alla breve): il primo è assai spiritato, nella tonalità d’impianto, esposto inizialmente dai clarinetti, subito raggiunti dai flauti, poi ripreso dagli archi.

Dopo un moderato ritorno della fanfara il primo tema viene ripetuto e infine sfocia nel secondo che, scolasticamente, è nella dominante MI maggiore. È un tema che giustamente contrasta con il primo anche nell’andamento, più sostenuto e severo, esposto da corni e celli e ripreso ancora dagli archi.

Si passa quasi subito, dopo breve transizione, alla Ricapitolazione: al primo tema in LA ecco seguire, secondo i sacri canoni codificati nell’800, il secondo, adeguatosi ossequiosamente alla tonalità del primo.

Arriva poi la Coda (Poco meno mosso, 3/2) sul Tema della fanfara Introduttiva; e infine la vorticosa Stretta finale (Presto, 4/4 alla breve) sul secondo tema assai accelerato.

Davvero un brano trascinante, assai utile per scaldare i motori di Orchestra e… pubblico che non risparmia applausi a tutti.

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La Seconda Sinfonia in RE maggiore di Beethoven (1800-03) ci riporta proprio agli anni in cui la forma-sonata, timidamente sbocciata nel Settecento, si faceva largo come struttura portante di movimenti di Sinfonie, Quartetti e Concerti. Sinfonia che meriterebbe miglior fama di quella che le si attribuisce, in quanto pari, da chi considera capolavori solo le sinfonie dispari

E invece Tjeknavorian ce ne ha sciorinato tutte le interessanti qualità, che già il pubblico delle prime esecuzioni aveva chiaramente percepito, rimanendone allo stesso tempo ammirato e disorientato.  

Insomma, un’opera che supera di slancio le fanciullaggini (copyright Berlioz) della Prima per inoltrarsi verso il futuro dell’Eroica!

A partire dall’introduzione lenta (Haydn faceva ancora scuola, in quegli anni…) che mostra però arditezze prima sconosciute, come la modulazione a SIb o la perentoria figurazione in RE minore a 11 battute prima dell’Allegro on brio, che anticipa addirittura i precipizi della nona!

L’Esposizione ci presenta il primo tema, in RE maggiore, dapprima nervoso e poi sfociante in maschie e decise cascate di accordi in staccato; dopo una divagazione a RE minore, gli fa da contraltare il secondo, nella dominante LA maggiore, che principia con leziosità femminile e tono scanzonato (come vorrebbe la tradizione) ma poi mostra a sua volta un suo lato più serioso e impegnato. Una cadenza in cui tornano lacerti del primo tema chiude l’esposizione.

Dopo la ripetizione (che Tjeknavorian ha lodevolmente rispettato) ecco lo Sviluppo, dove i due temi ricompaiono variati, in particolare il primo, in SOL minore, fugato, e poi il secondo che viene ora esposto nella sottodominante SOL maggiore; quindi il primo porta alla Ricapitolazione, con il secondo che si adegua al RE maggiore. Un’insolitamente corposa Coda, quasi un nuovo sviluppo del primo tema, conduce alla perentoria chiusura.    

Mirabile la resa del successivo Larghetto in LA maggiore, un movimento solo apparentemente settecentesco, lezioso e disimpegnato, con struttura bitematica (LA e MI maggiore, con soggetto e controsoggetto) in forma-sonata – esposizione-sviluppo-ripresa-coda - ma nel quale Beethoven innesta idee che lo proiettano decisamente nel futuro. Il Direttore sembra centellinarlo proprio come si fa con un vino pregiato, facendocene gustare e apprezzare ogni sfumatura.

E poi lo Scherzo, in RE maggiore, di per sè una sconvolgente novità – scalzare il Menuetto! - per quel periodo. Forse per questo Beethoven non ha poi esagerato con eccessive bizzarrie (un paio di modulazioni a SIb minore e DO, ma anche il Trio resta in RE maggiore) per sfogare poi tutte le sue energie nel concitato Allegro molto, sempre in forma-sonata, RE e LA maggiore.

Tjeknavorian – che ha diretto tutto il concerto a memoria, chiaro segno della cura dedicata allo studio e alla scrupolosa preparazione - ha dimostrato di padroneggiare il brano alla perfezione, ottenendo un meritato successo da un pubblico davvero tutto per lui.

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Chiusura travolgente con la famigerata Quarta di Ciajkovskiuna Sinfonia che l’Autore stesso caricò, con le sue esegesi, di significati e contenuti francamente discutibili; e che potrebbe facilmente portare un giovane entusiasta a strafare, esaltandone l’esteriorità, la retorica e l’enfasi. Ma il simpatico Emmanuel ha mostrato di essere già più maturo di tanti colleghi più navigati di lui, misurando ogni passaggio con meticolosa attenzione: dalle sonorità abbaglianti degli ottoni nei movimenti esterni, alla composta liricità dell’Andantino, con la stupefacente irruzione di clarinetti e fagotti nel Più mosso che ne anima la parte centrale; all’altro lancinante contrasto (nello Scherzo) far il sotterraneo pizzicato ostinato degli archi e l’impertinente ingresso dell’oboe (Meno mosso).  

Insomma, una lettura convincente, coniugata con una piena sintonia fra podio e orchestra: tutti tesi come un sol corpo (e… anima!) per emozionarci una volta di più.

Il pubblico ha congedato tutti con ovazioni e applausi ritmati. Ecco, come esordio, dal Direttore Musicale non ci si poteva aspettare di meglio!


29 settembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.1

Dopo il brillante esordio alla Scala, l’Orchestra Sinfonica di Milano è tornata in Auditorium per il 1° Concerto in abbonamento della stagione 23-24. Concerto dai contenuti ultra-tradizionali, interamente dedicato alla Russia, dell’800 e del ‘900. Sul podio torna, dopo il suo debutto di un anno fa, il giovin albionico Joel Sandelson, che ancora deve fare 30 primavere ed è già lanciato nel gran mondo della direzione.

Ma è un ancor più giovane violinista, il 22enne Giuseppe Gibboni (buon sangue non mente…) ad aprire la serata, interpretando il Concerto Op.35 di Ciajkovski. Qui ecco Giuseppe nella primavera del 2021 in una delle ormai tante sue interpretazioni dei questo brano, che pochi mesi dopo suonerà a Genova nella prima giornata del Premio Paganini, da lui poi trionfalmente vinto.

In questo mio vecchio commento potete leggere invece ciò che di questa composizione pensava il purista Eduard Hanslick, che qualche decennio dopo venne preso proprio sul serio dallo… spirito santo del business!

Beh, con buona pace dello schizzinoso critico boemo-viennese, devo dire che dal violino di Gibboni sono usciti solo profluvi di suoni profumatissimi e inebrianti! Ad una tecnica stupefacente il giovane campano unisce una grande sensibilità interpretativa, evidentemente frutto di studio e di scavo della partitura: con impiego sempre appropriato di rubato e di sottili variazioni agogiche e dinamiche (purtroppo queste ultime a volte sopraffatte da eccessi di volume dell’orchestra… ma Sandelson ha ancora due occasioni per rimediare). Insomma, una prestazione veramente da incorniciare. 

Così il trionfo è assicurato, e ripagato con due encore: dapprima il trascendentale Quinto Capriccio dell’Op.1 di Paganini; poi l’Adagio dalla Prima Sonata per violino in SOL minore, BWV1001 di Bach.
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La seconda parte della serata è dedicata alla Quinta di Shostakovich. Qui alcune mie considerazioni sulle circostanze che ne caratterizzarono la composizione e sugli equivoci che essa ha da sempre generato. 

Ad ogni ascolto mi convinco sempre di più che va gustata proprio come pura musica, dimenticando le circostanze extra-musicali che ne caratterizzarono la nascita e pure la fruizione da parte del pubblico. E anche ieri, grazie alla forma strepitosa dell’Orchestra e alla direzione equilibrata di Sandelson (che merita davvero la popolarità che sta conquistando in tutta Europa, dopo la rivelazione in patria) la Sinfonia ci è apparsa in tutta la sua immanenza formale (copyright Adorno sulla Sesta mahleriana) che ne fa, proprio insieme alla Quarta di cui doveva essere… il contraltare, il punto più alto della parabola sinfonica del compositore russo.

Inutile dire del successo pieno dell’esecuzione, con ripetute chiamate, applausi ritmati e ovazioni per tutte le sezioni dell’Orchestra. Si replica oggi e domenica.

17 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 16

La Russia eroica è protagonista del concerto di questa settimana, diretto dal russo (ma non simpatizzante per Putin, come certificato dal CoPaSiR…) Andrey Boreyko, Direttore Residente dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

Torna quindi a farsi udire in Auditorium la monumentale Leningrado (settimo parto sinfonico di Dmitri Shostakovich).  

Opera indecifrabile e da sempre tirata da ogni parte, per ragioni squisitamente extra-musicali, anzi precisamente politiche: al suo apparire, osannata dai sovietici e in Occidente (Toscanini in testa) in funzione anti-nazi; una volta abbattuto il nazismo, in Occidente si è preferito dimenticarla, per non dar fiato a Stalin e nipotini, che ne avevano fatto un simbolo di superiorità morale del comunismo; poi qualcuno (Solomon Volkov, Testimony) ci ha trovato germi di… anticomunismo e allora evviva, disseppelliamola!

Nata per essere una specie di poema sinfonico, o una fantasia (e l’iniziale Allegretto è in effetti tutto tranne che un primo movimento di sinfonia come-si-deve…) è poi cresciuta a dismisura, fino a raggiungere proporzioni sesquipedali, sotto una specie di costrizione patriottica di cui l’Autore fu vittima a seguito dell’invasione nazista. I suoi contenuti musicali furono indubbiamente condizionati dallo scenario esterno: a partire dalla forma dell’opera, dove l’iniziale nucleo di poema sinfonico divenne poi il primo movimento di una sinfonia in quattro movimenti, tutti a loro volta sottotitolati - La guerra, II ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria - salvo successiva revoca dei sottotitoli e delle relative indicazioni programmatiche dell’Autore!

Una cosa è certa: se la si volesse considerare e giudicare come musica pura, svincolata da ogni riferimento extra-musicale, allora si dovrebbe – come minimo! -  prendere l’Autore per un matto da legare! O, in alternativa, per un buontempone in vena di prendere il pubblico per i fondelli…

E ovviamente il casus-belli è costituito principalmente da forma e contenuto dell’iniziale Allegretto: il quale sembra muoversi nel tradizionale solco della forma-sonata, con l’esposizione dei due temi nelle canoniche tonalità di tonica (DO maggiore) e dominante (SOL maggiore, con breve divagazione a SI maggiore):

Un primo tema robusto, maschio e deciso, il secondo più elegiaco, femminile, contemplativo: più di così cosa si pretende in fatto di rispetto delle regole codificate?

Dopo l’esposizione arriverà quindi uno sviluppo, dove i due temi si incontreranno, magari si scontreranno, perché no, fino a trovare la concordia nella ricapitolazione, con… capitolazione del secondo tema sulle posizioni (leggi: tonalità) del primo. O no?

E invece: no! Perché lo sviluppo è sostituito dall’irruzione inopinata di quel gigantesco quanto volgare episodio di marcia, un insignificante tema reiterato in non meno di 11 varianti e chiuso da una colossale coda.

La realtà è che in questo movimento fa irruzione la guerra. Dopodichè diventa, in un certo senso, comprensibile che anche un’austera Sinfonia debba prendere atto che… la guerra non è un pranzo di gala! E può sovvertire ogni sistema costituito, musica inclusa.

Ecco perché queste incrostazioni extra-musicali di cui si è ricoperta fin dalla nascita impediscono di poter apprezzare (nel bene e nel male) come opera di ingegno, intesa come musica di per sé stessa, questa Sinfonia. Per i cittadini russi (e non solo) del 1942 quella musica aveva un significato e un sapore strettamente legato alle catastrofiche circostanze materiali in cui era venuta alla luce: nessuno allora si interrogava sui suoi contenuti estetici, poichè la sentiva soprattutto come una droga utile a rigenerare le forze spirituali (e pure materiali) con cui affrontare il nemico invasore (allo stesso modo la musica in modo frigio veniva impiegata fin dall’antichità per aizzare le truppe in battaglia).

A proposito, quella specie di bolero-di-ravel-su-tema-di-lehár che è incastonato nel movimento iniziale fu descritto (a posteriori, fra l’altro, come spesso accade ai programmi appiccicati a musica già composta) come il marciare dei cavalieri teutonici sulla città: dapprima si sentono e si vedono in lontananza, laggiù in fondo alla steppa sconfinata, e paiono una squadretta di boy-scout che marciano allegramente inalberando gagliardetti, accompagnati da pifferi e tamburino.

Shostakovich ci infila anche uno sberleffo, citando Lehar (Da geh' ich zu Maxim, dalla Vedova allegra, operetta preferita di Hitler, si diceva). Ecco quindi come si presenta il pericolo nazista da lontano:

Poi però, man mano che i boy-scout si avvicinano, ecco che si scorgono dietro alle loro bandierine colorate delle baionette, quindi si profilano le torrette dei panzer, poi le spaventevoli sagome dei mezzi d’artiglieria, e in cielo gli stormi della Luftwaffe!

Dico, un tempo di sinfonia, o la parodia dell’Ouverture 1812? Non per nulla il mite e un po’ sfigato Bartók ci farà sopra a sua volta uno sghignazzo, nel suo Concerto per orchestra:

E la guerra finisce per inquinare irrimediabilmente anche la ripresa dei due temi presentati nell’esposizione: riappaiono infatti sfigurati, deturpati e quasi irriconoscibili, infine devono lasciare il passo alla reminiscenza del tema teutonico. Perché, appunto, la guerra non è finita

I due movimenti centrali sono certo meno prosaici e pretenziosi (a parte la lunghezza…) e ci restituiscono uno Shostakovich lirico: il Moderato (poco allegretto) è in pratica una specie di Scherzo con Trio e ripresa dello Scherzo. Nella prima parte riconosciamo due idee tematiche, la prima in RE maggiore, la seconda in SI minore, poi tornando a RE:

È chiusa da un insistente pizzicato degli archi.

La sezione centrale è in tempo 3/8. Attacca in DO# minore e viene introdotta dai clarinetti, incluso quello piccolo in Mib e quello basso:

Poi si sviluppa in una tipica corsa ostinata shostakovich-iana, esplorando diverse tonalità, fino a sboccare nella ripresa dello Scherzo, anche qui assai variata rispetto all’esposizione iniziale e chiusa dal secondo tema in arpa e clarinetto basso accompagnato da un marziale e insistito ribattere di flauto e flauto in SOL; e infine dal primo tema abbreviato.

Ecco poi l’Adagio, aperto da un corale di fiati e arpe che introduce il tema principale, in RE maggiore (Largo) di grande respiro e nobiltà, esposto dai violini:

Poi ecco, in MI maggiore, il sognante tema del primo flauto, sviluppato anche con l’intervento del secondo:

Dopo una fugace riapparizione del tema principale, ecco tornare… la guerra (?). Che irrompe sulla scena in tempo Moderato risoluto SOL# minore, con un tema protervo esposto dagli archi:

Inizia qui un colossale crescendo in cui riappaiono, come travolti da un turbine, anche spezzoni dei temi precedenti, finchè tutto sembra finire in nulla… Ecco quindi la parte finale del movimento, che ricapitola temi della prima e poi, nel ripristinato Adagio, chiude mestamente, quasi morendo.


Nel Finale (Allegro non troppo) torniamo ai fracassi della guerra, interrotti da qualche… funerale. È in effetti un penoso avvicinamento alla luce che splenderà alla fine, riportando fiducia nel futuro.

Il tema principale, di stampo maschio e bellicoso, è già annunciato dai bassi in apertura, poi verrà esposto poi violini, in DO minore; quello secondario, più cantabile e sereno, è presentato per primo, in DO maggiore, sempre dai violini:

La prima parte del movimento è occupata da un crescendo continuo del tema principale, che sfocia in una perorazione enfatica a piena orchestra, con percussioni in grande evidenza. Il secondo tema lo contrasta, nei fiati, opponendogli fiera baldanza, finchè si arriva ad un momento di tregua (tempo Moderato): pare qui di assistere ad un compianto funebre, sulla cui chiusura ricompare, mesto, il tema principale, che da guerresco si è trasformato in… funerario.

Poco a poco però il tema riprende vigore e viene raggiunto anche dal motivo secondario, e insieme portano, attraverso modulazioni che passano per SI e Mi maggiore, al DO maggiore della perorazione finale, in cui spicca, pesantissimo, il ciclico ritorno del tema che aveva aperto la Sinfonia. 
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Che dire? Un’opera difficile da digerire, perché è difficile capire quale ne sia la natura più autentica.

Chi però ce l’ha fatta non solo digerire, ma gustare, è l’Orchestra Sinfonica di Milano, sapientemente guidata da Boreyko. Trionfale per tutti l’accoglienza del pubblico (di affezionati…) con ovazioni, ululati di approvazione e ripetute chiamate per Direttore, prime parti e intere sezioni dell’ipertofico schieramento di Musikanten.

Ci sono ancora due repliche per approfittarne!

25 novembre, 2022

laVerdi 22-23. 7

Un ardito accostamento viene proposto dal 7°concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano: Shostakovich e Beethoven!

Ne è protagonista Luigi Piovano, da una vita primo violoncello a SantaCecilia, che affianca esibizioni solistiche alla direzione d’orchestra. E in questo doppio ruolo si presenta qui in Auditorium.

Dapprima per interpretare il primo Concerto per violoncello di Dmitri Shostakovich. Concerto di alta difficoltà, come logico, essendo stato composto espressamente per - e dedicato a - quel mostro che rispondeva al nome di Mstislav Rostropovich. Due giorni dopo la prima leningradese (domenica 4 ottobre, 1959) con Mravinski sul podio, autore e interprete si spostarono a Mosca per realizzare (con la locale Filarmonica diretta da Gauk) la prima registrazione dell’opera, cui si fa riferimento nelle note successive.
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Come sempre, Shostakovich resta formalmente fedele ai modelli classici e al diatonismo, ma li riempie di contenuti innovativi e spesso dissacranti. Basti considerare proprio l’attacco dell’iniziale Allegretto, in forma-sonata, dove troviamo tre bemolli indicati in chiave:

Sarà MIb maggiore o DO minore? Ah, saperlo, anche perché la prima battuta, occupata dal solo violoncello, contiene le prime tre note (SOL-FAb-DOb) del motto che informerà tutto il movimento e tornerà anche nel terzo e infine a chiudere il concerto: tre note che enarmonicamente lette altro non sono se non la triade perfetta di MI minore (SOL-MI-SI) assai lontana dalle tonalità prospettate in chiave. Ma poi, alla seconda battuta, il motto chiude scendendo di una seconda minore, al Sib, cui si aggiungono il MIb e il SOL dei legni, il che finalmente ci porta alla triade maggiore di MIb, tonalità classicamente evocante natura, religione o eroismo.  Ma c’è chi invece ci vede l’individuo intellettualmente libero che cerca (triade di MI minore) di elevarsi al di sopra delle convenzioni, o delle ideologie, o dei regimi, rappresentati dal MIb maggiore! Insomma: Shostakovich vs Stalin? E del resto qui c’è un MIb maggiore quasi irriconoscibile (vi manca per caso l’armonia?) che non è certo quello dell’Eroica

Dopo una breve transizione (1’27”) Il secondo tema (1’33”) è canonicamente in DO minore, con melodia più spiegata e distesa:

Melodia reiterata dal solista (2’15”) e poi (2’24”) dal clarinetto, che ci porta allo sviluppo (2’37”) che è prevalentemente occupato dal primo tema in cui spicca in particolare il corno. Poi la ripresa (4’35”) è assai variata (e accorciata) rispetto all’esposizione (il secondo tema, nel corno - 4’56” - resta però in DO minore). Segue (5’39”) la coda, monopolizzata dal primo tema, ma chiusa repentinamente (6’17”) dall’incipit del secondo nel violoncello, in MIb maggiore!

Il centrale Andante (LA minore, e relativa FA# minore) è in una forma - volutamente? – ambigua: c’è infatti chi lo riconduce ad uno spurio (in quanto tronco) rondò (A-B-A-C-A-B) e chi lo classifica come un macroscopico ternario X-Y-X (AB-AC-AB). In altri termini: uno sbeffeggio tutto shostakovich-iano alle classiche forme.  

Il ritornello A viene esposto (6’25”) dagli archi e completato (6’49”) dall’intervento del corno:

Ecco ora il primo episodio B:

esposto (7’03”) dal solista, che poi (7’36”) lo reitera, imitato (8’19”) dal clarinetto, che ne lascia al violoncello il completamento.

Ricompare negli archi (9’33”) il ritornello A in FA# minore, ma qui senza l’appendice del corno. 

Ora (10’22”) siamo al secondo episodio C, davvero esteso e complesso, di cui notiamo almeno due motivi:

Il motivo a è ripreso a 11’26”, il b a 11’58”. Poi si procede ad un progressivo intensificarsi dell’atmosfera sonora, fino a raggiungere un climax che sfocia nella reiterazione (13’48”) del ritornello A, sempre in FA# minore nella sua prima parte, poi tornando a LA minore (13’58”) con il corno che lo completa. L’ultima apparizione dell’episodio B (14’18”) è avvolta in un’atmosfera irreale, creata dagli armonici del violoncello e dall’ingresso della celesta.

Spentosi così l’Andante, attacca subito (16’35”) la Cadenza, invero ipertrofica e massacrante, basata prevalentemente su motivi del precedente Andante, ma con reminiscenze del motto. E appunto, senza soluzione di continuità si attacca al finale Allegro con motto moto.

La forma è uno spurio rondo (A-B-A-C) oppure un mozzicone di forma-sonata, dove in realtà C la fa da padrone, sfociando in un enfatico ritorno del motto. L’inizio (21’50”) non è che la conclusione della precedente Cadenza, poi ecco (21’56”) il brillante tema A, esposto da oboi e clarinetti:

In seguito (22’19”) lo riprende il violoncello, che prepara l’arrivo (22’34”) dell’episodio B, dentro il quale Shostakovich nasconde abilmente (22’52”) una citazione impertinente della canzone popolare (si dice piacesse a Stalin!) Suliko:

Torna quindi (23’07”) il tema A, un’ottava sopra, sempre in oboi e clarinetti cui si aggiunge il flauto.

Ecco ora (23’23”) la parte più corposa del movimento, con l’episodio C, che inizia con un brusco cambiamento di ritmo, da binario a ternario:

Il tema è ripreso poco dopo (23’33”) dal solista che attacca un crescendo che porta (24’01”) alla progressiva, vaga ricomparsa del motto, che poi appare davvero protervo (24’47”); motto che poi (24’58”) si allarga ulteriormente (corno) e poi (25’09”) è ripreso dal solista che innesca una progressione che si fa forsennata, finchè si arriva (25’04”) alla coda, dove ancora il motto si scatena e vi ri-occhieggia Suliko. All’ultimo, su un SOL tenuto saldamente dal solista (in tripla corda, su tre ottave!) ottavino e flauto ripetono il motto per l’ultima volta; poi restano solo due secche crome (di tutti, ottavino escluso) fatte di MIb-SOL, su sette martellate del timpano.
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Tale è il rilievo riservato (data la grandezza del dedicatario e primo interprete) al solista che l’orchestra quasi non esiste, riducendosi ad interventi (a loro volta solistici) di pochi strumenti (corno, strumentini, timpano, celesta). E ciò rende certo più agevole il compito a chi, come Piovano, opera con due cappelli in testa (anzi con un archetto e una virtuale bacchetta).

Successo strepitoso per lui, accolto da applausi ritmati dal pubblico… selezionato dell’Auditorium. E allora lui, facendosi accompagnare dall’orchestra, ci regala un vorticoso bis (qui con il suo Direttore ceciliano). 
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Ecco infine la Settima beethoveniana. Piovano l’ha mandata a memoria e la dirige con piglio enfatico: gesto ampio, ammiccamenti alle diverse sezioni, insomma una direzione plateale che – oltre l’udito - accontenta anche… la vista. L’Orchestra si lascia coinvolgere e suona come un sol uomo, suscitando, dopo il travolgente e ubriacante Allegro con brio, l’entusiasmo generale.