XIV

da prevosto a leone
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17 aprile, 2024

Il dittico verista di Martone ripreso alla Scala

Dopo la produzione originale del 2011 (parzialmente ripresa nel 2014, senza Pagliacci e poi nel 2015) la Scala ripropone il classico dittico con la messinscena di Mario Martone e con Giampaolo Bisanti sul podio (calcato ai tempi da un giovine Harding). A differenza di 13 anni fa, la sequenza di presentazione è quella che si può considerare standard: prima Mascagni, poi Leoncavallo.

Liquido subito la regìa, riproponendo per filo e per segno le mie impressioni originali (diciamo… sostanzialmente positive, ma con qualche perplessità, ecco) che questa ripresa non mi ha certo convinto a modificare.  
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Giampaolo Bisanti ha confermato le ottime prove delle sue recenti (22-23) apparizioni in Scala (Adriana, Ballo e Macbeth) guidando con autorevolezza la buca e il palcoscenico: equilibrio nelle dinamiche, attenzione a dettagli, colori e sfumature. Incomprensibile un isolatissimo buh arrivatogli dal loggione all’uscita finale, in mezzo a convinti applausi (di un pubblico non proprio oceanico…)

Sempre sui suoi (alti) livelli il coro di Alberto Malazzi, particolarmente in Mascagni.       

In Cavalleria, detto dell’ennesima, miracolosa prestazione dell’inossidabile nonna Zilio, su tutti la Santuzza di Elīna Garanča, encomiabile nello scolpire questo personaggio di donna alla mercè dei pregiudizi di una società patriarcale (oggi siamo ancora lì?)

IL Turiddu di Brian Jagde ha ben meritato: voce squillante, con buona proiezione, acuti puliti e otttima presenza scenica; per lui un debutto scaligero più che lusinghiero.

Onesta ma non eccezionale invece la prestazione di Francesca Di Sauro, che mi è parso aver messo poca grinta (a dispetto della voce… robusta) nell’interpretare l’enigmatica personalità di Lola.

Alfio era Amartuvshin Enkhbat. Lo avevo sentito solo in Rigoletto e devo confermare il mio giudizio: vocione poderoso ma ancora da mettere bene sotto controllo, ecco. Il giudizio vale anche per il Tonio nei Pagliacci, ovviamente. Il pubblico lo ha comunque accolto con molto calore, il che speriamo lo spinga a migliorarsi ancora.

In Pagliacci metto davanti a tutti il Canio di Fabio Sartori, la cui professionalità garantisce sempre il risultato!  

Irina Lungu ha messo la sua ormai più che ventennale esperienza – voce e presenza scenica - al servizio del controverso personaggio di Nedda: anche per lei solo applausi.

Bene anche Mattia Olivieri, che ha rivestito ll personaggio di Silvio (che Martone trasforma da contadinotto in tamarro…) con la sua calda voce baritonale.

Applausi infine anche per il Peppe di Jinxu Xiahou, che conferma le sue ottime doti, già manifestate nelle sue recenti presenze in Scala.
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In conclusione, una piacevole serata di musica!    
   

10 dicembre, 2023

Un DonCarlo d’antan

Oggi pomeriggio un'affollatissima Scala ha ospitato la prima (per gli abbonati) di un vecchio DonCarlo (non scaligero): quello del venerato HvK degli anni’80 (!)

Per carità, questo potrebbe anche essere un complimento (quindi riprendere Abbado-Ponnelle del 1968 sarebbe stato altrettanto plausibile): sempre meglio di qualche ardita attualizzazione che trasponga Filippo II in Juan Carlos I, Don Carlo in Felipe VI, Rodrigo in Carles Puidgemont e l’Inquisitore in Santiago Abascal!

Insomma: siamo proprio nella Spagna del 1560, come ci ricordano anche gli appropriati costumi della Squarciapino, e quindi niente armi automatiche, smartphone e lunghi cappottoni in pelle made-in-DDRE del resto, un testo dove un ragazzo ingenuo di 15 anni chiama madre una sbarbata di soli tre mesi più matura (!) che a sua volta lo chiama figlio, st-riderebbe assai con ambientazioni anche di un solo secolo posteriori…

Quanto al lato cosiddetto attoriale dell’interpretazione, trattandosi di attori che conoscono la loro parte come le loro tasche, mi pare che il regista abbia pensato bene (o male, visti i risultati?) di fidarsi di loro, piuttosto che imporgli posture, atteggiamenti e moine assortite, magari non condivise.

Quindi mi sento di dire: accontentiamoci di questo prudente (pavido?) e conservativo allestimento. 
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Questa musica, in fin dei conti, si fruisce con mente e cuore (e udito, va da sé) più che con la vista. Ebbene, ciò che le mie orecchie hanno udito oggi mi porta a dare un generale voto di ampia sufficienza (ben lontana da un 30cumLaude) che ora cercherò di declinare in maggior dettaglio. Adottando un approccio top-down (dal generale al particolare): quindi partendo dalla concertazione e dal suo responsabile per poi scendere agli interpreti.

Chailly ha – per me – tenuto un approccio (quello che Verdi chiamava la tinta dell’opera) assai cupo e tempi (eccessivamente?) sostenuti. Una direzione che alla prima non era stata unanimemente condivisa, mentre oggi devo dire che ha ricevuto solo consensi. Ma che è del tutto coerente con l’approccio registico, che nulla ha concesso all’esteriorità, come testimonia la soppressione (imposta - sono parole dello stesso Chailly - da Pasqual) dei ballabili de La Pérégrina. Insomma, qui sul francese esprit de finesse ha prevalso l’ispano-italico (e un po’ teutonico) esprit de géometrie!

Il coro di Alberto Malazzi non si smentisce mai e anche oggi ha saputo esprimere al massimo tutte le sue potenzialità, sia nei passaggi più cupi (il mortorio iniziale) che in quelli più sfacciatamente estroversi (Atocha) o drammatici (il popolo del terzo e quarto atto).

La coppia di bassi. Un Pertusi gigantesco (la tachipirina evidentemente ha fatto miracoli…) ha messo in ombra (purtroppo per lui) il malcapitato Jongmin Park, subentrato in extremis all’indisposto Anger a sostenere, oltre che quella iniziale del Frate, anche la parte impervia dell’Inquisitore. Il basso coreano ha messo in mostra un gran vocione, ma il suo Inquisitore ha fatto paura come la farebbe un orco affamato, non un Cardinale del Sant’Uffizio!  

La coppia degli sfortunati amanti. Netrebko sontuosa, come sempre, nella voce, un po’ meno nella recitazione (ma non è colpa dei registi, è una sua perdonabile attitudine). Forse fin troppo musicalmente cattiva con la rivale, quasi una Eboli-2-la-vendetta! Ma dopo le Vanità gli applausi son durati un paio di minuti… Meli tutto l’opposto: fin troppo lezioso e remissivo, nemmeno ad Atocha ha tirato fuori le p… (dicasi gli acuti, che il passare degli anni gli divengono sempre più vietati).

La coppia di outsider. Garanča superlativa (per me, nel complesso, la migliore). E non solo per le due perle (Velo e Don) ma sempre, in particolare nel duetto con Meli. Bene Salsi, ma forse non perfettamente a suo agio in una parte più romantica che truce (dove va a nozze...)

Su livelli standard tutti/e gli/le altri/e.

In definitiva, un’inaugurazione assolutamente dignitosa, ma non certo indimenticabile, della quale si continuerà a parlare più che altro per via della provvidenziale presenza (il 7 dicembre) del protagonista fuori-scena: il convitato di pietra Marco Vizzardelli! 

Applausi a scena aperta dopo le arie principali; alla fine applausi e ovazioni per tutti (compreso Pasqual, intrufolatosi furbescamente in mezzo agli altri, così in pochi l’avranno riconosciuto…) con qualche schiamazzo dai loggioni che ha lasciato del tutto indifferente la Digos (!) 

25 luglio, 2023

A Bayreuth ha debuttato un Parsifal (lato suoni) più che positivo

Si è quindi aperto oggi pomeriggio il 111° Festival di Bayreuth, con una nuova produzione di Parsifal curata da Jay Scheib per la messinscena e da Pablo Heras-Casado per la direzione e concertazione.

Il Direttore spagnolo lo scorso dicembre aveva interpretato il second’atto all’Auditorium di Milano con laVerdi, mostrando di sapersi ben destreggiare nei meandri di quest’opera complessa e per molti tuttora inafferrabile. (Io personalmente aderisco con convinzione a quella corrente di pensiero che spiega Parsifal come atto finale della missione wagneriana di redimere Arte e Religione, come ho cercato di sintetizzare in questo scritto

Beh, mi sento di dire che il Kapellmeister iberico abbia superato a pieni voti l’esame con una direzione equilibrata (poco meno di 4 ore nette): né insopportabilmente sostenuta, ma neanche esasperatamente espressionista.

Da elogiare la meticolosità che ha messo nello scavo dei particolari (cose che magari si notano solo con la partitura sotto gli occhi): ad esempio alcune microscopiche prese di respiro, quando fra le battute non esiste segno di legatura, o anche qualche appropriata variazione agogica. I buh che hanno accolto (insieme a irrituali applausi) la calata del primo sipario giurerei non fossero indirizzati a lui!

Ma presumibilmente alla regìa (e/o alla drammaturgia…) che alla fine è stata accolta con freddezza (benevolo eufemismo) ma che lasciamo giudicare a chi ha visto.

A parte Heras-Casado (e all’Orchestra, sempre impeccabile) e al Coro di Eberhard Friedrich (ancora una volta a livelli sontuosi) bene mi pare di dover dire per il gran vecchio Gurnemanz, cui Georg Zeppenfeld ha prestato la sua autorevole padronanza del ruolo-chiave del dramma; poi Derek Welton, un Amfortas convincente per il pathos che ha saputo creare attorno alla sua figura tormentata; felice la prestazione della Elina Garanča, che ha messo in dovuto risalto le due facce di Kundry (pietosa Maddalena e blasfema adescatrice). Andreas Schager mi è parso un Parsifal stranamente a corrente alternata, un po’ in difficoltà nel second’atto. Jordan Shanahan ha dignitosamente impersonato il cattivone nonchè casto (così lo apostrofa perfidamente Kundry) Klingsor. Tobia Kehrer è stato un onesto Titurel. Cavalieri del Gral e Fanciulle fiore in ottima forma, ecco tutto.

09 novembre, 2022

Gatti con Mahler scala la… Scala

La sesquipedale Terza Sinfonia di Mahler è comunemente etichettata (stando anche alle molteplici indicazioni programmatiche lasciate a più riprese dall’Autore medesimo) come una lunga e faticosa ascesa dalle… stalle alle stelle. Un percorso così schematizzabile: natura inorganica > vegetali > animali > esseri umani sottosviluppati > santificazione > ineffabilità dell’assoluto.

Mahler poi ritirò quei programmi, invitando l’ascoltatore ad apprezzare quella sua musica senza caricarla di (più o meno plausibili) significati extra-musicali o filosofico-religiosi, ma a fruirne come il frutto del lavoro di quel sesto senso che guida il rapsodo a decifrare, per poi esprimerle in suoni, le oscure sensazioni che nascono dal suo io profondo. 

E tuttavia è innegabile che proprio la musica di questa Sinfonia ci conduca inevitabilmente su un cammino di progressiva elevazione spirituale, culminante nel finale beethovenian-parsifaliano, dove ci sembra di abbandonare la dimensione spazio-temporale per entrare in……     

Ecco, Daniele Gatti – una direzione, appunto, mistica, la sua, degna del più ascetico dei Celibidache - ci ha proprio portato per mano in questa faticosa ma gratificante avventura. Dobbiamo ringraziare lui, l’Orchestra, i cori (femminile di Malazzi e dei piccoli di Casoni) oltre alla calda voce di Elina Garanča, se abbiamo avuto ancora una volta la fortuna di poterci emozionare.

Applausi interminabili per tutti in un Piermarini con qualche vuoto di troppo, francamente. Poi, ahinoi, si torna a casa a domandarci in che mondo viviamo…

29 marzo, 2015

Riecco la famigerata Carmen… dantesca

 

Ieri sera terza ed ultima (per ora, in attesa di giugno) recita della Carmen (di Emma Dante, perché di Meilhac-Halévy non c’è proprio nulla!)

E appunto sugli aspetti non legati ai suoni di questa produzione avevo già scritto peste e corna all’indomani dell’uscita originale il SantAmbrogio 2009 (dove per me si erano salvati il divo Kaufmann e il discreto Barenboim) e questa ripresa non poteva certo farmi cambiare idea. Anzi mi fa detestare chi ha avuto quella di riproporre un simile spettacolo in abbonamento, quindi di imporlo anche a chi già ne conosceva i limiti. (Almeno la ripresa del 2010 era stata programmata fuori abbonamento, e così me l’ero fortunatamente risparmiata!) Perciò sulla parte visiva dello spettacolo mi fermo qui.
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In mancanza di un divo (Kaufmann) ed essendo un suo probabile buon sostituto (Meli) relegato alle recite in zona-Expo, il livello della prestazione musicale è stato appena sopra la sufficienza soltanto nel caso di Elīna Garanča. Che ha il fisique du role di… Fricka (stra-smile!) ma almeno canta dignitosamente, ecco. Se poi si facesse prestare qualche decibel (in zona centro-bassa) dalla Rachvelishvili sarebbe ancor meglio.

Invece José Cura canta come Kaufmann… fra una decina d’anni, sempre col fiato in gola e parecchia approssimazione: un amico gli è rimasto, quello che dal loggione gli ha gridato un gran bravo! dopo l’aria del fiore. Pagato con gli interessi (una sonora buata) all’uscita singola. Un isolato buh anche alla fine del second’atto, immagino però indirizzato alla regìa. Per il resto pochi e miseri applausi a scena aperta, compreso quello a sproposito sulla corona puntata che precede l’Andante moderato del Preludio.

Il torero Vito Priante mi ha fatto rimpiangere il pur non irresistibile Schrott dell’allestimento originale. Elena Mosuc è una Micaela… invecchiata precocemente anche nella voce, oltre che nell’orrenda acconciatura affibbiatale dalla regista.

Tutti gli altri sono comprimari che hanno fatto del loro meglio per… non farsi notare. Bene almeno il coro di Casoni.

Massimo Zanetti ha diretto tutto sommato con merito, riuscendo se non altro a tenere sempre basso il volume dell’orchestra, il che è un bene per la resa di un’opera come questa, ed anche per i cantanti in scena, che hanno evitato di far la figura dei pesci in acquario. 

Pubblico abbastanza numeroso e alla fine fin troppo… generoso.