XIV

da prevosto a leone
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02 dicembre, 2023

L’Orchestra Sinfonica Giovanile di Milano con Treviño

Nella giornata libera fra le due repliche del concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Robert Treviño ha trovato il tempo di tornare sul podio dell’Auditorium per dirigere l’Orchestra dei cadetti (under-25, ma con un doveroso 20% di seniores dell’Orchestra principale capeggiati dalla spalla Santaniello…) in un programma di tutto rispetto: Messiaen e Ciajkovski.

Di Olivier Messiaen abbiamo ascoltato un brano del 1930, ispirato al sacrificio (dimenticato dagli uomini) di Gesù Cristo. L’Autore ha premesso in partitura alcuni versi esplicativi:

Messiaen resta saldamente ancorato alla tonalità, caso mai (da fervente cattolico, oltretutto…) retrocede verso il gregoriano, come testimonia la notazione esplicativa – per i soli archi - delle lunghezze dei componenti delle melodie (si tratta di neumi, di medievale ascendenza, appunto) che Messiaen impiega in alcune pagine della partitura, non accontentandosi evidentemente – in assenza di testo sillabato - dei segni di legato sui righi:

Talvolta questa appare quasi una gratuita mania del 22enne compositore, come in questo esempio:

Dove i 5/8 sono notati 2+3 nei fiati e 3+2 negli archi, ai quali però sono affibbiati i neumi 2+3 (?!?)

Il brano (ascoltiamolo qui diretto da Paavo Järvi) è suddiviso (pur senza cesure formali, né numerazioni o sottotitoli, che Messiaen ha indicato in separate esegesi) in tre sezioni, corrispondenti alle tre componenti del programma esplicitato a fronte della partitura e mai sconfessato (al contrario di ciò che ripetutamente accadde, per dire, a Mahler): se osserviamo gli accidenti in chiave, abbiamo MI minore per le prime due sezioni e MI maggiore per l’ultima.

Très lent. Doloureux, profondément triste (34”)

Braccia tese, tristi fino alla morte,
sull'albero della Croce hai versato il tuo sangue.
Tu ci ami, dolce Gesù, lo avevamo dimenticato.

La Croix, lamento degli archi, i cui dolorosi neumi dividono la melodia in gruppi di durata variabile, rotta da lunghi squarci di color malva e dal grigio dei lamenti.

Sono in tutto 13 battute, incluse 2 di transizione alla sezione successiva. Le 11 battute hanno tempi continuamente cangianti, e precisamente (espressi in ottavi): 10-11-9-7-9-10-8-7-11-7-9 e riportano tutte i rispettivi neumi. Ciò rende proprio l’idea delle atroci sofferenze di Cristo sulla Croce. Le restanti 2 battute di transizione sono in 4/4 e 3/4. Protagonisti sono gli archi (contrabbassi esclusi) con il supporto assai discreto di legni, due corni e una tromba.

Vif, féroce, désespéré, haletant) (3’07”) 

Spinti dalla follia e dal pungiglione del serpente,
in una corsa affannosa, frenetica, senza sosta,
siamo scesi nel peccato come in un sepolcro.

Le Péché, una sorta di “corsa verso l’abisso” ad una velocità quasi da mezzo meccanico. Vi si noteranno le forti accentazioni finali, il sibilo degli armonici in glissando, i penetranti richiami delle trombe.

 

È la sezione più corposa del brano, 97 battute, ma il tempo agitato determina una durata analoga a quella della prima sezione. Qui i cambi di tempo fra le battute sono meno frequenti ma sono accompagnati da variazioni agogiche (accelerazioni e rallentamenti). Le ultime 4 battute sono in tempo moderato (4/4) e preparano l’atmosfera della sezione finale. L’orchestra qui è impegnata al massimo e a pieno organico, con frequenti e brusche variazioni dinamiche.

Extrêmement lent, avec une grande pitié et un grand amour (6’11”) 

Ecco la mensa pura, la fonte della carità,
il banchetto dei poveri, ecco l'adorabile Pietà che offre
il pane della Vita e dell'Amore.
Tu ci ami, dolce Gesù, lo avevamo dimenticato.

 L’Eucharistie, una lunga e lenta frase dei violini, che si innalza sopra un tappeto di accordi in pianissimo e riflessi rossi e blu (come una remota finestra di vetro macchiato) illuminati dagli archi solisti in sordina. Il Peccato è l’oblio di Dio. La Croce e l’Eucarestia sono la divina Offerta. “Questo è il mio corpo, offerto per voi – questo il mio sangue, versato per voi.”


Quest’ultima parte del brano è la più lunga in termini di durata e consta di 27 battute che mantengono il tempo di 4/4 preparato dalla precedente transizione e con un’agogica che presenta un solo, brevissimo rallentamento alla battuta 16. Ne è protagonista una sparuta pattuglia di archi alti: i primi violini più 4 secondi violini e 5 viole (tutti divisi). L’attacco di quest'ultima sezione deriva scopertamente dalla conclusione della prima, e così Messiaen evoca e collega efficacemente i concetti di pietà e amore richiamati dal programma fondante di questa sua opera.              
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Che dire? Un pezzo non certo facile, che i giovani (e i diversamente…) hanno saputo rendere con efficacia, presi per mano dal Direttore che è stato il primo ad applaudirli. 
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Ecco infine la ciajkovskiana Patetica. Qui davvero il Direttore ha fatto la differenza, trascinando la compagine ad una prestazione che definirei quasi sorprendente, date le circostanze (sono alla seconda apparizione pubblica, dopo il Mahler-Festival). Non sarà certo il caso di fare dei trionfalismi, ma di sicuro ci troviamo di fronte ad una bella realtà che ha davanti a sé una lunga ma affascinante strada da percorrere.

Alla fine, Treviño, accolto ripetutamente da battimani ritmati, ha simpaticamente invitato il pubblico ad intensificare gli applausi per i ragazzi, che evidentemente sono entrati in grande sintonia con lui. Insomma, un bel pomeriggio, di quelli che ci rincuorano in tempi piuttosto grami.  

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.5

Dopo aver diretto tre settimane fa la Quinta nel Mahler-Festival con la OSN-RAI, Robert Treviño torna sul podio dell’Auditorium per offrirci un programma tutto francese, che procede a ritroso nel tempo per 70 anni, dal primo ‘900 al profondo ’800: da Ravel a Berlioz.

Di Maurice Ravel erano originariamente in programma due brani sullo stesso soggetto fiabesco, quello delle Mille e una notte. Si sarebbe dovuto partire con Shéhérazade, ouverture de féerie, che rimase nel cassetto per quasi 80 anni prima di essere pubblicata (1975); ma qualcosa dev’essere andato storto, e così il concerto si è aperto con Shéhérazade, Trois poèmes pour chant et orchestre, del 1903, dedicati a tre rispettabili Madame e qui interpretati dalla 37enne mezzosoprano lituana Justina Gringyté, che spesso si esibisce con il Direttore texan-mexicano.

Di chiaro ascendente Debussy-iano, questo trittico è basato su testi poetici (di carattere piuttosto decadente e con sfumature simboliste) tratti da una collana di cento poesie, ispirate a Shéhérazade, di tale Léon Leclère, che già a quei tempi si ammantava di un bifronte nick wagneriano (Tristan Klingsor) e con il quale Ravel condivideva la frequentazione dell’appena neonato gruppo di artisti d’avanguardia (e appunto sfegatati per Debussy) noto come Les Apaches.

Anche le tre dedicatarie delle liriche avevano a che fare con quell’ambiente: Janne Hatto (dedicataria di Asie) fu la prima interprete del trittico; Marguerite de Saint-Moceaux (dedicataria di La Flûte enchantée) era famosa per i suoi prestigiosi ricevimenti e come mecenate di musicisti ed artisti, fra i quali proprio Debussy e Ravel; Emma Léa Moyse (dedicataria di L’Indifférent) già amante di Fauré, fu la seconda moglie proprio di Debussy, dopo aver divorziato dal banchiere Sigismond Bardac.  

1. Asie  
È il più lungo dei tre testi, un autentico viaggio nei misteri e nel fascino orientale: dopo una breve introduzione - davvero orientaleggiante - dell’oboe sul triplice richiamo Asie! Asie! Asie! e sull’evocazione, sostenuta dal corno inglese, di quel mondo che sa di fiabe che si raccontano ai bambini, ecco l’inizio del lungo e affascinante viaggio. Per ben 14 volte il testo ripete Je voudrais, il desiderio di conoscere, di esplorare, di immergersi in quel magico universo. E a quel vorrei segue di volta in volta: 1. una goletta che solca il mare spinta dalla sua vela violetta; 2. un’isola fiorita sperduta in mezzo al mare tempestoso; 3. Damasco o una città persiana, con gli agili minareti; 4. turbanti di seta sopra volti scuri e bianche dentature; 5. occhi e pupille piene d’amore e pelli ingiallite; 6. vesti di velluto con lunghe frange; 7. calumet risucchiati da bocche avvolte da bianche barbe; 8. sguardi ambigui di mercanti, visir che muovendo un dito decretano vita o morte; 9. Persia, India e Cina, Mandarini, Principesse e letterati che discettano di poesia e bellezza; 10. un palazzo incantato ornato da preziose stoffe raffiguranti personaggi al centro di un giardino: 11. assassini che assistono divertiti all’esecuzione di un innocente operata da un boia con una curva scimitarra; 12. povera gente e regine; 13. rose e sangue; 14. chi muore d’amore e chi di odio.     

Ciascuno di questi desideri è accompagnato da delicate figurazioni impressioniste, che sfociano in un drammatico crescendo dell’intera orchestra, che poi va sfumando per dare spazio all’epilogo: l’onirico viaggio lascia al poeta il desiderio di raccontarlo a chi ama sognare, sorseggiando di tanto in tanto - alla maniera di Sinbad - una tazza araba, per interrompere sapientemente il racconto… 

Chissà, potrebbe essere proprio la bella Shéhérazade a raccontare questo squarcio notturno: introdotta dalla sensuale melodia del flauto, la favorita del sultano, che lei ha abilmente addormentato con uno dei suoi mille ammalianti racconti, comincia ad udire – mentre il tempo, da Très lent diventa improvvisamente Allegro – una melodia, ora mesta, ora gioiosa, suonata dal suo amante. Il tempo torna Lent, per farle assaporare quelle note che, dalla finestra, arrivano sulla sua guancia come un misterioso bacio. La figurazione iniziale del flauto ritorna per chiudere questo delicato siparietto.

Qui siamo all’Oriente più… confuciano: come non pensare all’atmosfera (Er stieg vom Pferd und reichte ihm den Trunk) del mahleriano Abschied? Un passante dai tratti effeminati transita davanti ad una porta a cui si affaccia il soggetto recitante (maschio o femmina? chissà…): che ne è attirato sensualmente, e lo invita a fermarsi per bere del vino con lui. Finora il tempo è continuamente Lent, anzi, poi, ancora Plus lent. Ma il passante (mentre il tempo si agita un poco) si allontana con un grazioso gesto di efebica indifferenza, dopodichè il tempo torna alla perenne lentezza. 
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Davvero encomiabile la prestazione della bella Justina, che ha sfoggiato la sua voce ben tornita e la sua raffinata sensibilità, pienamente in sintonia con il sapore decadente di testo e musica. Musica di cui Treviño ha a sua volta messo in luce tutte le sfumature e le nuances, ben assecondato dall’orchestra, soprattutto i legni che sono protagonisti assoluti.

Accoglienza calorosissima del pur non oceanico pubblico.
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E infine l’inflazionata FantasticaUn’interpretazione da manuale, quella del Direttore, che mai si è abbandonato (e di occasioni e… tentazioni questa Sinfonia ne presenta a josa) a gratuite e facili iniziative. Da incorniciare l’introduzione al primo movimento, dove la musica sembra davvero nascere e crescere dal nulla; poi la raffinatezza del Bal (protagoniste le arpe di Elena Piva e Marta Pettoni); mirabile la resa della Scène aux Champs (il corno inglese di Paola Scotti e l’oboe fuori scena di Emiliano Greci) con tratti da impressionismo ante-litteram; e quindi, sempre senza soluzione di continuità, la Marcia al supplizio e il Sabba conclusivo, dove Treviño ha scatenato le furie degli ottoni (le tube di Davide Viana e Alberto Tondi sugli scudi, in un protervo Dies Irae) portando il pubblico ad un parossistico entusiasmo, con ripetuti battimani ritmati e ovazioni per Kapellmeister e Musikanten!  

Si replica domani, ma anche oggi pomeriggio sarà ancora e sempre Treviño, per... collaudare l’Orchestra under-25.

04 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#8

Lungo la strada delle Sinfonie mahleriane siamo arrivati alla Quinta. Che è stata affidata (alla quarta replica in 4 giorni!) alle mani premurose di Robert Treviño a capo della OSN-RAI. Nelle cui file milita da qualche tempo la tromba di Alex Caruana, storica prima parte de laVerdi. (Giovedi scorso si era rivisto anche Max Crepaldi, primo flauto passato da pochi anni alla Scala. Dove alberga anche Eriko Tsuchihashi, che per anni fu la vice-Santaniello. Segno che la fucina di Largo Mahler sforna ottimi prodotti!)

Rispettando l’impaginazione del concerto dell’OSN, l’apertura è affidata a Charles Ives e alla sua breve The unanswered Question, che con Mahler ha qualche affinità… cronologica (è del 1908). Qui Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi:

1. l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) con valore di note che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima;

2. la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e

3. la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni (una di queste è del Direttore Treviño, intervistato prima dell’esecuzione torinese) ma, trattandosi di musica, a qualcuno questo breve brano apparve come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi a quel 1908, e quindi contenere un messaggio profetico abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica del futuro avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza. Nel 1973 il grande Lenny Bernstein apriva così il suo ciclo di lectures ad Harvard, intitolato precisamente al brano di Ives, e lo concludeva esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche!

Anche qui è stata proposta la stessa scenografia torinese: buio completo (salvo le lucine sui leggii), tromba solista (Roberto Rossi) fuori dalla sala e i flauti in balconata. L’effetto scenografico è sicuramente suggestivo, quello musicale (al netto della qualità degli esecutori) francamente discutibile. 
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La Quinta mahleriana è normalmente etichettata come la prima di un ciclo di tre (insieme a Sesta e Settima) perchè segnerebbe il punto di dipartita di Mahler dal fanciullesco-folklorico mondo del Wunderhorn al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con e/o senza voce) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore.

La Quinta segnerebbe quindi l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio l’impiego del contrappunto e quello del Rondò). E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi. Anche il prezioso libro Tutto Mahler, curato da Gastón Fournier-Facio in occasione del Festival, indirettamente avalla questa tesi, separando il Capitolo dedicato alla Quarta da quello che tratta della Quinta con un Intermezzo sui Lieder di Rückert.

Peccato che si tratti di una tesi ampiamente contraddetta (non certo da me, ma da personalità quali Ugo Duse, autore della prima e ancor oggi fondamentale monografia italiana su Mahler; e da H.L. de La Grange, che su Mahler ha scritto qualcosa come 3600 pagine!!!) proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi per iscritto già ai tempi della composizione di quei precedenti lavori, addirittura dai tempi della Terza (!) come documenta un abbozzo della struttura della Quarta Sinfonia che Mahler chiamò Humoreske, sei movimenti, di cui solo il primo, il terzo e l’ultimo restarono poi nella Quarta; degli altri: Das irdische Leben fu espunto, Morgenglocken divenne il 5° movimento della Terza; e Die Welt ohne Schwere diverrà lo Scherzo della Quinta!

Dove poi troviamo quelle iniziali terzine di trombetta che già avevano fatto una fugace comparsa nel primo movimento della Quarta, alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Come detto, lo Scherzo in RE maggiore fu pensato in origine come 5° movimento della Quarta sinfonia…

Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che la marcia funebre del primo movimento richiama quelle dei tamburini del Wunderhorn (di Revelge poi è una chiara citazione nel finale, al numero 29 negli strumentini). Inoltre, il quinto ed ultimo movimento riprende esplicitamente Lob des hohen Verstandes (l’acuta intelligenza di un... asino!) sempre dal Wunderhorn. 

E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta, poi (surrettiziamente) con l’Ottava, e infine con la Nona, mantenendo invece per Settima e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale nel secondo movimento, l’interminabile tiritera del corno obbligato nello Scherzo (parente di quella della cornetta da postiglione della Terza) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...    

È ben vero che Mahler stesso parlò più volte, a proposito di quest’opera, di un suo nuovo stile, che peraltro non si manifestò mai compiutamente, se già prima della pubblicazione Mahler mise drasticamente mano all’orchestrazione (percussioni, in particolare) sull’onda delle pesanti critiche di Alma! E se ancora dopo il Lied von der Erde e la Nona Mahler si vide costretto ad altri ritocchi.

Insomma, suddividere la produzione di Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo (evoluzione vs rivoluzione) quasi che i Lieder, le dieci Sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico. 

Chiudo riproponendo alcune citazioni e aneddoti riguardanti questa Sinfonia.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell’incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: “Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l’originalità né dell’uno né dell’altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest’altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L’idea di un’esecuzione a Torino è da scartarsi.” 

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

A proposito di Richard Strauss, ecco il suo giudizio, positivo, ma con qualche frecciatina. Scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: “La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un’immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po’ troppo lungo…

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: “La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l’Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria.

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O.T. Se ascoltiamo l’intervista di Susanna Franchi a Treviño dobbiamo rilevare un clamoroso lapsus dell’intervistatrice, che nella sua traduzione dall’inglese mette in bocca al Maestro una grande stupidaggine: tutta la Sinfonia sarebbe in tonalità Maggiore (!?) Quando è chiaro che il malcapitato Treviño si sta riferendo solo all’ultimo movimento! (Ed è la RAI ancora non impoverita da Meloni&C…)

Ormai dal Maestro mexico-texano ci possiamo solo aspettare grandi cose, e questo pomeriggio siamo stati del tutto accontentati! Del resto già l’ascolto dell’esecuzione torinese aveva mostrato la qualità del Direttore e della sua lettura dell’opera, oltre a quella, scontata, dell’Orchestra. Oggi addirittura mi pare di aver sentito ulteriori miglioramenti, e non saprei proprio trovare nemmeno il classico pelo nell’uovo.

Alla fine pubblico (oceanico) in autentico delirio, con ovazioni speciali per il corno di Ettore Bongiovanni e la tromba di Roberto Rossi.

05 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 6

Il rampante Robert Trevino (yankee trapiantato in Europa, come altri suoi colleghi) torna dopo 30 mesi in Auditorium per dirigere un concerto che appaia il giovane scapigliato Shostakovich al romantico Mendelssohn.

Del russo ascoltiamo (e non è la prima volta qui) quel singolare pezzo (l’Op.35) che vede protagonista il pianoforte del 33enne sollevantino Nobuyuki Tsujii con impertinenti interventi della tromba del redivivo Alex Caruana, tornato per una rimpatriata con i vecchi colleghi dalla sua natìa Torino, dove ha trovato impiego nientemeno che alla prestigiosa OSN-RAI.

Tsujii è la dimostrazione vivente dell’inutilità del senso della vista: pensate come sarebbe migliore (!) il mondo se all’essere umano mancasse questa prerogativa...  

Caruana è ormai uno specialista di questo pezzo, che suona qui in Auditorium per la quarta volta (l’ultima fu nel giugno 2016; la prima, da me commentata in dettaglio, nel 2011) e gli schiamazzi (in senso buono, ovviamente!) del suo strumento hanno ben caratterizzato lo spirito leggero del brano. Peccato che sia stato messo in ombra dall’accoglienza trionfale per Tsujii: per lui, che ha suonato seduto in mezzo all’orchestra, nemmeno un richiamo del Direttore, piccolo neo in una grande serata.

Come detto, tutto il trionfo è stato per Tsujii, che entrava e usciva di scena a... rimorchio di Trevino, che non ha mancato di descrivergli le ovazioni del pubblico e di invitarlo non ad uno, ma a due strepitosi bis: dapprima la parafrasi del Rigoletto di Liszt e poi questo incantevole Chopin.   
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Ecco poi la Scozzese di Mendelssohn, che Trevino ha già interpretato con l’Orchestra dei Paesi Baschi, di cui è stato Direttore Musicale per qualche anno, prima di trasferirsi a Malmoe.  

Devo dire che la sua mi è parsa un’interpretazione quasi perfetta. Soprattutto nel creare un suono proprio mendelssohniano, trasparente e sobrio negli archi, davvero gestiti con grande maestria (complimenti a Dellingshausen e soci, naturalmente); corposo ma mai sbracato nei fiati, corni in specie (guidati da Ceccarelli) perfetti nel conclusivo Allegro maestoso assai. A tutto ciò va aggiunta la signorilità e compostezza del gesto, sempre essenziale e mai inutilmente enfatico o plateale. Un piccolo dettaglio poi testimonia della grande cura e meticolosità con le quali Trevino affronta ogni aspetto della direzione: nel concerto solistico, dove lui si trova (a causa del pianoforte) le prime parti di violini I e viole (al proscenio) fuori sguardo, che fa?: scambia le sedie del primo violino e della prima viola con quelle dei rispettivi secondi, in modo da averli al proprio fianco...    

Insomma, una conferma delle grandi qualità del Direttore americano, cui il folto pubblico dell’Auditorium ha tributato lunghe e meritate ovazioni. 

18 maggio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°29


Secondo appuntamento con Robert Trevino per l’integrale delle sinfonie di Brahms. Ieri (replica domani) è stata la volta delle 3 e 4, composte (come la prima coppia, del 76-77) a stretto giro l’una dall’altra (83-85). Poi, a parte il doppio concerto, Brahms abbandonerà la grande orchestra e le grandi forme per ritornare, in fondo, alle sue origini liederistiche, cameristiche e corali, peraltro ora temprate dalle esperienze sinfoniche.

Si parte quindi con la Terza, in FA maggiore. Dai tempi di Hanslick si usa dire che la musica di Brahms è assoluta, in opposizione a quella a programma di Liszt, di Wagner (ovviamente) di Strauss e anche di Mahler. Ma allora come si spiega che una musicista raffinata, colta e sensibile come l’amata Clara (Schumann) nel felicitarsi con l’autore per la sua Terza gli confida di vederci i boschi e le foreste, i boscaioli inginocchiati ai piedi di una cappella nel verde, e ancora lo sciacquio del ruscello ed il ronzio degli insetti?

In realtà a questa, come a qualunque altra sinfonia o musica in genere, si possono appiccicare dall’esterno tutti i programmi di questo mondo, quanto infinite sono le sensazioni che ciascuno di noi può provare ascoltando quei suoni.

E questa Terza non comincia per caso con un motivo preso da un’altra Terza, precisamente quella dell’amato Schumann, esplicitamente sottotitolata renana? E non era proprio il Reno che Brahms poteva ammirare dalle finestre della casa che lo ospitava a Wiesbaden mentre componeva la Terza? Ma c’è di più: se in quel tema di Schumann sostituiamo la tonica di partenza (SOL) con una sesta (MI) non troviamo forse l’incipit del motivo - assolutamente renano - del Weia-Waga di Wagner (che poi è anche quello del Sonno e dell’Uccellino del bosco?) Beh, ce n’è abbastanza per ripensare certe categorie piuttosto stucchevoli che ancora vengono usate per catalogare musiche e musicisti… 

Trevino? Ha letto - e sono pienamente con lui - quest’opera come un raffinato connubio fra romanticismo e decadentismo, una cosa piuttosto lontana dalla burbera serietà dell’Hamburger... Così ha attaccato l’Allegro con brio, appunto, con... brio! (spesso i direttori che si credono brahmsiani il brio lo dimenticano proprio.) Delizioso e lezioso l’Andante, dove le indicazioni espressivo, dolce vengono mirabilmente tradotte in suoni eterei. Un minuto buono di silenzio viene rispettato prima dell’attacco del Poco allegretto (un diminutivo del diminutivo) reso celebre da racconti e celluloide. Nell’Allegro finale resta memorabile l’avvicinamento - e poi l’esplosione dell’intera orchestra, ma degli ottoni in particolare - allo Höhepunkt, in FA maggiore.

Due secondi di braccia alzate dopo l’ultimo accordo in pianissimo precedono lo scrosciare degli applausi del pubblico. Trevino fa, come suo solito, il giro del palco per omaggiare da vicino tutte le prime parti (e i colleghi) delle diverse sezioni.   
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Ecco infine la Quarta. Brahms, da grande alchimista dei suoni, la apre con un trucco: prende due insulse serie di terze (prima discendenti e poi ascendenti) e ci ricava un tema raffinato che ci lascia stupefatti. Il tutto semplicemente introducendo quattro rivolti dell’intervallo di terza...

Motivo che tornerà anche nel finale, dopo la variazione 29. Finale a sua volta costruito prendendo un tema (8 battute) di Bach (dalla Cantata Nach dir Herr verlanget mich, BWV150, Ciaccona Meine Tage in den Leiden, basso) sul quale Brahms costruisce un colossale movimento di passacaglia! In mezzo, l’Andante moderato, un Brahms che si riconosce... a prima vista. E poi l’Allegro giocoso, degno in tutto e per tutto di... Beethoven!

Trevino? A differenza della Terza, qui mi pare usare un approccio abbastanza conservativo, nel senso che non forza mai i contrasti di agogica e dinamica, proponendo un Brahms tutto sommato rigoroso e austero. Certo non mancano momenti esaltanti, come l’Allegro giocoso, al cui termine uno spettatore (troppo esaltatosi, o poco... informato) ha urlato uno stentoreo bravo! Trevino non ci ha fatto caso ed ha attaccato la conclusiva passacaglia con grande risolutezza, mettendone in risalto le mille mutevoli facce. 

Parlare di trionfo non è esagerato. Prima ancora che dal pubblico, è dagli orchestrali (guidati da Dellingshausen) che sono arrivate manifestazioni di apprezzamento (innesco di applauso ritmato) al direttore texano, che ha ripetuto il suo giro fra le sezioni dell’orchestra per complimentarsi con tutti.

13 aprile, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°25


Ieri sera (con replica domani pomeriggio) è andata in onda in Auditorium la prima delle due puntate dedicate all’integrale delle sinfonie di Brahms proposta da Robert Trevino, al suo ritorno qui dopo quasi un anno. Il 35enne rampante Direttore ispano-texano (oggi di stanza nei Paesi Baschi ma in procinto di migrare verso la Svezia...) segue quindi le orme del suo più maturo compaesano John Axelrod (acclamato qui la scorsa settimana) che qualche anno addietro ha diretto e inciso le 4B con laVerdi. Sala non affollatissima, causa forse il concomitante Requiem verdiano in SanMarco, officiato da un’altra star del podio, tale Teodor Currentzis...

Trevino (che dirige tutto a memoria) sceglie il percorso più lineare e immediato: presenta cioè le sinfonie in rigoroso ordine cronologico di composizione. Quindi questa settimana la coppia 1-2 (1876-77) e il 17-19 maggio concluderà con la coppia 3-4 (1883-85). Se guardiamo questo corpus come un tutt’uno, esso ci appare come un’unica sinfonia con i due movimenti esterni caratterizzati da grande severità e quelli interni da altrettanta serenità (anche se le due atmosfere non sono mai rigidamente separate fra loro, e spesso e volentieri si compenetrano). Quanto alla sequenza di tonalità (DO-RE-FA-MI) essa è nientemeno quella del gregoriano Magnificat!

Ovviamente queste sono solo considerazioni da cabala, e nulla fa pensare che Brahms vi abbia minimamente posto attenzione. Però...
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Ecco quindi la Prima, sofferta per 20 anni e anche più, attesa con trepidazione da tutto il mondo musicale di area tedesca (e non); finalmente completata nel 1876, ma eseguita in prima nella periferica Karlsruhe (paura di un flop?) e poi arrivata a Vienna dopo un’altra tappa intermedia a Monaco; quindi definitivamente consacrata solo mesi dopo a Lipsia.

Insomma, un Brahms per nulla sicuro di sè e sollevato agli altari del successo anche (se non soprattutto) dal plateale endorsement ricevuto da parte di Hanslick e dell’establishment anti-wagneriano (cui si accodò - per motivazioni non esclusivamente artistiche! - un imbarazzato von Bülow). Certo, questa sinfonia è musica grande - tonalità e percorso (per aspera ad astra) assai impegnativi (la quinta del Ludovico!) - e da quasi 150 anni occupa meritoriamente le locandine di tutte le stagioni sinfoniche del pianeta. Personalmente, mi lascia sempre un po’ di retrogusto amarognolo, e fatico ad entrare in totale sintonia con la sua (per me) eccessiva cerebralità (in ciò sono in ottima compagnia: anche un tale Mahler considerava questo Brahms piuttosto freddo...)

Chi invece sembra viverla con totale partecipazione è Trevino, che propone con grande magniloquenza i due movimenti esterni (ritornello nel primo, e teatralità nell’Adagio introduttivo del finale) per poi quasi esagerare (neanche fosse la seconda) nell’intimismo e nella leziosità nei due interni: l’Andante sostenuto in particolare mi è parso essere stato attaccato con eccessivo... languore (ma è questione di gusti). Da incorniciare nell’ultimo movimento il forte sempre e passionato di corno e flauto, che hanno meritato ad Amatulli e Manachino (in uno con l’oboe di Stocco e il clarinetto della Ciapponi) una personale peregrinazione di Trevino fra i leggii, per complimentarsi con loro.
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Rotto il ghiaccio, Brahms impiegò pochi mesi a sfornare la sua Seconda, ispirata (come peraltro anche una parte del Finale della Prima) da scenari naturali e per questo spesso accreditata dell’attributo di pastorale (per non parlare della ninna-nanna che fa da secondo tema all’Allegro non troppo iniziale).

Qui Trevino non sbaglia di certo nel pretendere dall’orchestra delicatezza e leggerezza nei tanti passaggi carichi di lirismo che percorrono la sinfonia: spesso riducendo le sonorità quasi al limite dell’udibile. Dà infine fuoco alle polveri nel finale, con gli ottoni che - uso un temine di carattere ottico - sembrano abbagliare i timpani!

Successo strepitoso, altra gita di Trevino per complimentarsi con Ceccarelli e il pacchetto dei corni, con Greci all’oboe e con tutti quanti gli altri. Dellingshausen, ieri sulla sedia del Konzertmeister, innesca col piede destro un meritato (e condiviso in pieno dal pubblico) applauso ritmato per manifestare l’evidente apprezzamento dell’Orchestra per le doti del Direttore. Ora non ci resta che attenderlo qui fra un mesetto per completare l’opera!

04 maggio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°25

                                    
Secondo appuntamento stagionale all’Auditorium (ieri sera affollato, ma... non troppo) con Robert Trevino, il giovane texano trapiantato (per ora) presso i Baschi, che ci propone la sua visione della Sesta mahleriana. Che è la più controversa delle nove (dieci... undici?) sinfonie del boemo, a cominciare proprio dalle... controversie con se stesso in cui il compositore si trovò a dibattersi, prima, durante e dopo la presentazione dell’opera (Essen, venerdi 27 maggio, 1906).     

Ho espresso molti anni fa alcune personali valutazioni sulla Sesta, che ripropongo ai curiosi. In Auditorium la sinfonia aveva risuonato l’ultima volta più di 4 anni orsono, e in quell’occasione avevo riportato, oltre ad alcuni miei commenti, il giudizio di uno dei mahleriani più autorevoli, il compianto Ugo Duse. (Mi scuso in anticipo per i vari link, presenti in quei post, che si risolvono in... nulla, ma questo è il web, bellezza!) Come allora, anche stavolta non ci sono brani introduttivi al concerto, ed è un bene, poichè questa è una sinfonia che (come altre di Mahler: 2-3-8-9) merita un trattamento speciale e una serata tutta per sè. (Peraltro non fu così alla prima di Essen, dove la nuova sinfonia fu preceduta - per... prepararne adeguatamente l’atmosfera! - dalla mozartiana Maurerische Trauermusik, diretta da Strauss.)
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Trevino opta per la (tradizionale anche se discussa) versione-Ratz per quanto concerne la sequenza dei movimenti (e pure la terza martellata) quindi suona lo Scherzo in seconda posizione, prima dell’Andante. A mio (e non solo mio) modesto avviso ciò comporta una certa assimilazione della Sesta alla Quinta (due blocchi pesanti ai margini, che incastonano un delicato intermezzo); e anche un cedimento agli elementi extra-musicali da sempre - più o meno a ragione - sospettati essere alla base del lavoro: l’eroe Gustav, Alma, le piccole Putzi-Gucki, il lungo sguardo retrospettivo in attesa della catastrofe e questa che arriva ad abbattere l’eroe.

E la sua interpretazione parrebbe proprio indicare l’adesione personale, si direbbe quasi autobiografica, al lato melodrammatico della partitura: attacco eroico, secondo tema assai espressivo; scherzo a forti contrasti, andante strappalacrime e finale invero a fosche tinte ma con sprazzi intimistici al limite del lezioso. Qualche perdonabile libertà in agogiche e dinamiche non toglie nulla alla qualità e alla coerenza assoluta della sua lettura (sulla quale si può magari non concordare).

Orchestra in gran spolvero e successo clamoroso, con applausi ritmati all’indirizzo del Direttore. Serata da ricordare.

13 gennaio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°11


Dopo l’esordio nella scorsa stagione, il rampante Robert Trevino è tornato sul podio de laVerdi per il primo dei suoi due appuntamenti stagionali (il secondo è previsto a maggio con la Sesta mahleriana). Per l’occasione il giovane yankee ha scelto un mastodonte sinfonico che peraltro è abbastanza di casa per l’Orchestra: la Settima di Shostakovich. E proprio in occasione della penultima apparizione di questo lavoro (sotto la bacchetta dello specialista Caetani) avevo scritto qualche riga poco, ehm... politically-correct su contenuti e struttura della mappazza.

Che purtroppo, carica di mille incrostazioni extra-musicali di cui si è ricoperta fin dalla nascita (cioè da 75 anni a questa parte) si fatica sempre ad apprezzare (nel bene e nel male) come opera di ingegno, intesa come musica di per se stessa. Per i cittadini russi (e non solo) del 1942 quella musica aveva un significato e un sapore strettamente legato alle catastrofiche circostanze materiali in cui era venuta alla luce: nessuno allora si interrogava sui suoi contenuti estetici, poichè la sentiva soprattutto come una droga utile a rigenerare le forze spirituali (e pure materiali) con cui affrontare il nemico invasore (allo stesso modo la musica in modo frigio veniva impiegata fin dall’antichità per aizzare le truppe in battaglia).

E gli stessi contenuti musicali furono indubbiamente condizionati dallo scenario esterno: a partire dalla forma dell’opera, che doveva essere inizialmente un poema sinfonico, poi divenuto il primo movimento di una sinfonia in quattro movimenti, tutti peraltro a loro volta sottotitolati (salvo successiva revoca dei sottotitoli!) in modo più o meno ambiguo... E poi c’è il caso della marcetta continuamente variata, rappresentante l’invasore, infilata come corpo totalmente estraneo nel primo movimento, al posto dello sviluppo di una forma-sonata, e poi come codetta. E così ecco che lo stesso sottotitolo (Leningrado) - che ancor oggi compare a definire l’opera, mettendone in primo piano le circostanze che ne caratterizzarono l’origine – finisce per condizionarcene inevitabimente la fruizione. 
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Devo dire che Trevino ha lodevolmente provato a farcela digerire senza troppi sforzi, aggiungendovi un po’ di alka-seltzer, sotto forma di alcuni trucchetti che evidentemente il 33enne texano ha ben assimilato da suoi illustri predecessori: anticipare di qualche battuta i cambi di agogica, infilare qualche sapiente rubato qua e là, oltre che girare sul massimo la manopola del contrasto, cosa che garantisce sempre il risultato, evitando cali di... concentrazione nel pubblico.

Tutto sommato, un’interpretazione più che apprezzabile, date le circostanze, giustamente applaudita dal folto pubblico e anche dagli stessi orchestrali - autori di una prova ancora una volta maiuscola - che hanno innescato un applauso ritmato in omaggio al Direttore, con il quale evidentemente hanno trovato un ottimo feeling. Insomma, tutti felici e contenti.