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14 giugno, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.30 – Tjeknavorian - Hampson

Siamo arrivati all’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano ed Emmanuel Tjeknavorian si congeda dal suo pubblico con un programma (quasi) tutto americano: due brani ispirati dagli USA a compositori europei e uno proprio tutto (latino-)americano.

Prima dell’inizio sui due schermi telati dell’Auditorium compare un doveroso ricordo per il brigadiere Carlo Legrottaglie, caduto in servizio anti-crimine. In platea alcuni suoi commilitoni.

Si parte quindi con George Gershwin e la sua Cuban Overture del 1932, composta dopo una vacanza a La Habana. In Appendice-1 qualche nota ad un’esecuzione di Lorin Maazel a Cleveland.

Trascinante l’esecuzione dei ragazzi, guidati dal gran carisma del Tjek. Applausi e ovazioni da un pubblico addirittura strabocchevole.

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Ecco ora il baritono statunitense Thomas Hampson farsi avanti per interpretare di Kurt Weill il ciclo delle Four Walt Whitman Songs, quattro Lieder composti originariamente (1942) per canto e pianoforte e successivamente orchestrati da Weill con Elly Irving Schlein (1947) e Carlos Surinach (1956).

Su contenuti e ambientazione dei testi di Whitman e in particolare dei quattro musicati da Weill rimando all’Appendice-2. Ecco invece di seguito come Thomas Hampson ha interpretato i quattro canti a Vienna con Russel Davies:

1. Beat! Beat! Drums! Ostinata marcia in LA minore, con i richiami della voce che accompagnano l’azione di tamburi e trombe e salgono sempre, implacabili e stentorei, alla dominante MI.

2. Oh Captain! my Captain! Una dolce melodia in FA maggiore per gioire con il Capitano della vittoria e del felice ritorno a casa. Ma il Capitano giace insanguinato sul ponte e al suo marinaio, mentre il FA maggiore si abbruna progressivamente, non resta che piangerlo, mentre il popolo ancora festeggia.

3. Come up from the fields, father. Il DO minore fa da sfondo dapprima all’evocazione del crepuscolare paesaggio autunnale, poi all’angoscia della madre alla notizia della morte del suo ragazzo, e infine alla sua sconfortata rassegnazione.  

4. Dirge for two veterans. Una marcia funebre serena, dapprima in SOL maggiore, poi degradante a FA, porta padre e figlio, caduti in guerra, alla tomba, dove il SOL maggiore torna per l’ultimo saluto d’amore ai due patrioti. 

Hampson si cala perfettamente nell’atmosfera dei quattro Lied, dove Weill resta ancorato ad un sano diatonismo, solo screziato da sfumature atonali: la sua voce baritonale chiara e rotonda e il suo pathos di raffinato interprete si addicono a meraviglia a questi testi e a questa musica che chiama alla consapevolezza, all’umanità dei sentimenti, all’empatia, in definitiva… all’amore, contro ogni istinto di sopraffazione o di vendetta: e per questo è quanto mai di attualità.

Calorosissima quindi l’accoglienza che il pubblico gli riserva, accomunandolo a orchestra e direttore, che lo hanno supportato al meglio. 

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Il concerto si chiude con l’inflazionata Dal nuovo mondo di Antonin Dvořák, che l’Orchestra conosce come le sue tasche per averla suonata millanta volte.

Ma come ieri sera credo non l’abbia mai suonata in modo così emozionante. Grazie ai ragazzi e ovviamente alla loro guida carismatica. Il Tjek ha tirato fuori il meglio di sé con un’interpretazione, credo, guidata da un’intima condivisione del senso profondo di questa musica. Mi limito a citare il Largo, una cosa, almeno per quel che mi riguarda, mai sentita prima: frasi in pianissimo dei violini da mozzafiato, ricerca di sonorità delicate senza mai sconfinare in gratuite leziosità, uso sapientissimo del rubato, a ulteriormente impreziosire, se possibile, le nobili melodie di Dvořák, che forse solo certo Bellini riusciva a inventare.

Poi, come non citare il mirabile corno inglese di Paola Scotti, il corno di Ceccarelli, il clarinetto della Raffaella, e poi tutti, ma proprio tutti, gli altri compagni di questa Orchestra che si supera ad ogni nuovo cimento.   

Un autentico tifo da stadio, con applausi ritmati e urla belluine ha salutato la conclusione di questa serata davvero magica.

Bene, anzi benissimo. e così ora si comincia già a guardare al 14 settembre, quando il Tjek inaugurerà alla Scala la nuova stagione, alla quale darà lustro con ben 11 presenze sul podio (su 25 concerti) più 4 guide di altrettanti concerti da camera. [Ma laVerdi non va ancora in ferie… e luglio ci darà ancora sorprese.]

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Appendice-1. Cuban Overture.

Ha una struttura vagamente di forma-sonata, con la doppia esposizione di due temi principali, seguita da uno sviluppo che in realtà propone nuovi motivi e infine da una ripresa dei due temi esposti all’inizio. Il tutto chiuso da una coda.

Dopo 5 battute di introduzione di fiati e percussioni ecco violini, oboi e corno inglese esporre (10”) il motivo della famosa canzone cubana Echale Salsita. Contrappuntato da corni e viole con un altro motivo, che si scoprirà essere l’incipit del secondo tema.

Dopo che il motivo è stato reiterato, ecco (35”) farsi largo un accompagnamento leggermente sincopato che prelude all’ingresso (40”) nei corni, corno inglese e violini, del secondo tema, che nel suo sviluppo (dopo l’incipit già udito prima) richiama - sia pur vagamente (46) - la famosissima Paloma (dello spagnolo Iradier, ma chiaramente ispirata a Cuba). 

Dopo che il tema è stato reiterato dall’orchestra, ecco comparire (1’53”) un suo controsoggetto più languido, più avanti (2’29”) contrappuntato dal ritorno del primo tema, che poi si ripresenta (3’04”) a piena orchestra, seguito (3’16”) dal secondo.

A 3’38” è il primo tema a cadenzare, sfumando lentamente e, dopo una scarica di bongos, è il clarinetto (3’47”) che introduce con un breve recitativo la seconda sezione (sostenuto).

Oboe, corno inglese e flauto riprendono il precedente recitativo del clarinetto introducendo un motivo (4’39”) esposto dai violini, che ricorda, pur da molto lontano, quello famosissimo del blues dall’Americano a Parigi. La cosa si ripete a 5’23”. Poi, a 6’00” i violini entrano con un altro motivo che ricorda – anche qui assai di lontano – la jota finale dal Sombrero di DeFalla.

Quest’atmosfera piuttosto dimessa si trascina fino a 7’40”, dove abbiamo una stentorea perorazione dell’orchestra, che conduce (7’56”) all’ultima parte dell’Overture (Allegretto ritmato) dove ritroviamo (8’12”) il primo tema nella tromba e subito dopo (8’19”) il secondo negli strumentini.

I due temi principali sono ora protagonisti del convulso finale, che si chiude (9’48”) con 18 battute di Coda, dove l’orchestra sembra caricarsi e prendere la rincorsa per il balzo trionfale.

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Appendice-2. Testi di Whitman musicati da Weill.

Il poeta-scrittore newyorkese (vissuto nel pieno ‘800) è divenuto famoso nel mondo soprattutto per una corposa collezione di poesie, Leaves of Grass, redatte fra il 1850 e il 1892 (anno della sua scomparsa) e pubblicate, a partire dal 1855, in otto successive e sempre più arricchite edizioni, fino al 1892. Qui una pregevole traduzione italiana, del 1907, con corposa e multidisciplinare presentazione, di Luigi Gamberale, con il titolo di Foglie di erba.

Nel 1865 Whitman produsse una delle periodiche aggiunte alla raccolta, ispirandosi alle vicende della Guerra civile (1861-65) alla quale (pur contrario per principio ad ogni forma di conflitto – era di religione quacchera come la madre olandese) lui partecipò attivamente come ausiliario infermiere, curando indifferentemente e disinteressatamente le ferite di nordisti e sudisti.

Nacque così una nuova sezione del libro, intitolata Drum-Taps (Colpi di tamburo, poi ulteriormente rimpolpata con Sequel to Drum-Taps). Ed è da essa che Weill, ormai da tempo stabilitosi in USA, scelse le quattro poesie da musicare [fra parentesi i riferimenti alla traduzione di Gamberale dei testi originali in lingua inglese]:

- Beat! Beat! Drums! [Battete! Battete! Tamburi! pag.280] Tamburi e trombe di guerra interrompano ogni attività umana, ignorino preghiere e implorazioni materne, zittiscano chi chiede trattative. Un’impietosa e caustica critica della follia che invade il mondo quando le armi si sostituiscono alla ragione.

- Come up from the fields, father [Vien su dai campi, o padre, pag.298] In Ohio l’Autunno comincia a colorare i boschi, le mele sono ormai mature, i grappoli abbondanti pendono dalle viti… Ma arriva una lettera dal fronte, il padre corre dal campo, la madre straccia la busta: il ragazzo è stato ferito, ma sembra migliorare. In realtà, a quell’ora è già morto… E la madre si veste a lutto, non mangia più, non prende sonno: vorrebbe correre dal figlio morto…

- Dirge for two veterans [Canto funebre per due veterani, pag.310] Padre e figlio caduti, insieme, in prima linea. Un degno funerale, con musica e processione. Due fosse attendono le bare. Il poeta può solo offrire… amore.

- Oh Captain! my Captain! [O Capitano, mio capitano, pag.332] La nave è giunta finalmente, vittoriosa, in porto, dopo aver attraversato mille traversie e tempeste. Tutti esultano. Forse anche chi ha assassinato il Capitano (Lincoln, ndr) che giace disteso sul ponte, morto.

Come si vede, sono l’amaro sfogo dell’uomo d’arte e di pace di fronte alle miserie degli uomini di parte e di guerra. Non è quindi un caso che uno come Weill abbia provato grande affinità elettiva per questi versi e per il loro autore.


07 novembre, 2019

Elena scalizia


Ecco quindi arrivata al Piermarini anche questa Die ägyptische Helena snobbata per quasi un secolo... Ma purtroppo ier sera l’ha snobbata anche il vasto pubblico, almeno a giudicare dagli abissali vuoti che presentava il Piermarini. Va detto però che i rari nantes presenti si son fatti in quattro per decretare comunque un franco successo allo spettacolo. Successo il cui merito va equamente distribuito fra tutti: direttore, orchestra, cantanti, coro e team di regìa. Oltre ovviamente a quelli del compreso musico e dell’incomprensibile (?!) poeta.

Parto dal Kapellmeister: Welser-Möst ha mostrato di padroneggiare alla grande questa partitura che sembrerebbe facile all’apparenza, ma che alle divine leggerezze da Rosenkavalier affianca asprezze degne di Salome o Elektra. Un unico personale appunto mi sento di fare al Maestro di Linz: qualche eccesso di decibel che più di una volta ha (quasi) coperto due voci di per sè potenti come quelle dei due protagonisti. Ma in complesso la sua è stata una direzione encomiabile, cui ha fatto riscontro una prestazione lodevole dell’ipertrofica Orchestra, che ha saputo valorizzare le raffinatezze della mirabile strumentazione straussiana.

Trionfatore assoluto della serata il Menelas di Andreas Schager, ormai approdato al traguardo come Heldentenor di razza, che ha saputo domare da par suo un ruolo a dir poco massacrante. Inizio un po’ difficile, con eccessivo vibrato, poi un continuo crescendo fino all’ultimo SI naturale (heilige Sterne) davvero imperioso. 

Ricarda Merbeth ha un gran vocione che esplode negli acuti, peraltro un filino... sfacciati, come dire. Nell’ottava bassa mi pare migliorata rispetto a prestazioni passate (vedi lo scaligero Fidelio). Piuttosto impacciata sul piano attoriale, dove ha forse enfatizzato troppo il suo status di sovrana un po’ pigra.

Molto bene anche Eva Mei, già a suo agio nella lunga ed accorata esternazione che apre l’opera e poi sempre efficace nel suo femminista indaffararsi pro-Helena. Mi pare anche corretto il suo tedesco, grazie alla decennale esperienza iniziata 30 anni fa con Mozart. Pregevole poi la sua prestazione da attrice consumata. La sua vongola (!) Claudia Huckle si è ben portata, pur mostrando una voce non proprio potentissima.

I due buzzurri dell’Atlante su dignitosi livelli: Thomas Hampson è stato un solido Altair, che ha saputo esprimere protervia e libidine senza per questo sconfinare in sguaiatezze. Attilio Glaser ha messo in bella mostra la sua voce di tenore lirico, in una parte per la verità non proibitiva, ma non per questo meno importante.

Su standard più che dignitosi le due ancelle Tajda Jovanovič e l’accademica Valeria Girardello, misuratasi anche come quarto Elfo. Efficaci le presenze impertinenti anche degli altri tre Elfi solisti: Alessandra Visentin e le accademiche Noemi Muschetti e Arianna Giuffrida. La loro collega Caterina Maria Sala ha scolasticamente compitato l’unico verso che canta come Hermione.

Il resto degli Elfi (atto I), i giovinetti e gli schiavi di Altair e le teste di cuoio di Poseidon (atto II) erano impersonati da un gruppo piuttosto sparuto di coristi di Mario Casoni. Gli Elfi e i ragazzi di Altair erano sistemati in quattro palchi di proscenio (dovendo essere quasi sempre invisibili). Pur essendo un impegno non sovrumano, hanno tutti ben meritato.
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Ora, lo spettacolo. Bechtolf e il suo team ambientano questa specie di fiaba ai tempi della composizione dell’opera. La scena è sempre occupata dal gigantesco involucro di una radio a valvole (che appariranno, enormi, nel second’atto) dalla quale arrivano all’inizio le notizie portate dalla vongolona e il cui frontale si apre poi di volta in volta per creare gli spazi della camera nuziale nel primo atto o dell’Atlante nel secondo. Brevi filmati vi corrono sullo sfondo a rappresentare vuoi il naufragio oppure scene di guerra (delirio di Menelao e caccia nel second’atto).

Anche i costumi sono da teatro anni’30. Scarse suppellettili sparse qua e là, ma sempre in modo appropriato e rispettoso delle didascalie del libretto. Assai efficace (l’impacciata Merbeth a parte...) la recitazione dei personaggi, in specie Aithra e Menelas. Moderato l’impiego di figuranti e movimenti coreografici.
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Alla fine tutti applauditi per parecchi minuti (con ovazioni per Schager) da un pubblico di pochi-ma-buoni. E a proposito di pubblico, mi sentirei di suggerire ai melomani di non perdersi questa grande musica; a chi pensasse invece di vedere la guerra di troia... beh: fate almeno un minimo di compitini a casa, ma poi andate e godetevi lo spettacolo!