XIV

da prevosto a leone
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16 gennaio, 2020

Shakespeare gallico di ritorno alla Scala


Quando a giugno 2011 andò in scena questa produzione, Roméo-et-Juliette di Charles Gounod mancava dalla Scala da ben 77 anni. Adesso l’intervallo si è ridotto al 10%, a tardiva riparazione dell’offesa...

La messinscena, come detto, è la stessa del 2011, di Bartlett Sher, prodotta in origine per Salisburgo e poi portata al MET e alla Scala. Anche uno dei due protagonisti è quello di allora, Vittorio Grigolo, questa volta affiancato nel suicidio di coppia da Diana Damrau. Avendo scritto qualcosa sull’opera e sull’allestimento (versione, posizionamento dell’intervallo, tagli e regìa) in quella sia pur lontana occasione, vi rimando gli interessati.

La novità principale di questa ripresa è costituita, senza ombra di dubbio, dall’esordio sul podio scaligero (quello della buca, chè quello sul palco già fu calcato...) del rampante Lorenzo Viotti. Devo dire che, a primo ascolto e a prima vista, il non ancora trentenne rossocrociato (figlio d'arte, del padre Marcello, scomparso prematuramente nel 2005) mi ha fatto un’ottima impressione: gesto sicuro, autorevole e mai gigionesco, attacchi precisi e manina sinistra à-la-Abbado (già copiata da Mariotti...) per concertare al meglio chi sta sul palco. Attenzione alle sfumature e ai dettagli della partitura. Insomma, perfetto? Beh, sarebbe troppo pretendere... diciamo che di margini di miglioramento ne ha di sicuro, ad esempio imparare a trattenere la foga in passaggi dove è facile cadere nel bandismo e nel fracasso gratuito. In ogni caso, un esordio più che positivo, salutato da convinti consensi di un pubblico insolitamente (!) folto.

Detto dell’eccellente prestazione del coro di Casoni e di quella per me perfettibile dell’orchestra (ottoni ma non solo) vengo alle voci. Il Grigòlo (o Grìgolo o Grigolò, fate voi, haha) mi aveva lasciato un po’ perplesso nel 2011, quando però aveva 34 anni... oggi sono ancora perplesso, ma lui ne ha ormai 43. Conclusione: diventerà mai davvero grande? Per carità, mica fa schifo, sia chiaro, però, insomma, la presenza scenica è come la bella presenza che si richiede al commesso viaggiatore... ma poi non sempre è una condizione sufficiente per raggiungere l’eccellenza dei risultati. Il controllo dell’emissione mi pare sempre approssimativo e qualche ingolatura residua non fa che tenere bassa, non molto oltre la sufficienza (oh, parere mio eh!) la media.

La Diana Damrau è una Giulietta appropriata come timbro di voce, davvero sottile come si addice ad una giovanissima, peccato che i centri siano poco udibili (un esempio: nelle agilità della sua arietta del primo atto si distingueva una sillaba su due, o addirittura tre). Quindi anche a lei dò una sicura sufficienza, ma non mi spingo oltre.

Un qualche contrattempo deve aver impedito al titolare Nicolas Testé di proporsi come Frate Lorenzo: il sostituto Dan Paul Dumitrescu (presumibilmente arrivato all’ultimo momento) ha fatto del suo meglio e va quindi lodato per aver salvato la situazione. Frédéric Caton è stato un onesto Capulet, partito bene ma poi un poco appannatosi: voce quasi baritonale, che non si adatta perfettamente al personaggio. Anche l’altro basso, Jean-Vincent Blot (Duca) non ha sfigurato. Mattia Olivieri ha ben meritato come Mercuzio, avendo cantato con efficacia e bella voce baritonale la sua lunga filastrocca della Regina Mab.

Ottima impressione mi ha fatto Marina Viotti (un caso quasi unico, essere diretta alla Scala dal fratellino!) che ha sfoggiato una bellissima voce di mezzo interpretando, en-travesti, il ruolo di Stéphano. Corretto il Tybalt di Ruzil Gatin, voce rossiniana, penetrante e bene impostata. Cito ancora la Gertrude di Sara Mingardo, gli altri come da contratto sindacale.

Insomma, uno spettacolo godibile e di onesto livello musicale, accolto da consensi praticamente unanimi.

24 novembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°8


Uno dei tre Direttori Principali Ospiti de laVerdi, Patrick Fournillier, torna sul podio per proporci un programma dall’impaginazione classica: Ouverture, Concerto solistico e Sinfonia. Gli autori (e questo è meno usuale) sono Mozart e Gounod.

Si apre con l’Ouverture da Le nozze di Figaro, 4 minuti più o meno di effervescenza che l’Orchestra ci serve proprio come si stappa una bottiglia di spumante! Esecuzione davvero travolgente, che serve a mettere il pubblico nella migliore disposizione d’animo per seguire con interesse ciò che segue.
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Adesso sono due prime parti dell’Orchestra a guadagnare il proscenio, con relativi oneri ed onori, per porgerci il Concerto per flauto e arpa (K299), assente dalla programmazione dell’Orchestra da 20 anni!

I due sono il vercellese Nicolò Manachino, recente acquisto de laVerdi, dove ha preso il posto di Max Crepaldi, migrato un paio d’anni fa verso la Scala; ed Elena Piva, ormai storica arpeggiatrice in Auditorium (col fisico da modella che si ritrova, dobbiamo ringraziarla per aver preferito il tavolato del palcoscenico alle passerelle della moda...)

Concerto composto dal 22enne Teofilo a Parigi, su commissione del Duca di Guines, che era discreto flautista ed aveva una figlia che si dilettava con l’arpa. Ma non si pensi per questo che il lavoro sia alla portata di qualunque principiante! (Anche il Triplo di Beethoven fu composto in omaggio a nobili dilettanti, eppure è un monumento artistico...) 

I due moschettieri dell’orchestra si vanno valere - da incorniciare soprattutto l’Andantino centrale - ed ottengono un gran successo, ripagato con due applauditissimi bis. Apprezzabile la trascrizione del Claire de Lune di Debussy, dove all’arpa (che può, come il pianoforte, emettere contemporaneamente più suoni) è stato riservato un ruolo di primo piano, fin dalle primissime battute dove viene esposto, per terze, il mirabile tema.
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Infine ecco Gounod e la sua Sinfonia n°1 in RE maggiore, nei canonici quattro movimenti, che laVerdi esegue per la prima volta. Opera di un Gounod 36enne che a fronte dei riconoscimenti pubblici (vedi Prix de Rome, conseguito nel ‘39 a 21 anni!) ancora non aveva sfondato... cosa che gli riuscirà pochi anni dopo con il suo Faust.

Seguiamola dalla bacchetta del compianto sir Neville Marriner con la sua celebre orchestra londinese.
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Apre un Allegro molto in 4/4 alla breve, in forma-sonata, con due poderosi accordi (tonica e dominante) seguiti nei fiati da un inciso, una specie di motto che avrà importanza capitale nel seguito, ricomparendo, in forme diverse, lungo l’arco dell’intero movimento:
A 8” ecco l’esposizione, che presenta due temi francamente poco contrastanti (più Schubert che Beethoven...) Al primo, in RE maggiore, risponde a 15” un controsoggetto nella dominante LA maggiore, aperto dal motto udito poco prima. A 29” ritorna il tema in RE e poi, dopo il controsoggetto in LA, questa tonalità permane canonicamente per la transizione, iniziata dai clarinetti a 56”, verso il secondo tema (1’10”) di cui si ricorderà evidentemente l’allievo Bizet nella sua giovanile Sinfonia in DO, quasi coeva di questa del maestro. L’esposizione si chiude, dopo due schianti di LA e MI seguiti dal solito motto, a 1’42”, per essere ripetuta da-capo, fino a 3’15”.

Lo sviluppo inizia proprio riprendendo il motto e reiterandolo prolungatamente, fino a 3’36” dove riappare il secondo tema, nella sottodominante SOL, in maggiore, poi minore, sfociante (3’53”) nella relativa SIb maggiore (!) Ancora il motto (4’05”) introduce un lungo passaggio che riconduce al RE maggiore del primo tema.

É difficile individuare un momento preciso per l’inizio della ricapitolazione, ma lo possiamo proprio posizionare qui (4’37”) camuffato all’interno dello stesso sviluppo. Poi infatti, a 4’57”, ecco tornare la transizione al secondo tema (5’11”) accodatosi, come da sacri canoni, alla tonalità del primo. É lui a condurci verso la conclusione, con una coda (5’36”) che sfocia (6’24”) in una isolata riapparizione (anche qui Bizet scopiazzerà, nel finale della sua sinfonia) nei corni del motto, prima dei due prosaici schianti dominante-tonica.

Il secondo movimento, invece del tradizionale Andante (o addirittura Adagio) è un Allegretto moderato, 2/4 nella relativa RE minore. Il primo tema è un motivo saltellante, esposto dai soli archi, sfociante nella relativa FA maggiore, che viene subito ripreso anche dai legni. Poi, da 20”, viene ulteriormente sviluppato fino a raggiungere, con la sua cellula iniziale, un culmine (o climax, se si preferisce...) a 57”.

Da qui si diparte una breve transizione che porta, a 1’12”, alla presentazione, nell’oboe, del secondo tema, in SIb maggiore; motivo il cui incipit non può non ricordare quello, sempre in maggiore, della Scène aux champs di Berlioz, cui segue un controsoggetto (1’21”) prima della ripresa del tema, a 1’31”.  A 1’50” ecco un pretenzioso ma interessante passaggio fugato che porta, spegnendosi via via, alla conclusione sull’accordo di RE minore.

Ora abbiamo il canonico Scherzo (3/4, Non troppo presto) nella relativa seconda di RE maggiore, il FA maggiore. Qui siamo in realtà più al menuetto, con il suo incedere lezioso, che sfocia nella dominante DO (27”) dove abbiamo il da-capo, fino a 53”. Attacca quindi il secondo tema (o gruppo tematico) con una divagazione ardita a LAb maggiore e da qui, più canonicamente, a DO maggiore (1’03”) dove torna il motivo del primo tema, poi seguito da saltellanti salite e discese, per arrivare (1’29”) ad una sua riesposizione come dominante del FA di impianto, sulla quale tonalità si chiude (2’06”) lo Scherzo.

Marriner omette il da-capo del secondo gruppo tematico per passare direttamente al Trio, di struttura bipartita, nella sottodominante SIb maggiore. Stante il piglio blando dello Scherzo, viene a mancare qui lo stacco tipico fra le due sezioni del movimento. La prima parte è abbastanza breve, fino a 2’26”, dove viene ripetuta, fino a 2’47”. La seconda parte è più articolata, ma non si discosta dall’ambientazione dell’intero brano, e chiude a 3’29”, dove abbiamo la ripetizione. A 4’10” torna lo Scherzo, senza ripetizioni. Curiosamente, e significativamente, l’indicazione di ripresa reca la dicitura: D.C. il minuetto (!)

Il Finale in RE maggiore (Adagio, 4/4 - Allegro vivace, 4/4 alla breve) inizia con 20 battute lente, che hanno un sapore beethoveniano (qualcosa dell’Adagio della nona e poi - a 55” - dell’introduzione della prima). L’introduzione lenta in RE maggiore si chiude bruscamente (1’54”) con quattro battute di Allegro che portano (1’57”) all’esposizione del primo tema, un frizzante motivo negli archi che cade sulla dominante LA, subito ripreso (2’04”) con l’accompagnamento dei fiati. Il tema si chiude con due sospensioni, sulla sottodominante e poi sulla sesta abbassata (2’11” e 2’15”). Una breve transizione porta (2’24”) ad un motivo esposto da una baldanzosa fanfara di trombe, cui rispondono i corni, poi ripetuta (2’31”) con modulazione alla relativa SI minore. Lo sviluppo di questo motivo conduce a un’ulteriore modulazione sulla dominante LA (2’45”) che prepara l’arrivo del secondo tema.

Tema (3’01”) il cui incipit è una chiara citazione beethoveniana, dal Rondo del 3° Concerto per pianoforte, non a caso presentata dai clarinetti:


Il tema si sviluppa assai, fino a chiudere (3’54”) l’esposizione, ripetuta fino a 5’50”.

Lo sviluppo è aperto da due poderose esternazioni sulla sesta abbassata (SIb) sulla quale tonalità (6’00”) appare nei legni un nuovo motivo, che si ripresenta (6’19”) in DO maggiore. Ecco poi una transizione che porta (6’41”) al secondo tema, adesso approdato al FA maggiore da cui sale (6’47”) al SOL e poi su ancora (6’52”) al LA e infine (6’56”) al RE maggiore. Riecco (7’04”) la fanfara di trombe che chiude lo sviluppo.

A 7’21” ecco la ricapitolazione, aperta dal primo tema cui segue la fanfara (7’47”) e poi (8’18”) il secondo tema, ovviamente in RE maggiore. È ancora la fanfara di trombe ad aprire (9’04”) la spettacolare coda conclusiva.
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Fournillier, da buon francese, cerca di mettere tutto l’esprit de finesse possibile per promuovere al meglio quest’opera del suo illustre conterraneo. Del quale non lascia via proprio nulla, eseguendo meticolosamente tutti i ritornelli. E devo dire che il risultato sia stato largamente positivo. Potrei rimproverargli (haha...) un’eccessiva sostenutezza nell’Allegretto, ma è questione di gusti.

In definitiva, una proposta gradevole (mica si può sempre dare la Auferstehung o il Requiem verdiano...) che il pubblico non strabordante dell’Auditorium ha comunque mostrato di apprezzare assai, gratificando tutti di convinti applausi.

09 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°30


É il Direttore ospite Patrick Fournillier a dirigere il penultimo concerto stagionale, con un programma comprensibilmente (per lui) patriottico: Camille Saint-Saëns che incastona un desueto Gounod. Programma peraltro dalla struttura tradizionale: pezzo breve di apertura, concerto solistico e sinfonia.

Si parte quindi con la Danse macabre, un breve Poema sinfonico (come lo definisce lo stesso Autore) che Saint-Saëns derivò da un suo precedente Lied su testo di Henri Cazalis (di cui aveva musicato tre delle sette quartine) ambientato in un cimitero dove a mezzanotte spettri e fantasmi si sbizzarriscono in danze più comiche che spaventevoli, per la verità, sulle note di un violino scordato suonato dalla Morte in persona:



Il brano è sostanzialmente bitematico: dopo l’introduzione dell’arpa che scandisce la mezzanotte e del violino solista che accorda significativamente sul tritono LA-MIb (la prima corda è calante, al posto del MI naturale) ecco un primo tema agitato e macabro (esposto inizialmente dal flauto e dai primi violini) e il secondo, assai più cantabile, esposto poco dopo dal violino solista. I due temi vengono via via riproposti con sottili variazioni e vengono anche (come in uno sviluppo di forma-sonata) messi contrappuntisticamente in confronto, con l’apparizione, nella tromba, anche del Dies Irae.

Al posto della voce (protagonista del Lied originale) qui è ovviamente il primo violino che ha la parte del leone (anche Mahler nella sua Quarta evocherà la Morte che suona proprio un violino scordato) e così è Nicolai Freiherr von Dellingshausen a mettere in mostra le sue doti, trascinando l’Orchestra in un’esecuzione accolta da ovazioni.
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Ecco poi l’eclettico Roberto Prosseda arrivare per proporci il Concerto per piano pédalier di Charles Gounod.

Il pianoforte con pedaliera è un’invenzione assai antica, che apparenta lo strumento all’organo, consentendo all’esecutore di aggiungere alle 10 dita delle mani (che operano sulle corde dello strumento principale) anche i due piedi, che consentono di percuotere delle corde supplementari (tipicamente su un’estensione di due o tre ottave gravi). Usato come pianoforte consente ad un singolo esecutore di produrre un volume di suono che altrimenti richiederebbe la presenza di un secondo pianista (pianoforte a 4 mani) o anche di un secondo strumento (due pianoforti). Lo strumento è poi in grado - dal punto di vista della tecnica esecutiva - di surrogare l’organo senza richiedere sistemi (automatici o manuali, vedi i mantici) di produzione del flusso d’aria. Compositori famosi hanno scritto brani per il pedal-piano, a partire da Mozart, per passare a Schumann e su fino a Gounod, appunto, e allo stesso Saint-Saëns.

Roberto Prosseda da parecchi anni è diventato, si può dire, il profeta dello strumento, tanto da riproporne l’impiego attraverso numerosi recital e registrazioni, ma addirittura diventando protagonista attivo nello sviluppo tecnologico di questa specie di mostro che pareva ormai destinato alla totale estinzione. Dapprima valorizzando lo strumento (unico esemplare) prodotto dal vicentino Luigi Borgato, il Doppio Borgato, costituito da un pianoforte tradizionale cui è collegato (sistemato al di sotto) uno speciale pianoforte senza tasti a 37 corde (le prime tre ottave gravi, LA0-LA3, della tastiera standard) colpite da martelletti azionati direttamente dalla pedaliera. Successivamente ideando, insieme al costruttore Fratelli Pinchi, un sistema di pedaliera e registri (relativamente leggero e poco ingombrante, quindi più facilmente trasportabile) collegabile a qualunque coppia di pianoforti standard (i 37 pedali azionano delle dita meccaniche che percuotono i normali tasti del pianoforte inferiore) e con un’estensione di ben 5 ottave, impiegabili a gruppi di tre (LA0-LA3, LA1-LA4, LA2-LA5) attraverso registri che comandano la connessione pedale - dita meccaniche, consentendo anche raddoppi all’8va e alla 15ma.

Chi volesse approfondire i dettagli tecnici e storici può leggere due articoli di Prosseda, relativi al Doppio Borgato e al Pinchi. E proprio il PinchiPedalpianoSystem è stato installato in Auditorium per la bisogna, collegandolo a due strumenti Yamaha.

Bene, fatte queste pedanti premesse extra-musicali, veniamo all’oggetto specifico, intanto segnalando che su youtube è possibile apprezzare la prima esecuzione in tempi moderni del concerto, avvenuta a settembre 2011 a Forlì, dove Prosseda suonava sul Doppio Borgato, accompagnato dalla Toscanini diretta da Jan Latham Koenig: Allegro moderato, in MIb maggiore, dal piglio e dal sapore vagamente mendelssohniano, Scherzo, in SOL minore-maggiore, per la verità piuttosto blando rispetto agli stilemi tradizionali, Adagio ma non troppo, una mesta marcia funebre dalla caratteristica struttura a due sezioni in minore che ne incastonano una in maggiore (sempre DO) e infine l’Allegretto pomposo, ancora in MIb, dall’incedere davvero enfatico, ma dove il solista ha modo di esibirsi anche in qualche volata appariscente. Qui invece il primo movimento del concerto suonato da Prosseda con il nuovissimo Pinchi a Pordenone nel 2012.

Parliamoci chiaro, non si tratta certo di un capolavoro, e la sua scomparsa per più di un secolo dagli auditorium e dalle sale di registrazione non si spiega solamente con la difficoltà di reperire il complicato strumento... Rispetto alla cui resa sonora, pur dando atto al sistema Pinchi di consentire ampie varietà timbriche, resta il dubbio che un risultato apprezzabile si potrebbe ottenere eseguendo il brano a quattro mani su unica tastiera o al massimo impiegando due pianoforti per i quali trascriverlo appositamente. Ieri sera francamente la sonorità del pianoforte basso lasciava a desiderare tanto che spesso veniva coperto bellamente dall’orchestra (cui forse Fournillier ha lasciato troppa briglia sciolta).

In ogni caso la proposta di Prosseda e de laVerdi va accolta con interesse, e il pubblico di ieri ha lungamente applaudito orchestra, direttore e solista, che ha concesso ben due encore, dove effettivamente gli strumenti hanno offerto una resa migliore: Alkan e Schumann.  
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L’intervallo ha presentato alla parte del pubblico rimasta in sala un fuori-programma... logistico: lo smontaggio e successivo inabissamento nel sotterraneo sottostante al palco dei due pianoforti e della pedaliera. Il tutto avvenuto in meno di mezz’ora, e vi assicuro che è impresa non da poco.

Ha chiuso la serata la Terza Sinfonia, nella quale Saint-Saëns prevede una parte concertante per l’organo. A proposito, laVerdi ha lanciato un’iniziativa per dotare l’Auditorium di un organo in piena regola (oggi vengono usati strumenti elettronici amplificati). É quindi in corso il processo di reperimento delle risorse finanziarie che servono a raggiungere questo importante obiettivo. 

La Sinfonia è suddivisa formalmente in due sole parti, ma al suo interno in effetti è quadripartita, come nella tradizione classica. É famosa (anche) perchè vi compare un motto che richiama il Dies Irae, presentato fin dall’inizio, e poi protagonista - portato trionfalisticamente in modo maggiore! - nel finale. È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata da Franz Liszt, di cui Saint-Saëns era devotissimo e al quale dedicò la sinfonia.


Sinfonia francamente pretenziosa e piuttosto velleitaria, per la quale (per me) vale la classica definizione di interessante, ma non bella, ecco. Certo Fournillier, che la dirige a memoria, e i ragazzi, han fatto del loro meglio per farcela apparire anche bella... beh, se il bello si rapporta al fracasso del finale, allora ci siamo in pieno!

30 settembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°2


Terza consecutiva presenza sul podio de laVerdi per Patrick Fournillier (lo rivedremo altre due volte nella stagione) che ci guida in una promenade attraverso l’800 operistico francese (con escursione nel primo ‘900) insieme al soprano fiammingo 35enne Iris Hendrickx (nuovo cognome d’arte della Luypaers).

Programma francamente modesto, e non a caso l’Auditorium è rimasto semideserto. La Hendrickx deve aver scambiato il concerto per una sfilata di moda, sfoggiando ben due abiti talmente ingombranti da quasi impedirle l’accesso e l’uscita dal proscenio... Dirò malignamente che sono le cose migliori che ha saputo presentare: voce che negli acuti ha un timbro francamente sgradevole (urla piuttosto che canto) e personalità interpretativa un po’ deboluccia, ecco.

L’Orchestra ha vissuto su qualche assolo (Scarpolini, Santaniello, Stocco, Amatulli, Piva) e su pochi sprazzi di carica dei bersaglieri (Carmen e Samson) per il resto normale amministrazione.

Alla fine bis in pieno ‘900 (Poulenc: Les chemins de l’amour) ma resta la domanda: perchè niente di Meyerbeer, Auber, Halévy? Troppo impegnativi per la voce ? Evabbè, almeno... che non si ripeta.

08 giugno, 2015

A Torino il Faust di Noseda-Poda

 

Ieri il Regio ha ospitato la terza del Faust di Gounod, nell’allestimento curato da Stefano Poda con la concertazione di Gianandrea Noseda. Evidentemente la berlinese disfatta (peraltro onorevole) dei bianconeri di fronte al Messistofele argentino non deve aver pesato molto sulle propensioni melodrammatiche dei torinesi, inducendoli a lasciare pochi spazi vuoti nel loro grande anfiteatro. Oppure è il caldo infernale che gli ha consigliato un pomeriggio con l’aria condizionata compresa nel prezzo del biglietto.   

Si sa che Faust fu a più riprese rivisto e corretto dall’Autore, che era sempre disponibile ai più prosaici compromessi pur di avere le sue opere eseguite. E così non ci si deve scandalizzare più di tanto per tagli o varianti apportate per la messinscena di turno. Nel nostro caso Noseda, in combutta con Poda (per sua stessa ammissione in un’intervista a Susanna Franchi, trasmessa mercoledì da Radio3 in un intervallo della diretta) ha preso le seguenti decisioni (o si è preso le relative libertà…): ha tagliato (ma lo si fa spessissimo, quanto proditoriamente) l’aria di Siebel del quart’atto (Si le bonheur) e il Baccanale di Walpurgis (che non è nemmeno di mano di Gounod, ma di un tale wagneriano a nome Ludwig Alexander Balthasar Schindelmeißer e viene talora eseguito nella versione tedesca dell’opera); sempre in Walpurgis ha invece ripescato - e discutibilmente, poiché furono un cedimento alle stupide esigenze de l’Opéra - due dei sette ballabili (1 e 7) su richiesta specifica di Poda, tagliando quindi il canto bacchico. Ancora su sollecitazione del regista ha spostato alla fine dell’atto (IV) la scena nel Duomo, in pratica ripristinando la sequenza di scene dell’originale di Goethe, che Gounod aveva mutato non senza ottime ragioni. Insomma, la solita costruzione del meccano, più o meno plausibile, tanto per conferire caratteristiche di uniqueness (nel caso specifico: di jamais vu) alla produzione…  

Da parte sua Poda ha però messo su uno spettacolo intelligente, limitando le stranezze a pochi dettagli tutto sommato innocui. Scena perennemente occupata da un gigantesco anello: 10m e più di diametro, 2m di altezza e 50cm di spessore; un martinetto fissato al centro della piattaforma rotante e al bordo superiore dell’anello consente di inclinare questo da angolo zero (quindi adagiato sulla piattaforma e creante un ambiente chiuso) a 90°, facendolo agire da sfondo (più o meno) aperto della scena. Dentro o sotto l’anello troviamo nel primo atto una catasta di libri e riviste (tutta la scienza, enciclopedica quanto non gratificante, del Dottore); che viene coperta nel secondo atto da oggetti di esiguo valore scientifico, ma di alto contenuto esistenziale: bacco (teste di vitello), tabacco (no, questo mancava) e venere (rosse scarpe da donna con tacco 13) tutta roba portata lì da studenti e borghesi in perenne caciara godereccia. Poi ci troviamo una sfera con scritte in tedesco dal Faust autentico e poco più. A proposito di Faust autentico, Méphistophélès alla fine del second’atto s’infila una tunica con l’eloquente scritta Man hat Gewalt, so hat man Recht (Faust II, atto V, Palast). Nell’atto IV sull’anello cala un coperchio con intagliata una enorme croce che poi, con l’anello alzato in verticale e retro-illuminato, crea un grande effetto con la silhouette di Méphistophélès che vi si staglia mentre maledice Marguerite. Nel finale, dopo che l’anello è servito come gabbia per la prigione della protagonista, ne compare un altro sullo sfondo, mentre l’opera si chiude. Insomma, c’è un po’ anche di signore degi anelli (smile!)

Altri simboli da ricordare sono una serie di clessidre che all’inizio circondano la piattaforma, ad indicare a Faust e a noi che tutti si invecchia senza scampo: due clessidre vengono anche recapitate al protagonista e al diavolo tentatore proprio alla fine, da un gruppo di bianchi angioletti, come a dire: credevate di aver raggiunto l’immortalità, fregando il tempo, ma adesso ve lo dovete risorbire, ecco.

Nell’atto III tutti i 4 protagonisti sono a piedi nudi: no, per la verità in un primo momento Marthe ha scarpe con tacco a spillo, poiché ci appare come una classica segretaria un po’ racchia che però vuol far colpo sul capufficio, e infatti subito il diavolaccio le mette le mani sulle tette… e così anche lei si leva le scarpe! Prima però avevamo apprezzato il mazzolino di fiori di Siebel, che per Poda è un cappotto ricoperto di fioroni dai colori sgargianti; così, per non esser da meno, ecco che Méphistophélès, oltre ai gioielli, porta anche un cappotto tutto tempestato di diamanti (ma sì, come diceva Totò, facciamo vedere che siamo ricchi…) e poi i gioielli mica sono in una cassettina, ma in un autentico comò a doppia anta e cassetti! Come potrebbe la povera Marguerite non cedere di fronte a tanto ben di dio? L’atto si chiude con i due protagonisti in posizione… ehm… avete capito, mentre il diavolo se la ride.

L’atto IV comincia lì dove il terzo è finito, ma con Faust che se la svigna, dopo aver evidentemente compromesso la poveraccia, che si vede costretta a scambiare il cappotto prezioso con uno imbottito di fiori secchi e crisantemi! Tagliato l’intervento del povero Siebel, si passa direttamente al ritorno dei reduci dal fronte (la scena nel duomo è spostata alla fine atto). Uomini e donne che nell’atto II vestivano in sgargiante rosso vivo qui son tutti in profondo… nero: si sa, la guerra esige il suo prezzo in vittime e crea vedove in quantità. La serenata del diavolo viene cantata a una fila di 8 donne incinte di… palloncini gonfiabili, che il nostro fa scoppiare uno dopo l’altro mentre canta alla bella Catherine! Poi fra Valentin e Faust c’è un normalissimo duello alla pistola, e così si perde del tutto il determinante intervento del diavolo a consegnare a Faust una vittoria truccata! Come detto, la scena nel Duomo è spostata a fine atto, proprio seguendo la sequenza originale di Goethe (ma anche la prima idea di Gounod). Cosicchè l’incipit dell’organo qui serve per accompagnare, direi appropriatamente, il funerale del povero Valentin. La cui sorellina, appena da lui maledetta, viene quindi ri-maledetta dal diavolaccio e dai suoi accoliti. Va riconosciuto che questa scena è di grande impatto: come detto, la croce entro la quale si staglia la figura di Méphistophélès è proprio da brividi. Qui il regista aggiunge anche – in penombra - un nudo femminile integrale, immagino a simboleggiare tentazioni, peccati e quant’altro.

Sempre a piedi nudi troviamo Faust e sodale nella scena di Walpurgis, dove compare uno stuolo di danzatori spalmati di cerone bruno (faranno i nubiani nel primo dei due balletti e resteranno lì anche nella scena della prigione, così, per ammortizzarne il costo, smile!) e pure completamente nudi (salvo tanga e perizomi per non dover vietare lo spettacolo ai minori di anni 12, ari-smile!) simulando le orge delle grandi cortigiane antiche. Ho già anticipato della scena finale, con la beatificazione di Marguerite e le clessidre consegnate a Faust e sodale.

Ora però non si deve pensare che a me lo spettacolo sia parso un… avanspettacolo, tutt’altro: a parte questi pochi dettagli che vanno presi tutto sommato con simpatia, devo dire che il risultato complessivo di questa proprosta di Poda sia da giudicare completamente positivo. E così l’ha giudicato il pubblico, che ha acclamato il regista e tutta la sua troupe.

Ma consensi calorosi sono andati anche ai protagonisti della parte musicale (che poi è o dovrebbe essere quella che conta). Applausi a scena aperta dopo le principali arie e – questi son stati i più lunghi, e temo che la cosa sia da considerare con sospetto… – dopo i due balletti di Walpurgis. Alle singole, ovazioni e bravo! a non finire.

Irina Lungu mi aveva fatto una buona impressione già anni fa alla Scala e anche ieri è stata una più che convincente Marguerite, che ha ben sopportato anche l’impervio crescendo finale (Anges purs).

Faust era Charles Castronovo, cui forse manca qualche decibel per essere buono e non solo discreto: ha sfoderato i due acuti (SI nell’atto secondo e DO nel terzo) con grande appropriatezza e senza sguaiataggini, risultando un po’ meno efficace nella parte più bassa della tessitura. Ma è giovane e può solo migliorare ancora.

Il Méphistophélès di Ildar Abdrazakov ha mostrato grande presenza scenica e apprezzabile vocalità: cioè ha sempre cantato e mai vociferato o schiamazzato. Personalmente ho gradito di più (palloncini a parte…) la serenata del quarto atto che non il vitello del secondo.

Valentin era Vasilij Ladjuk e convintamente gli assegno un bel voto, su tutta la linea: nella cavatina del second’atto, come nella scena del duello e della morte-con-maledizione del quarto. Bella voce, bene impostata, quasi da baritenore, direi appropriata per il personaggio.

Il Siebel di Ketevan Kemoklidze ha un solo demerito, ma da attribuire alla coppia Noseda-Poda: non aver potuto cantare l’aria del quart’atto! Perché per il resto lei mi è parsa più che efficace in questo ruolo en-travesti, tutt’altro che facile ad interpretarsi come si deve.

Marthe era Samantha Korbey, che qui al Regio non ne perde una (un po’ come Panariello alla Scala, per dire): se l’è cavata discretamente, tenuto conto che la parte non è proprio proibitiva.

Anche il Wagner di Paolo Maria Orecchia ha fatto con onore la sua parte. Sempre all’altezza il coro di Claudio Fenoglio.

Gianadrea Noseda ha ancora una volta guidato i suoi con grande rigore, rispettando quella distaccata nobiltà di scrittura che Verdi rimproverava (credo proprio ingiustamente) a Gounod. Ottima la sua concertazione delle voci e quindi meritate le ovazioni che l’hanno accolto all’uscita. 

Bene, ci fosse stata anche una… coppa, sarebbe stata una giornata irripetibile! 

24 giugno, 2011

Alla scala Capuleti e Montecchi secondo Gounod



Ieri sera ultima rappresentazione alla Scala del capolavoro di Charles Gounod, che vi mancava da pochissimo tempo (in fin dei conti, cosa volete che siano 77 anni, in confronto all'eternità?)

Come è capitato in altri casi, anche Roméo et Juliette ha subìto vicissitudini più o meno tormentate, a fronte delle quali esistono diverse versioni dell'opera, oltre ai soliti tagli storicamente praticati con l'approvazione, o la tolleranza, dell'Autore. Cosa che dà modo a registi e direttori di inventarsi ogni volta una nuova presentazione. In questo caso è stata presa come base la versione del 1888 (che Gounod approntò per l'esordio all'Opéra) alla quale sono stati apportati alcuni tagli, sia tradizionali (balletti) che non; in compenso riaprendone altri. Insomma, non siamo proprio in una situazione caotica tipo Boris, ma poco ci manca.

Un primo taglio è nel finale I, la proposta di Tybalt di inseguire i rivali, l'altolà di Capulet e il coro che inneggia alla festa: francamente è un taglio quasi usuale e non ci priva né di grande musica, né di pathos drammatico. Poi è accorciato il duetto del finale II (dove Juliette vorrebbe Roméo legato con un filo di seta, come un uccellino che un bambino riporta a sé quando si allontana troppo). Effettivamente questo scorcio si porta dietro anche ripetizioni (eccessive?) di cose già dette e ripetute, ma il taglio pare effettivamente ingiustificato e oltretutto mai accettato di buon grado dall'Autore. Poi ancora nel quartetto dell'atto IV sono tagliate 16 battute (4 versi) cantate da Capulet (L'autel est préparé): taglio davvero cervellotico, non fosse che per la dimensione esigua (di tagli del genere se ne potrebbero fare allora decine e decine). Sempre nell'atto IV è tagliata gran parte della cerimonia nuziale: nulla da dire per quanto riguarda i balletti (sappiamo fossero un immancabile quanto insensato debito alle regole del GrandOpéra) però i tagli del corteo nuziale e dell'Epithalame paiono meno giustificati (anche se non nuovi, ovviamente). Infine nell'atto V sono tagliati l'Entr'acte e la scena fra Laurent e Jean: probabilmente il secondo taglio (più che ammissibile, chè il breve scambio di parole fra i due frati ci dovrebbe solo rendere edotti del fatto che Roméo non conosce lo stratagemma della finta morte di Juliette, cosa che però ci verrà da lui stesso chiarita in seguito) ha imposto anche quello dell'Entr'acte, per evitare la concatenazione con un secondo preludio, qual è in effetti il successivo Sommeil de Juliette, con cui quindi si apre l'atto in questa produzione. Invece è stato – giustamente, perché grande musica – eseguito Amour, ranime mon courage dell'atto IV, che Gounod fece tagliare addirittura alla prima del 1867 e per molti e molti anni non fu eseguito.
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Dalle circa tre ore (nette) di musica dell'originale siamo quindi passati a poco più di 2 ore e mezza e ciò ha consigliato di proporre i cinque atti in due soli spezzoni, con un unico intervallo. Posto in corrispondenza della cesura fra i due quadri del terzo atto, cioè dopo il matrimonio segreto e prima della rissa fra le due tifoserie. Scelta tutto sommato condivisibile, dato che in pratica crea uno spartiacque fra il versante ascendente del dramma (l'amore che nasce, si consolida e si concretizza in uno scenario di un promettente futuro) e quello discendente (gli omicidi, la condanna di Roméo, il patetico-pazzesco stratagemma di Laurent e il precipitare verso la tragica-nobile fine dei due amanti).
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La regìa di Bartlett Sher è piuttosto tradizionalista nell'ambientazione (del resto di versioni del dramma portate ai giorni nostri ce n'è anche di autentiche e originali, con tanto di parole e musica appositamente composte, vedi West Side Story… per giustificare allestimenti in chiave contemporanea) ma abbastanza gradevole nel complesso, pur con qualche trovata fra il velleitario e il gratuito: come la scena di stupro durante il prologo, oppure i petardi che scoppiano addosso a Juliette al suo ingresso o alcuni gesti immotivatamente bruschi (Tybalt con Juliette e Gertrude con Tybalt). Poi nel duello Roméo-Tybalt casca dall'alto un enorme lenzuolo bianco, che scopriremo solo più tardi servire da maxi-copriletto per il maxi-letto di Juliette e poi ancora come strascico dell'abito nuziale della protagonista. A proposito del duello, anziché con la spada, Roméo ferisce Tybalt in modo poco sportivo, per così dire: lo aggredisce alle spalle mentre è disarmato e lo accoltella con un pugnale. E questo pugnale sarà poi quello che Juliette impiegherà nel finale, dove peraltro arriverà in modo assai contorto: non già nascosto da Juliette sotto la veste prima di svenire e quindi ritrovato al cessare dell'effetto della droga di Laurent (come ci informa il libretto originale) ma abbandonato sul terreno al momento della finta morte e miracolosamente ricomparso sul catafalco, accanto al corpo di Juliette al suo risveglio. Ma insomma, un regista che segua pedissequamente le didascalie originali oggi ci farebbe la figura del pirla, quindi qualche invenzione bisogna pur proporla al pubblico che esige novità.
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Gounod con quest'opera realizza una specie di sincretismo fra diversi generi e tendenze musicali. Non pretende di rivoluzionare nulla: siamo sempre ai numeri (più o meno) chiusi, collegati da recitativi accompagnati, ma vi fa capolino anche Wagner, quello giovane, che si sente distintamente e immediatamente all'attacco dell'Ouverture (quasi copiato da quello dell'Holländer, con la base di RE minore - quinte vuote - sostenuta dagli archi) e poi in alcune transizioni che ricordano Lohengrin. Ma anche in uno sfumato tristanismo che emerge qua e là. Nulla di wagneriano invece nella trattazione dei Leit-motive, dove Gounod si limita a pochi – anche se mirabili – richiami tematici in alcuni momenti topici del dramma. In un passo di Frère Laurent pare anche di sentire Sarastro nel finale del Flauto. Singolare – e difficilmente casuale – la citazione quasi alla lettera del tema del Concerto per violoncello di Schumann che udiamo nell'atto IV, all'attacco del N° 17 (scena e aria di Juliette Dieu! Quel frisson court dans mes veines?):
Quanto al contenuto del dramma, sappiamo che Gounod - per quanto colpito da giovane dal finale della Sinfonia Drammatica di Berlioz - allorquando dopo quasi 30 anni si mise a comporre la sua opera pensò bene di divergere da Berlioz-Shakespeare e di avvicinarsi caso mai a Wagner, puntando tutto sui sentimenti e sul privato.
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Sul fronte dei suoi imitatori (per così dire, o ammiratori) troviamo ad esempio il Ciajkovski dell'Onegin (ma non solo). A proposito del compositore russo, era così innamorato dei lirici francesi che li citò più volte anche nella sua produzione strumentale: oltre al Bizet (Carmen) che compare scopertamente nel Concerto per violino e nel primo movimento della Patetica, anche tratti del Romèo si odono nel finale del Concerto per pianoforte e nella stessa Patetica. Ma lo stesso Mahler non ha scherzato nel ricordarsi di alcuni struggenti passaggi dell'opera (ad esempio nel finale della sua prima sinfonia).
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Yannick Nézet-Séguin - di fatto un francese, pur se nordamericano - ha mostrato di calarsi assai bene nello spirito e nelle atmosfere gounodiane: fracassi limitati al minimo indispensabile, per le scene di massa – festose o cruente – fra le fazioni guelfo-ghibelline della Verona rinascimentale; e invece delicatezza di suono e lirismo (appunto) hanno caratterizzato la sua direzione - di un'orchestra abbastanza diligente - assai curata anche nel sostegno dei cantanti.
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I quali han fatto ciò che potevano e sapevano: cioè cose non strepitose, diciamolo francamente. La voce di Pavarotti uno non può inventarsela (vale per Grigolo, che però ha un bel fisico, non c'è che dire, cosa che oggigiorno pare contare più della voce) e però si potrebbe perfezionare ancora, onde superare il livello di semplice sufficienza (questo consiglio è indirizzato anche a quella bella gnocca di nome Nino). È toccato ai comprimari Vinogradov (un Laurent con gran voce e buon portamento) e Braun (apprezzabile la sua Reine Mab) alzare un filino la media, mentre Ferrari (un mediocre Capulet) Burggraaf (poco efficace come Stéphano) e Gatell (un Tybalt piuttosto spento) non hanno propriamente incantato. Gli altri (vedi locandina) hanno fatto il loro dovere. Sempre bene anche il coro di Casoni.
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Successo caloroso per tutti, e adesso, chiusa questa apparizione al Piermarini, a Roméo et Juliette non resta che dire: arrivederci al 2088!
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01 luglio, 2010

Un gratuito Faust alla Scala

La seconda recita del Faust (quinta in calendario, ma arrivata dopo tre annullamenti causa sciopero) è stata gentilmente offerta al pubblico dalla Direzione del Teatro. Che rimborserà il prezzo del biglietto, a risarcimento del danno provocato al livello artistico della rappresentazione dalle agitazioni delle maestranze, che anche ieri sera – pur non scioperando – hanno manifestato contro il decreto (anzi ormai la Legge-Bondi) presentandosi (orchestrali e coro) in abiti borghesi. Gesto – questo di Lissner - tanto squisito quanto eccessivo, datosi che il casual ai professori d'orchestra può addirittura far bene, lasciandoli più liberi nei movimenti (personalmente non avrei nulla in contrario che vestissero così anche a SantAmbrogio) e – non lo avessero annunciato nel pistolotto in apertura di spettacolo – forse nessuno si sarebbe accorto che il coro era in borghese, vista la totale improbabilità dei costumi di tutto il resto della compagnia.

Piuttosto, se un motivo per il risarcimento esiste, è da individuarsi nell'intollerabile sequela di lungaggini che ha esasperato un pubblico (assai scarso in platea e palchi, per la verità) costretto a sorbirsi 5 minuti di ritardo iniziale, cui se ne sono aggiunti almeno altrettanti per il proclama sindacale, accolto da applausi, ma anche da vivaci rimostranze (certo che il gradimento di Berlusconi fra il pubblico scaligero dev'essere un filino più basso del 68% sbandierato dal nostro PM ad ogni piè sospinto… forse è per questo che lui alla Scala non ci mette piede?) e poi addirittura 40 minuti di secondo intervallo, roba che neanche a Bayreuth! Col risultato di far abbassare l'ultimo sipario 10 minuti dopo mezzanotte, con gente che da un po' se ne andava alla spicciolata, per non perdere l'ultimo metrò.

Peccato, perché in fin dei conti questo Faust non è peggio di altre disdicevoli imprese di questa stagione scaligera. Nekrosius propone una regia piuttosto strampalata e piena di simboli ed ammiccamenti (vuoi bambineschi, vuoi ridicoli) ma con qualche spunto intelligente, e soprattutto non si sogna di inventarsi un Konzept che stravolga la sostanza dell'originale (messaggio per tali Dante e Padrissa, tanto per non far nomi, ma cognomi): insomma, ci presenta passabilmente il Faust di Barbier-Carré-Gounod, almeno nello spirito, se non proprio nella lettera. E la compagnia di canto (Kapellmeister incluso) sarà pure di livello modesto (per le pretese della Scala) ma non certo peggio di altre, anche assai più titolate, che hanno allietato le serate di questa stagione.

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Si comincia con il sipario che si alza poco dopo l'inizio dell'Introduction, mostrandoci Faust in un ambiente che presenta due vie di fuga, delimitate da strutture di legno: lui è effettivamente ad un bivio della sua esistenza: libri aperti cosparsi in giro sul pavimento, ed un grosso macigno (il fardello degli anni e della sapienza?) che il nostro cerca di spostare con gran fatica. Peccato che proprio mentre lui è curvo sotto il peso del pietrone, l'orchestra abbia ormai esaurito il suo tema cromatico e oscuro, e presenti quello dolce, in FA maggiore (quello dell'aria di Valentin) che francamente stride con ciò che lo spettatore vede. Due comparse abbigliate da rondoni (con le ali che paiono a volte delle stampelle!) si aggirano nell'ambiente (torneranno anche più avanti) forse a impersonare il destino (ma perché non sono direttamente dei corvi?)

Dopo le irruzioni di ragazze e contadini, che sviano l'attenzione di Faust dall'ampolla del veleno, arriva Méphistophélès: tutto nero come un pipistrello e con attrezzo atletico in spalla, un'asta che serve evidentemente a superare ostacoli apparentemente impossibili. Al seguito un piccolo marinaretto, che gli fa da aiutante, o da remora, tanto per movimentare la scena.

La visione di Marguerite è proposta tramite riciclaggio delle prefiche della Emma Dante, che accompagnano la ragazza (e che poi torneranno via via nel corso del dramma): un simbolo non proprio fuori posto, poiché – a differenza di Carmen – qui è già chiaro fin dall'inizio che tutta la faccenda puzza di …bruciato. Certo che la scena resta piuttosto poco poetica, a dispetto delle quattro battute con cui Gounod chiude il MI maggiore della visione, citando esplicitamente il Sogno mendelssohniano!

Méphistophélès dà a Faust il suo filtro di eterna giovinezza, e in cambio si beve il veleno destinato al professore (questa Nekrosius ce la dovrebbe spiegare). Poi, seguito dal discepolo ringiovanito e rivestito a nuovo (e dal marinaretto-remora) si avvia di rincorsa con la sua asta, a superare ogni ostacolo!

Il secondo atto inizia con la Kermesse, dove si dovrebbe vedere gente agitata e allegra. Qui appare il coro (in borghese, ma pochi se ne accorgerebbero) che resta però piuttosto fermo, lasciando a poche comparse (e alle prefiche ed altri oscuri individui, dei menagramo evidentemente) di mimare siparietti più o meno piccanti e di animare la scena. Questa sarà una costante: il coro sempre fermo, anche quando (valsons!) dovrebbe ballare il walzerone del finale d'atto. Che sia una stranezza della regia, o una forma di sciopero bianco anti-Bondi? C'è poi Wagner, con un gomitolone di spago in mano, il cui significato dovrà esser chiaro al regista e alla sua ristretta cerchia di amici.

Arriva Valentin ad esporre l'aria appositamente scritta da Gounod per un baritono inglese che si sentiva giustamente castrato, in assenza di un proprio pezzo di bravura. È accompagnato da Siébel, su cui val la pena dire un paio di cose. Ora, già ci ha pensato Gounod a prendersi gioco di lui, facendolo interpretare (en-travesti) da un soprano, ma Nekrosius mostra un accanimento degno di miglior causa, affibbiandogli una malformazione congenita, facendone insomma un povero paraplegico che zoppica in modo plateale. Roba da avanspettacolo, aggravata da altre gratuite ed offensive gag: come quella dove Méphistophélès gli infila sotto un piede una zeppa, per… chiudere il dislivello fra le due gambe!

Senza infamia né lode il resto, salvo la mancanza dell'esplicito gesto esorcizzante (le spade incrociate che tutti oppongono a Méphistophélès, e che qui si riducono a due giocattoli impugnati dal marinaretto…) Dopo il walzer che nessuno balla, con l'intermezzo dell'approccio di Faust a Marguerite, che dà modo al tenore di esibire il suo SI acuto, si chiude per il primo intervallo (solo una mezzoretta).

Il terzo atto si apre con un altro gratuito sgarbo del regista al povero Siébel, il cui cofanetto (sic!) colmo di fiori viene trafugato da Méphistophélès, insieme ad una lettera della cui presenza non v'è traccia nel libretto. Poi c'è la cavatina di Faust, col DO acuto della présence, e la presenza di Marguerite si materializza, con lei che avanza fino al proscenio portandosi dietro una sedia (Faust da parte sua ne maneggia un'altra) per poi uscirsene lateralmente (ma quanto lo pagano Nekrosius per queste trovate?)

Nella lunga scena dell'arcolaio, l'arcolaio manca, ma tanto è un dettaglio secondario. Al suo posto Marguerite gioca con una bambola (lei è davvero una bambina ingenua, non c'è che dire) e così canta i suoi recitativi che introducono la canzone del Roi de Thulé e l'aria dei gioielli, di cui la ragazza prende due enormi gocce, mentre si intravedono (ma solo dal loggione) anche montagne di perle dentro la vera e propria cassa del tesoro procurata da Méphistophélès.

La scena successiva (incontro Méphistophélès-Marthe e poi il quartetto a due coppie) si svolge non all'aperto, ma in un ambiente interno, nella casa, dove compaiono ancora prefiche varie, più che altro a distrarre l'attenzione dello spettatore. Poi il duetto fra Faust e Marguerite, introdotto dall'invocazione di Méphistophélès, in DO maggiore, che ricorda – orrore! – nientemeno che quelle di Brangäne nel secondo atto del Tristan. Marguerite, invece che alla finestra, si accomoda su una panca-divano sul proscenio per la sua esternazione, con i due che la spiano in un angolo. Poi Méphistophélès dà un bel pugno in testa a Faust (come dirgli: visto, stupidone?) e lo spedisce fra le braccia della ragazza, poi disteso per terra, accanto al divano su cui giace Marguerite (?!)

Nel quarto atto cominciano i tagli, prima vittima la scena e recitativo iniziale di Marguerite, che comincia dal Il ne revient pas! Qui si vede una piccola culla che a un certo momento viene letteralmente impalata, per poi precipitare a terra, a significarci la brutta fine che fa il piccolo di Marguerite. Altro taglio non da poco è la scena con Marguerite-Siébel e la romanza di quest'ultimo/a (Si le bonheur) per cui si passa direttamente in chiesa, dove arrivano due enormi croci nere, circondate e movimentate da prefiche, menagrami vari, rondoni e altri spiriti malignazzi, oltre al coro in borghese che canta il suo spurio dies-irae. Una scena davvero impressionante, nulla da dire.

Si torna in piazza, col famoso coro dei soldati e con Siébel che arriva zoppicando col suo immancabile cofano-pedana-sgabello, seguito dal reduce Valentin, ansioso di rivedere la sorellina. Invece arrivano Faust e Méphistophélès che, appeso alla sua asta (sorretta da un paio di prefiche) canta la sua oltraggiosa serenata, il che fa impazzire Valentin. Il successivo duello non esiste, in pratica: Valentin è sopraffatto da forze oscure e preponderanti, cade ferito e poi, come ogni eroe che si rispetti, prima di tirare definitivamente le cuoia ha ancora tempo ed energie per fare il suo pistolotto strappalacrime. Tutto come da copione.

Devastato – come prevedibile, altrimenti si finiva alle due di notte – il quinto atto. In pratica, salvo l'introduzione di Walpurgis e una piccola parte della scena del palazzo di Méphistophélès e della valle di Brocken, si passa direttamente alla prigione di Marguerite, dopo che la ragazza è apparsa a Faust in abito da sposa e in mezzo a bianchi gigli. Quindi niente Choeur des Feux Follets, niente Chant bachique. E - ci mancava pure ! – niente balletti. Faust e Méphistophélès arrivano alla prigione in carrozza chiusa, con asta sul tetto e l'immancabile seguito di marinaretto, prefiche e quant'altro.

La scenografia della prigione ribalta – intelligentemente – quella che aveva accompagnato il resto dell'opera (la doppia via di fuga, la Y, il bivio): qui abbiamo invece una V, un imbuto aperto sul proscenio e chiuso sul fondo: non ci sono e non ci devono essere alternative, né vie di fuga. Marguerite, invece del suo arcolaio, si è portata un tamburello per il punto-e-croce. Solo che – impazzita, poverina! – tiene il tamburello con due mani e manovra l'ago con i denti (grazie Nekrosius!)

Al termine del suo emozionante Anges purs, anges radieux! che sale dal SOL al LA e infine al SI, sul fondo comparirà una cosa bianca, a rappresentare evidentemente il paradiso – Christ est ressuscité, DO maggiore - concesso a Marguerite, che vi si adagia, mentre Méphistophélès cerca ancora di difendere il possesso della sua asta miracolosa.

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Come sono andate le cose sul fronte musicale?

Irina Lungu è stata per me una più che discreta Marguerite: bella voce, forse non potentissima, ma gradevole, senza urla né eccessivo vibrato. E perfettamente calata nella parte, di ragazza ingenua e fragile, facile preda e vittima di tutti i mali e pregiudizi della società. Per lei anche l'unico vero applauso a scena aperta.

A Nino Surguladze va almeno riconosciuto il merito di aver stoicamente sopportato le vessazioni del regista! Senza infamia né lode la sua prestazione, peraltro decapitata della romanza del quarto atto che è la parte forse più importante di questo ruolo.

Sylvie Brunet è stata una Marthe dignitosa, per ciò che la parte prevede. Così come dignitoso è stato Olivier Lallouette, che impersonava Wagner.

Il Valentin di Dalibor Jenis ha avuto luci ed ombre, gli darei una risicata sufficienza. Mi è piaciuto più nella scena della morte che nell'aria del secondo atto, dove mostrava carenze nelle note basse (il MIb di attacco).

Roberto Scandiuzzi mi è piuttosto piaciuto, dico la verità: un Méphistophélès abbastanza autorevole, voce che passa bene – pur se non sempre perfettamente intonata - e grande presenza scenica.

Marcello Giordani era Faust: si è beccato una contestazione, ma io tenderei a dargli una sufficienza chiara. La sua voce si è sempre sentita perfettamente, ha sparato i suoi due acuti in modo pulito, non ha commesso strafalcioni, e di questi tempi è già qualcosa.

Stéphane Denève ha diretto più che discretamente, mai soffocando le voci, neanche negli insiemi fracassoni e l'orchestra – grazie agli abiti casual? – è parsa a suo agio con le delicatezze e i languori di questo Gounod.

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Insomma, un Faust per nulla malvagio che sta – io non ho dubbi – ampiamente sopra la media del livello delle produzioni di questa stagione.