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21 novembre, 2020

Belisario da Bergamo

La seconda giornata del trittico donizettiano di questo Festival 2020 ci ha proposto in streaming (non diretta... ma fa poca differenza) Belisario, opera immeritatamente dimenticata da più di un secolo e ancor oggi proposta col contagocce.

La presenza dei cori, già corposa nel Faliero, qui nel Belisario è addirittura esorbitante. E se già per il Doge veneziano l’impossibilità di portare il Coro in scena aveva negativamente condizionato la rappresentazione, per il condottiero di Costantinopoli l’avrebbe del tutto compromessa. Obbligata quindi è stata la scelta di proporla in forma di concerto.

Placido Domingo era stato originariamente scritturato per la parte del titolo, un suo ennesimo sconfinamento in territorio baritonale. Beh, lasciatemi dire che qui il Covid ci ha aiutato (!) Roberto Frontali non sarà un superman ma, vivaddio, è un baritono, e si sente!

Bravissima, ma secondo me troppo bambina (solo nella voce, ma qui conta assai) è la Carmela Remigio, un’Antonina che meriterebbe voce da soprano lirico, non dico drammatico.

Perfetta invece per la parte di Irene la voce di Annalisa Stroppa, che metterei in testa alla mia personale classifica.

Celso Albelo più che dignitoso come Alamiro(/Alessi) e un filino sotto l’imperatore Simon Lim.  

Come ieri, ottimi Orchestra, Coro e il Kapellmeister Frizza.

Il doge autocomplottista ha aperto il Festival Donizetti

E così ieri sera questo Festival davvero particolare ha preso il via, nel teatro Donizetti ormai quasi rimesso a nuovo, purtroppo a porte chiuse, ma aperto al pubblico televisivo e webbico.

Fosse questa anche l’unica ragione (ma non è l’unica) dell’impresa... già il tenere-acceso-il-motore di un teatro è cosa di cui andar fieri (per chi lo ha realizzato) e, per chi ne ha potuto godere, motivo di consolazione, di speranza e di ringraziamento.

Insomma: nonostante tutto, abbiamo avuto la prova dell’esistenza in vita - e pure della buona salute! - di qualcosa che davamo purtroppo per morto, sia pur provvisoriamente.

Ieri sera il Marino Faliero ha potuto entrare nelle case di tutti grazie a RAI5 e Radio3, e altre due opere (Belisario e Le nozze in villa) potranno entrare - oggi e domani - nelle case dei molti (pare siano già migliaia) che hanno sottoscritto o sottoscriveranno l’abbonamento alla Donizetti-webTV.

E al proposito merita apprezzamento tutto il contorno di iniziative e di contenuti che la WebTV del Teatro ha messo in campo per rendere ancor più accattivante la fruizione degli spettacoli del Festival: dall’apertura del foyer (alle 19:30, mezz’ora prima dello spettacolo) dove il fac-totum Francesco Micheli e Alberto Mattioli introducono gli ospiti della serata (ieri è toccato al vulcanico Diego Passoni di Radio Deejay, all’attrice Cristina Bugatty e alla stylist Viviana Volpicella; questa sera ci sarà il Sindaco Giorgio Gori ad introdurre il contenuto politico del Belisario)... ai commenti e ai pareri sullo spettacolo, che gli ospiti si scambiano nell’intervallo... per finire con gli innumerevoli contenuti registrati e disponibili sul sito.

Non è certo questo il momento di fare gli schizzinosi, citando i tanti difetti e i tanti contro che l’allestimento in era-virus e la fruizione degli spettacoli via etere o www comporta: i pro sono tali da giustificarli ampiamente. Di ieri sono comunque da citare le eccellenti prove del venerabile Michele Pertusi e della bravissima Francesca Dotto, ma tutti gli altri interpreti sono da elogiare. Menzione speciale poi per il Coro e per l’Orchestra (spezzata in due tronconi - fiati-archi - contrapposti e separati dal plexiglas) e per il mio concittadino Riccardo Frizza, ormai entrato nel novero dei Direttori di spicco nel panorama lirico.   

A proposito di Coro, la sua reclusione (Covid-dipendente) nel buio del fondo-scena ha ovviamente privato lo spettacolo della presenza e dei movimenti di questo autentico quanto speciale personaggio. Così il regista Stefano Ricci ha dovuto ripiegare sulla presenza in scena (coreografata da Marta Bevilacqua) di danzatori-figuranti che hanno animato in qualche modo quell’inestricabile ginepraio - inventato da Marco Rossi - di impalcature metalliche, scale e praticabili sui quali si muovevano, a debita distanza, i protagonisti, tutti sfoggianti bellissimi costumi disegnati da Gianluca Sbicca. Efficaci a supportare l’atmosfera cupa del dramma le luci di Alessandro Carletti.  

E allora: W Donizetti, W Bèrghem, W l’opera e... morte al virus!

22 ottobre, 2018

Semiramide rinasce in laguna


È tornata nella sua casa natale la più grande opera (escludendo magari il Tell) di Rossini. Dopo la prima di venerdi scorso (trasmessa da Radio3) ieri pomeriggio(-sera...) è andata in scena la seconda recita, in un teatro non propriamente esaurito.

Prima dell’inizio ho fatto un giretto nella Sala Ammannati per dare un’occhiata a quell’autentico cimelio ivi esposto in questi giorni: la partitura autografa dell’opera. E si prova una certa emozione nel contemplare da vicino quelle carte da musica sulle quali il genio pesarese vergò le strabilianti note del suo capolavoro. Note che hanno ancora riempito gli spazi della Fenice, proprio come accadde per la prima volta quel lunedì 3 febbraio del 1823.   

Sulle diverse bizzarrie del libretto, che il Rossi ricavò da Voltaire (peggiorandolo assai) ho già scritto la mia un paio d’anni orsono, in occasione di una produzione del Maggio, quando ho anche sintetizzato la struttura dell’opera, appoggiandomi ad un’esecuzione in terra vallone del padreterno Zedda (che insieme al co-padreterno Gossett approntò l’edizione critica per la Fondazione Rossini). E ciò che viene presentato oggi è la versione praticamente integrale del lavoro, come testimoniano ampiamente le quasi 4 ore di durata netta della rappresentazione, che eguaglia praticamente al minuto secondo (anche nei singoli atti) quella della citata edizione di Zedda. 
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Segnalo subito la recensione di Amfortas, che mi sento di condividere largamente nella sostanza. 

Di Riccardo Frizza - da bresciano tifo per lui - non posso dir che bene: non che non lo conoscessi, ma qui passava dal cockpit di un chessna a quello di un A380! Che ha guidato con grande sicurezza e padronanza della... materia. E l’Orchestra della Fenice lo ha pienamente assecondato, reagendo sempre con precisione e compattezza ai suoi comandi.

Ottima anche la prestazione del coro di Claudio Marino Moretti, che è impegnato (maschi e femmine) in misura quantitativamente (nulla è tagliato) e qualitativamente massiccia. 

Jessica Pratt è ormai una beniamina della Fenice ed ha ottenuto un gran trionfo. Personalmente, riconosciuta la sua strabiliante forma, torno a manifestare le mie perplessità sull’aderenza vocale del soprano anglo-australiano al ruolo di Semiramide. Qui non si tratta di fare impropri e impossibili paragoni con una tale Isabella, però ci son pochi dubbi che Rossini abbia scelto il personaggio proprio per il profilo chiaramente drammatico, che richiederebbe una voce diversa da quella adatta ad una Astrifiammante, per dire. E così la voce spiccatamente lirica e i MI naturali e MIb sovracuti che la Jessica ha splendidamente sciorinato fanno restare il pubblico a bocca aperta, ma non sono - sempre a parer mio - perfettamente appropriati alla personalità del ruolo-titolo: una femmina che - contrariamente a ciò che certa tradizione tramanda, di ninfomane incallita - per Voltaire e Rossi-Rossini è una fredda creatura avida di potere, e quasi di null’altro. Gli uomini sembrano interessarla solo come marionette da impiegare ai suoi fini: Assur per farsi aiutare da lui a far secco il marito che la stava ripudiando... adesso Arsace (che lei crede un proletario fedelissimo e pronto a tutto per lei) da nominare Re (travicello) solo per garantire a se stessa la perpetuazione del suo potere. 

Chi invece mi ha abbastanza impressionato è la Teresa Iervolino, un Arsace dalla voce morbida ed intonata, cui manca (ancora?) un po’ più di profondità e di robustezza. Purtroppo di Podles non ne nascono tutti i giorni, ma il contralto romano (non ancora 30enne) è sulla buona strada per emergere nel panorama musicale. 

Alex Esposito è un Assur sufficientemente autorevole: la sua voce è forse un filino troppo chiara (sempre per i miei gusti) ma lui compensa con la sua proverbiale presenza scenica. A proposito: la regista lo presenta dapprima con problemi di deambulazione (bastone da passeggio perennemente imbracciato) poi nel finale il nostro mostra doti addirittura da acrobata (?!) 

Il ragusano (trapiantato per l’occasione in India) Enea Scala se la cava discretamente come Idreno, parte affatto facile, sia detto, anche se gli acuti (fino al RE, peraltro) sembrano un po’ ghermiti... alla sperindio. La sua partner... poco convinta, Azema, è una Marta Mari ben dotata di mezzi naturali, che deve (come il tenore) mettere meglio a partito. 

Rimarchevole, soprattutto per presenza (un filino meno per portamento vocale, stante qualche berciata di troppo) l’Oroe di Simon Lim

Completano degnamente il cast il Mitrane di Enrico Iviglia e (invisibile ma... ampiamente controfigurato) Francesco Milanese che dà voce alla spaventevole ombra di Nino, che si aggira minacciosa a partire dalla fine del prim’atto. 
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L’allestimento della giovane Cecilia Ligorio è essenziale nella scenografia (di Nicolas Bovey) che nel primo atto si riduce a uno scorcio di banlieu di Babilonia, che funge da tempio di Belo e poi da reggia di Semiramide, con ampio sfoggio di ori e piante... pensili; e nel secondo si riduce ad una piattaforma circolare all’interno di una scena totalmente buia e nera, direi appropriata allo scenario generale, che vede il compiersi della tragedia. Che anche l’intermezzo (teoricamente) idilliaco della definitiva unione (e conseguente... scomparsa) di Azema e Idreno sia ambientato in questa specie di girone infernale non è poi del tutto fuori luogo: credo che da buona femminista la Ligorio abbia voluto sottolineare come per una donna il dover seguire un uomo controvoglia sia, appunto, un inferno (qui però la regista ha dato retta più a Voltaire che a Rossi-Rossini, per i quali la fanciulla parrebbe accontentarsi anche di uno che fa l’indiano). 

Le luci di Fabio Barettin si adeguano perfettamente alla duplicità dello scenario: abbaglianti per rendere al meglio lo sfarzo della sfolgorante Babilonia e poi... assenti o quasi nel second’atto. 

I costumi di Marco Piemontese sono un pot-pourri di stili, mode ed epoche, una maniera come un’altra per rappresentare degli archètipi, senza dare precisi riferimenti: si va da abbigliamenti più o meno plausibilmente babilonesi (il popolo del primo atto) a uniformi militari austro-ungariche (Idreno) ad acconciature da barbie (Semiramide, Azema) e Rasputin (Assur); al bizzarro vestimento guerresco di Arsace, per finire ai completi neri (cappelli inclusi) degli scagnozzi di Assur, un autentico branco di pipistrelloni. 

Non particolarmente eccitante la recitazione: salvo Esposito che ci mette del suo, gli altri paiono lasciati un po’ a se stessi e non è che brillino particolarmente. Brava la coreografa-ballerina Daisy Ransom Phillips con le quattro danzatrici che fungono da ancelle del gran sacerdote. 

In conclusione, uno spettacolo più che dignitoso, che il pubblico ha accolto con grande favore gratificando tutti e ciascuno di applausi e di bravi! Per me, una trasferta tutto sommato piacevole.

10 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala - Pezza d’appoggio


Ho lasciato passare qualche giorno, per non correre rischi di denuncia (hahaha!) da parte dei solerti cerberi del Teatro, ma adesso provo a integrare il mio precedente commento mettendo a disposizione dei 4-5 milioni di miei lettori (ai quali chiedo di mantenere il più assoluto segreto, altrimenti Pereira mi fa condannare al 41-ter) l’audio della prima del Pirata che ho commentato nel precedente post. In ogni caso, se hanno dato i domiciliari a Dell’Utri, posso sperarci anch’io!

(Della qualità della registrazione non sono per nulla responsabile, sia chiaro.)  

07 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala


Ieri sera è andata in onda - con intermezzo giallo - la terza delle otto recite de Il Pirata, che tornava alla Scala dopo 60 anni di assenza. Teatro gruviera come capita spesso, con pubblico abbastanza caloroso, tanto che non si sono ripetute le vivaci contestazioni seguite alla prima (vittime sacrificali il cattivone di turno Alaimo, il concertatore Frizza e il regista Sagi) ascoltata per radio venerdi.

Fino a ieri la registrazione di quella recita era disponibile in rete, prima che il Teatro la facesse rimuovere d’autorità. Io nel frattempo mi ero preso la briga di analizzarla da vicino per cercare di comprendere le ragioni (o i pretesti) del fiasco iniziale e del (relativo) riscatto successivo. Ovviamente potendo giudicare l’agogica (tempi) e gli accenti, assai meno le dinamiche, che vengono fatalmente distorte - leggi: appiattite - dalla ripresa radio. Ho deciso (per non buttare l’investimento fatto... haha) di pubblicare comunque queste note a futura memoria - di fatto contengono anche una succinta esegesi del soggetto, oltre che riferimenti ai tagli apportati - anche se fatalmente vi manca il riscontro in-corpore-vili, ma tant’è. Lascio anche i riferimenti di minutaggio, a conferma della... serietà del lavoro.
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Comincio dal mio conterraneo Frizza e dall’Ouverture, che è un serio banco di prova per il Direttore. La prima parte dell’Introduzione (Allegro con fuoco, RE maggiore, 3/4) è staccata con piglio apprezzabile. Personalmente gradirei una freschezza ancor maggiore, ma accontentiamoci: certe pur blasonate interpretazioni del ‘900 sono letteralmente esasperanti, trasformando il tempo in Andante maestoso, che caratterizza invece la seconda parte dell’Introduzione (38”, 4/4, RE minore - FA maggiore). Frizza la presenta correttamente, mette in risalto gli incisi dei violoncelli, poi gestisce in modo apprezzabile (1’44”) il passaggio in marcato che porta verso l’attacco (2’19”) del primo tema (Allegro agitato, 4/4, RE minore). Qui gestisce bene lo slentando (2’26”) e poi il ritorno in tempo che separa il soggetto dal controsoggetto, quindi carica leggermente il ritmo per il passaggio (2’44”) al RE maggiore, dove troviamo la transizione che porta (3’24”) al secondo tema, bipartito, nella relativa FA maggiore (qui Frizza fa tutto in staccato, di sua iniziativa). Efficace il passaggio alla seconda sezione (3’42”) con il moderato crescendo che la caratterizza (e che terrà banco alla fine del primo atto). Ecco poi la ripresa dei due temi, dapprima (4’59”) quello in RE minore, assai scorciato, e poi (5’23”) il secondo (ora canonicamente in RE maggiore) dove Frizza del tutto arbitrariamente scatena un presto, certo di facile effetto, ma francamente un po’ pacchiano. Tutto sommato però l’accoglienza è abbastanza positiva.

L’Introduzione con il coro e Goffredo non si presta a particolari critiche (forse la voce di Riccardo Fassi viene qua e là travolta da quella del coro...) e quindi passiamo (15’11”) all’esordio del tenore, di gran lunga la parte più importante, difficile e ostica, sotto il profilo espressivo, oltre e più che sotto quello strettamente vocale. Dopo il recitativo con Goffredo, ecco la cavatina di Gualtiero (Nel furor delle tempeste, 17’29”) in SOL minore e SIb maggiore: la voce di Piero Pretti non è per niente male (salirà anche al RE acuto con relativa scioltezza, nella cadenza finale) ma ciò che lascia a desiderare è l’espressività (Come un angelo celeste, 18’06”) che Bellini richiede in forti dosi, mentre il tenore continua a cantare con piglio inalterato. Stessa cosa anche alla ripresa. Sono magari sfumature, ma fanno la differenza, almeno ad un orecchio attento. Il pubblico comunque pare aver apprezzato, pur senza particolari entusiasmi.

Il successivo coro (con interventi minori di Gualtiero e Itulbo) include anche (22’43”, Per te di vane lagrime, in SIb maggiore)  una  nuova esternazione del tenore, che Pretti risolve dignitosamente, accolto da moderati applausi.

Arriviamo quindi (26’36”) all’esordio del soprano (recitativo e cavatina). Dopo la breve introduzione orchestrale in MIb maggiore, che Frizza affronta a ritmo svelto, Sonya Yoncheva si presenta (27’35”) con il recitativo Sorgete, e in me quella pietade, MIb maggiore, ove il soprano bulgaro mette subito in bella mostra la sua voce potente e ben tornita. Che esplode poi nella cavatina (29’39”, Lo sognai ferito esangue, SOL minore) e ancora (31’44”, Quando a un tratto il mio consorte, SI maggiore) si inerpica in difficli vocalizzi nel ricordo dell’incubo che la colse vedendo l’amante straziato dal marito! Segue un nuovo passaggio in MIb (Muta, oppressa, sbigottita) con i pertichini di Itulbo, Adele e coro. Dopo l’arrivo di Gualtiero (33’52”) del qule Itulbo ancora cerca di nascondere a Imogene l’identità, riprende (35’13”) in SOL maggiore la cavatina (35’32”, Sventurata anch’io deliro) con ripetizione abbellita (37’48”) e cadenza finale (40’00”) con il coro. Mah, si potrà sempre eccepire sulla relativa piattezza dell’esposizione della Yoncheva, ma francamente gli applausi sono davvero convinti (e per me meritati).   

Segue il coro libagioso dei pirati, francamente piuttosto dozzinale (Bellini non deve averci dedicato più di un quarto d’ora...) che Frizza e Casoni (più Pittari) mi pare abbiano sfangato con onore, nell’indifferenza generale.

Dopo il breve incontro fra Imogene e Adele, aperto (45’00”) da 8 mirabili battute strumentali in SIb (non si saprebbe se farle risalire a Bach o anticipare Mendelssohn...) dove Adele ha preannunciato alla sua Signora la visita di Gualtiero (modulando a SOL minore) si arriva alla corposissima scena dell’incontro fra i due amanti (46’45”). Il recitativo accompagnato dei due sfocia (50’54”) in una pregevole frase in LAb maggiore di Imogene (Se un giorno fia che ti tragga) che la Yoncheva espone con bel portamento. Frase musicale che subito dopo è ripresa un tono sopra (SIb) da Gualtiero (51’45”, Voce suonava un giorno): qui Pretti ha una partenza difficoltosa sull’intonazione, poi però si riprende discretamente. Si modula ancora in alto di un tono intero (DO maggiore, 52’16”) e Imogene (Tu sciagurato) invita Gualtiero a fuggire dalla casa di Ernesto, nome che la Yoncheva scandisce efficacemente (con forza) su una discesa di quattro veloci gruppi di semicrome. La tonalità è virata a SOL maggiore per la risposta di Gualtiero (Lo so, 52’47”) sostenuta dai violini su un inciso anapestico, che si ripeterà ancora nel seguito del duetto, la cui tonalità modula ancora (53’44”) a FA maggiore dove Imogene (Il genitor dolente) va a chiudere la sezione con una pregevole scala discendente (dal LA acuto al DO sotto il rigo). Ora inizia (55’11”, DO minore) una nuova sezione del duetto con Gualtiero (Pietosa al padre) che accusa di crudeltà Imogene, la quale (56’47”, Ah tu, d’un padre antico) si difende ricordando lo stato di necessità (scegliere lui o il padre) che l’aveva imprigionata, difesa che però non convince Gualtiero. Il quale modulando a DO maggiore (57’58”, Vivea vivea per te soltanto) conduce insieme a Imogene alla conclusione di questa sezione del duetto, accolta ancora da moderati applausi. Segue il drammatico arrivo del figlioletto di Imogene, che Gualtiero vorrebbe sopprimere, convinto poi dalla donna a desistere dall’insano proposito. Inizia qui (1h00’26”) ancora in DO maggiore, la parte conclusiva del duetto, con Gualtiero (Bagnato dalle lacrime) che reitera le sue accuse ad Imogene, che invece (Non è la tua bell’anima, 1h01’01”) gli riconosce l’antica nobiltà d’animo. Anche qui la Yoncheva sembra assai a suo agio, un po’ meno Pretti, che comunque - prendendo fiato a scapito di qualche battuta - stacca con lei un apprezzabile DO acuto, trascinando il pubblico ad applausi abbastanza convinti.  

Segue il recitativo fra Imogene e Adele, mentre si ode sopraggiungere il corteo che riporta a casa Ernesto, dopo la vittoria sui pirati di Gualtiero. Il coro in FA maggiore che segue, aperto da un’introduzione strumentale piuttosto leziosa (1h05’04”) ha un portamento nobile, ma anche (1h07’40”) passaggi da marcetta accompagnata dalla banda del paese. Frizza e Casoni lo accorciano opportunamente di 25 battute di ripetizione.

Finalmente (1h08’56) fa la sua entrata in scena anche il terzo protagonista del triangolo amoroso, il Duca Ernesto, cui Nicola Alaimo subito cerca di dare l’importanza che merita (Sì, vincemmo). La sua aria in FA - con tanto di ripetizione - accompagnata dal coro, anticipa future conquiste belliniane per baritoni e bassi. Alaimo mostra fiero cipiglio e non demerita nemmeno sui virtuosismi cui Bellini lo chiama. Certo la voce è troppo chiara per fare la parte del cattivone, si adatta meglio ai Dulcamara o anche ai Falstaff, oltre che ai tanti buffi di rossiniana memoria, tuttavia il pubblico ha per lui solo applausi. 

Segue l’incontro di Ernesto con Imogene (1h15’11”) un recitativo di cui vengono tagliate - inspiegabilmente - 9 battute: il Duca si meraviglia dello stato depresso della moglie, alla quale domanda conto dell’aiuto portato ai naufraghi, che arrivano al suo cospetto (1h16’55”). La scena - prevalentemente in DO maggiore - è occupata dall’interrogatorio di Ernesto a Itulbo, che si è presentato come il capo dei pirati, per proteggere Gualtiero. Ci troviamo poi un’esternazione - in SOL maggiore - di Ernesto (1h18’06”) che decide di tener prigionieri i naufraghi; e poi una (ancora in DO) di Imogene (1h18’49”) che chiede invece al consorte di consentire loro di tornare alle loro terre, permesso subito accordato. 

Ha inizio ora il quintetto (con coro) che porterà alla conclusione dell’Atto. Vi sono impegnati - in LA minore, con modulazioni a maggiore - dapprima (1h19’36”) Gualtiero (che si rivolge a Imogene, chiedendole un’ultima udienza, pena qualche strage che lui metterà in atto) ed Ernesto (che mette i suoi sgherri sull’avviso, avendo sospetti sui naufraghi e su nuovi possibili sbarchi nemici). Quindi interviene Imogene (che risponde a Gualtiero, implorandolo di desistere dai suoi propositi). Ecco poi entrare anche Adele, Itulbo e il coro, che contrappuntano le esternazioni dei tre protagonisti. Alla chiusa in LA maggiore (1h23’38”) ancora applausi non fragorosi (e con qualche sommesso ululato in sottofondo...)  

Attacca poi (1h23’53”) la stretta finale del quintetto, introdotta da un recitativo in FA dove Gualtiero tenta di aggredire Ernesto, ma ne viene impedito da Itulbo e Goffredo, mentre Imogene quasi sviene ed Ernesto ordina venga accompagnata nelle sue stanze. Imogene (1h25’00”, Ah, partiamo, in SIb minore) attacca la stretta, incalzata subito da Adele, Gualtiero, Ernesto, Itulbo, Goffredo e coro, che modulando a SIb maggiore innescano (Infelice, quali accenti, 1h25’35”) il crescendo già udito nell’Ouverture. Dopo un drammatico rallentando, Imogene (1h26’16”) riattacca la stretta (SIb minore) e quindi riecco (1h26’46”) il crescendo in SIb maggiore, che qui viene tagliato di 22 battute (di ripetizione, incluso il vocalizzo del soprano). Alla chiusa ancora applausi abbastanza convinti. 

La registrazione porta direttamente al secondo atto (1h28’24”) e manca quindi la testimonianza del trattamento riservato dal pubblico a Frizza al rientro: personalmente non ricordo di aver udito per radio alcuna contestazione al Direttore.

L’atto inizia con un Coro introduttivo in DO maggiore, tempo 6/8, protagoniste le damigelle di Imogene, con Adele in primo piano, preoccupate per lo stato di prostrazione in cui versa la Signora. La sezione femminile del coro di Casoni lo interpreta con apprezzabile leggerezza e Marina de Liso ha modo di mettere in mostra le sue buone qualità. Adele invita ora (1h32’12”) Imogene a recarsi all’appuntamento con Gualtiero: lei dapprima recalcitra, poi si decide, ma in quel momento arriva Ernesto. Segue un recitativo (1h33’49”) in cui Ernesto accusa la moglie di sfuggirlo, e alle rimostranze di lei, la accusa apertamente per il suo amore per Gualtiero. Imogene lo accusa di crudeltà, ricordandogli di avergli dato un figlio, ma Ernesto (1h36’03”) attacca in LA maggiore il duetto (Tu m’apristi in cor ferita) tacciandola di empietà e iniquità. Imogene gli ribatte (1h37’40”) che il suo amore per Gualtiero era ben noto a tutti, quando lui la strappò al padre e pretese di averla in moglie senza essere amato. Ernesto (1h39’21”) ora ha avuto la sua confessione e rincara la dose (L’ami? Parla... l’ami?) Imogene si difende (1h39’46”) degradando la tonalità di un semitono, a LAb, riconoscendo di amare Gualtiero, ma di un amore senza più speranza, quello che si prova per un defunto. Ora si è passati in FA maggiore e in tempo Larghetto (1h41’27”) i due cantano i rispettivi moti dell’animo, dapprima per terze, poi (1h42’26”) disgiunti, poi ancora insieme. C’è un piccolo taglio di 7 battute (una ripetizione) prima dei due vocalizzi (lei e poi lui) che chiudono questa sezione del duetto. Ernesto - siamo passati a DO maggiore - riceve una missiva (1h44’52”) che lo informa della presenza di Gualtiero nel palazzo e va su tutte le furie, chiedendo invano alla moglie di rivelargli dove l’amante si nasconda. Inizia quindi, tornando a LA maggiore (1h46’00”) la parte conclusiva del duetto, con i due coniugi che manifestano gli opposti stati d’animo: lei teme una carneficina, quella che lui sta ostentatamente programmando. Qui ci sono due tagli (18+16 battute) che levano parecchie castagne dal fuoco ai due cantanti, risparmiandogli il fiato per esibirsi in un un LA acuto finale, non scritto in partitura e, per quanto riguarda il baritono, tanto velleitario quanto estraneo al personaggio. Il pubblico applaude moderatamente (ma Alaimo forse avrebbe meritato qualche dissenso, diciamolo pure).  

Siamo ora tornati da Gualtiero. Gualtiero ingaggia un recitativo - che si muove fra le tonalità  di LA minore, DO e MIb maggiore - con Itulbo (1h47’59”) durante il quale manifesta il proposito di incontrare a tutti i costi Imogene, vanamente sconsigliatone dal compagno. E proprio in quel momento compare la donna (1h49’33”) intenzionata a convincere Gualtiero a fuggire. Invano, chè lui conferma i propositi di prenderla con sè o morire. Inizia qui (1h51’28”) il duetto (che poi diverrà terzetto con il sopraggiungere di Ernesto). Gualtiero, in DO maggiore, invita Imogene a fuggire con lui (Vieni, cerchiam pe’ mari) chiuso da una salita (non scritta, ma efficace) al DO acuto. La risposta di Imogene (1h59’33”, Taci, rimorsi amari) arriva sulla stessa linea melodica, ma dopo una modulazione a LA maggiore: la donna prefigura i rimorsi che coglierebbero lei e l’amante per il resto della loro esistenza. I due (1h55’36”) ancora si scambiano opposti propositi, ma sta sopraggiungendo Ernesto (1h56’36”) che già pregusta il piacere di catturare Gualtiero. Qui inizia (1h56’55”) il terzetto vero e proprio, in tonalità di RE, poi di LA maggiore: Gualtiero si prepara al peggio (Cedo al destin orribile) e a sfidare la morte; Imogene ancora lo supplica di desistere; Ernesto (ancora non visto dai due) già prefigura una punizione esemplare per i fedifraghi. Qui mi pare che Frizza trattenga eccessivamente i tempi, i tre sono impegnati anche in alcuni virtuosismi che culminano, per tenore e baritono, in due non facili cadenze, sulla prima delle quali Pretti raggiunge (2h00’35”) con qualche affanno il RE acuto (questo scritto in partitura) mentre Alaimo (2h00’50”) cala vistosamente (MIb al posto di MI naturale) sul culmine della sua. Anche qui c’è un applauso non certo entusiasta. Attacca ora (2h01’38”) la parte conclusiva del terzetto. Gualtiero ancora indugia, ma Ernesto si palesa e fra i due si ingaggia una reciproca sfida mortale. Siamo ora alla stretta finale (2h02’51”) in DO maggiore, tutta su un ritmo puntato che ben evoca l’agitazione dei tre. La conclusione è, diciamo così... semplificata.

Ora abbiamo il recitativo di Imogene e Adele 2h04’47”): questa cerca di calmare la Signora, che invece vorrebbe precipitarsi per separare i due litiganti, marito e amante. Ci si muove da DO a RE minore, LA minore per tornare a DO maggiore. Le ultime 12 battute strumentali vengono tagliate, per passare direttamente (2h06’01”) alla scena successiva, che ci presenta già il risultato del duello fra i due contendenti: Ernesto ha evidentemente avuto la peggio, visto che i suoi guerrieri gli stanno facendo il funerale... Dopo l’introduzione strumentale, che va dal SOL a DO maggiore, ecco il coro (2h07’16”) cantare l’elogio funebre del Duca. Per un po’ Frizza tiene il tempo maestoso, effettivamente adatto ad un mortorio (pur se in DO maggiore...); poi però a un certo punto accelera vistosamente, e il coro si chiude con passo garibaldino.

Arriva ora Gualtiero (2h09’56”) accolto da improperi dei sudditi di Ernesto; ma lui getta la spada e si offre alla vendetta dei nemici; i quali tuttavia gli vogliono assicurare un giusto processo (!) Lui li sprona a far presto, altrimenti potrebbe pentirsi... E canta, rivolto ad Adele, la sua aria con coro in DO maggiore (Tu vedrai la sventurata, 2h12’00”). Pretti non se la cava poi troppo male, cerca anche di dare un po’ di espressione al canto, sale al DO acuto, e così alla fine, fra gli applausi, spunta anche un bravo! Segue un breve recitativo (2h15’32”) che prepara la sezione finale, sempre in DO, dell’aria di Gualtiero (Ma non fia sempre odiata, 2h16’48”). Anche qui Pretti mostra buona saldezza di voce, si permette anche di chiudere con un DO acuto non scritto, e gli applausi si ripetono.

Soppresso il breve recitativo di Adele e damigelle, che compiangono Gualtiero, ecco arrivare la scena finale (davvero la scena-madre) dell’opera (2h21’18”) aperta da un richiamo di corni in FA maggiore, cui segue un breve preludio caratterizzato da arcane sonorità e chiuso da un cupo accordo dell’orchestra. L’arpa attacca (2h22’35”) la mesta introduzione del corno inglese (in FA minore) all’ingresso in scena di una vaneggiante Imogene (2h25’04”) che canta un breve e straniato recitativo, compianta dalla fida Adele. Poi (2h26’57”, Ascolta) si imbarca nella narrazione di un sogno, un incubo, una visione tragica, il corpo trafitto di un uomo, non Gualtiero, ma Ernesto, che, sulla ripresa della melodia, reclama il figlio... E lei il figlio l’ha salvato e lo trascina verso il padre. Il figlio in carne ed ossa le viene portato e lei (Deh, tu innocente) lo abbraccia e lo bacia, chiedendogli di implorare al padre il perdono per lei.

Attacca ora (2h30’04”) l’aria più famosa dell’opera (Col sorriso d’innocenza): dopo l’introduzione del flauto, ecco Imogene (2h31’00”) rivolgersi al figlio perchè interceda per lei con il genitore. Il suono del gong (2h33’46”) avverte che la sentenza contro Gualtiero è stata emessa. Lo conferma subito (2h34’20”) il coro dei guerrieri e Imogene (2h35’23”, Oh sole, ti vela) vorrebbe scacciare la visione dell’amante decapitato. La Yoncheva regge discretamente lo sforzo, anche se stranamente evita (2h36’16”, D’orrore morrò) il DO acuto, fermandosi al SIb. Dopo il pertichino del coro, si ripete la strofa e la frase Oh sole (2h36’51”) e lo stesso abbassamento da DO a SIb (2h37’49”) già registrato prima. DO che viene passabilmente cantato sulla chiusa, accolta da applausi abbastanza intensi.

Ora, nella registrazione incriminata non ci sono le accoglienze finali, che hanno visto sonore contestazioni ad Alaimo, poi a Frizza e infine al regista Sagi. Per quel che posso giudicare dalla ripresa audio (sempre poco fedele, per definizione) queste contestazioni al baritono e al Direttore mi sono parse quanto meno eccessive, per non dire premeditate, ecco: possibile che durante tutta la serata non si sia udita una sola voce di dissenso, ma esclusivamente (sia pur moderati) applausi e poi soltanto alla fine esplodano contestazioni così vivaci?
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Chiuso l’esame (ormai virtuale, ahimè) della prima, vengo a ieri sera, raccontando subito del citato giallo prima dell’inizio del second’atto: l’intervallo si è protratto per almeno 20 minuti supplementari, il che ha dato la stura alle più svariate congetture (malore di qualche interprete, o magari uno sciopero selvaggio di sezioni dell’orchestra...) finchè Pereira (maleducatamente accolto da improperi dal loggione, subito rintuzzati dal soprintendente) ha annunciato l’indisposizione di Pretti (un calo di pressione, ufficialmente). Ma aggiungendo che il tenore avrebbe comunque proseguito la recita.

In effetti Pretti lo ha fatto, ma cantando quasi sempre da seduto (su sedie, poltrone, persino alla base del sarcofago di Ernesto) a conferma delle sue precarie condizioni. Sulla sua prestazione di ieri nel second’atto sarà doveroso astenersi da giudizi di merito, ma va comunque dato atto al tenore di aver fatto il possibile per garantire un livello dignitoso alla sua performance (sono mancati gli acuti, per comprensibili ragioni).

Per il resto devo dire che ieri l’accoglienza ai singoli numeri e quella finale sono state assai calorose per tutti (per Frizza anche al rientro dopo la pausa) con ovazioni - per Yoncheva e il Coro in testa - che si sono aggiunte agli applausi, sia alle uscite di gruppo che a quelle singole. Per me nel complesso - pur tenendo conto della menomazione di Pretti - si è trattato di una performance musicale più che accettabile, fatte le riserve che ho espresso via via lungo l’esame della prima. In sostanza, una riproposta che personalmente ritengo meriti ampia sufficienza.
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La messinscena è francamente - a mio modesto parere - ingiudicabile, nel senso che pare del tutto estranea al soggetto in questione. È già una fortuna che gli sia semplicemente estranea e non pervicacemente offensiva, ecco. La pagina di Note di regìa pubblicata sul programma di sala (contiene un sunto della posizione di Sagi) è un condensato di banalità e insensatezze: precisamente ciò che si vede in scena.

01 maggio, 2013

Gomorra - di Verdi?! - alla Scala


Ieri quarta recita, in un teatro abbastanza affollato, della quarta opera verdiana della stagione del bicentone, che è proprio la sua prima: Oberto. Praticamente: un riciclaggio (smile! e ricordiamoci di questo termine quando si tratterà di disquisire sulla regìa di questa proposta scaligera).

Sì, perché Verdi, inopinatamente vincitore all’enalotto di allora (1839, la Scala che – in brache di tela in fatto di novità plausibili – aveva deciso di scommettere su un carneade debuttante rifiutato persino da teatri di provincia e insisterà ancora su di lui affidandogli persino una scimmiottatura di Rossini, prima dell’epocale Nabucco) non ebbe altra scelta che adattare una sua velleitaria – e abortita - opera-prima (Rocesterad un nuovo soggetto messo in mano ad un tizio più giovane di lui, ma di lui più navigato, che successivamente lo affiancherà in alcune delle opere che lanceranno Verdi nel gotha del melodramma: Temistocle Solera.

Oberto rappresenta propriamente quello che i crucchi chiamerebbero l’ur-Verdi (il Verdi primigenio) cioè il germoglio - non certo un frutto maturo! - di ciò che diventerà nel giro di pochi anni la sostanza caratteristica di tutta la produzione del maestro di Roncole: la creazione di drammi in musica, dove lo scavo psicologico dell’anima umana e la scolpitura in suoni dei sentimenti e delle passioni si inseriscono all’interno della rappresentazione di grandi (o pretesi-grandi) scenari storici (o pseudo-storici).

Ora, l’estetica dell’epoca di Verdi imponeva tassativamente la nobiltà del testo e, soprattutto, della musica, anche e più che mai laddove il soggetto dell’opera fosse di carattere crudo, o presentasse componenti di violenza, o scene cruente, o personaggi sgradevoli se non addirittura spregevoli. E quindi, se il compito della produzione artistica era (come in fondo dovrebbe essere, per distinguersi da quella documentaristica) la poetizzazione dei soggetti, ne consegue che tutto - testo, musica e ambientazione scenica - dovesse sottostare a regole ben precise.

E infatti, in Oberto, Solera e Verdi tendono a presentarci in modo poetico anche gli aspetti più crudi di vicenda e protagonisti: dimore lussuose (Magnifica sala nel castello di Ezzelino) anche se di proprietà di gente poco raccomandabile; cavalieri, dame e vassalli, magari coinvolti in trame e faide non propriamente edificanti, che tuttavia cantano versi come: Qual d’Eugania sulle spalle nivea falda, hai puro il cor…

Lo sbifido Riccardo di Salinguerra (un nome, un programma!) facendo il suo ingresso in scena in mezzo ad una folla festante per le sue prossime nozze, così esprime il suo odio verso i nemici: Già parmi udire il fremito degl’invidi nemici. Le balde lor cervici prostrate al suol vedrò. Il senso non è certo rassicurante, ma la forma, accipicchia, è aulica per davvero; e la musica? una vispa cabaletta, Allegro brillante, in SOL maggiore:


Insomma, il cattivone mica sbraita - magari su truci accordi dissonanti di tutta l’orchestra - a quei brutti figli di puttana gli faccio un buco in testa…, accompagnato da compari che gridano: e fagliene pure due, a ‘sti fetentissimi cornuti…   

Prendiamo poi un fatto di sangue, la morte del protagonista; essa ci viene notificata da una musica in Allegro agitato, MI minore, sulla quale il coro maschile canta versi come Nella selva ei giace esangue:

Di sicuro: non dal grido sguaiato di una donna che vocifera: Hanno ammazzato compare Oberto!

Fu solo a partire dal verismo (50 anni dopo) che i canoni estetici cominciarono a mutare – in biunivoca e reciproca relazione di causa-effetto con l’evolvere dei gusti e dell’attitudine del pubblico – contribuendo a portare sulle scene soggetti, personaggi, linguaggio e ambienti direttamente mutuati dalla realtà contemporanea. E di conseguenza spingendo gli autori (di testi e musica) e i responsabili degli allestimenti a trovare nuovi e appropriati strumenti di espressione e di presentazione, tagliati su misura della nuova offerta artistica.

Nei  primi decenni del ‘900 l’esempio più fulgido di queste tendenze sarà Wozzeck, nato quasi un secolo dopo l’Oberto, dove anche la musica dovrà radicalmente adeguarsi ai nuovi canoni estetici, trovando nella cassetta degli attrezzi resasi nel frattempo disponibile (affrancamento più o meno marcato dalla tonalità e/o serialismo) i mezzi più congrui per supportarli.

Tornando ad Oberto in persona, varrà la pena di constatare come egli venga ammazzato non già da una banda di brigatisti che ricattano lo Stato, né da sicari di una cosca camorristica rivale, ma da Riccardo in un duello (che l’uccisore vorrebbe persino evitare) per motivi d’onore (Io venni in questi lidi vindice dell’onor! canta il vecchio padre): ecco, è l’onore il fulcro di tutto il dramma, null’altro; non il potere (alla cui perdita Oberto è ormai rassegnato), non la politica, non l’interesse, solo l’onore di un padre, infangato da Riccardo che ha sedotta e poi abbandonata sua figlia Leonora.

E in effetti va detto e sottolineato come l’obiettivo di Verdi, dei suoi librettisti e degli impresari teatrali che mettevano in scena le sue opere non fosse certo quello di denunciare la violenza o l'incultura della società contemporanea, attraverso l’impiego – a mo’ di allegoria – di storie medievali. E nemmeno - come si continua a mistificare - di fare propaganda risorgimentale. Molto più semplicemente, l’obiettivo era quello di fare – e offrire al pubblico – del teatro musicale di alto livello artistico ed estetico, secondo i canoni e i parametri dell’epoca (e casomai, di ricavarne lauti guadagni, cosa di cui Verdi mai si vergognò). Che poi il pubblico decidesse di vederci messaggi risorgimentali o di condanna di certi fatti di attualità, piuttosto che lo specchio dei mali della società contemporanea, liberissimo di farlo; ma non era questo il fine ultimo, né il primo, e menchemeno l'unico, di quelle imprese. (Martone è avvertito…)
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Stabilita la prospettiva storica ed estetica in cui si inserisce l’Oberto, non si  può non dissentire quindi in modo radicale dall’impostazione che il regista (confondendo evidentemente Verdi con Leoncavallo e Mascagni - da lui dignitosamente rappresentati al Piermarini poco tempo fa - se non addirittura con Berg) ha deciso di dare al suo allestimento - portato in epoca a noi contemporanea, fra camorra e mafia - e allo stesso tempo non si può non dissentire dal suo intento maieutico, del tutto estraneo allo scenario artistico-estetico dell’opera da rappresentare.   

Si dirà:
a. ma in fondo in Oberto ci sono due signorotti poco raccomandabili e le rispettive fazioni (con sedi a Bassano e SanBonifacio) e Martone ci mostra due cosche camorristiche (o mafiose, fa lo stesso) in lotta senza quartiere per il controllo del territorio (Casal di Principe e Scampìa, o Corleone e Alcamo, fa lo stesso): quindi fin qui ci siamo.
b. poi in Oberto c’è la questione d’onore, che in Sicilia (e un po’ meno in Campania) è uno dei motori della nostra inciviltà: e anche qui il conto torna.
c. in Oberto le donne sono trattate più o meno come ad Arcore (smile!) dove ha la residenza un caimano a nome Berluscardo (stra-smile!) uso ad avere fior di mafiosi alle sue dipendenze.

Quindi: tutto sembrerebbe quadrare, quasi alla perfezione!  

E invece no, ahilui (Martone) e ahinoi. Sì, perché il problema non è se la trama del libretto venga più o meno scimmiottata dall’allestimento. Eh no, il problema della genialoide trovata del regista è che lo spirito (e in buona misura anche la lettera) dell’Oberto nulla ha a che fare con la sua trasposizione (ai nostri tempi, ma non è questo il punto) nel mondo delle associazioni a delinquere.

Quali non erano, ma proprio per nulla – e non solo nel libretto di Solera, ma anche nella realtà storica - le famiglie o le oligarchie che sostenevano gli Oberto e i Riccardo, personaggi di certo non eletti democraticamente, anzi propriamente dei tiranni, ma pur sempre rappresentanti le istituzioni (per quanto discutibili, ai nostri occhi) di quel tempo, e legittimati da uno dei due massimi poteri allora costituiti: quello imperiale e/o quello papale. Quindi altro da chi, come oggigiorno mafia e camorra (e brigate di vario colore) alle Istituzioni si oppone.

Questo per quanto attiene il piano ideologico. E su quello materiale? Di male in peggio: è un mondo, quello di Martone, dove sorgono volgari quanto pacchiane abitazioni-bunker (scenografie da Scarface, altro che magnifica sala!) situate in vicinanza di discariche a cielo aperto (altro che la deliziosa campagna!) Dove persino l’abbigliamento dei protagonisti, oltre che delle masse, è indice di totale incultura e degrado.

E così vediamo Riccardo, abbigliato come un tipico esemplare di boss della camorra, che entra in scena in vestaglia da camera damascata cantando Questi plausi a me d’intorno, questi voti io devo a lei, a lei sola che m’invita alle gioie dell’amor… un’ardente cavatina in SI maggiore! E attorno a lui, invece di Cavalieri, Dame e Vassalli, chi vediamo? Volgarissimi esemplari di fauna feccia criminale, con ampio seguito di zoccole, che però noi ascoltiamo cantare  Oh felici! omai compita è la speme d’ogni cor, su una musica che anticipa nientemeno che il Libiamo… E gli stessi loschi figuri, verso la fine dell’opera, così si esprimeranno: Son compagne in questa vita la sventura e la virtù… e poi ancora: Ah, sventura! e dalla Croce sol di pace Iddio parlò! Fatto sordo a quella voce, l’uom nel sangue s’allegrò! Camorristi? Picciotti? Ohibò.

Come ciliegina (marcia) sulla torta (rancida) troviamo in questo allestimento stupidi quanto gratuiti, nonchè irrispettosi, riferimenti alle vittime degli anni di piombo (Oberto = Aldo Moro? roba da manicomio!) uomini che sacrificarono la vita per motivi ben diversi da un  malinteso onore…   

Insomma: di poesia, nemmeno l’ombra! Solo volgare e crudo realismo, e indebiti e beceri riferimenti a fenomeni tipici della nostra società: cosa che contravviene in-toto precisamente ai princìpi fondatori dell’opera, stravolgendone completamente la natura, e quindi presentando al pubblico un oggetto del tutto diverso dall’originale. Ecco: un prodotto adulterato spacciato per autentico, esattamente come vendere un Modigliani falso (si rischia la galera, o sbaglio?)

Intendiamoci, il film ideato dal regista – non abbiamo alcuna difficoltà a dargliene atto - è in sé e per sé di alto livello e di grande attualità (per quanto un Gomorra sia già stato prodotto, da altri). Peccato che soffra di un clamoroso difetto, che ne compromette irrimediabilmente il valore: la scelta dei testi e, soprattutto, della colonna sonora!     
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Purtroppo la lunaticità della regìa si ripercuote inevitabilmente anche sulla percezione che uno spettatore appena-appena non sprovveduto ha della prestazione musicale degli interpreti (non dico direttamente sulla sua qualità intrinseca). Interpreti che solo per questo dovrebbero chiedere i danni a Martone…

Sì perché vedere Fabio Sartori che, dopo aver ucciso Oberto in regolare duello – quasi impostogli dal vecchio! – arriva vestendo i panni di un sicario della camorra, con tanto di mitra, per poi intonare un’accorata romanza in SIb maggiore - Ciel pietoso, ciel clemente, se pregarti ancor mi lice, deh! perdona un infelice, tu mi salva per pietà – ti mette un tal disagio addosso, che la stonatura della scena finisce per farti sembrare stonato pure il tenore! Accidenti al regista! Peccato, perché la prestazione del nostro è stata tutt’altro che malvagia, in una parte per nulla facile. Ha anche rispettato alla lettera la partitura come quando, nella cavatina d’esordio, ha cantato tranquillamente il SI acuto (sul m’invita) e poi è rimasto sul FA# in chiusura.

Maria Agresta è una Leonora che convince a metà: voce sempre ben impostata, nelle volate virtuosistiche, come nei più nobili cantabili. Ma la parte – quasi da mezzosoprano – la mette in seria difficoltà nell’ottava bassa (non parliamo del LA sotto il rigo) dove arranca o… fa il pesce. Per lei comunque una calorosa accoglienza. Qui dobbiamo anche ringraziare Martone per averci chiarito in modo inequivocabile, mostrandocela con un gran pancione, ciò che noi poveri pirla non avevamo minimamente sospettato dal libretto di Solera… 

Il protagonista nel ruolo del titolo è Michele Pertusi, che ha confermato la sua classe e la sua grande sicurezza: per me, il migliore della compagnia.  

Sonia Ganassi impersona Cuniza, per me, senza infamia e senza lode (anche se il pubblico le tributa solo le lodi…): anche qui temo di essere negativamente influenzato dall’esteriorità (leggi: come viene acconciata e fatta recitare dal regista) poiché invece di una nobildonna sensibile e magn-anima, sembra la zoccola di un magn-accia, e chi mi dice che pure il suo canto non si sia fatto trascinare nella… discarica in cui Martone ha collocato la vicenda.

L’Imelda di José Maria Lo Monaco ha dato il suo meritevole contributo ai numeri di insieme in cui è quasi esclusivamente impegnata.

Molto bene il coro di Bruno Casoni, che ha un impegno quantitativamente esteso, ma – credo io – relativamente facile.

Al mio conterraneo Riccardo Frizza va il mio personale plauso (pochi invece ne ha avuti dal pubblico) se non altro per aver evitato di trasformare l’Oberto in Ernani o in Boccanegra. Insomma, ci ha dignitosamente restituito il Verdi esordiente, con tutte le sue velleità e i suoi limiti, e questo in fin dei conti è ciò che si può chiedere ad un onesto concertatore.

Alla fine moderato successo, diciamo così, di stima, come ormai capita sempre più spesso in questa Scala piuttosto… appiattita (smile!)