XIV

da prevosto a leone
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18 dicembre, 2017

Faust (con chiassata) a Roma


La terza recita della Damnation all’Opera di Roma è stata ieri teatro di una clamorosa contestazione, durante e alla fine del Quadro I. Di questo colorito episodio sono in grado di riferire qualche dettaglio sfuggito al pubblico, dato che casualmente mi trovavo proprio nello stesso palco di platea dove sedeva, ad un posto di parapetto, davanti a me, la solitaria contestatrice.

Trattasi di signora diversamente giovane, francese (di Marsiglia), melomane incallita e abituale frequentatrice del Costanzi, che prima dell’inizio aveva intrattenuto i compagni di palco sciorinando una dongiovannesca lista di frequentazioni di teatri europei (ultimo, Valencia per un DonCarlo col Topone). Spazientita già alla vista del povero Faust michielettiano, affetto da mille complessi, aveva cominciato a dimenarsi emettendo sordi mugugni; ma poi, di fronte alla scena dello smutandamento del protagonista da parte dei tre bulli compagni di classe, ha cominciato ad inveire con termini irripetibili (pur se in lingua gallica, ma erano dei vaffa... e peggio). Devo dire di essere personalmente e rispettosamente intervenuto, a gesti e parole, suggerendole di rimandare le contestazioni a più tardi, evitando di disturbare la recita in corso. Cosa che lei ha fatto, a dir il vero.

Peccato che due minuti dopo, chiusa la Rácóczy, Gatti abbia abbassato la bacchetta per permettere al pubblico di applaudire (meritatamente) l’orchestra (in effetti la marcia è un pezzo di grande effetto e fa quasi da ritardata ouverture all’opera). Apriti cielo! La nostra non vedeva l’ora di poter riprendere la sua rumorosa e lunga lista di improperi, suscitando qualche sporadico fischio di altri contestatori, subito subissato dagli applausi dei più. Qualcuno dalla platea le ha gridato di andarsene, cosa che lei ha fatto davvero, all’inizio del Quadro III... per rientrare poi nel palco solo alla fine della recita (?!)
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Ora, io non voglio certo giustificare le sue intemperanze, davvero maleducate, ma per una come lei che evidentemente conosce il testo di Berlioz a memoria, il biglietto da visita del regista dev’essere stato proprio insopportabile. Ciò mi dà modo di affrontare subito il tema regìa, sul quale mi ero già laconicamente espresso dopo visione televisiva, parlando sostanzialmente di eccesso nel voler strafare da parte di Michieletto.

Il peccato originale della sua impostazione, secondo me, non sta certo nell’aver contestualizzato il soggetto ai giorni nostri, ma di aver palesemente cambiato i connotati al Faust ante-Mephisto (per così dire). In effetti, tutto ciò che il regista ci mostra dopo l’entrata in campo del diavolaccio è perfettamente compatibile con il soggetto di Berlioz(Goethe) che si allontana manifestamente dalla realtà sensibile per inoltrarsi su un territorio di pura speculazione e di metafisica. Dove Faust è tornato giovane e come tale torna anche a provare sentimenti e desideri (e anche a commettere errori) tipici di un giovane, uscendo dallo stato di totale indifferenza per la vita (e di tentazione al suicidio) cui l’aveva portato – attenzione però – l’eccesso di attaccamento morboso alla cultura e non un passato di disgrazie familiari (il padre alcolizzato, la madre morta prematuramente) e di umiliazioni da bullismo patite a scuola, come si inventa il regista di sana pianta!

Per un attimo mi era venuto di pensare che l’idea di Michieletto - mostrarci anche all’inizio dell’opera un Faust adolescente e non maturo - fosse derivata dalla lettura delle Memorie che Berlioz stesso ci ha lasciato, pubblicate in due volumi, e in particolare da quanto si legge nel Capitolo 40, titolato Variété de spleen. L’isolement. Lì troviamo sorprendenti riferimenti ai primi due e al quarto Quadro della Damnation, ma addirittura la prefigurazione dei desideri di Faust! Dunque, Berlioz racconta di quando, ancora studente sedicenne a Côte-Saint-André (suo paese natale, al centro della pianura fra Lione e Grenoble) si trovò un mattino a leggere, sdraiato sull’erba all’ombra di una quercia, un romanzo (di un francese) ambientato a Posillipo. In quel momento arrivarono alle sue orecchie canti di una processione propiziatoria del raccolto, con versi quali Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Magdalena, ora pro nobis (che ritroviamo pari-pari nella cavalcata verso l’abisso del Quadro IV dell’opera). Ma soprattutto la vista delle Alpi maestose all’orizzonte gli provocò un irrefrenabile desiderio di andare di là, verso l’Italia, verso Napoli e Posillipo, dove la sua immaginazione, eccitata dalla lettura del romanzo, gli faceva balenare alla mente passioni, felicità, segreti, amori, la gran vita! (pare proprio Faust...) E invece lui si ritrovava lì, a rotolarsi a terra, stringendo ciuffi d’erba e... margheritine (!)

Ecco il senso di isolamento, che lo colse allora e che sarebbe tornato a coglierlo più volte in futuro. Qui Berlioz fa sfoggio anche di ardite nozioni chimiche, paragonando i moti del suo animo e del suo corpo ad un processo termodinamico: una ciotola d’acqua ed una di acido solforico messe sotto una campana di vetro da cui viene aspirata l’aria, creandovi il vuoto; l’acqua va in ebollizione e viene assorbita dall’acido; quella poca che resta, per reazione esotermica, diventa un blocco di ghiaccio. Una simile reazione viene provocata, dal senso di isolamento, nel corpo del compositore: nel suo petto si crea un vuoto che fa evaporare il cuore; il resto del corpo si surriscalda, mentre la vita sembra sfuggire verso i quattro punti cardinali. Tuttavia non c’è desiderio di morte, nè di suicidio, al contrario cresce un desiderio di vita e di felicità, da soddisfare con immensi, furiosi e divoranti godimenti. Solo dopo arriva lo spleen, che è il blocco di ghiaccio che rimane al termine della reazione chimica; l’effetto è di creare nel soggetto che lo subisce la più grande indifferenza verso l’intero universo (Quadri I e II...)

Ora, dal passo citato emerge chiaramente la personalità di un ragazzo dotato di una straordinaria carica positiva, che gli deriva da attività intellettuali (la lettura di libri, caratteristica del Faust di Goethe come di quello di Berlioz) e non la personalità nichilista di una povera vittima di eventi nefasti. Per Berlioz, e quindi per il suo Faust, lo spleen, che porta all’indifferenza per ogni cosa e all’idea del suicidio (poi scongiurato da un richiamo religioso) arriva dopo una fase di grandi slanci vitali e non a fronte di una serie interminabile di disgrazie e vessazioni come quelle che colpiscono il povero Faust di Michieletto.
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Le Mémoirs contengono poi (secondo volume) la Terza lettera a Humbert Ferrand, dove troviamo un riferimento dettagliatissimo alla Marcia ungherese che Berlioz impiega per chiudere il Quadro I. Essa viene composta in un battibaleno a Vienna, alla vigilia della tappa ungherese del viaggio del compositore nell’Impero austro-ungarico. Nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto, e non gli par vero di infilarci, come brano di chiusura (sempre in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese!)

Ebbene, smentendo tutte le preoccupazioni e i timori (per le accuse di lesa-maestà) della vigilia, la marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va in delirio, la interrompe con manifestazioni di giubilo, la si deve ri-eseguire e alla fine Berlioz è letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, viene infilata da Berlioz nel Quadro I, appositamente ri-ambientato in Ungheria!

Michieletto? Ce la propina come colonna sonora dello smutandamento del suo povero Faust da parte dei tre bulli suoi compagni di classe! Beh, diciamolo francamente: come non comprendere – pur senza giustificarle – le escandescenze della babbiona marsigliese...
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I quadri (il cui titolo appare sul grande schermo) che Michieletto sovrappone alle scene di Berlioz sono tutto sommato rispettosi (esclusa, come ripeto, la rievocazione del passato di Faust) del soggetto originale, pure interpretato in modo... originale!

Ad esempio la premonizione (Faust preparato ad un’operazione al cervello – cui non sopravviverà - su un lettino di ospedale durante la ninnananna di Méphistophélès e il coro di gnomi e silfidi) che vediamo nel Quadro II è una efficace trovata per chiarirci che Faust è ormai vittima del suo diavolo interiore, che alla fine lo perderà.     

Non mancano anche immagini poetiche, come quella dei due bambinetti che impersonano Faust e Marguerite nel Quadro III, in bilico sull’asse di equilibrio nel tentativo di congiungersi, e che vengono sul più bello scaraventati a terra dall’irruzione del bieco Méphistophélès; e poi, poco dopo, la mela che lo stesso Méphistophélès (= serpente di un Eden di cartapesta destinato a crollare miseramente) fa calare ad interporsi fra le bocche dei due amanti, vicinissimi a scambiarsi un estatico bacio.

Ma a proposito di baci, ecco invece uno dei non pochi momenti di caduta-di-stile del regista: il bacio vero, e proprio sulla bocca, che si scambiano Faust e Méphistophélès, puerile quanto becera, e credo controproducente, propaganda pro-matrimoni-gay. E poi la scena di un mezzo stupro consumato dallo sbifido diavolo sulla povera Marguerite (?!) o i nudi (peraltro ipocritamente castigati nel... bottom) infilati un po’ a caso.

Strampalate (anche se evidentemente sono conseguenza del suo... peccato originale) mi sembrano altre trovate del regista: la figura del padre alcolizzato di Faust, che compare in scena infilandosi nello stesso letto del figlio (talis pater...) e che poi scopriamo essere l’indossatore della pelle di topone (no, non Placido, haha!) che serve a supportare la filastrocca di Brander (peraltro efficacemente presentata, tipo-sanremo).

E poi il mistero della chiave, che compare fin dal secondo Quadro sulla bara della madre di Faust, poi è portata da Marguerite sull’asse di equilibrio dove salgono i piccoli alter-ego; quindi ancora protagonista – in centinaia di esemplari – quando il diavolo ne butta un’intera scatola ai piedi della povera ragazza, che invano cerca quella giusta per aprire la porta che la condurrebbe da Faust, per salvarlo. Chiave giusta che poi lei trova, ma in ritardo, e che poserà sulla bara di Faust alla fine. Ora, rileggendo parola per parola il testo di Berlioz, l’unico appiglio per una possibile spiegazione di questa criptica trovata è la frase che Méphistophélès pronuncia per indurre Faust a firmare il patto con lui (ultimo Quadro) in risposta al ragazzo che lo implora di salvare Marguerite: È ancora in mio potere aprirti questa porta! Ma sarà così? E quanti hanno una spiegazione più convincente?
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Il coro, anzi i cori: nella Damnation troviamo contadini, soldati, studenti, folletti, diavoli e angioletti. La loro gestione in scena sarebbe assai complicata (anche se ad un regista come Michieletto non dovrebbero mancare spunti per trovate sorprendenti...) e forse questa è la ragione per cui il regista ha deciso di presentare il coro in-forma-di-concerto (!)

Ecco, vengo alla musica. Gatti su tutti, mi sentirei di dire, per come ha saputo tirar fuori le bellezze e pure le... stranezze del sempre ostico Berlioz. L’orchestra mi pare abbia risposto bene: apprezzabili soprattutto i passi più delicati, in pianissimo, che sottolineano le scene oniriche dell’opera.

Quanto alle voci, rispetto all’ascolto radio-tv le cose sono andate un filino meno bene (ma è normale che il microfono-in-bocca di cui vengono dotati i cantanti per le riprese falsi irrimediabilmente la resa). Mantengo un giudizio largamente positivo solo su Alex Esposito, retrocedendo a sufficiente+ la Veronica Simeoni (con il limitato, nei tempi di canto, s’intende, Goran Jurić) e a sufficiente- Pavel Černoch.

Per tutti, comunque (team registico escluso, poichè non-pervenuto sul palco alla fine) grandi applausi e ovazioni, in un Costanzi piacevolmente affollato. Quindi, una trasferta (per quanto mi riguarda) tutto sommato proficua.

13 dicembre, 2017

Il Faust in versione Michieletto


Tempo addietro si usava l’espressione andare in super-allenamento per descrivere ciò che accadeva ad atleti che, esagerando con i ritmi di preparazione fisica, finivano per compromettere poi le loro prestazioni, anzichè migliorarle.
   
Ecco, dopo aver visto (in TV, per ora) il risultato, mi sentirei di usare questa espressione per descrivere ciò che dev’esser successo a Damiano Michieletto nella preparazione di questa gara messinscena della berlioziana Damnation che ieri ha aperto la stagione all’Opera di Roma.

Se si volesse censire, catalogare, descrivere, commentare e criticare tutta la montagna di idee, di trovate, di intuizioni e di stranezze di cui il regista ha infarcito il suo spettacolo si riempirebbe una Treccani! Sì, perchè, se è vero come è vero che Berlioz si prese, rispetto a Goethe, mille libertà, allora Michieletto, rispetto a Berlioz, se ne è prese un milione. Ottenendo il risultato di dar piena ragione a chi (Berlioz per primo) ha sempre ritenuto e ritiene che la Damnation sia opera per l’orecchio e non per l’occhio.

E devo dire che (pur con le cautele da usare a fronte di un ascolto non dal vivo) Daniele Gatti – insieme al cast, ovviamente - l‘orecchio (per lo meno il mio) lo ha pienamente gratificato.

10 dicembre, 2017

Faust in versione Berlioz apre le danze a Roma


Lasciato spazio (noblesse oblige) al SantAmbrogio meneghino, anche il centro-sud sta aprendo la stagione 17-18. Ieri sera il SanCarlo ha ospitato la pucciniana Fanciulla (non disprezzabile, almeno all’ascolto radiofonico) mentre l’Opera di Roma si appresta ad inaugurare il suo cartellone con una proposta non meno intrigante dello Chénier milanese: La damnation de Faust, affidata alla coppia Gatti-Michieletto, o Michieletto-Gatti, per chi dà più importanza a ciò che il regista si inventerà, rispetto a ciò che il musicista ha composto 170 anni orsono e quindi è già noto a (o notabile da) tutti. Allestimento che si trasferirà poi a Valencia (2018, con Roberto Abbado sul podio) e più in là al Regio di Torino, teatri co-produttori.

La natura stessa dell’opera (légende dramatique, la sottotitolò l’Autore) ha fatto sì che tradizionalmente – a partire proprio dalla prima, all’Opéra-Comique, domenica 6 dicembre, 1846 – essa sia stata proposta in forma di concerto, e solo sporadicamente in versione scenica. Lo stesso Berlioz (piuttosto narcisisticamente, o forse per sfiducia nei registi, chissà...) riconobbe che “la musica ha ali talmente ampie che i muri di un teatro non le permettono di espandersi completamente”. Da qui la curiosità particolare che si riversa sul regista, atteso al varco su opposte sponde, da fan e detrattori. Già ovviamente si conosce l’approccio di fondo di questo allestimento, ma come al solito sarà meglio fare i santomaso...

Intanto val la pena notare (per stigmatizzarlo) il taglio che il Teatro ha dato alla presentazione-video dello spettacolo. Parlano i due responsabili, prima Gatti e poi Michieletto. Chiunque si aspetterebbe che il Direttore dica qualcosa sulla musica di Berlioz, sulla sua grandezza e magari anche su qualche sua magagna... Invece Gatti che fa? Un maldestro pistolotto psico-socio-politico sui problemi dell’uomo moderno, schiavo del cosiddetto progresso e delle tecnologie, che gli precludono la possibilità di provare empatia (parole sue) per il resto dell’umanità. Insomma, un discorso da Regisseur, che spiega il suo Konzept di ciò che verrà messo in scena. Musica? Nemmeno una parola, una virgola, che dico, un accenno anche remoto (???!!!) Poi arriva il vero regista e spiega con grande efficacia ciò che ha ideato per lo spettacolo, che effettivamente si preannuncia coinvolgente ed accattivante.   
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L’opera nacque negli anni-40 dell’800 come completamento e riadattamento della primissima fatica del giovine Berlioz: Huit scènes de Faust (qui l’unica incisione conosciuta) che risale al 1828. La lista sottostante riporta le relazioni fra quel primo abbozzo (titoli fra parentesi) e la stesura definitiva della Damnation:

Prémière Partie

Scène I Plaines de Hongrie
Scène II Ronde de paysans (2. Paysans sous les Tilleuls)
Scène III Une autre partie de la plaine – Marche hongroise

Deuxième Partie
Scène IV Nord de l’Allemagne  
   Chant de la Fête de Pâques (1. Chants de la Fête de Pâques)
Scène V Méphistophélès et Faust
Scène VI La cave d’Auerbach à Leipzig
   Choeur de buveurs
   Chanson de Brander (4. Ecot de joyeux compagnons, histoire d'un rat)
   Chanson de Méphistophélès (5. Chanson de Méphistophélès, histoire d'une puce)
Scène VII Bosquets et prairies du bord de l’Elbe – Air de Méphistophélès
   Choeur de Gnomes et de Sylphes, songe de Faust (3. Concert de Sylphes)
   Ballet des Sylphes
Scène VIII Final
   Choeur de soldats (7b. Choeur de soldats, Joyeuse insouciance)
   Chanson d’étudiants 

Troisième Partie
Scène IX Tambours et trompettes sonnant la retraite (7b. Choeur de soldats)
   Air de Faust
Scène X Méphistophélès et Faust
Scène XI Marguerite
   Le roi de Thulé, chanson gothique (6. Le Roi de Thulé, chanson gothique)
Scène XII Une rue devant la maison de Marguerite
   Evocation
   Menuet des Follets
   Serenade de Méphistophélès (8. Sérénade de Méphistophélès, effronterie)
Scène XIII Chambre de Marguerite
Scène XIV Trio et Choeur

Quatrième Partie
Scène XV  Romance de Marguerite (7. Romance de Marguerite - 7b. Choeur de soldats)
Scène XVI Forêts et cavernes - Invocation à la Nature
Scène XVII Récitatif et chasse
Scène XVIII Plaines, montaagnes et vallées - La course à l'abîme
Scène XIX Pandemonium
   Epilogue sur la terre
   Dans le Ciel
   Apothéose de Marguerite
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Balza subito all’occhio come nella composizione giovanile manchi totalmente la presenza di Faust, che invece nella Damnation entra in scena già all’ottava battuta. Inoltre le Huit Scènes appaiono come una serie di squarci scarsamente connessi fra loro, anche se la sequenza è sostanzialmente rispettosa di quella del testo del Faust-I al quale Berlioz (come più tardi Gounod) si ispirò; sequenza che invece la Damnation non rispetta completamente, come si deduce dallo stesso elenco sopra riportato.

Va anche aggiunto che Berlioz rimaneggiò più o meno ampiamente le parti riprese dalla composizione giovanile: un esempio eclatante è l‘ultima delle Huit Scènes, la Serenata di Mefistofele, che vi è accompagnata dalla sola chitarra, del tutto assente nella Scena XII della Damnation, dove la voce è supportata dalla piena orchestra. Altro esempio è il Canto della festa di Pasqua, che nelle Huit Scènes prevede due cori (Angeli e Discepoli) mentre nella Damnation al coro dei Cristiani si aggiunge la voce di Faust, che poi chiude la scena con un recitativo.

Quanto alle voci, Faust è un tenore lirico, Marguerite un mezzosoprano (Berlioz peraltro la indicò come soprano) e Méphistophélès un basso o baritono, laddove nelle Huit Scènes aveva una tessitura decisamente più alta, da baritenore, se non proprio da tenore lirico.

Quanto alla fedeltà al testo di Goethe (tradotto da Gérard de Nerval) Berlioz se ne occupò relativamente, o proprio per nulla; e di proposito, come lui stesso spiegò, sostenendo come assurdo il solo pensare di mettere in musica l’intero dramma di Goethe; per cui tanto valeva prenderlo solo come base di riferimento e ispirazione. Ecco quindi che il finale di Berlioz vede Faust irrimediabilmente perduto (da cui il titolo dell’opera); e l’apertura viene disinvoltamente quanto arbitrariamente trasportata in Ungheria, solo ed esclusivamente (lo ammette candidamente lo stesso compositore nella prefazione alla partitura) per avere il pretesto di infilarci un trascinante pezzo di bravura orchestrale, la celebre Marcia di Rácóczy...
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In attesa dello spettacolo romano, come termine di paragone (a futura memoria) si può proporre questa produzione belga de La Monnaie (2002) con Kaufmann e Pappano.

Martedi 12 la prima, ripresa in diretta (19:00) da Radio3 e in differita (21:15) da RAI5.