Ieri, in una serata fresca dopo un
pomeriggio addirittura autunnale, l’Adriatic
Arena ha ospitato la terza rappresentazione di Armida, che domenica
10 aveva aperto - non proprio trionfalmente - questa edizione del ROF. Da anni
non si vedevano tante poltrone vuote, in un parterre già smagrito di un paio di
sezioni (più di 100 posti…): non è certo un buon segno. Dirò subito comunque
che il pubblico ha accolto la recita con calore, se non proprio con entusiasmo
(pare di essere alla Scala, dove le prime
vengono spesso contestate e poi le recite successive rimettono le cose a
posto): può anche darsi che nel frattempo la macchina si sia meglio rodata.
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Armida è opera dal soggetto piuttosto
abborracciato e dalla struttura almeno apparentemente… antiquata. Vi si trovano
in abbondanza magia ed eventi preternaturali: bacchette magiche, draghi e carri
volanti, orride boscaglie che si trasformano di punto in bianco in giardini
incantati e in sontuosi palazzi, per poi ri-scomparire con la stessa facilità,
spiritelli infernali che assumono sembianze di ninfe incantatrici… un po’ come
nel barocco alla Händel, per dire. Ecco,
che ad ’800 ormai ben avviato si proponessero nel teatro musicale ancora questi
stereotipi del secolo precedente si spiega forse con il fatto che la piazza era
quella di Napoli, non certo apertissima alle novità del romanticismo e che d’altra
parte un marpione come l’impresario Barbaja non voleva certo inimicarsi.
Poi è un’opera praticamente priva di azione, dove l’unica scena movimentata
riguarda una tenzone fra due cavalieri: ma trattasi non di una lotta di eroici nemici
sul campo di battaglia, né di una sfida fra due pretendenti per stabilire chi
debba godere dei favori della bella principessa di turno; no no, siamo di
fronte ad una prosaica resa dei conti fra due commilitoni per questioni di
avanzamento di carriera!
Opera chiaramente costruita – più dal
compositore che dal librettista Schmidt
- per l’esibizione delle qualità vocali dei cantanti: in primo luogo della
grande Isabella Colbran, alla quale
venne riservato l’unico ma centralissimo ruolo femminile del lavoro, circondata
da ben 6 tenori, che salgono fino a 7 in una certa versione, o si riducono a… soli
5 in altre. Sì, perché, a parte Rinaldo che sopravvive ai tre atti, gli altri
vanno e vengono in modo abbastanza scriteriato: Goffredo da Buglione ed il suo
luogotenente Eustazio si dileguano alla fine del primo atto senza apparente
giustificazione; Gernando se ne va via con loro, ma almeno lui con un valido
motivo: viene fatto secco da Rinaldo! Carlo e Ubaldo compaiono solo nel
terz’atto e ciò consente di risparmiare due tenori, accoppiando Goffredo a
Ubaldo e Gernando a Carlo. (Ma in uno spartito per canto e pianoforte, edito da
Breitkopf, Gernando muore canonicamente a fine del primo atto, per poi
reincarnarsi… magicamente all’inizio del terzo, al posto del titolare Carlo).
Opera infine che include un balletto (in chiusura dell’atto
centrale) di corpose dimensioni: minimo una decina di minuti, ampliabili a
discrezione di direttore e coreografo fin quasi al doppio, semplicemente
moltiplicando i da-capo.
Ebbene, è superfluo dire che se Armida
non è finita nel totale dimenticatoio, ciò si deve alla grande musica del
Gioachino, che guardava in direzione esattamente opposta a quella del libretto:
non parleremo di capolavoro (per non trovarci poi a corto di attributi in altri
casi) ma di certo siamo di fronte ad un fior fior di opera, dove Rossini continua
ad applicare i suoi principi innovatori, già manifestati in anni precedenti
(vedi fra l’altro proprio l’Aureliano,
novità di questo ROF) anticipando addirittura certo Verdi (guarda caso per la
parte musicale, a Napoli in occasione della prima
qualcuno riesumò per il pesarese l’epiteto di tedeschino, e non certo in accezione affettuosa): grandi numeri di
assieme, sui quali si stagliano le parti solistiche; recitativi sempre musicati;
balletto inserito nel contesto e non, com’era consuetudine settecentesca,
affidato a terzi; virtuosismi non lasciati
ai vezzi degli interpreti, ma compiutamente delineati sulle rispettive
potenzialità. Ecco, caso mai è la disponibilità sul mercato di interpreti
adeguati a rendere ardua l’impresa di chi voglia rappresentare Armida.
E così vengo a questa riproposta del
ROF, dove il ruolo principale è stato affidato a Carmen Romeu. Una scelta, per così dire, casalinga, essendo il
soprano spagnolo un prodotto dell’Accademia pesarese, quindi pupilla del
Maestro Zedda e quindi un po’ in famiglia da queste parti. Il che,
intendiamoci, in linea di principio non sarebbe per nulla disdicevole, tutt’altro;
a patto però che i risultati fossero perlomeno decorosi, se non proprio
brillanti. Ahinoi, e ahilei, ciò non è (e lo ha dovuto riconoscere a denti
stretti lo stesso Zedda dopo la prima)
e anche ieri il soprano spagnolo – pur non apertamente contestato - ha
confermato i suoi limiti: ottava bassa inudibile e acuti spesso sfocianti in
urletti o stonature.
Degli otto personaggi maschili (concentrati
su 5 interpreti) che circondano la protagonista chi ha convinto di più è Antonino Siragusa, un Rinaldo assai
sicuro ed efficace e soprattutto dotato di voce chiara e squillante in tutta la
gamma. Abbastanza al di sotto Dmitry
Korchak (meglio come Carlo che come Gernando) discreto nelle mezze voci, ma
in difficoltà negli acuti, sforzati e spesso calanti. Come pure Randall Bills, (Goffredo-Ubaldo): voce
piccola e poco penetrante. Forse un filino meglio di lui l’Eustazio di Vassilis Kavayas. Carlo Lepore (Idraote e Astarotte) ha completato il cast in modo
decoroso, pur in una parte non certo proibitiva: voce potente e bene impostata.
Ho trovato orchestra e coro migliorati rispetto al radio-ascolto di domenica
scorsa: evidentemente una recita in più è servita a tutti. Bravi gli
strumentisti al corno, violoncello e violino nelle parti solistiche, e
l’ottavino davvero scintillante. Anche Carlo
Rizzi mi è parso dare più spessore alla sua direzione. Quanto al lungo
balletto che chiude l’atto secondo, l’Ensemble di danza (Compagnia Abbondanza-Bertoni) ne ha dato un’interpretazione moderna
e sufficientemente gradevole. Insomma, complessivamente una prova dignitosa,
che una protagonista più autorevole avrebbe ulteriormente illustrato.
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Luca
Ronconi,
che ha evidentemente l’esclusiva dal ROF per quest’opera, deve aver coniugato
un sano minimalismo (il rischio di fare stupidaggini o pacchianate con opere
come questa è grande) con il budget spartano del Festival, così lui e il suo team
hanno preso come spunto il teatro dei pupi, che tradizionalmente si è servito
dei personaggi della Gerusalemme liberata
(o consimili) per farne lo sfondo alla messinscena. Nicchie prismatiche che
occupano l’intera altezza della scena e in cui sono di volta in volta appesi i
pupi di varie misure, oppure nelle quali trovano posto i protagonisti (la
nuvola del second’atto). Da pupi sono anche vestiti i crociati, con tanto di
elmi crinuti e corazze più romani che medievali. Armida invece sfoggia eleganti
abiti da sera, nero e poi rosso fuoco. Completano la scena alcuni pannelli che
traslano (come le nicchie) orizzontalmente a muovere un po’ lo spazio. Efficace
la resa degli spiriti del male, vestiti da pipistrelli, come pipistrellone è il
loro capo Astarotte (e – per simpatia! – anche lo sbifido Idraote del primo
atto). La recitazione è pure essa… minimalista: gesti plastici e ieratici, come
si addice ad un soggetto… barocco.
Tutto sommato, nulla di straordinario,
nel bene e nel male, ma con il pregio di non aver, per così dire, disturbato la
musica! Il che è già qualcosa.
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