allibratori all'opera

celestino o ugo?
Visualizzazione post con etichetta rizzi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta rizzi. Mostra tutti i post

16 agosto, 2022

ROF-43 live: La Gazzetta

Rieccomi sulla riviera adriatica (dove all’apocalisse pronosticata da sedicenti saggi in conseguenza della caduta di supermario nessuno sembra far caso) per il mio personale esordio (come spettatore, s’intende) al ROF-XLIII. Assistendo alla terza recita de La Gazzetta, una ripresa rivisitata della fortunata produzione di Marco Carniti del 2015, che fu anche da me a suo tempo ammirata.

Dico subito che la serata è iniziata in tono minore, poi vivacizzatasi man mano: forse condizionata, chissà, dalla scarsità (molte, troppe poltrone vuote in platea e nei palchi) e iniziale freddezza del pubblico. Sta di fatto che il primo atto ha cominciato a prender quota solo al momento del famoso (perché ritrovato da pochi anni) quintetto Già nel capo un giramento Insomma, dopo l’ascolto della prima del 10 agosto in radio mi ero fatto aspettative migliori, ecco.    

Com’è noto, l’opera rappresentò l’esordio di Rossini in territorio buffo a Napoli, la capitale italiana (e forse europea, ai tempi, 1816) del teatro musicale. Ebbene: due napoletani veraci, Carlo Lepore e Maria Grazia Schiavo, hanno impersonato qui la coppia padre-figlia, Prosdocimo-Lisetta, in viaggio di piacere-interesse a Parigi, dando così anche un tocco di realismo alla vicenda improbabile che un altro napoletano, Giuseppe Palomba, aveva inventato (beh, insomma, facendosi aiutare da… Goldoni) per la speciale occasione.

Lepore è un perfetto Prosdocimo Storione, una specie di prototipo di personaggi cui darà vita il grande Totò, del quale non per nulla vengono richiamate alcune gag passate alla storia. Oltre che cantare da par suo, eccelle ovviamente nei frequenti parlati in partenopeo, che esigono nativa, quindi assoluta dimestichezza con quel dialetto. 

Lisetta, che il librettista presenta in modo (almeno apparentemente) contraddittorio, affibbiandole l’epiteto francamente equivoco di donzella scaltra e baggiana (!?) è resa in modo apprezzabile dalla Schiavo, che mette la sua abilità vocale nella coloratura al servizio della natura bifronte del personaggio. E inoltre la sua voce acuta e penetrante svetta sempre nei duetti e concertati.   

Fra gli altri protagonisti emerge prepotentemente, per vocalità e presenza scenica, Giorgio Caoduro, che passa autorevolmente dalla sua identità reale (Filippo, il locandiere) a quelle virtuali di quakero e turco. Qualche eccesso di forzatura nella parte acuta della tessitura non inficia il giudizio positivo sulla sua prestazione, confermato dalle ovazioni ricevute alle uscite finali, oltre che agli applausi a scena aperta dopo il duetto con Lisetta e la sua aria Quando la fama altera

Pietro Adaìni impersona un Alberto convincente, voce squillante e omogenea in tutta la gamma: dopo un esordio un poco trattenuto (Ho girato il mondo intero) anche lui è cresciuto meritando applausi con l’aria O lusinghiero amor.

Doralice è Martiniana Antonie, che mette in bella mostra la sua voce corposa di mezzosoprano, che dopo l’aria (di mano aliena, peraltro) Ah, se spiegar potessi, avrebbe anche meritato un applauso che invece il pubblico ancora freddino le ha negato. Prezioso anche il suo contributo ai concertati.

Con lei bene ha meritato l’altra mezzo, Andrea Niño, efficace Madama La Rose, vocalmente e scenicamente.

Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen) hanno onorevolmente completato la squadra delle voci.

Mirca Rosciani ha ben guidato il Coro (qui di soli maschi) del Teatro della Fortuna, componente non marginale dell’opera.  

Lodevole la direzione e concertazione del veterano Carlo Rizzi, bacchetta ambidestra... che ha ottenuto dalla Sinfonica Rossini (con la Filarmonica, una delle due belle realtà locali) un risultato di tutto rispetto: freschezza e trasparenza del suono, precisione negli attacchi, compattezza nei passaggi d’insieme.
___
Come prevedibile, confermato il successo del 2015 per la proposta registìca di Marco Carniti, coadiuvato dalla sua squadra composta da Manuela Gasperoni per le scene, Maria Filippi per i costumi e Fabio Rossi alle luci.

Da ultimo lascio l’unico superstite (fra coloro che escono in scena) del 2015, Ernesto Lama, il Tommasino (quasi) muto che qui assume il ruolo del catalizzatore nelle reazioni chimiche: e anche ieri ha simpaticamente contribuito ad aggiungere verve a questo godibile spettacolo.       

20 agosto, 2019

ROF-XL live: L’equivoco stravagante


Ieri alla Vitrifrigo arena (non proprio esaurita) terza recita de L’equivoco stravagante. Non ho ancora visto il Demetrio (che però ricordo bene dal 2010) ma mi sento di affermare senza tema di smentita che lo spettacolo cui ho assistito ieri è di gran lunga il migliore di questo ROF e forse uno dei migliori in assoluto nella storia del Festival.

Con i soggetti seri o tragici il rischio che si corre oggi è di trovare un regista che si diverte (lui solo, però) ad interpretarli in modo diciamo... personale, spesso creando autentici mostri, come è accaduto proprio qui a Vick con la Semiramide. E come accadde anche a SantAmbrogio 2015 alla coppia Leiser-Caurier, responsabili di una Giovanna d’Arco invero... invereconda.

Viceversa, con le opere leggere (drammi giocosi, farse) il rischio è che vengano trasformate in volgari pezzi da avanspettacolo, e l’Equivoco ci si presta benissimo, con quel testo che Gasbarri infarcì (peraltro con raffinato humor) di doppi sensi, battute salaci e ammiccamenti da barzelletta sporca. Ci vorrebbe poco a trasformare l’opera in una goliardata tipo Ifigonia in Culide, ecco.

E invece - sorpresa sorpresa - il due registi hanno messo in piedi uno spettacolo di alto livello, senza mai cadere nel grossolano e nel becero, ma mantenendolo sempre su un piano di eleganza e buon gusto che davvero ha conquistato il pubblico.

Sobria ma intelligente ed efficace la scenografia di Christian Fenouillat: scena praticamente fissa, incorniciata come un grande quadro, nella casa di Gamberotto; pochissime suppellettili (tre sedie, un letto per parte del second’atto e nulla più); un (apparente) quadro gigante, raffigurante un paesaggio rurale con vacche pascolanti, che però si rivela essere un finestrone affacciato sulla campagna: lì circoleranno Ermanno ed Ernestina dopo la fuga dalla casamatta e soldati e servitori. Una quinta sulla destra della scena si apre temporaneamente per creare l’oscuro e angusto spazio della prigione in cui è chiusa Ernestina, poi liberata da Ermanno. Eleganti e simpatici i costumi di Agostino Cavalca. Elementari, ma ben gestite da Christophe Forey, le luci.

Molto curata la recitazione dei personaggi: Ernestina in particolare è efficacemente presentata come una ragazza un po’ snob, abbigliata (nella sua immaginazione) come una principessa e alla quale la cultura deve aver creato più complessi che maturità. Gamberotto e Buralicchio sono due ricchi, il primo però è un parvenu, grazie a tanto olio di gomito; l’altro probabilmente un nullafacente figlio-di-papà. Ermanno è il (futuro) Nemorino della situazione. Centrate anche le figure dei due domestici-amanti Frontino (che non si capisce dal libretto per quali ragioni sia confidente ed alleato del povero Ermanno) e Rosalia. Appropriati ed intelligenti i movimenti dei 14 coristi maschi, ora impersonanti la servitù di Gamberotto, ora i militari della guarnigione. Tutti i protagonisti sono dotati di lunghi nasi alla Cyrano, dei quali si disferanno platealmente sull’ultimo accordo di SIb maggiore dell’orchestra. 

In definitiva, un allestimento di gran classe (che sembra evocare certi spettacoli di Ponnelle...) che il pubblico ha mostrato di apprezzare assai. E che è auspicabile venga ripreso al ROF negli anni a venire.
___
Ma altrettanto se non maggiore apprezzamento è andato alla prestazione musicale, che ha valorizzato in pieno questa partitura colma di cavatine, ariette, concertati e cori con la quale Rossini inaugurò la consuetudine dell’auto-imprestito, sia in... entrata (passaggi dal Demetrio e l’intera Sinfonia, più altri brani, dalla Cambiale); e poi (complice lo stop imposto all’Equivoco dalla censura) in... uscita, verso il vicino Inganno, ma anche verso una mezza dozzina di opere successive.

Le voci mi son parse tutte all’altezza del compito. Una classifica va comunque fatta (e l’ha fatta anche il pubblico con l’applausometro). Io ci metto in cima la Teresa Iervolino, che ha messo in mostra la sua bella voce contraltile, coniugata ad una efficace resa della bizzarra personalità della protagonista.

Poi Davide Luciano, un Buralicchio assai apprezzabile per sonorità e corposità di timbro. Con lui, benissimo l’ormai veterano Paolo Bordogna, una sicurezza assoluta in questi ruoli di buffo (dal 2005 ne ha interpretati qui quasi una dozzina!)

Pavel Kolgatin ha una voce piccola e con un timbro un pò chioccio, ma se l’è cavata più che discretamente, in una parte che non presenta le proverbiali arditezze cui Rossini costringerà i tenori in futuro.

Assai bene anche i due servitori-lenoni Claudia Musco e Manuel Amati. Perfetti i 14 esponenti del Ventidio Basso diretti da Giovanni Farina.

Carlo Rizzi ha guidato con sicurezza la splendida OSN-RAI (menzione speciale per il corno di Giovanni Urso nella Sinfonia). Dal Direttore avrei gradito solo un filino in più di verve nei passaggi più... tranquilli, ecco.

Per tutti applausi a scena aperta dopo (e anche all’interno di) ogni numero e poi finali ovazioni e ripetute chiamate al proscenio.

12 agosto, 2019

ROF-XL alla radio


Ieri sera il ROF del quarantesimo (significativamente dedicato a due grandi personaggi - del canto e della scienza musicale - da poco scomparsi, Monserrat Caballè e Bruno Cagli) ha aperto i battenti con una della bestie-nere (in senso buono, of course...) del catalogo rossiniano: Semiramide.

Dirò subito che il livello musicale dello spettacolo (per quanto si può giudicare per radio) mi è parso di alta qualità, se non proprio di eccellenza. Il profeta-in-patria Michele Mariotti ha confermato - ce ne fosse bisogno - di padroneggiare il complesso e difficile materiale rossiniano con assoluta perizia: certo, lui ha avuto il vantaggio di lavorare per anni con super-esperti come Zedda, e... si sente! La OSN-RAI non gli è stata da meno, con una prestazione impeccabile in tutte le sezioni, già manifestatasi fin dalla colossale Sinfonia.

Fra le voci mi ha sorpreso assai positivamente Varduhi Abrahamyan, un contralto che ha doti naturali degne di una Podles (!) Il suo Arsace ha la necessaria profondità di accenti e sono curioso di ascoltarla dal vivo per confermare questo giudizio.

Bene anche la beniamina del ROF Salome Jicia, che non sarà proprio la Colbran... ma che ha dimostrato di essere assai cresciuta in questi pochi anni, dopo il suo esordio in Elena.

Antonino Siragusa ha pure confermato alle mie orecchie la sua propensione per questi ruoli rossiniani: voce squillante, acuti staccati (quasi sempre) con sicurezza, dai DO e RE del primo atto, fino ai due DO# non scritti della sua aria di... addio-al-celibato, prima del viaggio di nozze.

La sua mogliettina non troppo convinta era Martiniana Antonie, che si è ben difesa, in una parte non proprio impossibile.  

Più che discrete le due voci basse, Nahuel Di Pierro è stato un efficace Assur, anche a livello di espresività, come dimostra la scena degli incubi, prima del finale; Carlo Cigni è stato un autorevole Oroe, anche se forse l’emozione di dover aprire l’opera gli ha creato qualche problema all’inizio. Oneste le prestazioni di Alex Luciano e Sergey Artamonov.

Il Coro del Ventidio Basso guidato da Giovanni Farina ha meritoriamente completato l’opera sul fronte musicale, accolto da un successo incondizionato, almeno a giudicare dagli applausi finali. Grandi contestazioni invece al team di Graham Vick, la cui regìa, secondo l’inviato di radio3 Oreste Bossini peccherebbe di eccessivo e indigesto cerebralismo (ma converrà giudicarla dal vivo).
___
13 agosto - Demetrio&Polibio

Brillante davvero questa ripresa dell’opera prima di Rossini, comparsa al ROF nell’ormai lontano 2010, che ieri ha ottenuto (almeno a giudicare da ciò che l’etere ci ha portato alle orecchie dalla piccola bomboniera del Teatro cittadino) un gran successo di pubblico, con applausi dopo ogni numero e ovazioni finali.

Regina della serata (ma c’era da prevederlo) è stata una delle beniamine del ROF, Jessica Pratt, che in una parte che pare proprio scritta per lei e per le sue straordinarie doti naturali ha inebriato i suoi fan, sciorinando virtuosismi e sovracuti da brivido.

Ma bene anche Cecila Molinari (alla sua terza comparsa in 4 stagioni) e l’ormai veterano Juan Francisco Gatell, cui si è degnamente affiancato Riccardo Fassi.

Ripettando un’alternanza che vede le due Orchestre locali avvicendarsi di anno in anno in un’opera del cartellone principale, è toccato alla Filarmonica Rossini (da tempo affidata alle amorevoli cure di Donato Renzetti) accompagnare le voci sotto la guida del solido Paolo Arrivabeni, tornato al ROF dopo 16 anni. Meritevole di apprezamento anche il Coro della Fortuna diretto da Mirca Rosciani

In attesa dell’Equivoco, mi sento di dire che il livello strettamente musicale di questo quarantenne Festival è davvero ragguardevole.
___

Titolo appropriato per le vicende politiche di attualità ferragostana: Buralicchio Salvini buggerato da Frontino Renzi... (che Dio ce la mandi buona!)

Chiusura scoppiettante delle tre prime del ROF-XL, con il dramma giocoso che occupa il terzo posto del catalogo rossiniano, subito dopo la Cambiale (di cui mutua la Sinfonia, inaugurando così immediatamente la prassi degli auto-imprestiti).

Anche ieri sera Radio3 ci ha portato belle notizie sul fronte dei suoni, con una compagnia di canto ben assortita (Iervolino e Bordogna su tutti) e una direzione (Carlo Rizzi) che ha saputo valorizzare al meglio le qualità di questa spumeggiante partitura del 19enne Gioachino. Accoglienza poco meno che trionfale, a testimonianza del gradimento del pubblico, fra il quale si è mescolato tale... Richard Bonynge!
___ 
Ora non resta che l’esperimento in corpore vili... prossimamente.

21 aprile, 2016

La cena degli obbrobri (di Martone)

 

Arrivato il mio turno in abbonamento (sennò, lo dico subito, al Piermarini stavolta non mi ci vedevano proprio, chè avrei dato il mio modesto contributo al computo degli innumerevoli posti vuoti in sala) eccomi a riferire della ripresa alla Scala, dopo nemmeno 92 anni (!) dell’ultima opera verista di Umberto Giordano: La cena delle beffe.  

Questa musica è di quelle che non ti fan venire la pelle d’oca, non ti sbudellano e non ti fanno piangere (nè ridere, per la verità). Insomma, entra dall’orecchio sinistro per uscire dal destro senza averti lasciato int-’a-capa tracce indelebili. Ma anche senza aver fatto danni cerebrali irreparabili, e di ciò va dato atto al compositore.

Carlo Rizzi per la verità non ci prova nemmeno ad aggiungere del sale, o pepe, o melassa agli ingredienti previsti dalla ricetta, e quindi raggiunge in pieno il risultato di cui sopra. Con l’aggravante di appiattire il tutto sul forte, salvo pochi squarci di... fortissimo.   

Il cast vocale è per definizione alle prime armi con quest’opera (gli specialisti di essa sono in pensione da tempo...) e quindi i cantanti fanno ciò che possono (e anche vogliono, a giudicare dai risultati) sicuri che nessuno potrà smentirli opponendo esempi di attualità. Anche loro sembrano seguire le orme del Direttore, e così di espressione, sensibilità e simili bazzecole non se ne parla proprio (salverei solo Alaimo, che peraltro non ha una voce proprio adattissima al ruolo di Neri e infatti mi dà l’impressione di scurirla artificiosamente). Insomma, tutti quanti concorrono a rendere abbastanza insopportabile una musica che è già di per sé indigeribile.
___
Ho intitolato la mia cronaca scrivendo di obbrobri del regista. E non a caso, poichè davvero Mario Martone (recidivo oltretutto, vedi lo sfigato Oberto di 3 anni fa) ha equivocato totalmente la natura del soggetto. Quindi: se lo ha fatto in buona fede, merita di tornare a studiare per bene il libretto di Sem Benelli e di restituirci il maltolto; in caso contrario, sarebbe passibile di denuncia per adulterazione e contraffazione di prodotti preziosi o artistici (o pseudo- nella fattispecie) come chi smercia Lacoste, o Rolex, o VanGogh, o financo Fiat farlocche, ecco.

Il problema non è – al solito – il diritto del regista alla trasposizione geo-temporale del soggetto. Il che è tollerabile e financo apprezzabile, a patto però che del soggetto vengano conservate le fondamentali caratteristiche, e non soltanto la sottile epidermide che lo ricopre.

E di che tratta il testo di Benelli? Di una storia maturata sullo sfondo della rivalità fra rampolli di famiglie-bene; che ha come moventi il tasso di virilità e il possesso esclusivo o condiviso di qualche femmina dai costumi più o meno facili; rivalità che degrada dal piano poco più che goliardico a quello cruento, provocando gelosie, picche e ripicche, scherzi-da-prete e sentimenti di vendetta sempre più parossistici, fino a degenerare nel delitto e nel sangue. Quindi, gli effetti possono anche essere drammaticamente estremi, ma la causa che li ha generati è semplicemente risibile, proprio come per futili motivi di campanilismo si ingenerano spesso faide sanguinose fra contrapposte tifoserie.

Orbene, cos’ha a che fare tutto ciò con la criminalità organizzata? I mafiosi (a Manhattan come a Corleone) si dividono forse in cosche per contendersi qualche zoccola? O per stabilire chi ce l’ha più lungo? Ecco la domanda capitale da porre al regista, che in linea di principio nessuno potrebbe censurare per aver spostato di 700 anni in avanti e di 6.500Km a occidente il teatro della vicenda. Solo che lui non l’ha fatto per mettervi al centro una faida fra bande di giovinastri del Bronx (col che ci si sarebbe limitati a compiangere l’insulsaggine della trovata, visto che The warriors l’hanno già inventato altri) ma per lucrare sulla presunta pregnanza dell’ambientazione nel mondo del padrino, cosa che farebbe per definizione di un regista un genio! Mamma mia... E pensare che allora la soluzione di più profonda attualità era qui, a portata di mano, e proprio a Firenze! Bastava guardare un pochino dentro e fuori il giglio magico o a casa di Denis (tera-smile!)

Naturalmente non mancano nello spettacolo arditissime trovate, perchè bisogna pur ricordare al gentile pubblico (bue) che questa è un’opera verista, e cosa c’è di più verista del porno? Così ci sorbiamo la Cintia che si fa un solitaire eccitata dagli amplessi di Ginevra con Giannetto e poi la medesima Ginevra che accenna un - siamo a Manhattan, eh! - blowjob (in slang: fellatio) per farsi perdonare da Neri il suo tradimento. Evabbè... 

Non parliamo poi del rispetto che Martone dimostra per la musica. Giudicandola (e qui non ha tutti i torti) insignificante, si permette però di irriderla, facendo fermare l’intera orchestra, prima del celestiale accordo di SIb maggiore che si ode al calar del sipario, per propinarci una ben assestata salva di colpi di mitraglietta esplosi dalla santarellina Lisabetta, trasformatasi nella circostanza in vendicatrice dei torti subiti da tutte le femmine dell’universo. Evvai! Così quando metterà in scena Parsifal (ma speriamo... mai) farà entrare Kundry nella sala del Gral, armata di kalashnikov, per compiervi una carneficina (o questo finale l’ha già inventato qualcun altro?)

05 aprile, 2016

Chi non beve con me... serpente diventi

 

C’è una specie di (casuale o concordato, non saprei dire) filo rosso che collega di questi tempi Scala e Regio di Torino. Si tratta della riproposta di due titoli piuttosto desueti del novecento (‘20-‘30) italiano: La cena delle beffe di Giordano alla Scala e La donna serpente di Casella a Torino. In entrambi i casi le rappresentazioni in teatro vengono affiancate da iniziative diverse, volte a promuovere vuoi il titolo in programma (Milano, dove è stato proiettato nel Piermarini il film di Blasetti del 1942) o la figura del compositore (Torino, con il Festival-Casella). Ecco, questa necessità di attirare in tutti i modi l’interesse del pubblico rappresenta di per sè un’implicita ammissione del valore non proprio eccelso di quei titoli.

Però con alcune differenze: nel caso di Giordano – operista che deve la sua fama a Chénier e Fedora, venute alla luce quando ancora si era nell’800 -  si tratta di una delle opere decisamente minori, abbarbicata ad un verismo ormai decrepito ed oltretutto zavorrata da un libretto che magari 90 anni fa poteva ancora suscitare entusiasmi, ma che oggi fa francamente ridere...

Invece per Casella le cose stanno in modo un filino diverso: intanto lui non era propriamente un operista, e quindi concepiva la musica come arte pura, e non come supporto sonoro a drammi, men che meno a storie veriste. E il soggetto della sua prima e quasi unica opera fu volutamente individuato in una fiaba, quindi un soggetto fantastico che desse modo al compositore di liberare la sua ispirazione senza condizionamenti di sorta.

Insomma, si tratta di due riproposte che hanno in comune nulla più della data di nascita delle opere: delle quali la prima sostanzialmente guarda all’indietro, laddove la seconda perlomeno cerca di dire qualcosa di nuovo.  
___
Domenica 3 aprile la Scala ha quindi ospitato la prima della Cena, ben 92 anni (!) dopo averla tenuta a battesimo con Toscanini. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che adesso lasciamo volentieri ai nostri pronipoti il piacere di risentirla nel 2108 (stra-smile!) Però è certo che siamo di fronte a qualcosa che è ben lungi dall’essere un capolavoro, e forse non è solo un caso se l’opera è praticamente caduta nell’oblio e se ne esistono soltanto tre edizioni in commercio (DeFabritiis-1955, Bonavolontà-1972 e Sanzogno-1988).

In attesa di assistere dal vivo, così da poter anche apprezzare (o criticare...) la messinscena di Martone, dirò che l’ascolto radiofonico non mi ha propriamente entusiasmato: discreta la prestazione dell’orchestra e la direzione di Rizzi, mentre gli interpreti principali mi son parsi un po’ a disagio, e non è una buona scusante il fatto che tutti fossero inevitabilmente alle prime armi con quest’opera: Marco Berti ha mostrato qualche problema di intonazione ed a volte è parso in difficoltà a sostenere la parte di Giannetto, oggettivamente dura, tutta incardinata sul famigerato passaggio. Non molto meglio si è portato Nicola Alaimo, che ha una voce chiara, adusa a Rossini ma che poco si attaglia ad un personaggio squisitamente verista come Neri. Passabile e non più la Ginevra di Kirstin Lewis, onesti gli altri comprimari.

Insomma, mi pare una proposta francamente discutibile, nulla a che vedere con le due opere del Verdi da galera che l’hanno preceduta nella stagione, meritandosi apprezzamenti quasi unanimi. Quanto alla prestazione complessiva, speriamo che le cose migliorino con qualche replica in più di rodaggio.  

17 agosto, 2014

ROF XXXV live: Armida


Ieri, in una serata fresca dopo un pomeriggio addirittura autunnale, l’Adriatic Arena ha ospitato la terza rappresentazione di Armida, che domenica 10 aveva aperto - non proprio trionfalmente - questa edizione del ROF. Da anni non si vedevano tante poltrone vuote, in un parterre già smagrito di un paio di sezioni (più di 100 posti…): non è certo un buon segno. Dirò subito comunque che il pubblico ha accolto la recita con calore, se non proprio con entusiasmo (pare di essere alla Scala, dove le prime vengono spesso contestate e poi le recite successive rimettono le cose a posto): può anche darsi che nel frattempo la macchina si sia meglio rodata.     
___
Armida è opera dal soggetto piuttosto abborracciato e dalla struttura almeno apparentemente… antiquata. Vi si trovano in abbondanza magia ed eventi preternaturali: bacchette magiche, draghi e carri volanti, orride boscaglie che si trasformano di punto in bianco in giardini incantati e in sontuosi palazzi, per poi ri-scomparire con la stessa facilità, spiritelli infernali che assumono sembianze di ninfe incantatrici… un po’ come nel barocco alla Händel, per dire. Ecco, che ad ’800 ormai ben avviato si proponessero nel teatro musicale ancora questi stereotipi del secolo precedente si spiega forse con il fatto che la piazza era quella di Napoli, non certo apertissima alle novità del romanticismo e che d’altra parte un marpione come l’impresario Barbaja non voleva certo inimicarsi.

Poi è un’opera praticamente priva di azione, dove l’unica scena movimentata riguarda una tenzone fra due cavalieri: ma trattasi non di una lotta di eroici nemici sul campo di battaglia, né di una sfida fra due pretendenti per stabilire chi debba godere dei favori della bella principessa di turno; no no, siamo di fronte ad una prosaica resa dei conti fra due commilitoni per questioni di avanzamento di carriera!

Opera chiaramente costruita – più dal compositore che dal librettista Schmidt - per l’esibizione delle qualità vocali dei cantanti: in primo luogo della grande Isabella Colbran, alla quale venne riservato l’unico ma centralissimo ruolo femminile del lavoro, circondata da ben 6 tenori, che salgono fino a 7 in una certa versione, o si riducono a… soli 5 in altre. Sì, perché, a parte Rinaldo che sopravvive ai tre atti, gli altri vanno e vengono in modo abbastanza scriteriato: Goffredo da Buglione ed il suo luogotenente Eustazio si dileguano alla fine del primo atto senza apparente giustificazione; Gernando se ne va via con loro, ma almeno lui con un valido motivo: viene fatto secco da Rinaldo! Carlo e Ubaldo compaiono solo nel terz’atto e ciò consente di risparmiare due tenori, accoppiando Goffredo a Ubaldo e Gernando a Carlo. (Ma in uno spartito per canto e pianoforte, edito da Breitkopf, Gernando muore canonicamente a fine del primo atto, per poi reincarnarsi… magicamente all’inizio del terzo, al posto del titolare Carlo).

Opera infine che include un balletto (in chiusura dell’atto centrale) di corpose dimensioni: minimo una decina di minuti, ampliabili a discrezione di direttore e coreografo fin quasi al doppio, semplicemente moltiplicando i da-capo.

Ebbene, è superfluo dire che se Armida non è finita nel totale dimenticatoio, ciò si deve alla grande musica del Gioachino, che guardava in direzione esattamente opposta a quella del libretto: non parleremo di capolavoro (per non trovarci poi a corto di attributi in altri casi) ma di certo siamo di fronte ad un fior fior di opera, dove Rossini continua ad applicare i suoi principi innovatori, già manifestati in anni precedenti (vedi fra l’altro proprio l’Aureliano, novità di questo ROF) anticipando addirittura certo Verdi (guarda caso per la parte musicale, a Napoli in occasione della prima qualcuno riesumò per il pesarese l’epiteto di tedeschino, e non certo in accezione affettuosa): grandi numeri di assieme, sui quali si stagliano le parti solistiche; recitativi sempre musicati; balletto inserito nel contesto e non, com’era consuetudine settecentesca, affidato a terzi; virtuosismi non lasciati ai vezzi degli interpreti, ma compiutamente delineati sulle rispettive potenzialità. Ecco, caso mai è la disponibilità sul mercato di interpreti adeguati a rendere ardua l’impresa di chi voglia rappresentare Armida.

E così vengo a questa riproposta del ROF, dove il ruolo principale è stato affidato a Carmen Romeu. Una scelta, per così dire, casalinga, essendo il soprano spagnolo un prodotto dell’Accademia pesarese, quindi pupilla del Maestro Zedda e quindi un po’ in famiglia da queste parti. Il che, intendiamoci, in linea di principio non sarebbe per nulla disdicevole, tutt’altro; a patto però che i risultati fossero perlomeno decorosi, se non proprio brillanti. Ahinoi, e ahilei, ciò non è (e lo ha dovuto riconoscere a denti stretti lo stesso Zedda dopo la prima) e anche ieri il soprano spagnolo – pur non apertamente contestato - ha confermato i suoi limiti: ottava bassa inudibile e acuti spesso sfocianti in urletti o stonature.

Degli otto personaggi maschili (concentrati su 5 interpreti) che circondano la protagonista chi ha convinto di più è Antonino Siragusa, un Rinaldo assai sicuro ed efficace e soprattutto dotato di voce chiara e squillante in tutta la gamma. Abbastanza al di sotto Dmitry Korchak (meglio come Carlo che come Gernando) discreto nelle mezze voci, ma in difficoltà negli acuti, sforzati e spesso calanti. Come pure Randall Bills, (Goffredo-Ubaldo): voce piccola e poco penetrante. Forse un filino meglio di lui l’Eustazio di Vassilis Kavayas. Carlo Lepore (Idraote e Astarotte) ha completato il cast in modo decoroso, pur in una parte non certo proibitiva: voce potente e bene impostata.

Ho trovato orchestra e coro migliorati rispetto al radio-ascolto di domenica scorsa: evidentemente una recita in più è servita a tutti. Bravi gli strumentisti al corno, violoncello e violino nelle parti solistiche, e l’ottavino davvero scintillante. Anche Carlo Rizzi mi è parso dare più spessore alla sua direzione. Quanto al lungo balletto che chiude l’atto secondo, l’Ensemble di danza (Compagnia Abbondanza-Bertoni) ne ha dato un’interpretazione moderna e sufficientemente gradevole. Insomma, complessivamente una prova dignitosa, che una protagonista più autorevole avrebbe ulteriormente illustrato.
___     
Luca Ronconi, che ha evidentemente l’esclusiva dal ROF per quest’opera, deve aver coniugato un sano minimalismo (il rischio di fare stupidaggini o pacchianate con opere come questa è grande) con il budget spartano del Festival, così lui e il suo team hanno preso come spunto il teatro dei pupi, che tradizionalmente si è servito dei personaggi della Gerusalemme liberata (o consimili) per farne lo sfondo alla messinscena. Nicchie prismatiche che occupano l’intera altezza della scena e in cui sono di volta in volta appesi i pupi di varie misure, oppure nelle quali trovano posto i protagonisti (la nuvola del second’atto). Da pupi sono anche vestiti i crociati, con tanto di elmi crinuti e corazze più romani che medievali. Armida invece sfoggia eleganti abiti da sera, nero e poi rosso fuoco. Completano la scena alcuni pannelli che traslano (come le nicchie) orizzontalmente a muovere un po’ lo spazio. Efficace la resa degli spiriti del male, vestiti da pipistrelli, come pipistrellone è il loro capo Astarotte (e – per simpatia! – anche lo sbifido Idraote del primo atto). La recitazione è pure essa… minimalista: gesti plastici e ieratici, come si addice ad un soggetto… barocco.

Tutto sommato, nulla di straordinario, nel bene e nel male, ma con il pregio di non aver, per così dire, disturbato la musica! Il che è già qualcosa.