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05 maggio, 2022

Un nuovo (e pregevole) Ballo alla Scala

Dopo quasi 9 anni (era il luglio 2013) ritorna alla Scala Un ballo in maschera, in una nuova produzione, affidata per l’allestimento a Marco Arturo Marelli (con Marco Filibeck alle luci) e - dopo la forzata defezione di Chailly - a Nicola Luisotti (prime 5 recite) e Giampaolo Bisanti (le ultime 2) per la parte musicale.

Dico quindi subito di Luisotti, al quale ovviamente vanno concesse a-priori ampie attenuanti legate alla chiamata ricevuta a poca distanza dalla prima: perciò mi sento di riconoscergli il merito di aver concertato più che bene uno spettacolo che era evidentemente stato pensato e impostato dal Direttore musicale, poi costretto al forfait.   

Unica superstite del 2013 è Sondra Radvanovsky, che ricordo avesse avuto allora un’accoglienza più che buona (cosa da me condivisa): la sua voce sembra addirittura sovradimensionata rispetto alle esigenze imposte dal personaggio, ma timbro, qualità di emissione, espressione e portamento ne hanno fatto un’Amelia super, giustamente accolta da clamorose ovazioni a scena aperta e alle uscite finali.

La premiata coppia Francesco Meli - Luca Salsi ormai è chiamata dalla Scala (leggi Chailly...) per tutti i ruoli importanti (verdiani in particolare): di Meli come Riccardo mi era rimasto un ottimo ricordo da una produzione veneziana del 2017, e anche ieri non ha tradito a sua fama, pur senza entusiasmare, ecco. Salsi poi pare crescere (se possibile) ad ogni uscita e così, con la Sondra, è stato lungamente ovazionato sia dopo le arie che al termine.   

Yulia Matochkina impersona la millantata maga Ulrica: voce ben impostata e adeguata presenza scenica. Complessivamente una prestazione più che discreta la sua, accolta con apprezzamenti: forse un filino di cattiveria in più le avrebbe giovato...

Il personaggio di Oscar è affidato qui a Federica Guida: che mette la sua voce chiara e squillante al servizio di questa variante di Cherubino: anche per lei solo approvazioni.  

I due maschietti-mafiosetti sono Sorin Coliban (Samuel) e Jongmin Park (Tom), che hanno svolto con profitto il loro compito, così come il miracolato Silvano di Liviu Holender.

I due personaggi accessori (non me ne vogliano per l’attributo, ma diamo atto che anche gli accessori servono, e come...) sono Costantino Finucci (un giudice) e Paride Cataldo (un servo d’Amelia).

Alberto Malazzi ha guidato il rinomato Coro scaligero in modo praticamente perfetto.
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Che dire della regìa? Peste-e-corna che avevo riservato a Michieletto 9 anni orsono?

Al contrario, Marelli ci ha proposto un Ballo assolutamente fedele al libretto e alla partitura. Il regista-scenografo elvetico non ha cercato improbabili ri-ambientazioni nè rincorso chimeriche de-strutturazioni e ri-strutturazioni del soggetto originale.

Fa eseguire il Preludio a sipario alzato, e una volta tanto ciò non solo non disturba, ma aiuta ad evocare la complessa (e complessata) personalità di Riccardo: che vediamo trastullarsi con un modellino di una sala delle feste popolato da statuine in maschera. Chiara (almeno per me) indicazione della premura e dell’amore che il Conte ha per il popolo che è chiamato a governare e a rendere felice. E dei sogni che popolano la sua immaginazione, uno dei quali è impersonato da una statuina che lui prende e porta amorevolmente al petto, proprio mentre l’orchestra intona il motivo La rivedrà nell’estasi... Il modellino tornerà poi alla fine, per sottolineare anche la fine dei sogni.

Conte che ci viene mostrato poi con pennellate di regalità (la posa con mantello ed ermellino per il ritratto) poichè sappiamo che la storia risale a Gustavo III; per il resto in abbigliamento da popolano, che appunto ama mescolarsi alla sua gente.

Le scene sono assai spartane ed essenziali: quinte mobili chiudono gli ambienti e poi li aprono alla bisogna; pochissime suppellettili, per concentrare l’attenzione dello spettatore sul dramma. Una grande roccia nella scena presso Ulrica, rappresentante (ma questo lo spiega il regista sul programma di sala) il Destino che incombe sul protagonista e sul suo popolo. Altre rocce, con corvacci imbalsamati (...) nel campo abbominato, che per il resto si presenta come luogo spettrale e deserto (e non come ritrovo di battone, chi ha orecchio per intendere...) Un letto e null’altro nella casa di Renato all’inizio del terz’atto; spazio vuoto che si riempirà di popolo festante per il ballo.

Le luci di Filibeck ben supportano le diverse atmosfere che si susseguono nell’opera; i costumi sono più o meno plausibilmente dell’epoca in cui la vicenda è ambientata.

Efficace poi la gestione dei personaggi e delle masse: che mette adeguatamente in risalto le diverse personalità dei protagonisti e le attitudini del popolo nelle sue diverse manifestazioni.

Insomma, un allestimento caratterizzato da alta professionalità e onestà intellettuale, che il pubblico ha accolto con grande calore e lunghi minuti di applausi per tutti.

07 febbraio, 2020

Il Trovatore del lettone


Ovviamente da leggersi lèttone! Ieri il Trovatore museale ha avuto il suo battesimo in un Piermarini abbastanza affollato e pure... cattivello. Che fa rima con... Trovatello (!?!) Ma andiamo con ordine, cominciando con la compagnia di canto.

Il protagonista Francesco Meli è stato il vincitore (non trionfatore, chè nessuno ha trionfato) della serata. Lui ormai garantisce un livello sempre assai alto di prestazione, grazie alla sua professionalità e alla sua preparazione. Date le sue caratteristiche... somatiche (parlo della voce, ovviamente) oserei quasi dire un’apparente bestemmia, cioè che lui sia forse il più verdiano dei Manrichi, nel senso che non si adegua (non ne avrebbe le risorse naturali) ai tenori di tradizione, quelli di approccio eroico e dal do-di-petto facile, che non è detto fossero proprio l’ideale del compositore. Però, per coerenza, consiglierei a Meli di ignorare quanto quei tenori di tradizione hanno inventato, ad esempio eseguendo la Pira senza gli acuti apocrifi (tanto più se sono SI e non DO). Prova ne sia che il suo Ah sì, ben mio è stato accolto con grandissimo calore, mentre il successivo All’armi ha suscitato non poche perplessità.

Liudmyla Monastyrska ha dignitosamente impersonato Leonora, mostrando in particolare grandi doti di portamento e di nobiltà nel canto a fior di labbra (apprezzatissimo il suo D’amor sull’ali rosee) mentre gli acuti a piena voce mostrano purtroppo qualche stimbratura e i centri non sono propriamente al meglio. Tuttavia il pubblico, cui mi associo in pieno, l’ha gratificata di un buon successo.

Il terzo vertice del triangolo (Massimo Cavalletti come Luna) è il vertice di un triangolo con la base in alto (!) Cioè l’unico (fra gli addetti ai suoni) a ricevere robusti buh all’uscita finale. E in effetti lui troppo spesso più che cantare vocifera, e ciò non si può giustificare col fatto che il personaggio da interpretare sia il cattivo di turno, chè anzi il cattivo - nell’opera lirica - è tanto più apprezzato quanto meglio canta (vedi Iago, Alberich, Mefistofele e compagnia).

Fuori dal triangolo (amanti vs rompipalle) c’è il personaggio più robusto, anche musicalmente, dell’opera: la sbifida Azucena. Violeta Urmana la canta da una vita e anche solo per questo fa sempre un figurone. Certo, oggi anche per lei gli anni (quasi 60) cominciano a pesare, ma insomma... avercene.

Chi mi ha fatto ottima impressione è Gianluca Buratto, un Ferrando autorevole e sicuro (non fosse altro che per la responsabilità che si ritrova a dover rompere il ghiaccio). Ampia sufficienza per gli accademici Caterina Piva (Ines), Taras Pryziashniuk (Ruiz) e Giorgi Lomiseli (Zingaro) e per l’ex-accademico Hun Kim (messaggero).

Mario Casoni ha come sempre garantito una prestazione di buon livello del coro, che peraltro in un paio di frangenti mi è parso in... asincronia con Luisotti, chissà per colpa di chi.

Ed ecco appunto il Direttore. Ho colto alcuni chiari mugugni dal loggione, dopo il primo atto, che non erano immeritati, ma allora perchè poi perdonarlo alla fine? Visto che (mi pare) nei tre atti successivi non ha fatto ne’ peggio nè meglio. La sua è una direzione che definirei approssimativa, con qualche eccesso di fracasso gratuito, più di una gigionata sui tempi e con più di uno scollamento con il palcoscenico, anche se non arriverei a parlare di disastro. L’Orchestra ha evidentemente seguito (ed eseguito...) l’approssimazione del Kapellmeister. Di solito sono cose che succedono se si ha provato poco, chissà se nelle prossime recite le cose andranno meglio.
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Disfatta clamorosa invece per il team di Alvis Hermanis, letteralmente subissato di improperi all’uscita finale. Devo dire che non mi sono associato agli improperanti, per un paio di ragioni.

La prima è che al legista lettone va dato atto di non aver inventato le solite stupidaggini, tipo ambientare la vicenda fra cosche mafiose o bande di ragazzacci del Bronx, nè di proporre strindberghiane crisi della società borghese: la sua trovata di far raccontare la storia ad addetti di un museo in cui ambientarla sarà certo della serie famola strana, ma appunto fa pochi danni.

Fa colpo l’impiego, in scene e costumi, di 100 varietà di rosso, che forse vogliono tradurre cromaticamente il concetto che il Trovatore è un’opera di morti. Quanto ai dipinti della pinacoteca, mi è parso di cogliere che ad Aliaferia e al chiostro siano a soggetto religioso, mentre a Castellor sono a soggetto laico: non so se per il regista sia questo un modo per distinguere le due forme di società che si contrappongono nell’opera. Alla fine i quadri di Castellor vengono accatastati per esser dati alle fiamme (altra vampa) ad Aliaferia, ma poi anche quelli di Aliaferia spariscono (sempre per via di... tutti morti?)

La seconda ragione di non-dissenso è la recitazione dei personaggi e la gestione dei movimenti delle masse: sui quali aspetti della regìa non solo non mi sentirei proprio di infierire, ma al contrario spenderei qualche meritato apprezzamento.

Il definitiva, una proposta accettabile della quale casomai mi vien da sospettare l’efficacia del cosiddetto price/performance, che temo (visto che paga pantalone) sia purtroppo esorbitante.

06 febbraio, 2013

Nabucco resta in brache di tela alla Scala


Secondo titolo verdiano nella stagione del centenario: dopo Falstaff (ultima opera del Maestro) ecco Nabucco, che se non è la prima, poco ci manca (ma fra qualche tempo è in programma anche Oberto, proprio la prima). Una produzione nuova affidata al duo Luisotti-Abbado (Daniele, oh…) che esordisce qui per trasferirsi poi a Londra, Chicago e Barcellona.

Ieri sera terza recita, in un Piermarini abbastanza affollato, ma dove si notava a colpo d’occhio l’enorme vuoto lasciato dal bandito Isotta Paolo (smile!) (In un primo momento avevo pensato – dati i tempi piuttosto duri - di approfittarne, chiedendo a Lissner di girare a me il pass dello sgradito, ma nel frattempo un manichino ambulante con rassicurante sorriso a 64 denti mi ha garantito il rimborso dell’IMU e l’eliminazione di ogni altra tassa, più in omaggio un DVD con la Strepponi che fa il bunga-bunga, e allora ho deciso di soprassedere e di continuare a pagarmi di tasca mia l’abbonamento, garantendomi così anche l’indipendenza di giudizio… ultra-smile!

Luisotti ha diretto con onesta pulizia e (per me) con grande attenzione a non farsi prendere la mano da eccessive enfasi (forse doveva farsi perdonare qualche critica di eccessiva foga che si era beccato l’altr’anno dirigendo qui Attila).

A mo’ di esempio, citerò l’Andante maestoso su D’Egitto là sui lidi, dove abbiamo un volgarotto cèccè/pùm-cèccè/pùm, scandito da archi, triangolo e corni su ogni semiminima delle battute in 4/4, che accompagna la prosaica linea melodica, ora esposta dal coro (Di lieto giorno un so-o-o-o-o-le) sottolineata in unisono da trombette, tromboni e fagotti:
 
Qui se non si dosano al meglio – come ha saputo fare Luisotti - gli ingredienti sonori (tutti, voci e strumenti, sono notati in piano…) c’è il rischio di ottenere l’effetto di una banda di paese della bassa che avanza verso la chiesa, seguita da un coro di contadini e contadine vestiti della festa e inalberanti effigi di Marie Vergini e Cristi Re!

Quindi, il maestro per me si merita un ottimo voto.

Il coro di Casoni mi è parso all’altezza, anche se proprio dopo il Va’ pensiero sono piovuti alcuni isolati buh dal loggione (peraltro compensati da lunghi applausi e bravi!)

Che dire dell’inossidabile Leo Nucci? Che - ahilui - forse si sta un tantino ossidando (smile!) La sua capacità di auto-gestione è sempre grandissima (anzi di certo aumenta con l’esperienza di decenni!) ma le pecche fatica sempre di più a coprirle, prima fra tutte l’intonazione spesso trovata a partire da un bel quarto di tono sotto, rispetto alla nota da scandire. E anche i non prescritti LAb acuti (duetto della terza parte e Oh prodi miei della quarta) non sono proprio stati delle meraviglie, diciamolo… Insomma, come gli accade da parecchio tempo ormai: per lui gran successo ma… alla carriera. A proposito di carriere, in aprile a Londra la parte sarà sostenuta – indovina? – dal Topone!

Vitalij Kowaljow sarebbe uno Zaccaria rispettabile se avesse più voce là dove la si richiede ad un basso (smile!) Invece dal LA grave in giù (i SOL e un paio di FA# cui Verdi lo chiama) il nostro sembra proprio cantare immerso in un acquario.  

L’Ismaele di Aleksandrs Antonenko fatica a meritarsi la mia sufficienza (e dire che io sono proprio di bocca buona!) Potenza notevole, ma impiegata in modo rozzo e scriteriato (tutto l’opposto di come dovrebbe essere il mite Ismaele); intonazione sempre problematica, più che altro crescente (forse per paura di… calare).

Liudmyla Monastyrska è stata a mio giudizio la migliore della compagnia (ma si sa che tutto è relativo!): alla gran voce ha unito una sorprendente (per me, almeno) capacità di espressione e di portamento (fondamentali per questo personaggio di donna altera e spietata, ma alla fine distrutta e convertita) oltre a discreta fluidità nei ripidi saliscendi in cui Verdi la impegna.

Però, accipicchia, come si permette di prendersi certe libertà?! Nella cadenza (compresa la ripetizione) del celeberrimo cantabile della seconda parte (Anch’io dischiuso…) al verso Chi del perduto incanto mi torna un giorno sol troviamo questa unica battuta, che Verdi prescrive tutta in legato:

Viceversa la Monastyrska la stravolge letteralmente: inserisce una pausa (di respiro?) prima del LA acuto sul quale, in compenso, si ferma poi con una corona puntata. Ora, dato che il passaggio non è di quelli che richiedono doti di apnea alla Majorca, dovrei dedurre trattarsi di una scelta estetica dell’abbondante Liudmyla: dalla quale scelta, invero sconsiderata, modestamente mi dissocio in-toto.

Discreta la prestazione di Veronica Simeoni (Fenena): voce bene impostata, anche abbastanza passante, e di timbro gradevole. Lodevole anche la sensibilità alle caratteristiche del personaggio di donna allo stesso tempo pia e coraggiosa.

Giuseppe Veneziano (Abdallo), Tatyana Ryaguzova (Anna) e il gran Sacerdote Ernesto Panariello: come da minimo sindacale.

Tirando le somme, una prestazione musicale appena dignitosa, che ai miei occhi mantiene quel livello di qualità (fossi Moody’s, oggi confermerei un rating Baa1) dopo la piccola risalita registrata già in occasione del Falstaff.
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Due impressioni sulla messinscena, che Daniele Abbado ha ripensato dopo quella di anni fa al Regio di Torino.

La sua concezione è diffusamente spiegata sul programma di sala, che ogni spettatore dovrebbe tassativamente leggere prima di assistere allo spettacolo, onde evitare di non capirci proprio nulla, tanta è la distanza fra i contenuti (testo e musica) dell’originale di Solera-Verdi che arrivano alle orecchie e ciò che dalla scena arriva agli occhi.

Sappiamo come Verdi avesse bisogno come l’aria di scenari di macro-conflitti a sfondo storico (o pseudo-storico, o biblico, nella fattispecie) da dipingere con grandi affreschi musicali, all’interno dei quali collocare i micro-conflitti delle personalità e degli affetti (amore, odio) dei singoli individui protagonisti dei suoi drammi. Ebbene, nella regìa di Abbado – sembra paradossale - manca proprio tutto, gli uni e gli altri (hai detto niente…)

Il conflitto, epico e anche mortale, fra due popoli e due etnìe -  basta leggere il libretto di Solera e ascoltare attentamente la musica di Verdi per capacitarsene (e lì gli ebrei non appaiono meno manichei e sanguinari degli assiri!) nell’allestimento di Abbado scompare, rimpiazzato da un non meglio definito scenario di disordine sociale, di continue sofferenze e di nichilistica rassegnazione di un unico e indistinto popolo. Per il quale il personaggio di Nabucodonosor non incarna il capo sanguinario e vanaglorioso di un altro e diverso popolo nemico mortale, ma una specie di proiezione delle proprie colpe secolari. Il che è un’interpretazione francamente forzata dell’ira del Nume sdegnato e del peccammo! che ascoltiamo in bocca agli ebrei nella prima scena.

Ma se guardiamo i costumi e le scene di Alison Chitty ci rendiamo subito conto che quell’unico popolo è il popolo ebraico ai tempi della Shoah: inequivocabili le lapidi disseminate in scena e le alte colonne laterali, che ci ricordano cimiteri ebraici e musei dell’Olocausto (che vedremo profanati all’arrivo di Nabucodonosor). Ma allora, accipicchia, se costui, invece di tale Adolf Hitler, è la proiezione dei sensi di colpa degli ebrei, dove andiamo a parare? Certo, mostrare il Führer nei panni del delirante despota assiro sarebbe stato demenziale, in quanto avrebbe comportato la finale farsa di un Ben Gurion che consacra un convertito Hitler come de’ regi il re!

Invece cosa vediamo noi in scena, all’arrivo di Nabucodonosor? Una situazione da sciopero selvaggio in una fabbrica occupata, nella quale fa il suo ingresso il titolare, il padrone, in elegante doppiopetto. Il quale sfida sprezzantemente gli scioperanti, prendendo a calci i volumi da loro deposti a terra, libri che dovrebbero rappresentare altrettante Bibbie, ma che nello scenario propostoci da Abbado dovremmo ipotizzare essere Das Kapital!   

E nel primo quadro della seconda parte, come spiegare il recitativo di Abigaille, che con una torcia dà fuoco a quelli che sembrano brandelli di quei libri della scena precedente? Forse la Bücherverbrennung del 1933? Mah…

E tutta l’opera prosegue su questa falsariga: uno scenario di indistinta sofferenza-insofferenza, mista a negativa rassegnazione. Ed è quindi fatale che l’unica scena che invece nel Nabucco originale evoca precisamente quella situazione e quello stato d’animo - il Va’ pensiero – finisca per perdere la gran parte della sua efficacia e del suo significato, immersa com’è in questa atmosfera uniformemente grigia (sì proprio grigia in tutti i colori di tutto ciò che sta in scena). Così come efficacia e significato perdono, ovviamente, tutte le scene che invece dovrebbero rappresentare la furia, l’ira, l’orgoglio, le manìe di grandezza e gli opposti integralismi religiosi. Il Nabucodonosor in canottiera sarà pure una metafora del famoso principio Il Re è nudo, ma diventa incoerente e incomprensibile in quello stesso scenario che Abbado gli ha costruito intorno.

Insomma, l’allestimento di Abbado ha il difetto – assai frequente nella prassi del Regietheater – di prendere una (piccola) parte o un solo aspetto del dramma originale per farne il tutto della messinscena. Così, in questo caso, ci viene nascosto il principale nocciolo drammatico di Nabucco, con la sua conclusione (tanto utopistica quanto storicamente inconsistente e ridicola) che sta nel prevalere del rapporto positivo fra individui (l’amore coniugale Fenena-Ismaele e soprattutto l’amore paterno Nabucco-Fenena) sul rapporto negativo fra politiche, imperialismi, ideologie e religioni guerrafondaie. Se si può indicare una morale della favola del Nabucco di Solera-Verdi, essa risiede nel fatto che la conversione di Nabucodonosor non è dovuta ai fulmini dell’immenso Jeovha, ma all’amore di un padre per la figlia; così come è l’amore fra Fenena e Ismaele a portare Abigaille a rinnegare il suo passato e la sua religione, rinunciando addirittura al supremo potere appena conquistato, di fronte alla constatazione che non c’è potere al mondo che possa surrogare la mancanza di amore.

In definitiva: un’operazione che non è né carne né pesce, equivoca e velleitaria al tempo stesso; un po’ come lanciare il sasso e… ritirare la mano.

03 maggio, 2012

Riecco alla Scala la Toscaccia di Bondy, un pochino ricondizionata


Forse perché sono ancora da ammortizzare i costi dell’allestimento (altre serie ragioni non se ne vedrebbero, perlomeno…) la Scala ripropone anche in questa stagione la deplorevole Tosca di Luc Bondy, che già fece i suoi danni poco più di un anno fa. E, a differenza di allora, è pure inserita nel programma in abbonamento, così – avendola già pagata – un abbonato non può esimersi dal risorbirsela (d'altronde sarebbe azione quanto mai disdicevole, da parte dell’abbonato medesimo, deleteria per la promozione dell’opera lirica, nonchè punitiva verso un amico, prestargli la tessera d’abbonamento per l’occasione, smile!)

In realtà qualcosa di buono nel frattempo è accaduto poichè, essendo il regista svizzero contumace, in questa ripresa la brava Lorenza Cantini fa del suo meglio per smussare, se non proprio per cancellare del tutto (cosa impossibile) le sue principali efferatezze, in specie quelle del secondo atto. Insomma: una produzione che resta semplicemente sconcia, ma non più da codice penale (ri-smile!)

Per le prime due rappresentazioni si è ripetuto un copione ormai quasi obbligato al Piermarini: buh e grida di vergogna alla prima e poi quasi un trionfo alla seconda, oltretutto col cast alternativo. E anche certe reazioni sono state fedeli a quel copione: chi ha assistito alla seconda recita (e non alla prima) crede di aver la prova provata che l’insuccesso di quella fosse opera dei soliti sabotatori di professione; chi ha assistito alla prima (e non alla seconda) si dice certo che il successo di quest’ultima sia da ascriversi all’ignoranza del pubblico bue. Insomma: dispute da bar-sport, ma proprio di quelli che espongono il cartello vietato l’ingresso ai cani e alla logica

Insomma, eccomi puntuale in prima galleria a risentirmi (guardando il meno possibile…) questa straordinaria espressione del genio italico, una storia tutta fuoco e passioni come di più e meglio non potrebbe uscire dallo scenario della Roma papaloide di fine ‘700, mirabilmente descritta con gli strumenti musicali di fine ‘800.

Devo dire che, date le premesse, mi aspettavo di molto peggio. Invece devo ammettere che si è trattato di una prestazione complessiva tutto sommato sopra la sufficienza (certo non si parla né di dieci, né di lodi!)  

Di Luisotti si dice sia un esperto pucciniano: non so di preciso cosa significhi, ma devo dire che la sua direzione mi è parsa equilibrata (gli perdono qualche eccesso di fracasso in alcuni momenti topici) e rispettosa di chi sta sul palco a cantare. Con lui anche l’Orchestra mi è parsa suonare dignitosamente, inclusi i sempre criticati ottoni.

Martina Serafin è stata una Tosca per nulla disprezzabile (suo l’unico applausetto a scena aperta, dopo un Vissi d’arte peraltro non memorabile). Qualche problema, mi è parso, di intonazione sugli acuti, ma in complesso una prestazione onorevole.

Marcelo Álvarez non ha fatto rimpiangere per nulla – alle mie orecchie perlomeno – il bel Jonas della scorsa edizione: voce ancora sicura e soprattutto senza interventi di naso e gola, così caratteristici del commerciante crucco.

Su George Gagnidze (Scarpia) andrebbe stabilito se: a) lui canta male perché costretto dalla regìa a digrignare continuamente i denti e strabuzzare gli occhi, oppure se: b) lui digrigna i denti e strabuzza gli occhi perché non sa cantare (smile!)

Deyan Vatchkov era già stato un discreto Angelotti lo scorso anno, e mi pare abbia confermato quella prestazione.

Il sagrestano di Alessandro Paliaga ha fatto il suo dovere, facendosi almeno udire chiaramente fin su al loggione. Altrettanto non mi sentirei di dire per Massimiliano Chiarolla (uno Spoletta dimesso). Davide Pelissero (Sciarrone) ed Ernesto Panariello (carceriere) hanno ripetuto le loro oneste prestazioni, come nella precedente edizione. La voce in lontananza del pastore era di Elena Caccamo, che la locandina online del teatro ignora bellamente, insieme ai cori di Casoni.

Alla fine moderati applausi per tutti, con una punta (toh!) proprio per Gagnidze!

Insomma, mettiamola così: se non si fosse nell’indiscusso tempio della lirica (come recita con grande modestia la pubblicità Rolex e come ripete ogni giorno il modestissimo Lissner) si potrebbe persino tornare a casa soddisfatti.

16 luglio, 2011

Ultima di Attila alla Scala


Ieri sera ultima levata di sipario alla Scala prima della chiusura estiva, con Attila, nell'edizione dell'accoppiata Luisotti-Lavia. Teatro non proprio esaurito, ma perlomeno non così penosamente semivuoto, come lunedi scorso per l'Italiana.
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Su Attila se ne leggono di tutte. Opera del Verdi giovane e ancora immaturo (dopo Nabucco?) Del Verdi bandistico (ma non rinunciò proprio qui alla banda?) Del Verdi polacco (zumpara-pappa-pappa). Opera dalle vocalità impossibili. E così via ridimensionando. Certo, anche il Wagner del Lohengrin non è quello del Parsifal (toh!) e allora dovremmo bruciare quelle partiture giovanili e conservare solo Otello e Parsifal? No, grazie, dateci pure Attila e Lohengrin a colazione, pranzo e cena. Otello e Parsifal solo a Natale e Pasqua, dopo adeguati Avventi e Quaresime.

Insomma, sarà anche immatura, primitiva e pure barbara (smile!) ma personalmente trovo Attila un'opera musicalmente entusiasmante: a dispetto della struttura ancora tradizionale, a numeri, non lascia cadere la tensione nemmeno per un attimo; essenziale, concisa, mai prolissa. Sì, ci sono per lo più scene eroiche (con relativi fracassi e retorica) con frequenti irruzioni di cori a tutta forza, come nella cabaletta di Foresto in chiusura del prologo:
C'è tanta enfasi, come nell'attacco della cabaletta di Attila Oltre quel limite, con il suo inconfondibile (e tanto bistrattato, dai detrattori) ritmo di polacca, già comparso nella cabaletta iniziale di Odabella e che ritroveremo con Ezio, nell'Atto II:

Non parliamo poi del concertato del Finale II, con solisti, coro e tutti gli strumenti in ff, in un'autentica orgia sonora.

Ma vi troviamo anche scene liriche, dove emergono i sentimenti e gli stati d'animo, le superstizioni e la fede. O dove protagonista è la Natura, come nel sorgere del sole sulla laguna (per il quale Verdi trasse ispirazione da Le Désert di David) evocato con grande parsimonia di mezzi: un solo flauto e i violini primi, cui si aggiungono il secondo flauto e i violini secondi, poi un oboe, quindi le viole (sempre sottovoce) poi i violoncelli e un clarinetto, quindi un corno e infine i fagotti, in un lento ma continuo ispessimento del suono che bene rende il progressivo irrompere della luce sulle calme acque di Rio Alto:
fino all'esplodere del DO maggiore che sostiene il canto – L'alito del mattin – degli eremiti. E come non restare ammirati dalla semplicità disarmante del motivo in LAb - quattro misure, ripetute tre volte - che introduce ed accompagna l'accorato Non involarti, seguimi di Attila, all'inizio del quartetto conclusivo:
Insomma, in Attila ci sarà magari poca cerebralità, ma in compenso c'è vena genuina in grande abbondanza.
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Sulla plausibilità del libretto e sull'aderenza dello stesso (e della relativa fonte di Zacharias Werner) ai fatti storici sarebbe eccessivo pretendere troppo: al servizio del dramma e ad uso e consumo del pubblico italico di metà '800, le vicende storiche di Attila vennero assai manipolate, attingendo ampiamente (ed anche con libere storpiature) ad antiche saghe e leggende.

Intanto è storicamente assodato che l'Unno mai e poi mai arrivò nei paraggi di Roma, come vuole il libretto (e come già aveva fantasiosamente dipinto Raffaello in Vaticano, cui Verdi si ispirò): in realtà, nella sua spedizione contro la capitale dell'Impero non attraversò neanche il Po, fermandosi a Governolo, in quel di Mantova. Sì, perché dopo aver raso al suolo Aquileia, Attila aveva continuato invece a spostarsi da est a ovest, porgendo visite di cortesia a Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e finalmente a Milano. In pratica tracciando con ferro&fuoco il percorso originale dell'autostrada Attila-IV (oggi: A4, smile!) E a Governolo, dopo l'incontro con Papa Leone, avrebbe deciso di rinunciare. E questo è ciò che si riscontra effettivamente anche nel libretto dell'opera fino alla fine dell'Atto I. Poi, miracolosamente, nell'Atto II troviamo Attila alle porte di Roma: potenza delle leggende e delle incongruenze dei libretti d'opera!

Nella realtà storica, convinto dalla minacciosa autorità di Papa Leone - ormai la Chiesa era divenuta più importante e potente dell'Impero (primato che detiene tuttora, smile!) - ma anche dai suoi propri luogotenenti e dallo stato penoso in cui versava la truppa - fatta di gente abituata a mangiar radici selvatiche e pezzi di carne pressata fra le proprie chiappe e il dorso dei cavalli che montava, e a cui la dieta mediterranea (Oh lauta mensa, che a noi sì ricco suol dispensa) giocava brutti scherzetti – il nostro decise di tornarsene a casina, laggiù in Pannonia (non prima però di aver fatto qualche razzìa su dalle parti di Augsburg). E fu a casa propria che, sposatosi per l'ennesima volta – tanto per consolarsi della momentanea rinuncia al Campidoglio – ci lasciò le penne, soffocato dal suo stesso sangue, sgorgatogli dal naso durante il pesante sonno provocato dalle abbondanti libagioni seguite al matrimonio.

I dietrologi – prevedendone saggiamente l'impiego nel melodramma verdiano, smile! - hanno poi inventato la storia dell'assassinio di Attila da parte della neo-moglie, una discendente dei Burgundi che si volle vendicare della strage del suo popolo perpetrata dagli Unni (su comando di Roma, guarda un po'!) E questa leggenda ha trovato posto, nei secoli successivi, in diverse saghe nordiche e germaniche. Una per tutte, la Völsunga Saga (che ispirò, per altri aspetti, anche Wagner): vi si legge che Gudrun, moglie di Attila (Atli, o anche Etzel o Eceln nel Nibelungenlied) decide di vendicare la strage che il marito ha fatto dei suoi parenti, in questo modo: ammazza i due figli avuti dall'Unno, ne cucina i cuori allo spiedo, mescola il loro sangue al vino, e poi serve il tutto in tavola al marito. Quando costui chiede dove siano finiti i ragazzini, lei lo informa, con la massima naturalezza, che lui stesso se li è appena mangiati e bevuti! La notte successiva, la simpatica mogliettina completa l'opera passando Attila da parte a parte, con la di lui spada.

Beh ecco, diciamo che Werner e poi Solera&Piave ci hanno meritoriamente risparmiato buona parte di questi eccessi orripilanti, tuttavia anche il disegno dell'italica Odabella (contendere all'amato Foresto l'onere e l'onore di far secco il flagello, correndo persino il rischio di mandare a meretrici tutto il piano faticosamente messo a punto dal medesimo Foresto con l'appoggio dell'ambiguo generale Flavio Ezio e dell'inaffidabile Uldino) appare sufficientemente contorto e persino più inverosimile di quello della sua parigrado burgunda. Per nostra fortuna a musicare questo polpettone fu tale Verdi, uno capace di cavar sangue (smile!) anche dalle rape.

A proposito di Odabella, la sua figura è solitamente avvicinata a quella di Abigaille. A me piace vederci anche un'anticipazione della Hélene dei Vêpres: analoghe le motivazioni alla vendetta nei confronti di un tiranno e musicalmente vicine anche le rispettive arie di esordio:
(Poi le sorti delle due eroine tenderanno a divergere assai).

In Attila compare – per la verità abbastanza di sfuggita e in modo superficiale, con qualche accenno a Wodan – anche il conflitto fra le ataviche religioni nordico-levantine e il Cristianesimo. Guarda caso, più o meno in quegli stessi anni, Wagner componeva Lohengrin, dove quel conflitto esplode invece in modo drammatico, e musicalmente straordinario, per tramite della straripante personalità di Ortrud.

Quanto ai presunti risvolti patriottico-risorgimentali del contenuto di Attila, varrà solo la pena di constatare come i personaggi di maggior peso politico che si oppongono all'invasore siano: un Papa (!) e un generale doppiogiochista (!!) I poveri Odabella e Foresto tutt'al più potranno incarnare il naturale risentimento popolare verso gli eccessi delle orde barbariche. In compenso, è proprio il condottiero barbaro il personaggio dell'opera che possiede e mostra la statura morale più alta e una indiscutibile nobiltà d'animo…
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E come ce l'hanno propinato, Lavia-Luisotti, questo capolavoro?

Gabriele Lavia – da velleitario esponente del Regietheater – si inventa un suo Konzept dell'opera: la barbarie permanente, o ricorrente. E lo rappresenta in tre scenari diversi, accomunati dalla presenza di teatri distrutti. Secondo lui, dalla barbarie, appunto, che si accanirebbe contro i luoghi in cui si racconta l'Uomo (così scrive sul programma di sala). Per il regista, l'Attila (quello di Verdi, si badi bene, perché è questa l'opera che lui deve mettere in scena!) incarna il Mito dell'oppressione, il Mito della privazione della Libertà, il Mito della fine della Verità di cui la Libertà è l'Essenza. Attila è la "Barbarie". Ora, come si possa conciliare questa vision con la trama e i contenuti del libretto e soprattutto della musica di Verdi, è un mistero che solo Lavia deve conoscere, beato lui! A noi, poveri pirla, non resta che fare un atto di fede nella sua superiore chiaroveggenza.

Peraltro pare che il nostro predichi male e razzoli… quasi bene: del suo Konzept restano solo le scene di teatri diroccati, mentre i personaggi escono abbastanza coerentemente con libretto e musica. Rivestiti peraltro da costumi bizzarri, tutta roba chiodata, da metallari, coperta dagli immancabili cappottoni DDR. Resta da dire di un dettaglio quasi comico nella scena del tentato avvelenamento di Attila, sventato da Odabella: già è al limite dell'assurdo nel libretto, ma Lavia fa ancor di meglio. Dunque: Odabella regge la coppa di vino destinata ad Attila; Foresto, sotto i suoi occhi, ci versa il contenuto della fiala col veleno; Uldino, lì accanto, prende la coppa e la reca al suo capo; dopodiché Odabella avverte Attila del pericolo. Una cosa semplicemente grottesca.

E veniamo quindi alla musica. Luisotti non fa sconti in fattura su enfasi e bordate di ff (che per Verdi, ligio alle convenzioni, significava il più forte possibile… solo i tardo-romantici inventeranno i fff e ffff); però sa anche dosare con discreta efficacia gli ingredienti più intimistici e lirici della partitura. Da incorniciare l'alba di Rio Alto, ben assecondata anche dalle luci. In un paio di occasioni invece si fa prendere la mano (o vuol proprio strafare): il Cara patria di Foresto inizia in Allegro assai moderato, poi sul verso ma dall'alghe di questi marosi si dovrebbe fare Poco animato, indi stringendo poco a poco; invece Luisotti passa di colpo e direttamente dall'Allegro assai moderato ad un Prestissimo degno del miglior Cipollini… Stessa solfa nel travolgente Finale II, dove si dovrebbe partire da un Allegro e poi passare a un Più animato e infine ad un Più mosso; il maestro invece salta tutti i passi intermedi e si butta a capofitto in un Allegro con fuoco tanto impressionante e strappa-applausi, quanto gratuito. Ma insomma, una direzione nel complesso accettabile, e ben supportata da un'orchestra compatta, che garantisce a Luisotti un gran trionfo finale.

Orlin Anastassov (che viene più o meno dai paraggi di Attila) ha dato forfait (voci maligne attribuiscono la defezione ad un improvviso invito ad una festa in suo onore da parte di una certa Ildegonda, smile!) ed essendo indisponibile anche il vice (Pertusi) lo ha sostituito sui due piedi Enrico Iori, non nuovo per la verità a cantare il flagello. Datosi che probabilmente avrà avuto solo il tempo di scambiare quattro chiacchiere col maestro prima di entrare in scena, la sua prestazione la giudicherei più che sufficiente, e così l'ha pensata anche il pubblico.

Marco Vratogna era lo sbifido Ezio. Che però non dovrebbe cantare in modo sbifido… Comunque è rientrato nel generale livello di passabile mediocrità: per lui qualche applauso dopo il duetto iniziale con Iori, accoglienza fredda all’aria dell’Atto II e però applausi alla fine.

Elena Pankratova come Odabella non mi è dispiaciuta: più efficace nell'esordio eroico (applaudito) che nell'aria dell'Atto I, che forse le è costata (immeritatamente, per me) quegli unici buh che si sono uditi alla fine dalla seconda galleria.

Fabio Sartori è stato un Foresto abbastanza dignitoso, sempre in controllo e mai (apparentemente almeno) in difficoltà. Anche per lui buon gradimento di pubblico.

Gianluca Floris come Uldino aveva pochi versi da cantare solo, più che altro da contribuire a vari cori e concertati, e ciò ha fatto passabilmente bene.

Ernesto Panariello impersonava Leone. Il quale ha da cantare da solo 4 versi, 16 battute in tutto, poi si mescola al coro del Finale I. Però in quelle poche battute dovrebbe mettere (tonante, recita la didascalìa) tanta paura addosso al flagello, da convincerlo a rinunciare all'impresa. Ma dato che per i librettisti Attila non rinuncerà affatto, mi pare del tutto logico (smile!) che l'intervento del Papa-Panariello sia stato quanto di più fiacco e improduttivo si potesse immaginare… Il pubblico però gli è stato grato di non aver fatto finire l'Opera a metà (ari-smile!)

I coristi (adulti e bianchi) della Scala devono proprio stare sui coglioni agli estensori delle locandine web del Teatro: non parvenu. Quindi, un doppio bravi! a loro e al loro condottiero Casoni.

In conclusione: a parte l'isolata contestazione alla cicciottella Pankratova, buon successo, segno che il pubblico ha gradito (quanto e quanti spettatori poi abbiano una minima conoscenza dell'originale è oggigiorno questione non secondaria, ma… quaternaria). Prosit e – per quanto mi riguarda – looking forward to PesaROF!
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15 giugno, 2011

Luisotti con la Filarmonica, prima di vedersela con Attila


Il prossimo lunedi 20 giugno Nicola Luisotti aprirà le rappresentazioni scaligere di Attila, opera non propriamente facile, così come non troppo eseguita.

Per prepararsi a questo insidioso incontro, il bravo Nicola si sta allenando con la Filarmonica, che eroga (a-gratis, smile!) le tre repliche dell'ultimo concerto della Stagione del Teatro.

Programma che prevede dapprima l'ultra-inflazionato Concerto in SIb Minore di Ciajkovski, interpretato da quella specie di orso yoghi (smile!) che risponde al nome di Lexo Toradze. Il quale sarà pure unorthodox, come lo descrivono i suoi compatrioti-acquisiti yankee, ma accipicchia anche da Ciajkovski - che pure non è la sua specialità – sa cavare cose egregie! Ben supportato da un'orchestra che Luisotti comanda con gesto imperioso, a dispetto della rinuncia alla bacchetta. Orchestra verso la quale il nostro si volta completamente durante le sue pause, sedendosi sul lato stretto del suo sgabello, quasi a sostenerla con ammiccamenti e sorrisi.

Applausi a scena aperta già dopo il primo movimento. Delizioso l'Andantino semplice centrale, caratterizzato dal dialogo con il flauto e il violoncello. Dopo il travolgente finale il trionfo è assicurato e Toradze non ci nega il bis: dopo una specie di esercizietto, il nostro ci introduce al successivo Prokofiev con un pezzo (dalla sonata n°7, credo) di alto virtuosismo.

Più impegnativa - perché un poco meno eseguita, ma soprattutto più ricca di polpa e succo – la Quinta di Prokofiev. Luisotti ha nel frattempo recuperato la bacchetta e attacca assai bene l'Andante introduttivo, dove il pacchetto degli ottoni – croce e delizia dell'orchestra - se la cava abbastanza dignitosamente, tuba in testa, in quella specie di grandioso corale, scandito dai tremendi colpi di grancassa, tamtam, tamburi e timpani, che precede la conclusione:
Nello Scherzo Luisotti si lascia prendere la mano dalla sbarazzina motorietà del brano:

ed eccede in gigionerìe gestuali francamente più consone ad un clown che ad un direttore: peraltro ciò potrebbe indicare che il feeling con l'orchestra sia buono (Attila è avvertito!)

Molto meglio l'Adagio, movimento insidioso in quanto contempla il rischio di una generale russata (smile!) Invece Luisotti sa tenere desta l'attenzione e sveglio l'ascoltatore con una efficace sottolineatura dei chiaroscuri di questa difficile pagina.

L'Allegro giocoso mi è invece sembrato un tantino moscio: una dose di verve in più, già dallo stacco dopo l'introduzione, non avrebbe certo guastato. Forse per questo l'accoglienza finale è stata calorosa sì, ma non proprio trionfale.
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20 gennaio, 2010

Salome a Bologna

Ieri sera, la seconda della Salome a Bologna, in un teatro con alcuni vuoti (cosa che francamente mi ha sorpreso).

Personalmente mi dichiaro più che soddisfatto. In particolare (ed è ciò che conta in questi casi) della prestazione musicale: Nicola Luisotti mi pare avere bene in mano questa partitura, di cui ha trasmesso efficacemente il pathos, coadiuvato dall'Orchestra che – pur ridotta rispetto a quella sterminata prevista da Strauss – ha dato il meglio, in particolare proprio nei fiati (la sezione più… sacrificata). Ora, gli interpreti.

Erika Sunnegårdh è una Salome assai efficace come presenza scenica, oltre che come fisico, ben adatto al ruolo (e se la cava discretamente anche come danzatrice). Mi è parsa però dare della personalità della protagonista un'interpretazione – come dire - troppo romantica, o troppo poco perversa. Quanto ciò sia responsabilità sua o della regìa è difficile da giudicare (ma la seconda ipotesi sembra suffragata da ciò che il regista scrive sul programma di sala). Sul piano musicale non mi è per nulla dispiaciuta, mi è parsa migliorata rispetto all'ascolto in radio dello scorso sabato (evidentemente c'era anche più affiatamento con la buca).

Anche Mark S.Doss – che in radio non mi aveva entusiasmato - se l'è cavata bene. Io personalmente metterei in quel ruolo un baritono più tenoreggiante, più chiaro (Jochanaan è un profeta che deve pontificare sì, ma è anche giovane!) ma a parte questo la sua prestazione è stata di rilievo; tenuto conto poi che deve cantare per tre scene su quattro sepolto sotto il palcoscenico (qui Luisotti è stato bravo a non coprire la sua voce, tranne purtroppo nella quarta scena, laddove a quella del profeta si sovrappongono le voci di Herodes, dapprima, e poi di Herodias). Immagino Doss più adatto, come voce, al Capitano Balstrode, nei cui panni lo rivedremo a marzo nel Peter Grimes a Torino.

Robert Brubaker è stato un po' il mattatore della serata. Gran voce e soprattutto grandissima prestazione scenica. È proprio l'Herodes che ci si immagina leggendo il libretto e scorrendo la musica!

Per Dalia Schächter farei un discorso analogo a quello su Doss. Herodias è una donna non più giovanissima (e quindi si comprende la tessitura da mezzosoprano) ma è anche una bisbetica petulante, dalla quale ci si aspetterebbe una voce più chiara e non un vocione cavernoso da vecchia megera.

Mark Milhofer era Narraboth, il bel siriano che perde la testa, non quella fisica, lui! ma quindi comunque anche la vita, per Salome. Prestazione più che dignitosa, direi, come quella di Nora Sarouzian, nei panni del paggio, che con lui ha il compito non facile di aprire l'opera.

Speciale menzione per i cinque giudei (Gabriele Mangione, Paolo Cauteruccio, Dario Di Vietri, Ramtin Ghazavi, tenori, e Masashi Mori, basso, che ha anche cantato le poche battute come Uomo di Cappadocia): sono stati efficacissimi nel loro siparietto, in cui Strauss ha imitato e amplificato il Wagner del Ring (Alberich-Mime).

Han fatto la loro onesta parte gli altri: i Nazareni Paulo Paolillo e Rainer Zaun (che ha fatto anche un soldato) e Cesare Lana (l'altro soldato).

Edoardo Milletti (uno schiavo) sostiene una di quelle parti da guinness di fugacità di apparizione (cinque sole battute musicali, 11 parole in tutto). A dir la verità l'originale straussiano prevederebbe qui una soprano… ma va bene lo stesso.

Vengo ora alla regìa. Della fulminante intuizione di Gabriele Lavia (ambientare Salome in Germania, datosi che è opera tedesca) avevamo già avuto contezza dall'intervista rilasciata dal regista a Radio3 a pochi minuti di distanza dall'alzata del sipario della prima, sabato scorso. È l'ennesimo, patetico caso di scoperta dell'America (anzi, della Germania, trattandosi di Regietheater) di qualcuno che cerca di contrabbandare - come autentiche - delle idee riciclate e ampiamente scadute (i vari Carsen e McVicar hanno già fatto a Salome tutti i possibili danni, in proposito). Nullo, manco a dirlo, il valore aggiunto recato all'originale sul piano artistico-estetico.

Come si possa sostenere che il pubblico si sarebbe annoiato a morte a vedere ambienti e costumi dell'epoca di Cristo, e che sia invece andato in brodo di giuggiole trovandosi di fronte a uniformi e suppellettili di epoca guglielmina, è cosa che non arrivo proprio a capire. Per di più, in un'opera dove il sangue (di Narraboth prima, su cui dovrebbe letteralmente scivolare Herodes, e di Jochanaan poi) dovrebbe scorrere fisicamente a fiumi, nulla di nulla. In compenso, per dare comunque il suo tocco macabro, Lavia fa issare, appeso per i piedi, un manichino rappresentante il cadavere decollato del profeta. Mah… in sostanza, mai come in questi casi ci si domanda se non fosse più interessante (oltre che economicamente giustificata, in tempi di vacche magre) un'esecuzione in forma di concerto!

16 gennaio, 2010

Salome da Bologna

Radio3 ha irradiato in diretta la prima di Salome dal Teatro Comunale di Bologna.

Interessanti due brevi interviste di Giovanni Vitali ai principali responsabili della rappresentazione: concertatore e regista.

Nicola Luisotti, rispondendo alla domanda su quale idea interpretativa avesse scelto, fra le diverse che altri direttori hanno proposto (decadente, novecentesca, …) ha risposto: "Non so, io so solo che un direttore deve studiare a fondo la partitura, e poi cercare di renderla al meglio". Ohibò, finalmente qualcuno che tiene bene i piedi per terra!

Invece Gabriele Lavia, richiesto di spiegare i fondamenti della sua regìa, e in particolare dell'ambientazione, ha risposto (parafraso): "Un ambiente in Palestina, dove si parla tedesco? Ridicolo! Così ho ambientato Salome in Germania, in un luogo vicino a quelli in cui l'opera fu composta". Quindi immaginiamo che Lavia ambienterà Il mercante di Venezia a Stratford, il Ratto a Vienna e La fanciulla del West sull'Amiata. Qui i piedi, oltre che la testa, sono evidentemente usati per calpestare ben bene l'originale…

Salome è opera difficile, si sa, e quindi è difficile cantarla e suonarla al meglio. All'ascolto radiofonico l'Orchestra è parsa all'altezza, Luisotti ha mantenuto la sua promessa e realizzato i suoi propositi, senza cercare invenzioni strampalate. Quanto ai cantanti, la svedesina Erika Sunnegårdh (chiamata a rimpiazzare la Nadja Michael) mi è parsa fisicamente dotata e potente, ma non certo impeccabile, con urletti sugli acuti e qualche raucedine in basso. Lo Jochanaan di Mark Doss mi è sembrato poco autorevole (forse i microfoni lo hanno penalizzato?) Buono l'Erode di Robert Brubaker e discreti tutti gli altri, con i 4 tenori ebrei bene in evidenza ed efficaci nell'inflessione vocale à la Alberich-Mime.

Vedremo e sentiremo prossimamente dal vivo.