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16 marzo, 2023

L’immaginifico E.T.A. alla Scala

Les Contes d’Hoffmann è tornata dopo 11 anni al Piermarini (l’ultima volta con la regìa di Carsen) in una nuova produzione affidata a Davide Livermore e concertata da Frédéric Chaslin (coppia già presentatasi su questi schermi tavolati meno di due anni orsono con un’appena passabile Gioconda). Ieri sera la prima delle sei rappresentazioni, in un teatro non proprio affollatissimo.

La principale curiosità di ogni nuova messinscena dei Contes è sempre la stessa, ormai da parecchi decenni: cosa ci viene propinato delle infinite versioni ricostruzioni della partitura, lasciata incompiuta dal povero Offenbach, venuto a mancare proprio sul più bello?

L’Archivio del Teatro ci informa che le ultime quattro produzioni scaligere (1961, 1995, 2004 e 2012) avevano impiegato la famigerata e adulterata versione Choudens, approntata da quell’Ernest Guiraud che già aveva bistrattato assai la povera Carmen. Con alcune aggiunte e varianti (diverse per il 2012, come si deduce dal confronto dei libretti pubblicati) prese dalla versione Alkor-Bärenreiter curata da quell’altro stupratore seriale di partiture che rispondeva al nome di Fritz Oeser. Qui però c’è qualcosa che non torna nell'archivio: poiché la prima versione dell’edizione Alkor-Bärenreiter-Oeser fu pubblicata nel 1976, poi nel 1980, quindi non poteva essere impiegata nel 1961!

Il libretto (disponibile online) per questa produzione avverte trattarsi integralmente dell’edizione Bärenreiter-Oeser. Quindi, un passo avanti? Mah, mica tanto, poiché vengono ancora ignorate le più recenti edizioni di Schott, curate dalla coppia Michael Kaye – Jean-Christophe Keck, che se non altro si avvalgono di nuovi ritrovamenti di materiale avvenuti negli ultimi anni. Il valore di queste edizioni non risiede nell’impresa impossibile di indicare una soluzione univoca, ma nel mettere a disposizione dei responsabili della messinscena – con l’ausilio di veri e propri flow-chart - le possibili scelte da eseguire secondo criteri se non oggettivi almeno plausibili perché basati su evidenze documentali: onde evitare che direttori e registi in cerca di facile notorietà assemblino il prodotto finito in modo del tutto arbitrario e incoerente, se non addirittura scriteriato, come troppo spesso accade di vedere.

Chaslin, qualche mese addietro, aveva dichiarato di presentare in Scala la versione Choudens integrata con parti della versione Oeser (come era nelle produzioni del ‘94, ‘05 e '12) cosa che pare smentita dalla dicitura presente sulla prima pagina del libretto pubblicato dal Teatro, che cita esclusivamente Oeser. Ma poi, nella stessa intervista e in un’altra rilasciata di recente, dichiarava di aver fatto – come sempre del resto - una scelta, diciamo così, ancor più tradizionalista: riferirsi all’edizione Choudens con le sole aggiunte di Guiraud e Gunsbourg, ignorando quindi Oeser. Insomma, lui stesso non ce la racconta mai giusta…

Per di più, in entrambe le interviste, si abbandona a pesanti accuse rivolte alle più recenti sedicenti edizioni critiche. Lui non fa nomi, ma dal contesto si dovrebbe dedurre che ce l’abbia con quelle curate da Kaye-Keck, dei quali viene persino messa in dubbio la buona fede!

Dopodichè scopriamo però che il direttore francese sta per predisporre a sua volta - e la pubblicherà fra qualche tempo – indovinate un po’ che cosa? La sua edizione critica dei Contes!  Che, a suo dire, porrà la parola fine a un secolo di diatribe! Ahi ahi ahi, qui gatta ci cova… siamo alle solite (e miserelle) guerricciole fra primedonne.

Quindi? Mah, non resta che accettare supini (e se no?) ciò che passa oggi il convento scaligero e affidarsi a fonti webbiche (tipo questa) per avere un’idea di cosa di diverso avremmo potuto godere. Coscienti ovviamente che nessuna delle ricostruzioni circolanti (ed anche di prossima immissione sul mercato, caro Chaslin) potrà mai essere definita come autentica, salvo che Offenbach non si presenti in qualche seduta spiritica per farcelo sapere. Ammesso poi che lui stesso, in questi 140 anni trascorsi nell’aldilà, si sia fatto idee chiare in proposito!
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L’opera è programmaticamente a sfondo fantastico (quindi anche onirico, ovviamente) e come tale si presta per sua natura ad interpretazioni fantastiche e pure… fantasiose, senza che ciò debba sollevare scandali o accuse di dissacrazioni o adulterazioni. [Le vere adulterazioni sono quelle perpetrate fin dall’origine sulla partitura, purtroppo non punibili in assenza di denuncia della parte lesa…]

Livermore quindi va sul sicuro e ne cava uno spettacolo più appariscente che affascinante, direi, ma pur sempre plausibile e godibile.

Trovate non proprio rivoluzionarie, come l’ambientazione moderna (smartphone e selfie a volontà) che ci sta tutta, dato il soggetto; o come lo sdoppiamento del protagonista, evidentemente volto a mostrarci l’Hoffmann della vita normale, piuttosto incolore (dentro una specie di baule-sarcofago, poi… gondola; oppure alle prese con una bistrattata macchina da scrivere) dall’Hoffmann sognatore di imprese dongiovannesche (Niklausse: Notte e giorno…) Oppure il nano da circo, con livrea e cilindro, che fa da guardaspalla armata al cattivone di turno. O le numerose comparse che forse rappresentano le visioni e gli incubi del protagonista. Livermore riunisce ovviamente i quattro tenori comprimari (Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinacchio) in un unico personaggio… en travesti: una servettona armata del classico piumino spazzapolvere.

Scenografia piuttosto spartana, arricchita però da effetti di teatro d’ombre mobili (silhouette) per sottolineare i caratteri onirici di alcune scene. Olympia è una ragazza in carne ed ossa rivestita di plastica e bachelite delle quali si libera per mostrare a noi il trucco di Spalanzani e la creduloneria (indotta dagli occhiali magici) di Hoffmann. A casa di Antonia ci sono un pianoforte e seggiole da teatro accatastate agli angoli (perché nessun violino? Lo prevede la didascalia, ma soprattutto In orchestra sale un assolo dello strumento). La madre di Antonia esce dal quadro e si aggira per casa. A Venezia c’è il coinvolgimento del pubblico: la platea viene infatti ricoperta d’acqua da un enorme velo che accompagna le note della barcarolle. Giulietta e Nicklausse, invece che in gondola, ondeggiano su un’altalena (fermandola a tempo con i piedi per mantenerne l’oscillazione in sincronia con i 6/8 della musica!) Poi torna il baule-sarcofago dal quale emerge il gondoliere… Hoffmann secolare. La chiusura dell’atto (visto che nessuno ha ancora capito quale dovrebbe essere secondo Offenbach…) viene presentata con un’autentica sparatoria, dove non è chiaro chi muore e chi sopravvive. Poi nel finale, al ritorno in taverna, il baulone torna sarcofago, ad ospitare lo stesso Hoffmann cui Stella porta il mazzo di fiori che Lindorf aveva sequestrato ad Andrès nel Prologo.

La  morale della favola è da Livermore risolta facendo riconsegnare all’Hoffmann secolare le parti di copione che erano state affidate ai vari protagonisti e comparse; copione che viene quindi restituito all’Hoffmann sognatore, che lo getterà al vento al calar del sipario.

Ecco: uno spettacolo di buon livello professionale che si lascia godere, grazie al collaudato team di Livermore: Giò Forma, Gianluca Falaschi, Antonio Castro e Compagnia Controluce. Per tutti loro applausi convinti e meritati all’uscita finale.
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Vengo ora ai suoni, dove le cose sono andate così e… cosà. Parto dal basso, cioè dalla buca: Chaslin (che già non mi aveva entusiasmato con la Gioconda) non mi ha particolarmente impressionato (a fronte della sua auto-decantata conoscenza del soggetto). Parliamoci chiaro: nei Contes di strumentazione originale di Offenbach non c’è praticamente nulla, è tutta farina (o fuffa) del sacco di Guiraud-et-altri. Ergo sarebbe dovere, non solo diritto, del Kapellmeister di turno di metterci un po’ del suo, ammesso che ne abbia. Invece, Chaslin ci propina un’interpretazione piatta (o stucchevolmente bandistica, a tratti); di quelle che normalmente si definiscono da routinier (per noi prosaici: battisolfa). L’Orchestra suona come sa, ma non può inventare molto di sua iniziativa (altrimenti a che serve il concertatore?) Il Coro di Malazzi è sempre sui suoi standard, e anche ieri ha avuto gli applausi che si merita.

Grande Vittorio Grigolo, osannato a scena aperta e alla fine: una prestazione eccellente, tenuto conto della parte invero massacrante riservata al protagonista. Che invece lui ha portato a termine senza nemmeno apparente sforzo. Scenicamente poi, perfetto, ecco.

Nei quattro cattivoni, Luca Pisaroni non ha per nulla fatto rimpiangere il forfettario Abdrazakov: voce potente ma mai sguaiata e gran portamento scenico. Anche per lui meritati consensi.

Le quattro deuteragoniste femminili (mi) hanno tutte abbastanza bene impressionato, a partire da Eleonora Buratto che, avendo cantato nonostante un’indisposizione, è però riuscita a cavarsela alla grande, con solo piccoli… accorgimenti onde evitare sorprese dalla gola. La bambola di Spalanzani è Federica Guida, che ha potuto esprimersi al meglio dopo essersi liberata della… bachelite, e ha comunque superato bene gli impervi ostacoli dei sovracuti e picchiettati che abbondano nella sua parte. Francesca Di Sauro è stata una convincente Giulietta, anche se la voce di mezzosoprano non è proprio da soprano drammatico, come vorrebbe la tradizione. La migliore di tutte (selon moi) è stata Marina Viotti, una Musa-Nicklausse quasi perfetta, vocalmente e scenicamente.

Discorso a parte per Stella (l’accademica Greta Doveri): in questa edizione dell’opera lei non dovrebbe proprio cantare, ma qui le si è dato il contentino di aggiungere la sua voce al coro finale: e va bene così…

Tutti gli altri comprimari su livelli più che dignitosi. Doveroso però citare il quadriforme François Piolino, applaudito protagonista dell’aria (Jour et nuit) nell’atto di Antonia.
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Tirando le somme: una produzione con luci e ombre che il non oceanico pubblico ha accolto abbastanza benevolmente, ma senza eccessivi entusiasmi (Grigolo escluso). Insomma: forse la Scala qui poteva fare qualcosa di più e meglio.

16 gennaio, 2020

Shakespeare gallico di ritorno alla Scala


Quando a giugno 2011 andò in scena questa produzione, Roméo-et-Juliette di Charles Gounod mancava dalla Scala da ben 77 anni. Adesso l’intervallo si è ridotto al 10%, a tardiva riparazione dell’offesa...

La messinscena, come detto, è la stessa del 2011, di Bartlett Sher, prodotta in origine per Salisburgo e poi portata al MET e alla Scala. Anche uno dei due protagonisti è quello di allora, Vittorio Grigolo, questa volta affiancato nel suicidio di coppia da Diana Damrau. Avendo scritto qualcosa sull’opera e sull’allestimento (versione, posizionamento dell’intervallo, tagli e regìa) in quella sia pur lontana occasione, vi rimando gli interessati.

La novità principale di questa ripresa è costituita, senza ombra di dubbio, dall’esordio sul podio scaligero (quello della buca, chè quello sul palco già fu calcato...) del rampante Lorenzo Viotti. Devo dire che, a primo ascolto e a prima vista, il non ancora trentenne rossocrociato (figlio d'arte, del padre Marcello, scomparso prematuramente nel 2005) mi ha fatto un’ottima impressione: gesto sicuro, autorevole e mai gigionesco, attacchi precisi e manina sinistra à-la-Abbado (già copiata da Mariotti...) per concertare al meglio chi sta sul palco. Attenzione alle sfumature e ai dettagli della partitura. Insomma, perfetto? Beh, sarebbe troppo pretendere... diciamo che di margini di miglioramento ne ha di sicuro, ad esempio imparare a trattenere la foga in passaggi dove è facile cadere nel bandismo e nel fracasso gratuito. In ogni caso, un esordio più che positivo, salutato da convinti consensi di un pubblico insolitamente (!) folto.

Detto dell’eccellente prestazione del coro di Casoni e di quella per me perfettibile dell’orchestra (ottoni ma non solo) vengo alle voci. Il Grigòlo (o Grìgolo o Grigolò, fate voi, haha) mi aveva lasciato un po’ perplesso nel 2011, quando però aveva 34 anni... oggi sono ancora perplesso, ma lui ne ha ormai 43. Conclusione: diventerà mai davvero grande? Per carità, mica fa schifo, sia chiaro, però, insomma, la presenza scenica è come la bella presenza che si richiede al commesso viaggiatore... ma poi non sempre è una condizione sufficiente per raggiungere l’eccellenza dei risultati. Il controllo dell’emissione mi pare sempre approssimativo e qualche ingolatura residua non fa che tenere bassa, non molto oltre la sufficienza (oh, parere mio eh!) la media.

La Diana Damrau è una Giulietta appropriata come timbro di voce, davvero sottile come si addice ad una giovanissima, peccato che i centri siano poco udibili (un esempio: nelle agilità della sua arietta del primo atto si distingueva una sillaba su due, o addirittura tre). Quindi anche a lei dò una sicura sufficienza, ma non mi spingo oltre.

Un qualche contrattempo deve aver impedito al titolare Nicolas Testé di proporsi come Frate Lorenzo: il sostituto Dan Paul Dumitrescu (presumibilmente arrivato all’ultimo momento) ha fatto del suo meglio e va quindi lodato per aver salvato la situazione. Frédéric Caton è stato un onesto Capulet, partito bene ma poi un poco appannatosi: voce quasi baritonale, che non si adatta perfettamente al personaggio. Anche l’altro basso, Jean-Vincent Blot (Duca) non ha sfigurato. Mattia Olivieri ha ben meritato come Mercuzio, avendo cantato con efficacia e bella voce baritonale la sua lunga filastrocca della Regina Mab.

Ottima impressione mi ha fatto Marina Viotti (un caso quasi unico, essere diretta alla Scala dal fratellino!) che ha sfoggiato una bellissima voce di mezzo interpretando, en-travesti, il ruolo di Stéphano. Corretto il Tybalt di Ruzil Gatin, voce rossiniana, penetrante e bene impostata. Cito ancora la Gertrude di Sara Mingardo, gli altri come da contratto sindacale.

Insomma, uno spettacolo godibile e di onesto livello musicale, accolto da consensi praticamente unanimi.

29 maggio, 2015

Torna alla Scala la Lucia yankee


 

A poco più di un anno di distanza è tornata in Scala (e ci resterà per altre 5 recite, fino all’11 giugno) la donizettiana Lucia di provenienza MET. Sullo spettacolo quindi non avrei da cambiare idea, né da aggiungere altro a quel poco dichiarato a suo tempo.

Sul piano del cast, la continuità col passato è garantita dal solo Vittorio Grigolo, che anche ier sera è stato accolto come un marziano, anche se a me non è parso aver fatto molti passi avanti in questi 15 mesi: eccessive forzature dei suoni in alto e scarsa efficacia nei passaggi più intimistici.

Accolta da grande esultanza Diana Damrau, che effettivamente è stata una Lucia convincente, e non solo nella famosa scena della pazzia: qualche difficoltà nelle note gravi non ha offuscato una prestazione di alto livello, sia sotto il profilo della tecnica che sotto quello del portamento drammatico.

Gabriele Viviani è un Enrico dignitoso, ma non trascendentale. Meglio Alexander Tsymbalyuk, ben calatosi nella parte non facile di Raimondo. Gli altri due componenti del famoso sestetto di fine atto II (Juan Josè de León, Arturo, e Chiara Isotton, Alisa) hanno fatto onestamente la loro parte. Il Normanno Edoardo Milletti ha faticato assai a farsi udire, causa il combinato disposto Ranzani-Casoni 

A proposito dei quali dirò che il Coro ha offerto una prestazione degna della sua fama, travolgendo – nei passaggi d’insieme – anche le voci soliste. Ranzani ha diretto a memoria e, a mio modesto avviso, forse ha talora scambiato la partitura della Lucia per quella di… Attila (smile!)  

Pubblico una volta tanto abbastanza folto (sarà l’effetto-EXPO?) e unanime nel giudizio categoricamente positivo (proprio come si fosse al MET!) per questo spettacolo.
       

24 febbraio, 2014

Penultima Lucia alla Scala


Il calendario dei turni di abbonamento scaligeri ha fatto finire (nel mio caso) la Lucia dopo il Trovatore: così solo ieri pomeriggio ho potuto gustarmi (beh, insomma…) la penultima recita, in un teatro ancora una volta ben lontano dall’esaurimento.

 

La produzione arrivava direttamente dal MET, quindi assolutamente terra-terra, come si conviene ad un pubblico (quello yankee) che va ancora a teatro per divertirsi (ridendo e/o piangendo) guardando ed ascoltando ciò che gli autori dell’opera in programma hanno creato, e non per fare esercizi spirituali di decifrazione del geniale pensiero del regista di passaggio (smile!)

Così  Mary Zimmerman si è presa come unica libertà lo spostamento in avanti (di tre centuries, l’un per l’altro) dell’ambientazione. Se qualcuno si fosse domandato per quale precisa ragione, verso la fine del second’atto avrebbe avuto la risposta: doveva essere un’epoca in cui fosse già stata inventata la macchina fotografica! Sì, perché la scena finale dell’atto di mezzo (quella del famoso sestetto) è una festa nuziale (pur rovinata dall’intruso Edgardo) e nell’immaginazione della classica vecchietta del Nebraska (smile!) che va in pellegrinaggio al MET è giusto immortalarla con foto di gruppo (escluso ovviamente il disturbatore…)

Invece nel terzo atto la scenografia ricorda vagamente un saloon (con annesse camere al piano di sopra, dove si recano gli sposini e dove avverrà il fattaccio) o anche la ringhiera di un Holiday Inn ante-litteram. Per il resto scene e movimenti di masse e personaggi del tutto prevedibili. 

Sul fronte dei suoni, buone notizie (per me) da Albina Shagimuratova, una Lucia apprezzabile per sensibilità e portamento. Emozionante la sua scena della pazzia e convincente anche la prestazione strettamente vocale, impreziosita da una raffica di MIb acuti sparati come fossero noccioline. 

Vittorio Grigolo (trionfatore della serata) ormai sta conquistandosi saldamente il titolo di Kaufmann de no’ antri. Al bel Jonas non ha da invidiare né il look nè certe posture vocali piuttosto… posticce.  

Il cattivone Enrico era Massimo Cavalletti, autore di una prestazione tra lo sbiadito e l’incolore (smile!) Non molto meglio il Raimondo di Sergey Artamonov. Gli altri tre comprimari (Arturo Juan Francisco Gatell; Alisa Barbara Di Castri e Normanno Massimiliano Chiarolla) onestamente sufficienti, come il coro di Casoni.

 

Pier Giorgio Morandi ha diretto con mestiere e senza prendersi troppe… iniziative personali. Quando ci ha provato (il duetto Lucia-Raimondo) si è beccato un paio di sonori buh! (Effettivamente lì mi è parso avesse tenuto tempi da mortorio.)

In definitiva una domenica pomeriggio (quasi primaverile, da queste parti) da non disprezzare.
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Allego una monografia su Donizetti a firma William Ashbrook, comparsa su Musica&Dossier del marzo 1990.

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PS:  visto che oggi vanno di moda le staffette (dove però il testimone non viene passato ma scippato, stra-smile!) nel second’atto della Lucia abbiamo proprio la materializzazione della staffetta musicale Bellini-Donizetti-Verdi:


11 novembre, 2012

Un Rigoletto senza gobba!


Ieri sera alla Scala la terza rappresentazione (primo cast) di Rigoletto. Una produzione dal taglio zeffirelliano, piuttosto datata, a firma Gilbert Deflo, già riproposta anche un paio d'anni or sono e replicata ora per risparmiare sulla parcella di tale Luc Bondy (cui era andato l'incarico originario) e allo stesso tempo per risparmiare a noi poveri pirla un Konzept svizzero innovativo come quello dell'indimenticabile Tosca, peraltro già qui replicata in due stagioni (quando si dice il masochismo!)

Le novità di questo autunno piovigginoso, ma non freddo, sono il funambolico, ormai californiano (ciao Hugo!) Gustavo Dudamel e quel Kaufmann-de-noantri che risponde al nome di Vittorio Grigolo. Poi, accanto alla collaudata Elena Mosuc, un nuovo protagonista, George Gadnidze, che a giudicare da questo video si presentava, diciamo, ehm, con poca gobba e molta approssimazione (smile!)

Le figure dei tre protagonisti del cosiddetto dramma popolare meritano qualche considerazione preliminare.

Su quella del Duca gli esegeti sono divisi, tra quelli che non gli perdonano proprio nulla, e lo considerano un volgare libertino (com'era effettivamente il Francesco I di Francia di Hugo, e come erano, diciamolo pure, i Gonzaga di Mantova, sanLuigi escluso!) e coloro che invece (ah, il relativismo…) gli vogliono concedere una qualche attenuante, insomma una prerogativa di essere umano, prendendo a pretesto la vicenda presentata (da Piave) a cavallo fra primo e secondo atto.

Forse Verdi, che doveva essere uno disposto ai più ampi compromessi in materia (smile!) ha voluto tenere il piede in due scarpe, presentandoci un Duca che - dopo l'iniziale inequivocabile esternazione del Questa, o quella – si fa immelensire udendo Gilda dichiararsi innamorata di lui (che invece era abituato a prendersi tutte quelle che voleva, e meno innamorate erano, tanto meglio!) fino a straziarsi per il rapimento della giovane. Però, venendo a sapere che la stessa è proprio in casa sua, si fa subito richiamare dal Possente amor (una baldanzosa cabaletta!) per raggiungerla e… aggiungerla dongiovannescamente alla sua lista. Insomma, un tamarro qualsiasi che godette però della comprensione del compositore, che si fece scudo della censura austro-veneziana per risparmiarci la ripresa diretta della scena in cui il Duca è in camera a consolare la Gilda per l'affronto patito la notte precedente.

Però che il Duca sia tipo amabile e dall'innocente fascino conquistatore ce lo conferma tale Maddalena - volgare prostituta al servizio del fratello-magnaccia-sicario Sparafucile (però, che coppia!) - che se ne innamora quasi di amor filiale (in effetti non risulta chiarissimo dal libretto se i due si accoppino o meno…) fino a suggerire al fratello (integerrimo fino ad allora nel rispettare i contratti di 
business) di far secco, al posto del caro Duca del mio cuor (!) il primo che passa di lì (la povera Gilda, guarda caso!) pur di risparmiare il bel giovine che l'aveva ordinata come piatto del menu. La donna è mobile!

Ma che dire di Gilda? Una ragazza morigerata, per bene, che se ne sta castamente rinchiusa in casa da cui esce solo per andare alla messa? Ahi ahi. A parte che di messe galeotte è piena la cronaca, lei per amore dello sconosciuto che tutte le feste al tempio la tampinava, arriva a raccontar balle al preoccupatissimo genitore, nonché ad assicurarsi la complicità di tale Giovanna, che il padre aveva assunto in funzione di cerbera. Domanda: ma dopo che si è trovata in casa (se non direttamente in camera da letto) dell'innamorato - scoprendo che non era la topaia in cui diceva di vivere il suo bel Gualtier Maldè, studente squattrinato, ma il fastoso Palazzo Ducale di Mantova - che fa la nostra santarellina? Si allea subito col padre vendicatore, per far secco un tipo che le ha estorto in un sol colpo la fiducia e la verginità? Ma no, lei, pur di fronte a prove schiaccianti e flagranti della natura puttanesca del Duca, decide di sacrificare la sua propria vita per salvare quella del suo amato libertino! Beh, bisogna riconoscere che quella mattinata (!) trascorsa in camera col Duca doveva averle fatto proprio un grand'effetto…

Insomma, se il femminismo non ci fosse, qui bisognerebbe inventarlo (neanche Wagner arrivò mai a pensare a due redentrici per un sol uomo peccatore!)

Ovviamente, ciò che trasforma una improbabile tragicommedia in un capolavoro di dramma è… la musica del contadino di Roncole, che 160 anni dopo la prima apparizione ancora non ne vuol sapere di annoiare chi l'ascolta, persino a dispetto di esecuzioni, diciamo… da sottoScala, come quella ascoltata ieri.

Al protagonista Gagnidze, oltre che la gobba, manca proprio la capacità di calarsi nel ruolo, per cui quello che ascoltiamo è un Rigoletto da osteria, tutto uno schiamazzare e vociferare.  Persino l'espressione del viso (chissà se è proprio quella naturale del... cantante) è perennemente impostata sul ghigno truculento e incazzoso. La vendetta poi (complice forse Dudamel che l'attacca almeno a 183 invece che a 138 di metronomo, smile!) sembra una parata di bersaglieri. 

Vittorio Grigolo ha di sicuro l'appeal del Duca (intendo quello che serve in camera da letto…) Quanto alla voce… sarà meglio soprassedere! 

È invece da sottolineare la buona prova di Elena Mosuc, che restituisce musicalmente (soprattutto) oltre che attorialmente una pregevole Gilda. 

Alexander Tsymbalyuk, che in queste stesse settimane impersona lo sbifido Fafner, qui non ci fa propriamente la figura del drago: uno Sparafucile, il suo, piuttosto incolore ed anemico, ad esser buoni. Appena passabile anche la Maddalena di Ketevan Kemoklidze, che si è difesa come ha potuto nel finale quartetto, dove si sentivano la Mosuc e… sussurri sparsi.

Tutti gli altri onestamente all'altezza, anche se Monterone forse meriterebbe di più del prezzemolo Panariello; onesta anche la prestazione del coro di Casoni, non sempre pulitissimo (ma quanto c'entra il Gustavo?)

A proposito, si scopre che Dudamel non è ancora Toscanini (e neanche Gavazzeni, se è per quello): ma se lui dirige un'opera italiana ogni 200 sinfonie tedesche, che si può pretendere? 

Insomma, come antipasto per l'incombente anno verdiano, qualcosina di più Lissner poteva anche cucinarci; però pensando allo scampato pericolo svizzero, tutto sommato ci dobbiamo quasi consolare!

24 giugno, 2011

Alla scala Capuleti e Montecchi secondo Gounod



Ieri sera ultima rappresentazione alla Scala del capolavoro di Charles Gounod, che vi mancava da pochissimo tempo (in fin dei conti, cosa volete che siano 77 anni, in confronto all'eternità?)

Come è capitato in altri casi, anche Roméo et Juliette ha subìto vicissitudini più o meno tormentate, a fronte delle quali esistono diverse versioni dell'opera, oltre ai soliti tagli storicamente praticati con l'approvazione, o la tolleranza, dell'Autore. Cosa che dà modo a registi e direttori di inventarsi ogni volta una nuova presentazione. In questo caso è stata presa come base la versione del 1888 (che Gounod approntò per l'esordio all'Opéra) alla quale sono stati apportati alcuni tagli, sia tradizionali (balletti) che non; in compenso riaprendone altri. Insomma, non siamo proprio in una situazione caotica tipo Boris, ma poco ci manca.

Un primo taglio è nel finale I, la proposta di Tybalt di inseguire i rivali, l'altolà di Capulet e il coro che inneggia alla festa: francamente è un taglio quasi usuale e non ci priva né di grande musica, né di pathos drammatico. Poi è accorciato il duetto del finale II (dove Juliette vorrebbe Roméo legato con un filo di seta, come un uccellino che un bambino riporta a sé quando si allontana troppo). Effettivamente questo scorcio si porta dietro anche ripetizioni (eccessive?) di cose già dette e ripetute, ma il taglio pare effettivamente ingiustificato e oltretutto mai accettato di buon grado dall'Autore. Poi ancora nel quartetto dell'atto IV sono tagliate 16 battute (4 versi) cantate da Capulet (L'autel est préparé): taglio davvero cervellotico, non fosse che per la dimensione esigua (di tagli del genere se ne potrebbero fare allora decine e decine). Sempre nell'atto IV è tagliata gran parte della cerimonia nuziale: nulla da dire per quanto riguarda i balletti (sappiamo fossero un immancabile quanto insensato debito alle regole del GrandOpéra) però i tagli del corteo nuziale e dell'Epithalame paiono meno giustificati (anche se non nuovi, ovviamente). Infine nell'atto V sono tagliati l'Entr'acte e la scena fra Laurent e Jean: probabilmente il secondo taglio (più che ammissibile, chè il breve scambio di parole fra i due frati ci dovrebbe solo rendere edotti del fatto che Roméo non conosce lo stratagemma della finta morte di Juliette, cosa che però ci verrà da lui stesso chiarita in seguito) ha imposto anche quello dell'Entr'acte, per evitare la concatenazione con un secondo preludio, qual è in effetti il successivo Sommeil de Juliette, con cui quindi si apre l'atto in questa produzione. Invece è stato – giustamente, perché grande musica – eseguito Amour, ranime mon courage dell'atto IV, che Gounod fece tagliare addirittura alla prima del 1867 e per molti e molti anni non fu eseguito.
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Dalle circa tre ore (nette) di musica dell'originale siamo quindi passati a poco più di 2 ore e mezza e ciò ha consigliato di proporre i cinque atti in due soli spezzoni, con un unico intervallo. Posto in corrispondenza della cesura fra i due quadri del terzo atto, cioè dopo il matrimonio segreto e prima della rissa fra le due tifoserie. Scelta tutto sommato condivisibile, dato che in pratica crea uno spartiacque fra il versante ascendente del dramma (l'amore che nasce, si consolida e si concretizza in uno scenario di un promettente futuro) e quello discendente (gli omicidi, la condanna di Roméo, il patetico-pazzesco stratagemma di Laurent e il precipitare verso la tragica-nobile fine dei due amanti).
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La regìa di Bartlett Sher è piuttosto tradizionalista nell'ambientazione (del resto di versioni del dramma portate ai giorni nostri ce n'è anche di autentiche e originali, con tanto di parole e musica appositamente composte, vedi West Side Story… per giustificare allestimenti in chiave contemporanea) ma abbastanza gradevole nel complesso, pur con qualche trovata fra il velleitario e il gratuito: come la scena di stupro durante il prologo, oppure i petardi che scoppiano addosso a Juliette al suo ingresso o alcuni gesti immotivatamente bruschi (Tybalt con Juliette e Gertrude con Tybalt). Poi nel duello Roméo-Tybalt casca dall'alto un enorme lenzuolo bianco, che scopriremo solo più tardi servire da maxi-copriletto per il maxi-letto di Juliette e poi ancora come strascico dell'abito nuziale della protagonista. A proposito del duello, anziché con la spada, Roméo ferisce Tybalt in modo poco sportivo, per così dire: lo aggredisce alle spalle mentre è disarmato e lo accoltella con un pugnale. E questo pugnale sarà poi quello che Juliette impiegherà nel finale, dove peraltro arriverà in modo assai contorto: non già nascosto da Juliette sotto la veste prima di svenire e quindi ritrovato al cessare dell'effetto della droga di Laurent (come ci informa il libretto originale) ma abbandonato sul terreno al momento della finta morte e miracolosamente ricomparso sul catafalco, accanto al corpo di Juliette al suo risveglio. Ma insomma, un regista che segua pedissequamente le didascalie originali oggi ci farebbe la figura del pirla, quindi qualche invenzione bisogna pur proporla al pubblico che esige novità.
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Gounod con quest'opera realizza una specie di sincretismo fra diversi generi e tendenze musicali. Non pretende di rivoluzionare nulla: siamo sempre ai numeri (più o meno) chiusi, collegati da recitativi accompagnati, ma vi fa capolino anche Wagner, quello giovane, che si sente distintamente e immediatamente all'attacco dell'Ouverture (quasi copiato da quello dell'Holländer, con la base di RE minore - quinte vuote - sostenuta dagli archi) e poi in alcune transizioni che ricordano Lohengrin. Ma anche in uno sfumato tristanismo che emerge qua e là. Nulla di wagneriano invece nella trattazione dei Leit-motive, dove Gounod si limita a pochi – anche se mirabili – richiami tematici in alcuni momenti topici del dramma. In un passo di Frère Laurent pare anche di sentire Sarastro nel finale del Flauto. Singolare – e difficilmente casuale – la citazione quasi alla lettera del tema del Concerto per violoncello di Schumann che udiamo nell'atto IV, all'attacco del N° 17 (scena e aria di Juliette Dieu! Quel frisson court dans mes veines?):
Quanto al contenuto del dramma, sappiamo che Gounod - per quanto colpito da giovane dal finale della Sinfonia Drammatica di Berlioz - allorquando dopo quasi 30 anni si mise a comporre la sua opera pensò bene di divergere da Berlioz-Shakespeare e di avvicinarsi caso mai a Wagner, puntando tutto sui sentimenti e sul privato.
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Sul fronte dei suoi imitatori (per così dire, o ammiratori) troviamo ad esempio il Ciajkovski dell'Onegin (ma non solo). A proposito del compositore russo, era così innamorato dei lirici francesi che li citò più volte anche nella sua produzione strumentale: oltre al Bizet (Carmen) che compare scopertamente nel Concerto per violino e nel primo movimento della Patetica, anche tratti del Romèo si odono nel finale del Concerto per pianoforte e nella stessa Patetica. Ma lo stesso Mahler non ha scherzato nel ricordarsi di alcuni struggenti passaggi dell'opera (ad esempio nel finale della sua prima sinfonia).
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Yannick Nézet-Séguin - di fatto un francese, pur se nordamericano - ha mostrato di calarsi assai bene nello spirito e nelle atmosfere gounodiane: fracassi limitati al minimo indispensabile, per le scene di massa – festose o cruente – fra le fazioni guelfo-ghibelline della Verona rinascimentale; e invece delicatezza di suono e lirismo (appunto) hanno caratterizzato la sua direzione - di un'orchestra abbastanza diligente - assai curata anche nel sostegno dei cantanti.
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I quali han fatto ciò che potevano e sapevano: cioè cose non strepitose, diciamolo francamente. La voce di Pavarotti uno non può inventarsela (vale per Grigolo, che però ha un bel fisico, non c'è che dire, cosa che oggigiorno pare contare più della voce) e però si potrebbe perfezionare ancora, onde superare il livello di semplice sufficienza (questo consiglio è indirizzato anche a quella bella gnocca di nome Nino). È toccato ai comprimari Vinogradov (un Laurent con gran voce e buon portamento) e Braun (apprezzabile la sua Reine Mab) alzare un filino la media, mentre Ferrari (un mediocre Capulet) Burggraaf (poco efficace come Stéphano) e Gatell (un Tybalt piuttosto spento) non hanno propriamente incantato. Gli altri (vedi locandina) hanno fatto il loro dovere. Sempre bene anche il coro di Casoni.
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Successo caloroso per tutti, e adesso, chiusa questa apparizione al Piermarini, a Roméo et Juliette non resta che dire: arrivederci al 2088!
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