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17 agosto, 2014

ROF XXXV live: Armida


Ieri, in una serata fresca dopo un pomeriggio addirittura autunnale, l’Adriatic Arena ha ospitato la terza rappresentazione di Armida, che domenica 10 aveva aperto - non proprio trionfalmente - questa edizione del ROF. Da anni non si vedevano tante poltrone vuote, in un parterre già smagrito di un paio di sezioni (più di 100 posti…): non è certo un buon segno. Dirò subito comunque che il pubblico ha accolto la recita con calore, se non proprio con entusiasmo (pare di essere alla Scala, dove le prime vengono spesso contestate e poi le recite successive rimettono le cose a posto): può anche darsi che nel frattempo la macchina si sia meglio rodata.     
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Armida è opera dal soggetto piuttosto abborracciato e dalla struttura almeno apparentemente… antiquata. Vi si trovano in abbondanza magia ed eventi preternaturali: bacchette magiche, draghi e carri volanti, orride boscaglie che si trasformano di punto in bianco in giardini incantati e in sontuosi palazzi, per poi ri-scomparire con la stessa facilità, spiritelli infernali che assumono sembianze di ninfe incantatrici… un po’ come nel barocco alla Händel, per dire. Ecco, che ad ’800 ormai ben avviato si proponessero nel teatro musicale ancora questi stereotipi del secolo precedente si spiega forse con il fatto che la piazza era quella di Napoli, non certo apertissima alle novità del romanticismo e che d’altra parte un marpione come l’impresario Barbaja non voleva certo inimicarsi.

Poi è un’opera praticamente priva di azione, dove l’unica scena movimentata riguarda una tenzone fra due cavalieri: ma trattasi non di una lotta di eroici nemici sul campo di battaglia, né di una sfida fra due pretendenti per stabilire chi debba godere dei favori della bella principessa di turno; no no, siamo di fronte ad una prosaica resa dei conti fra due commilitoni per questioni di avanzamento di carriera!

Opera chiaramente costruita – più dal compositore che dal librettista Schmidt - per l’esibizione delle qualità vocali dei cantanti: in primo luogo della grande Isabella Colbran, alla quale venne riservato l’unico ma centralissimo ruolo femminile del lavoro, circondata da ben 6 tenori, che salgono fino a 7 in una certa versione, o si riducono a… soli 5 in altre. Sì, perché, a parte Rinaldo che sopravvive ai tre atti, gli altri vanno e vengono in modo abbastanza scriteriato: Goffredo da Buglione ed il suo luogotenente Eustazio si dileguano alla fine del primo atto senza apparente giustificazione; Gernando se ne va via con loro, ma almeno lui con un valido motivo: viene fatto secco da Rinaldo! Carlo e Ubaldo compaiono solo nel terz’atto e ciò consente di risparmiare due tenori, accoppiando Goffredo a Ubaldo e Gernando a Carlo. (Ma in uno spartito per canto e pianoforte, edito da Breitkopf, Gernando muore canonicamente a fine del primo atto, per poi reincarnarsi… magicamente all’inizio del terzo, al posto del titolare Carlo).

Opera infine che include un balletto (in chiusura dell’atto centrale) di corpose dimensioni: minimo una decina di minuti, ampliabili a discrezione di direttore e coreografo fin quasi al doppio, semplicemente moltiplicando i da-capo.

Ebbene, è superfluo dire che se Armida non è finita nel totale dimenticatoio, ciò si deve alla grande musica del Gioachino, che guardava in direzione esattamente opposta a quella del libretto: non parleremo di capolavoro (per non trovarci poi a corto di attributi in altri casi) ma di certo siamo di fronte ad un fior fior di opera, dove Rossini continua ad applicare i suoi principi innovatori, già manifestati in anni precedenti (vedi fra l’altro proprio l’Aureliano, novità di questo ROF) anticipando addirittura certo Verdi (guarda caso per la parte musicale, a Napoli in occasione della prima qualcuno riesumò per il pesarese l’epiteto di tedeschino, e non certo in accezione affettuosa): grandi numeri di assieme, sui quali si stagliano le parti solistiche; recitativi sempre musicati; balletto inserito nel contesto e non, com’era consuetudine settecentesca, affidato a terzi; virtuosismi non lasciati ai vezzi degli interpreti, ma compiutamente delineati sulle rispettive potenzialità. Ecco, caso mai è la disponibilità sul mercato di interpreti adeguati a rendere ardua l’impresa di chi voglia rappresentare Armida.

E così vengo a questa riproposta del ROF, dove il ruolo principale è stato affidato a Carmen Romeu. Una scelta, per così dire, casalinga, essendo il soprano spagnolo un prodotto dell’Accademia pesarese, quindi pupilla del Maestro Zedda e quindi un po’ in famiglia da queste parti. Il che, intendiamoci, in linea di principio non sarebbe per nulla disdicevole, tutt’altro; a patto però che i risultati fossero perlomeno decorosi, se non proprio brillanti. Ahinoi, e ahilei, ciò non è (e lo ha dovuto riconoscere a denti stretti lo stesso Zedda dopo la prima) e anche ieri il soprano spagnolo – pur non apertamente contestato - ha confermato i suoi limiti: ottava bassa inudibile e acuti spesso sfocianti in urletti o stonature.

Degli otto personaggi maschili (concentrati su 5 interpreti) che circondano la protagonista chi ha convinto di più è Antonino Siragusa, un Rinaldo assai sicuro ed efficace e soprattutto dotato di voce chiara e squillante in tutta la gamma. Abbastanza al di sotto Dmitry Korchak (meglio come Carlo che come Gernando) discreto nelle mezze voci, ma in difficoltà negli acuti, sforzati e spesso calanti. Come pure Randall Bills, (Goffredo-Ubaldo): voce piccola e poco penetrante. Forse un filino meglio di lui l’Eustazio di Vassilis Kavayas. Carlo Lepore (Idraote e Astarotte) ha completato il cast in modo decoroso, pur in una parte non certo proibitiva: voce potente e bene impostata.

Ho trovato orchestra e coro migliorati rispetto al radio-ascolto di domenica scorsa: evidentemente una recita in più è servita a tutti. Bravi gli strumentisti al corno, violoncello e violino nelle parti solistiche, e l’ottavino davvero scintillante. Anche Carlo Rizzi mi è parso dare più spessore alla sua direzione. Quanto al lungo balletto che chiude l’atto secondo, l’Ensemble di danza (Compagnia Abbondanza-Bertoni) ne ha dato un’interpretazione moderna e sufficientemente gradevole. Insomma, complessivamente una prova dignitosa, che una protagonista più autorevole avrebbe ulteriormente illustrato.
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Luca Ronconi, che ha evidentemente l’esclusiva dal ROF per quest’opera, deve aver coniugato un sano minimalismo (il rischio di fare stupidaggini o pacchianate con opere come questa è grande) con il budget spartano del Festival, così lui e il suo team hanno preso come spunto il teatro dei pupi, che tradizionalmente si è servito dei personaggi della Gerusalemme liberata (o consimili) per farne lo sfondo alla messinscena. Nicchie prismatiche che occupano l’intera altezza della scena e in cui sono di volta in volta appesi i pupi di varie misure, oppure nelle quali trovano posto i protagonisti (la nuvola del second’atto). Da pupi sono anche vestiti i crociati, con tanto di elmi crinuti e corazze più romani che medievali. Armida invece sfoggia eleganti abiti da sera, nero e poi rosso fuoco. Completano la scena alcuni pannelli che traslano (come le nicchie) orizzontalmente a muovere un po’ lo spazio. Efficace la resa degli spiriti del male, vestiti da pipistrelli, come pipistrellone è il loro capo Astarotte (e – per simpatia! – anche lo sbifido Idraote del primo atto). La recitazione è pure essa… minimalista: gesti plastici e ieratici, come si addice ad un soggetto… barocco.

Tutto sommato, nulla di straordinario, nel bene e nel male, ma con il pregio di non aver, per così dire, disturbato la musica! Il che è già qualcosa. 

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