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14 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.3

Il terzo appuntamento della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano ha un sapore tutto… astronomico! Sul podio un altro Direttore Ospite, l’iberico Jaume Santonja, alla sua quinta apparizione in Auditorium, dove esordì quasi quattro anni orsono.

Il primo dei due brani in programma (apparentati da legami estetici e… spaziali) ci porta in realtà al cinema: trattasi infatti della Suite dalle musiche da film della saga Star Wars, di John Williams.

Lo sterminato panorama musicale che ha accompagnato i diversi episodi della serie spazia da quel 1977 che la vide nascere, per proseguire poi con le successive uscite del 1999, 2002, 2003(TV), 2005, 2008(TV), 2014(TV), 2015, 2016, 2017, 2018(TV), 2019 e 2022(TV). Un ampio collage di musiche della saga (arricchito da… illustri contributi) si può ascoltare in questa performance di John Axelrod al Concertebouw nel 2017. Per chi volesse approfondire l’intricata tessitura di questa gigantesca tela suggerisco un dettagliato studio scaricabile da web.

Nel 1977 l’Autore pubblicò una prima versione della Suite in 3 movimenti, poi arricchita nel 1997 di altri due, che è entrata nel repertorio di molte orchestre ed è così strutturata:

1. Main Title
2. Princess Leia's Theme
3. The Imperial March (ediz. 1997)
4. Yoda’s Theme (ediz. 1997)
5. The Throne Room & End Title

Eccone una recente, eccellente esecuzione al Teatro Massimo di Palermo.

Si sa che Williams si sarebbe ispirato per le musiche di Star Wars anche a Holst e al suo The Planets (vedi sotto), in particolare alla sezione di Mars; e poi anche a Korngold, antesignano della musica da film a Hollywood. A me invece, ascoltando il Main Title, è sempre saltata alla mente un’analogia (non dico un plagio e nemmeno una citazione, ma certo una reminiscenza) nientemeno che di Bruckner (primo tema della Quarta sinfonia)!

La seconda sezione del tema principale (che ritorna un paio di volte) è di ispirazione più lirica:

Per il resto questo primo numero della Suite presenta altri motivi di diverso carattere prevalentemente guerresco.

Il Princess Leia's Theme è tutto incentrato sul meraviglioso motivo esposto inizialmente dal corno solo:

… e poi splendidamente sviluppato da altri strumenti in assolo e dal crescendo del pieno orchestrale, prima di sfumare sul MI sovracuto del primo violino, sul tappeto degli archi e l’arpeggio… dell’arpa.

The Imperial March è interamente pervasa dal pesantissimo, enfatico, minaccioso e martellante motivo principale, più volte reiterato:

Ascoltandola è impossibile non ritrovarci chiare atmosfere mutuate da Mars, il primo numero della Suite di Holst.

Yoda’s Theme presenta un motivo principale (a) assai languido e nobile, esposto inizialmente dai corni e più volte ripreso da altri strumenti e dall’orchestra. L’atmosfera crepuscolare è interrotta una volta dall’irruzione di un motivo (b) più gaio e brillante:

The Throne Room & End Title chiude in bellezza e grandiosità la Suite (come i titoli di coda…).

La fanfara iniziale introduce il marziale motivo principale (a) presentato dalle trombe e reiterato dall’orchestra; segue poi un contrastante e cantabile motivo (b) negli archi, successivamente arricchito da un controsoggetto (b’) nei corni, che porta all’enfatica reiterazione del motivo (b). Il motivo (a) viene ora riproposto con espressione lamentosa dall’oboe, poi raggiunto da corno inglese e flauto, quindi dagli archi. Qui compare una reminiscenza (!) della wagneriana Giustificazione di Brünnhilde… Ancora il motivo (b) e il (b’) tornano in primo piano, dopodichè il Main Title prende il centro della scena. Si va verso la conclusone, con (b’) che rifa’ capolino, e poi ecco la chiusura solenne e bombastica.
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Trascinante l’esecuzione, con le abbaglianti sonorità degli ottoni in particolare evidenza, che il pubblico (pochi ma buoni e soprattutto giovani !) ha apprezzato assai, applaudendo alla fine di ognuna delle cinque parti della Suite. 
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Il secondo brano in programma è appunto The Planets, anche questa una corposa Suite che Gustav Holst compose durante gli anni della Grande Guerra (qui un mio stringato inquadramento dell’opera). In Auditorium la si era sentita più di 12 anni fa con Wayne Marshall.

Ascoltandola subito dopo Star Wars si scoprono molto chiaramente le radici della musica di John Williams!

Un ruolo limitato ma significativo hanno I Giovani di Milano, il coro (ieri la parte femminile) diretto da Maria Teresa Tramontin, che compare (ma fuori scena…) nel conclusivo e mistico Neptune. Ieri le ragazzine con la Maestra erano sistemate nel foyer dell’Auditorium, con una pianola elettronica a supportarle. Alla fine hanno fatto il loro trionfale ingresso in sala, accolte da un grande applauso, poi esteso per parecchi minuti a tutti i protagonisti di questa eccellente esecuzione.
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02 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 22


Ritorna in Auditorium il brillante Wayne Marshall con un programma piuttosto particolare, che sulle prime desta più curiosità che interesse, comprendendo tre opere di assai rara esecuzione, per non dire del tutto sconosciute ai più. Opere di autori nati in un periodo di 15 anni del 1800 ('65 Glazunov - '79 Ireland) e scomparsi in un periodo di 28 anni, in pieno '900 ('34 Holst - '62 Ireland). Quindi autori che hanno vissuto – in modo diverso ma anche con parecchie affinità – quel travagliato periodo che va dal tardo-romanticismo fino alla serialità più spinta, passando per espressionismi, impressionismi, atonalità e dodecafonia.

Si parte dalla perfida Albione, dove Gustav Holst componeva, proprio mentre Mussolini marciava su Roma, la sua strampalata opera in un atto The Perfect Fool. Opera comica, con riferimenti a Verdi, Wagner e Debussy, dove il perfetto idiota sarebbe il pubblico britannico (se lo merita? smile!) In luogo (anzi, prima) dell'ouverture, Holst propone un balletto in un'introduzione e tre quadri: gli spiriti della terra, dell'acqua e del fuoco (per l'aria forse gli mancò l'ispirazione…) Ed è questo balletto introduttivo – unica parte dell'opera ad essere scampata al (meritato) oblio – che ascoltiamo qui. 

Sono i tre tromboni ad introdurre il balletto con un motto che verrà poi ripreso da strumenti diversi nelle transizioni fra un elemento e il successivo e tornerà ancora poco prima della chiusura:
Dopo l'introduzione sono gli Spiriti della Terra ad entrare in azione, su un ritmo sghembo, in 7/8, e con un progressivo crescendo che porta ad una sezione (in 3/8) che serve a dare ulteriore carica alla danza: la quale riprende forsennata in 7/8 per poi sfociare ancora nel ritmo ternario che la porta lentamente ad esaurirsi, sull'Andante che fa da transizione verso l'entrata degli Spiriti dell'Acqua, con viola e violoncello a ripetere il motto. Siamo qui in Allegretto (4/4) e ci accorgiamo trattarsi di acque calme e gocciolanti, rigagnoli o laghetti montani, più che fiumi, mari e oceani, dove arpa e celesta la fanno da padrone. Il perentorio motto – nei corni – richiama ora gli Spiriti del Fuoco, un Allegro moderato in 3/4 che subito sembra sprizzar faville da ogni dove, grazie soprattutto ad ottavino e strumentini (Wagner docet…) Il movimento accelera e contemporaneamente tutti gli strumenti entrano in gioco, proprio a creare un gigantesco falò, che poi pian piano si va spegnendo finchè non ne rimane che… cenere. La viola e il malinconico corno inglese ripetono il motto, prima che il brutale accordo di RE ponga fine alle danze. 

Holst qui conferma certi stilemi già presenti nei suoi Planets (ascoltati tempo fa in Auditorium) come ad esempio il continuo cambiamento di passo e ritmo, caratteristico delle sezioni più mosse del brano, o l'orchestrazione spesso pesante ed enfatica. È musica che si lascia ascoltare, pur non eccitando più di tanto le corde sensibili dell'ascoltatore. 

Ottima prestazione dell'orchestra, soprattutto dei fiati, chiamati a virtuosismi non da poco.

È ancora britannico l'autore del Concerto per pianoforte che ci viene proposto dal 54enne canguro (deve aver gambe lunghe e buone, se lo hanno portato in quaranta continenti, smile!) che risponde al nome di Piers Lane. Si tratta di John Ireland, alla cui scuola studiò – con scarso profitto - anche Britten. Questo è il suo unico concerto, che lui in origine dedicò alla pianista (e compositrice) Helen Perkin, che ne eseguì la prima, nel 1930. Il nostro si innamorò della dedicataria che, per tutta risposta, sposò un architetto (tale George Mountford Adie) e se andò con lui in Australia. Il povero Ireland non dovette prenderla troppo bene, visto che… ritirò la dedica! 

Il concerto – di cui abbiamo la fortuna (!?) di ascoltare un'esecuzione più unica che rara - è pienamente adagiato nel diatonismo e risente di chiare influenze russo-francesi, un misto di romanticheria e di impressionismo, con qualche intervento rumoristico al termine del tempo intermedio (Lento, espressivo) e nel finale (Allegro giocoso, nel quale compare due volte una sezione lenta, prima della cadenza conclusiva). Una cosa mediamente gradevole, senza punte di eccellenza, il che spiega la sua scarsa popolarità sia fra gli interpreti che fra gli ascoltatori. 

Piers Lane, che arriva bardato con coccarda al bavero del frac, scarpe di vernice e calzini a scacchi bianco-neri (quella dei calzini demenziali è una sua specialità!) e che non si vergogna a suonare con spartito sul leggìo e assistente gira-pagine, ce la mette proprio tutta per spremerne il non abbondante succo e si merita l'applauso di un pubblico non propriamente… oceanico. Così, per distendere l'atmosfera piuttosto mogia, si esibisce in un numero tipo pianista matto, alla MacRonay…

Si chiude con Alexander Glazunov e la sua Quarta Sinfonia. Lui ha vissuto quasi contemporaneamente a tale Richard Strauss, da lui cordialmente odiato (era uso andarsene quasi regolarmente nel bel mezzo delle rappresentazioni di opere del bavarese) e, così come quest'ultimo compose i suoi poemi sinfonici prima della fine del 1800, anche Glazunov compose quasi tutte le sue otto (e… mezza) sinfonie in quel periodo. La quarta è più o meno contemporanea della seconda di Mahler, tanto per dare un riferimento. È anche la sinfonia con cui Glazunov si stacca definitivamente dal mondo autarchico dei cinque per guardare – nella scia di Ciajkovski e anticipando Rachmaninov (non certo Stravinski né Prokofiev) - verso ovest, dove si trasferirà sempre più spesso e passerà anche gli ultimi suoi anni, in barba a Stalin (smile!

Sinfonia dedicata all'austero Anton Rubinstein (quello che si mise le mani nei capelli ascoltando il concerto per pianoforte di Ciajkovski…) di cui divenne successore alla guida del Conservatorio di SanPietroburgo (dove in pratica rimase – direttamente o… per procura, dall'estero - fino alla morte).
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La Sinfonia sembra richiamarsi vagamente alla Piccola Russia di Ciajkovski. Come quella ha il primo movimento strutturato in forma-sonata, ma con parecchie libertà. Inizialmente abbiamo un'Introduzione (50 battute di Andante, 9/8) dove, dopo due accordi di MIb minore, è il corno inglese ad esporre una melodia dal caratteristico sapore russo, che sfocia fugacemente sulla tonalità relativa di SOLb maggiore:
E sempre ondeggiando fra SOLb e MIb sono le viole ad esporre un nuovo, cantabilissimo tema:

Dopo la ripresa del tema iniziale, c'è una modulazione a DOb maggiore e infine l'introduzione si adagia sul MIb maggiore, tonalità d'impianto con cui attacca l'Allegretto Moderato in 4/4. L'oboe solo ci fa udire subito un tema sognante:
Risentiremo questo tema, arricchito di enfasi e vivacità, nel Finale. Gli risponde il clarinetto, poi è tutta l'orchestra a sviluppare il motivo, fino a sfociare – come vuole la forma-sonata - nella dominante di SIb, ma non per presentare un secondo tema, bensì (Più mosso, scherzando) per la riproposizione variata dei due temi dell'introduzione, il primo nella relativa SOL minore, il secondo in SIb, e ancora il primo in SOL. 

Adesso il tempo si fa Tranquillo, spariscono gli accidenti in chiave ed il corno solo espone, a mo' di richiamo, il primo tema dell'introduzione, il che dà inizio a quella che si potrebbe chiamare la sezione dello sviluppo, che tosto si anima (Più allegro e agitato) con l'interazione dei due temi introduttivi, seguiti poi dal tema – variato e virante al lugubre - dell'Allegretto

Si torna al Tempo I con una specie di ricapitolazione: è il tema in MIb dell'Allegretto ad occuparne la prima parte, conclusa da una cadenza in Tempo rubato (animato e passionato) che lascia spazio al ritorno dell'Andante e dei temi dell'introduzione, il secondo dei quali, in MIb, porta alla definitiva comparsa del tema dell'Allegretto, che chiude il movimento con un tranquillo accordo dell'intera orchestra. 

Lo Scherzo (canonicamente in SIb) è una danza in 6/8, Allegro vivace, che presenta il suo caratteristico tema principale, esposto dall'ottavino dopo un'introduzione che ce lo lasciava solo intravedere:
Dopo che il tema è stato reiterato, ecco un controsoggetto, in FA maggiore, esposto anche da una fanfara di corni:
Arriva poi il Trio, Poco meno mosso, Tranquillo (3/4 in REb): è il clarinetto ad esporne il languido tema, accompagnato dai flauti con accordi di terze in staccato:

Al termine abbiamo la ripresa dello Scherzo, con i due suoi motivi che lo conducono alla chiusa, su un pizzicato in SIb di tutti gli archi. Non è chiaro con quale plausibilità si dica che questo brano intenda rappresentare un quadro di Böcklin

Anche il finale sembra abbastanza mutuato dalla seconda di Ciajkovski: si inizia in tempo Andante (4/4 MIb) con un'introduzione nella quale il clarinetto e poi altri fiati anticipano, in atmosfera lugubre, il primo tema. Questa introduzione poi sfocia, dopo una serie di animando e dopo 43 battute, nell'Allegro (2/2) che caratterizza il movimento. 

Il primo tema è esposto e riproposto finalmente in MIb maggiore nella sua piena vivacità:

Poi il tema viene ampliato e sviluppato, fino a modulare alla sottodominante di LAb maggiore e da qui, abbastanza sorprendentemente, a SOL maggiore, dove compare nell'oboe – Meno mosso e tranquillo - un secondo tema, più cantabile:

Ora inizia uno sviluppo che presenta moltissime modulazioni: dal MIb al DO maggiore, poi al FA maggiore, quindi ancora a LA maggiore, RE maggiore e SI maggiore! Finalmente si torna… a casa, in MIb su cui converge (le regole!) anche il secondo tema.

Ora ecco l'ultima sorpresa: ricompare il tema dell'Allegretto iniziale - molto mosso e caricato di colori - a conferire alla sinfonia il carattere di ciclicità. Infine è il primo tema, assai sviluppato ed enfatizzato, a condurci alla solenne e pomposa conclusione.
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Marshall affronta la sinfonia con piglio persino eccessivo (l'introduzione più che un Andante pareva un Allegretto) ma in complesso mi è parso rendere adeguatamente lo spirito della composizione. Bene l'orchestra e in particolare i fiati, tutti in gran forma.

E sarà ancora l'esuberante britannico-caraibico-maltese a tenerci svegli la prossima settimana con musica dal nuovo mondo. (Prima però ci sarà da godersi la premiata coppia Claudio&Martha).


25 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 28



Il funambolico Wayne Marshall si cimenta con musica contemporanea e novecentesca per l'appuntamento n°28 dei concerti all'Auditorium, incentrato su astrologia e astronomia, due campi diversi, ma contigui e in parte sovrapposti; discipline che hanno fin dalla notte dei tempi attirato l'attenzione e l'interesse dell'uomo.

Di Sofija Asgatovna Gubaidulina sono state eseguite – prima in Italia – le variazioni Sotto il segno dello Scorpione, per bayan (fisarmonica russa) e orchestra. La Gubaidulina è una compositrice russa di origini tatare (compirà 80 anni in autunno) di cui, prima del concerto, Fausto Malcovati e Federico Lazzaro hanno tratteggiato la fisionomia umana e artistica: lei, ragazzina ai tempi di Zdanov - e poi guardata con sospetto, dagli eredi del custode della cultura staliniana, per la sua innovatività - fu per fortuna sostenuta da Shostakovich, che le conferì una specie di laurea in contestazione, stimolandola a insistere sulla sua strada.

Solista alla fisarmonica lo straordinario Davide Vendramin, che era pure stato ospite della conferenza introduttiva, spiegando le caratteristiche foniche del bayan con l'esecuzione di altri spezzoni di opere della compositrice russa. Queste variazioni sono un pezzo di digeribilità complicata, e non solo perché mai udito qui da noi, né ancora inciso su disco. Tanto per esemplificare: anche chi ascolta per la prima volta l'Ottava di Beethoven, subito dopo è in grado di fischiettarne i temi principali; e senza dover sapere che il rapporto di altezze fra dominante e tonica è tre mezzi nel sistema pitagorico e radice dodicesima di due elevato alla settima potenza, in quello a temperamento equabile. Viceversa qui, per apprezzare un tema (o una sequenza) bisognerebbe conoscere da quali numeri della successione di Fibonacci è stato ottenuto; e per individuarne il punto culminante si dovrebbe calcolarne la sezione aurea. Con il risultato di non riuscire comunque poi a fischiettarlo (smile!)

Non ho dubbi che eseguire musica come questa richieda agli orchestrali molto più studio che non suonare per l'ennesima volta l'Ottava di cui sopra, e per questo meritano un applauso. Come naturalmente Vendramin, che ci elargisce anche un bis. Forse molti in sala (a partire dal sottoscritto) avrebbero gradito la Celebre mazurka variata di Migliavacca… ma il tempio e il tempo non lo consentono. OK, ok, così abbiamo fatto il nostro fioretto quaresimale da devoti penitenti.

Poi The Planets di Gustav Holst, albionico purosangue, a dispetto del nome (dal quale fece togliere persino il nobiliare von, per distanziarsi dagli odiati crucchi durante la Grande Guerra). Ai tempi (1914-16) i pianeti riconosciuti erano 8 (Terra inclusa) e quindi Holst musicò i 7 extraterrestri. Né volle aggiungere un ottavo movimento a questa specie di sinfonia delle palle (oh, pardon… sfere) celesti quando, anni dopo, Plutone venne ammesso nel club esclusivo dei satelliti del Sole. E fece bene perché, quasi 100 anni dopo, Pluto l'abbiamo meritatamente declassato a Paperino ed espulso seduta-stante dal club, e così oggi l'opera di Holst è potuta finalmente tornare a pieno diritto di attualità: fra gli astronomi (smile!) come nelle sale da concerto (stra-smile!)



A parte il titolo, la composizione tratta i pianeti dal punto di vista della loro identità mitologica, che poco ha a che vedere con quella astronomica (del resto è forse più facile comporre musica mediocre su concetti quali guerra, pace, gaiezza, e così via, che non sul calore di Mercurio o i ghiacci di Marte, o le brume di Venere, o gli anelli di Saturno). Per questo anche la sequenza in cui ci vengono presentati i pianeti non ha probabilmente nulla di astronomico (anche se diversi esegeti hanno buttato via tempo prezioso, sbizzarrendosi a ricercare improbabili razionali di questo tipo) ma è più verosimilmente legata a scelte estetico-musicali (!?) dipendenti a loro volta dalle significanze immateriali degli oggetti descritti.

Il primo a presentarsi è proprio il guerresco Marte, tempo 5/4, scandito dal primo timpano e dagli archi, che introducono gli ottoni, come da copione:


Si era in piena Grande Guerra e pare proprio di sentire il passo delle fanterie e dei primi mezzi corazzati che aravano i campi di battaglia. C'è in effetti più rumore che suono in questo primo brano della Suite, che in certi momenti pare un antesignano dei Pini della via Appia di Respighi.

Poi tocca a Venere, che porta pace (l'amore sarebbe troppo…): due arpe e la celesta creano atmosfere calme e cullanti; il tempo di base è Adagio, con qualche breve intermezzo in Andante e Animato. Chiude quasi mahlerianamente, dondolandosi fra sesta e dominante di MIb.

Segue Mercurio, messaggero alato. È una specie di scherzo, in 6/8, una cosa che ricorda un poco Shehérazade e un altro poco l'Allegro molto vivace della Patetica. Ma tutto leggero ed aereo, come si addice al volante protagonista. Naturale poi che siano strumentini, arpe e celesta ad avervi la parte del leone.

L'allegria (ma sempre?) la porta Giove. È peraltro un'allegria tutta sussiegosa e britannica (non certo da hooligans, però…) che si apparenta ad elgariane Pump&Circumstance (infatti un tema verrà poi associato ad un canto patriottico) e a popolari Londonderry air, oltre che anticipare musica da film western: insomma, tipica merce da notte finale dei Proms.

Saturno ci ricorda che invecchiamo (ma pare che sul nostro PM abbia altri effetti, smile!) Solennità, ordine, calma, frequente scampanìo sono i tratti principali di questo brano. Che inizia con un'introduzione lenta, dalla quale emerge dapprima un promettente motivo ascendente, nei tromboni, poi in tromba, corni, clarinetti e violini, che però rapidamente sfuma in una specie di Dies Irae che via via si anima, accompagnato dalle campane. Dopo una sosta di meditazione, sono i corni a riprendere l'iniziale solennità, conducendo il brano verso una conclusione quasi eterea, scandita dagli armonici delle arpe.

Ecco poi Urano, il mago. Ergo: le sorcier, e infatti Dukas vi fa subito capolino! Si sente anche un vago richiamo al faustiano coro dei soldati di Gounod, prima che il nostro mago svanisca nel nulla, su un vuoto accordo di MI dell'arpa e dei timpani.

Si chiude con il mistico Nettuno. Come per Marte, anche qui il tempo è in 5/4 (3+2). Per sottolineare il misticismo, e un poco anche la lontananza da noi del pianeta, perso laggiù nelle profondità dello spazio, Holst prevede l'intervento di un coro femminile (diviso in 6 parti) nascosto agli occhi dello spettatore, che non canta alcun testo, ma un unico lamento, una specie di ah… Troviamo qui effetti che – guarda caso – richiamano un po' quelli che Kubrick ci proporrà 50 anni più tardi - 2001, Space Odyssey (poco a che spartire con l'attuale Odyssey dawn, che tradurrei odissea giù di sotto) - impiegando Ligeti. Con grande meticolosità la didascalia in partitura prescrive che il coro e l'eventuale suo maestro vengano dislocati in una sala attigua, di cui non si dovrebbe vedere nemmeno la porta. Porta che andrebbe lentamente chiusa sull'ultima battuta (da ripetersi ad-libitum) esalata dal coro, proprio per ottenere l'effetto di far sfumare la musica nel nulla:



Qui in Auditorium non c'è nemmeno la porta aperta e le voci delle signore di Erina Gambarini si odono proprio come fossero perdute nel vuoto siderale.

Prestazione accolta da grandissimi e lunghissimi applausi: di sicuro indirizzati a esecutori e direttori, forse meno all'opera in sé, francamente di livello estetico discutibile.

Ancora Marshall di scena, la settimana prossima, sempre alle prese col '900 …diatonico.
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