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07 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°21

                               
Il 30enne orsacchiotto uzbeko Aziz Shokhakimov onora finalmente la sua posizione di Direttore Principale Ospite de laVerdi tornando dopo 18 mesi sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione ancora una volta piuttosto inconsueta. Dopo la respighiana Sinfonia Drammatica e la Prima di Kalinnikov, ascoltiamo un’altra quasi-primizia per l’Orchestra (che non la eseguiva da 20 anni): la Quarta Sinfonia di Carl August Nielsen.

Il quale, a dispetto delle reiterate dichiarazioni di voler comporre musica assoluta e non a programma, pose sottotitoli a 4 delle sue 6 sinfonie, etichette che sembrano rivaleggiare con quelle di Scriabin: i 4 temperamenti (no, non musicali, ma psicologici); sinfonia espansiva; l’inestinguibile; sinfonia semplice. Ed è appunto quella denominata Inestinguibile (per la quale è l’attributo di Sinfonia ad essere posto come sottotitolo!) che ascoltiamo questa settimana, composta nei primi anni della Grande Guerra. A fronte della quale l’Autore lasciò un programma (a proposito!) assai dettagliato, quanto ambiguo e contraddittorio, ma riassunto dal concetto: così come la vita, anche la musica è inestinguibile! (messa così, la definizione si attaglia al 99,9% di ogni composizione, almeno nelle intenzioni dei compositori...)

La partitura non indica alcuna suddivisione classica in movimenti, ma solo alcune notazioni agogiche (accompagnate da cambi di chiave) che possono interpretarsi come confini fra 4 pseudo-parti (ma per il resto, manca ogni soluzione di continuità): l’Allegro iniziale, poi il Poco allegretto, quindi il Poco adagio, quasi andante e infine l’Allegro che chiude il brano. La forma ha risvolti ciclici, poichè il tema principale (glorioso) che monopolizza l’Allegro iniziale torna a farsi udire nel finale: ma siamo più alla fantasia che alla sinfonia, a dir il vero. A proposito del citato tema principale, ne è già stata notata (Ludvig Dolleris, 1949) la stretta rassomiglianza con quello che evoca l’alba nella straussiana Alpensinfonie (composta subito prima del lavoro di Nielsen): l’andamento degradante e la tonalità di LA maggiore ne sono testimoni:


E in effetti, avesse Nielsen messo dei sottotitoli ad alcune sezioni della sua opera, l’avrebbe potuta tranquillamente far passare come una risposta alla gita in montagna di Strauss! 

L’orchestra è assai nutrita, ma vi mancano le percussioni a suono indeterminato; in compenso un secondo timpanista è prescritto per intervenire nel finale. Sì, poichè verso la conclusione della sinfonia esplode una vera e propria battaglia di timpani (artiglierie contrapposte nella Grande Guerra, a proposito di musica a programma...) che si chiude con i due esecutori impegnati (per terze!) in una folle salita cromatica (10 delle 12 note della scala) in glissando, il che richiede l’uso esperto dei piedi, oltre che delle braccia:


Altra curiosità riguarda l’impegno del Controfagotto (parlo dello strumento): in più di mezz’ora di musica, viene suonato (dallo strumentista del Fagotto III) per sole 18 battute, proprio all’inizio della citata battaglia di timpani, e per emettere una sola nota (SI).  

In definitiva, un lavoro che merita rispetto più che ammirazione, ecco. Shokhakimov ci ha sguazzato dentro, nulla lesinando delle brutalità sonore che lo costellano, e cercando poi di far emergere - nelle sezioni centrali - qualche squarcio lirico e contemplativo. E l’Orchestra ha dato il massimo per renderci digeribile il tutto. Un appunto che mi sento di fare riguarda la disposizione della coppia di timpani: Nielsen prescrive che i due esecutori siano dislocati ai lati opposti dell’orchestra, evidentemente per creare un effetto di contrapposizione-a-distanza fre due agenti... bellici. Invece le otto caldaie erano poste una adiacente all’altra, col che si è perso totalmente l’effetto-stereo, ottenendo per contro un sesquipedale fracasso indistinto e monocorde.
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Chiudono la serata i Quadri di Musorgski nella celebre strumentazione di Ravel. Quasi esattamente 6 anni orsono erano risuonati qui in Auditorium sotto la bacchetta di un (allora) giovane rampante: Jader Bignamini. Riapparsi nell’autunno 2013 con un altro giovane, D’Espinosa, tornano oggi con Shokhakimov, anche lui (ancora) giovane e a suo modo rampante:



Non so se si capisce, ma l’orso qui raffigurato brandisce la clava proprio come Aziz la bacchetta (!!!) A parte le battute (e poi il Direttore, per i Quadri, la bacchetta l’ha proprio abbandonata...) mi sento di riconoscere a Shokhakimov di essere assai cresciuto, rispetto alle precedenti apparizioni da queste parti: meno atteggiamenti gigioneschi e lodevole sobrietà di gesto e precisione di attacchi. Insomma, l’orso si sta addomesticando!

18 settembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 51


È un programma tutto nordico (EXPO a parte) quello con cui Jader Bignamini ha aperto la sessione autunnale della stagione 2015: si tratta di lavori collocati in un arco di tempo di circa 50 anni, da 3/4 dell‘800 fino a 1/4 del ‘900.

In apertura, per la serie dedicata alla Fiera, Nicola Campogrande presenta il Brasile: che a noi – stando a lui – farebbe una strana impressione, perché non vi troviamo tracce di samba o di bossanova. Ecco finalmente spiegato perché a me fa una stana impressione l’Inno di Mameli: neanche la più piccola reminiscenza di funiculìfuniculà!
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La parte seria (smile!) del concerto è aperta da Andrey Baranov, che ci delizia con il celebre Concerto per violino di Jean Sibelius. Del quale si è sempre – come qui – eseguita la seconda, definitiva versione del 1905. Ma ovviamente ne esisteva una prima (1902-4) malamente accolta dal pubblico perchè peggio ancora suonata dal solista: versione che l’Autore aveva immediatamente ritirato e severamente proibito di eseguire, pur non distruggendone l’originale. Soltanto 25 anni orsono gli eredi hanno deciso di consentirne una sola esecuzione e registrazione, protagonista Leonidas Kavakos con la Lahty Symphony diretta da Osmo Vanskä. Ascoltandola si può facilmente constatare la maggior complessità, difficoltà ed ampollosità di questa prima versione, che spinse evidentemente Sibelius alla decisione di alleggerirla assai, sia cassando interi passaggi (una quarantina di battute nel solo primo movimento, quasi 10 minuti di musica nel complesso) sia prosciugando di parecchio l’orchestrazione, così da non sommergere il suono del solista sotto quello dell’orchestra.

Preso in mezzo tra tardo-romanticismo e prime avanguardie novecentesche, il buon Jean cercò di uscire dall’angolo con qualche innocente strappo alle regole classiche, che si materializza in specie nell’Allegro moderato, dove la forma-sonata viene alquanto strapazzata, sia nella struttura che nella scelta delle tonalità. Ma siamo, appunto, ad innocenti scappatelle, nulla di paragonabile a ciò che gli Schönberg a Vienna e i Debussy a Parigi stavano combinando o tramando, col trarre conseguenze radicali dal cromatismo del Tristan. Non parliamo dell’Adagio centrale, che affonda abbondantemente le radici nell’800 (Bruch, Wieniawsky, Lalo, per tacere di Mendelssohn); mentre un barlume di moderato modernismo affiora nell’Allegro conclusivo, con le sue melodie appena-appena impertinenti.

Baranov si conferma interprete di valore, non solo dal punto di vista della tecnica pura (cosa non ha saputo cavar fuori, nel primo bis, dall’ultimo Capriccio paganiniano!) ma anche e soprattutto da quello della sensibilità e della cura dei particolari: emerse, tanto per fare un esempio, dal diverso pathos con cui ha proposto i ritorni del tema principale dell’Allegro moderato.

Così il trionfo è stato enorme e i bis sono diventati due, al tellurico Paganini succedendo il severo Bach della Sarabanda dalla seconda Partita, in RE minore. 
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Il Peer Gynt di Grieg ha avuto una storia abbastanza strana: fu Ibsen in persona a chiedere al musicista (di 15 anni più giovane) di comporre delle musiche di scena per il suo omonimo dramma in versi del 1867, che lo stesso scrittore aveva originariamente escluso dovesse/potesse essere mai rappresentato a teatro. E così la musica di Grieg – che lo impegnò ben al di là delle sue iniziali e ottimistiche previsioni – servì per tenere a battesimo, giovedi 24 febbraio 1876 a Christiania (oggi Oslo) quel lavoro che poi divenne una pietra miliare della drammaturgia europea.

Il poema originale (a sua volta partorito… a rate, fra Roma, Ischia e Sorrento) consta di 5 atti per complessive 38 scene (3-8-4-13-10) ed è un costrutto a prima vista bizzarro, che manda a quel paese Aristotele e le sue unità, e dove il realismo più prosaico si mescola con elementi surreali, fantastici, grotteschi, filosofici e tragici. C’è dentro un po’ di Faust (Ibsen mette in bocca a Peer, storpiato, il famoso Das Ewig-Weibliche ziehet uns hinan!), di Don Quixote, di Rodomonte e persino di… Barone di Münchausen, ecco. Va da sé che l’intendimento di Ibsen fosse (anche) di mettere alla berlina stereotipi, comportamenti, pregiudizi e stupidità del mondo a lui contemporaneo. Ed è indubitabile che il lavoro sia una spregiudicata e corrosiva radiografia dell’individuo e insieme della società ottocentesca, non solo scandinava: tutto il quarto atto ne è una grottesca parodia, che prende di mira il colonialismo, quello spregevole degli schiavisti ma anche quello culturale degli esploratori tedeschi (la Sfinge che parla crucco… che poi è il direttore del manicomio!) Chissà se possiamo anche trovare una morale in tutto ciò, visto che il protagonista, dopo mille avventure, una più fallimentare dell’altra, troverà pace solo immergendo il capo nel… ventre della caritatevole Solveig, madre e sposa!

Quanto a Grieg, la sua colonna sonora (Op.23) come pubblicata da Peters (ma ne esistono diverse varianti, dato che venne rivista nel 1891) contiene 24 numeri (3-7-3-6-5) e comporta anche parti cantate da solisti e dal coro. Grieg estrapolò a distanza di qualche anno le due Suite (op. 46 e 55) eseguite qui in Auditorium, che raggruppano in totale 8 dei 24 numeri, per una durata complessiva di circa 35 minuti, proprio un terzo di quella delle musiche di scena complete. Lo specchietto sottostante presenta in grandissima sintesi i contenuti del dramma di Ibsen e quelli delle tre partiture di Grieg.


Come si noterà, le due suite (soprattutto la prima) presentano sequenze di brani abbastanza avulse da quella delle scene del dramma. E il famoso mattino, che apre la prima suite (e che chiunque fischietta sotto la doccia) evoca non già un’aurora boreale, ma… tropicale!


Con decisione saggia, Bignamini ha separato le due esecuzioni con l’intervallo e con il concerto di Nielsen, scongiurando così il pericolo di… saturazione che una musica pur così piacevole si porta dietro. Impeccabile come sempre l’Orchestra, in tutte le sezioni.
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Fra le due suite di Grieg il flautista Andrea Griminelli ci ha proposto il quasi sconosciuto Concerto di Carl Nielsen, datato 1926. Nielsen fu coetaneo di Sibelius (che però gli sopravviverà di più di 25 anni…) e cercò assai più del finlandese di affrancarsi dal tardo-romanticismo, pur non abbracciando le moderne (a quei tempi) innovazioni provenienti da Vienna e dintorni. Il Concerto eseguito qui ne è testimonianza abbastanza chiara: pur rimanendo sostanzialmente ancorato ai canoni della tonalità, Nielsen si sforza di trovare soluzioni originali sia nella forma – il concerto ha due soli movimenti - che nei timbri orchestrali.

Come dimostra subito la stridente dissonanza che caratterizza l’Introduzione, fra la linea melodica (in RE minore) di legni e archi alti che si appoggia su un protervo MIb di archi bassi, corni e fagotti:


E si noti allo stesso tempo come il MIb e il LA ci sbattano in faccia il diabolico tritono: ecco, non è propriamente un attacco classico!
Seguiamo l’esecuzione del grande Jean-Pierre Rampal, che di Griminelli è stato maestro e mentore.
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L’Allegro moderato, a parte il motivo introduttivo dell’orchestra, si articola su tre principali temi:


La forma è piuttosto libera e i tre temi vengono presentati in sequenza, con sviluppi contestuali; verranno poi citati nella lunga cadenza solistica che precede la coda conclusiva.

6” Introduzione orchestrale; a 17” entra il flauto solista che ripropone il tema introduttivo, variato. Senza soluzione di continuità ecco (33”) l’esposizione dell’impertinente tema (A) in MIb minore, subito riproposto (47”) una quinta sopra (SIb minore) dopo un fugace intervento orchestrale. Altra riproposizione di (A) dal DO# (55”) ed un’altra ancora (1’08”) dal LA.

Dopo un rallentando del solista che chiude sul FA, a 1’26” ecco l’orchestra (violini e legni) proporre, in FA maggiore, il tema (B) assai più elegiaco del precedente: sarà lui a monopolizzare la prossima sezione. Ben presto il flauto (1’35”) si fa carico del tema, portandolo a SIb maggiore, quindi tornando, dopo breve divagazione (2’10”) al FA maggiore di partenza. A 2’17” inizia un dialogo stretto fra solista e oboe, che si scambiano un breve inciso, che a 2’29” è ripreso dal clarinetto: è lui che ora dialoga in modo assai fitto con il flauto, attraverso una serie di rimpalli a base di terzine di semicrome, una specie di cadenza a due, si potrebbe definire.

Si arriva così (3’09”) alla ripresa del tema (B) nei violini, tonalità DO maggiore; tema poi rinforzato pesantemente (3’22”) dall’intervento di corni, fagotti e bassi. A 3’38” ecco un episodio aperto bruscamente dai timpani, protagonista il trombone basso, che aizza il flauto a ripetuti singhiozzi che introducono una transizione veloce verso il ritorno (4’05”) del tema (A) sul LA. Ancora un serrato dialogo flauto-trombone basso che porta (4’17”) il tema (A) all’oboe e ai violini-viole (sul SI) raggiunti ancora pesantemente da corni e trombone basso.

Finchè, improvvisamente (4’27”) ecco fare irruzione il maestoso tema (C) in MI maggiore, in legni e corni; tema poi (4’47”) trasferito al solista che lo sviluppa in modo elegiaco finchè (5’36”) non viene, da oboi e fagotti, richiamato… all’ordine, cioè al tema (A) che il flauto porta gradatamente a spegnersi (6’11”) su un LA. Qui abbiamo una breve cadenza solistica, bruscamente interrotta (6’36”) da ottoni e timpani che conducono ad una transizione orchestrale in cui fa capolino ancora il tema (A) prima che il flauto solista (6’58”) con perentori trilli chieda… la parola: sta per iniziare infatti (7’09”) la lunga e articolata cadenza principale.

La quale è caratterizzata dal fatto che lo strumento solista è sempre accompagnato da (almeno) un altro: inizialmente dal timpano, che fa da sfondo a veloci sestine culminanti nella proposizione (7’40”) del tema (A) dal LA, ribadito subito dopo dal SOL. A 8’04” subentra il tema (B) mentre il timpano tace, lasciando il ruolo di compagnia al clarinetto, che ancora ingaggia con il solista un botta-e-risposta a base di biscrome, e successivamente (8’22”) si alterna con lui nell’esporre il tema (C) contrappuntato da biscrome sincopate. Intervengono alla fine anche il fagotti, prima che il solista (8’43”) porti la cadenza a conclusione.

A 9’02” si passa a SOLb maggiore con corni, fagotti e clarinetti che riespongono, con grande calma e per terze (un po’ à la Brahms) il tema (B). A 9’25” ancora il solista ripropone il tema (C) con una divagazione variata (9’39”) al tema (A) seguito da un’impennata (9’53”) fino al SI sovracuto, da cui discende poi per terzine, fino d adagiarsi sul SOLb, dove (10’17”) i violini ancora ricordano il tema (B), ripreso (10’31”) dal solista che si incarica quindi di chiudere sommessamente, sul SOLb maggiore.

Come si vede, una brano dalla struttura assai libera, che lascia spazio alla fantasia e quasi all’improvvisazione: interessante e gradevole, senza aver pretese di imporsi come capolavoro.

Veniamo ora all’Allegretto, un poco (sic). Dopo una corposa revisione della sezione finale, con la quale Nielsen pose rimedio all’affrettata versione originale della stessa (licenziata solo per non mancare l’appuntamento con la prima esecuzione) la struttura del movimento si presenta come uno spurio rondo: A-B-C-A’-B’-C’-D, dove D in realtà non è un tema autonomo, ma è una vera e propria sezione, basata sul ritorno reiterato del tema (A) ma dove ricompare, variato, nel trombone basso, anche il tema (C) del primo movimento. La tonalità principale è SOL maggiore, ma la chiusa sarà in MI maggiore.


Ecco, a 11’29” i soli archi, cui poco dopo si aggiunge un pedale del corno, introdurre il movimento, con secche semicrome scandite sul primo e terzo ottavo della battuta (2/4). A 11’43” il solista espone lo sbarazzino tema (A) in SOL maggiore, ripreso subito come in parodia dal fagotto, che prosegue il suo dialogo con il flauto. Flauto che poi procede ad una transizione (con intervento del corno) che porta, dopo un breve rallentando (12’21”) al secondo tema (B) nella (fugace) tonalità di SI maggiore.
                                                 
Il tema è ripreso (12’28”) dai violini che innescano una corposa transizione orchestrale, dove il solista si limita a brevi incisi; transizione che chiude con un progressivo rallentando e diminuendo, che conducono ad un bizzarro cambiamento di tempo (12’56): Adagio ma non troppo, sul quale il solista espone il tema (C) assai languido e praticamente atonale, che si muove per lo più su gradi contigui. Il flauto lo sviluppa tornando (13’48”) dopo un inciso del corno, a SOL maggiore, poi procede fino ad esaurirne la spinta, con un ulteriore rallentamento. A 14’55” un poderoso tremolo degli archi, accompagnati in fortissimo dai fiati porta alla riproposizione variata del tema (C) bruscamente contrappuntata da tre interventi in staccato dell’orchestra.

Una cadenza del clarinetto ci riporta (15’30”) in Allegretto, con la riesposizione del tema (A) ancora in SOL maggiore. Questa ricomparsa del tema appare però piuttosto offuscata, scurita, insomma quasi intristita, tanto che la melodia del flauto è costantemente calante come pure l’accompagnamento del violino solo. A 15’59” l’orchestra propone una breve transizione, che porta (16’09”) alla riesposizione (in DO) del tema (B). Mentre gli archi (16’18”) ripropongono i sussulti dell’introduzione, il solista insiste sul SOL acuto, poi (LA-SOL) sembra esplodere in un lamento; quindi un perentorio rullo del timpano ci riporta al tempo Poco Adagio.   

Qui (16’32”) un altro poderoso tremolo dei violini introduce la ripetizione del tema (C) negli archi bassi e viole, subito ripreso dal solista in forma variata e portato praticamente a… morire.

Qui (17’04”) ha inizio la corposa sezione conclusiva del concerto. Siamo ora passati in Tempo di marcia (6/8) e sono i clarinetti, supportati dai fagotti, a proporre, per terze, una variante del tema (A) ancora (per poco) in SOL maggiore. Sì, perché a 17’18” il flauto solista riprende il tema modulando a MI maggiore e ingaggiando quindi un botta-e-risposta con l’orchestra, che (17’45”) propone negli archi un nuovo motivo per terzine, presto ripreso (17’52”) dal solista, quindi ancora dagli archi.

A 18’03” ecco l’entrata del trombone basso, che sosterrà un ruolo da protagonista: dapprima ribadendo il tema (A), poi mentre il solista si libra in continui svolazzi e gli archi ribattono l’incipit del medesimo tema, riproponendo (18’09”) sempre in MI maggiore una forma allargata del tema (C) del primo movimento! Chiusa (18’23”) con un glissando dal pianissimo al fortissimo dopo il quale il flauto, con l’accompagnamento del timpano che ritma il tema (A) si imbarca in una cadenza sulla quale (18’35”) interviene ancora il trombone in glissando.

A 18’49” sono gli archi a riesporre un frammento del tema (A) cui segue una transizione dove orchestra e solista si confrontano; quindi (19’09”) ecco una specie di rincorsa dell’orchestra, che porta (19’18”) all’ultima cadenza solistica (sempre col timpano a tener bordone) finchè si arriva (19’26”) alle sei battute conclusive, rallentando e diminuendo.

Che dire: anche qui nulla di veramente straordinario, ma il prodotto di un sano artigianato musicale.
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Griminelli non ha tradito le attese e la sua ormai consolidata fama internazionale, rendendoci gradevole questo brano che, soprattutto a chi lo ascolta per la prima volta, potrebbe risultare un filino indigesto. Per lui accoglienza calorosissima ricambiata con un bis forse dedicato al suo indimenticabile Maestro.