XIV

da prevosto a leone
Visualizzazione post con etichetta arciuli. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta arciuli. Mostra tutti i post

28 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°24


Jader Bignamini si riaffaccia in Auditorium per dirigere un insolito programma che accosta l’autore di sinfonie più... autorevole dell’intero ‘800 ad uno dei suoi più autorevoli interpreti del ‘900, a sua volta cimentatosi come autore di sinfonie... I due brani proposti nel concerto sono legati da un labilissimo filo: l’opera di Bernstein è sottotitolata Egloga barocca, e come tale sembrerebbe richiamare (ma solo in apparenza) scenari bucolici che sono poi al centro della Pastorale beethoveniana.

E si parte proprio da Lenny Bernstein e dalla sua sinfonia-a-programma-con-pianoforte-obbligato The age of anxiety, che ci viene riproposta qui da Emanuele Arciuli a più di 6 anni di distanza da quando lui stesso la interpretò con Marshall.

Ascolto sempre interessante, ma obiettivamente di non facile digestione, anche conoscendo dettagliatamente il programma letterario che sottende il brano. Arciuli - che forse tornava a suonare il pezzo dal 2012 - si tiene per sicurezza lo spartito sul leggio, mentre Bignamini pare che diriga la sinfonia ogni santo giorno... visto che si permette di lasciare la partitura in camerino!

Il pubblico - abbastanza folto, il che fa sempre piacere - ha mostrato di gradire assai, accogliendo la prestazione di solista e orchestra con calore e simpatia.
___
Di Beethoven ecco poi l’inflazionata Pastorale, di cui Bignamini ha dato un’interpretazione assolutamente convincente, per leggerezza, brio, romanticismo, equilibrio. Evocando e ricreando mirabilmente quelle sensazioni al contatto con la natura che il genio di Bonn intendeva programmaticamente condividere con noi con la sua sesta.

L’orchestra - per l’occasione Bignamini ha disposto al proscenio i violini secondi (che hanno parti di rilievo) rimpiazzati sulle loro sedie dalle viole - a sua volta ha dato il meglio di sè, in tutti i reparti e si è meritata, con il Maestro, ovazioni a non finire. Insomma, una serata da incorniciare.

18 marzo, 2014

L’Orchestraverdi ancora alla Scala contro i tumori

 

Ieri sera laVerdi è stata ospite del Piermarini per un concerto a sostegno delle benemerite attività della LILT.

Il programma ricalcava in parte quello dell’ultimo concerto della stagione dell’Orchestra, ed anche i protagonisti erano gli stessi: Wayne Marshall ed Emanuele Arciuli. La prima parte della serata era infatti occupata dal Concerto di Grieg. Le tre repliche all’Auditorium dei giorni immediatamente precedenti devono aver fatto bene a tutti, così ieri abbiamo assistito ad una performance di alto livello, sia dal lato solistico (ma qui Arciuli aveva poco da migliorare…) che da quello del ripieno orchestrale. Che mi è parso assai più equilibrato, quanto meno rispetto alla prima di giovedì scorso in Largo Mahler.

A meno che la differenza non l’abbia fatta l’enorme spazio del teatro, che tende ad ovattare i suoni, rispetto all’acustica fortemente amplificatrice dell’Auditorium. Fatto sta che mi è parso di udire un Grieg più nordico e… algido di quello di giovedi scorso. E chissà che quest’atmosfera più fredda non abbia contagiato anche il pubblico, che dopo il primo ritorno sul palco dei due protagonisti si è subito azzittito, al che Luca Santaniello non ha potuto far altro che alzarsi e salutare, privandoci di un possibile bis.  
___
Marshall ha poi proposto il suo amato Gershwin, ad iniziare dalla simpatica Ouverture da Of Thee I SingSono meno di 5 minuti di musica allegra e scanzonata, proprio come irridente è l’intero musical (del 1931) che satireggia il modo yankee di far politica, ma con una morale positiva (l’amore trionfa su ogni altro interesse e lobby). 
___
Ha chiuso degnamente la serata An American in Paris. Riporto qui alcune note di presentazione, scritte quasi 3 anni orsono, allorquando fu Zhang Xian ad eseguirlo in Auditorium.
___
Scritto nel 1928 dopo un viaggio nella capitale francese, questo balletto rapsodico subito si presenta con baldanza mista a spensieratezza:

È il turista che se ne va a spasso per la città, col naso all’insù e le orecchie tese. Parigi è una città dal traffico già caotico, e non mancano quindi automobili e taxi che strombazzano allegramente. In mezzo al trambusto arrivano anche le note di una filastrocca (Che cosa importa a me, se non son bella) forse nota altrettanto bene in Italia che a Parigi:
Ora, stanco per la lunga camminata, l’americano si riposa un poco e inevitabilmente sogna il suo paese, e il blues in primo luogo:


(Si noti la prescrizione di coprire la campana della trombetta con una guaina di feltro.?

Questo è il motivo che rimane poi al centro del brano, e che pure lo concluderà. Accanto ad esso però arriva anche un ricordo allegro, il charleston della Louisiana:

Un’ultima veloce scorribanda per le strade della Ville lumière culmina nel Grandioso dove corno inglese, clarinetti e sax contralto ribadiscono per l’ultima volta il tema americano, prima del poderoso accordo di FA maggiore che chiude il brano.
___
Alla fine il pubblico si era evidentemente riscaldato e ha quasi preteso il bis: che è arrivato ed è stato poi ancora… bissato, protagonisti la tromba di Caruana e soprattutto il clarinetto di Ghiazza. Un bel regalo per uno come me che ha un quadrupede da custodire… Qui lo ascoltiamo dai PROMS e così scopriamo anche da dove è uscito fuori il nostro attuale PM (mega-smile!)

14 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°25

 

Riecco il simpatico Wayne Marshall sul podio dell’Auditorium per dirigervi un interessante programma (attenzione: interessante non significa automaticamente di alto livello…)       

Che si apre con una composizione giovanile di Richard Strauss: la Bläserserenade op.7 (per strumenti a fiato). Così la definì onestamente l’Autore nel 1909, 28 anni dopo averla composta: Null’altro se non il decoroso lavoro di uno studente di Conservatorio.  

Ma il sommo Quirino Principe non la pensa così. Ecco come analizza questo lavoro (da: Strauss – La musica nello specchio dell’eros):

Il piccolo prodigio venne alla luce 1'11 novembre 1881, quando Richard finì di comporre la Serenade in mi bemolle maggiore op. 7 (TFV 106) per 13 strumenti a fiato: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in si bemolle, 4 corni (di cui il primo e il secondo in mi bemolle, il terzo e il quarto in si bemolle), 2 fagotti, controfagotto (o basso tuba). I corni in si bemolle sono bassi. In alternativa al controfagotto o al basso tuba, la partitura reca l'indicazione: Contrabaß . Per la prima volta, egli si cimentava in una composizione per insieme di fiati (legni e ottoni), e anche per questo l'autunno 1881 segna un momento inventivo di assoluta novità, anzi, apre un nuovo solco: in tutta la sua vita, Strauss ideò soltanto quattro lavori con un simile organico (altra cosa sono le cinque composizioni per ottoni e timpani), e, con ammirevole simmetria, due quasi al principio (1881 e 1884) e due quasi alla fine (1943 e 1944-1945). Che egli fosse stato preso da un imprevedibile interesse per il "guter Klang" di un insieme di fiati è testimoniato anche da una sua fatica inversa sotto l'aspetto tecnico, quasi contemporanea alla Serenade: la riduzione per pianoforte a 4 mani del Nonetto in fa maggiore di Franz Lachner (AV 183, TFV 108).
Non c'è dubbio: in senso strettamente tecnico, quella è la direzione che orienta lo sguardo del giovane compositore. È un suono nitidamente disegnato in lavori di buona fattura, alcuni autentici capolavori purché dotati di libertà visionaria. In quell'ambito esistono sicuri punti di riferimento, a Richard certo non ignoti: da prodotti abili e di modesta inventiva, come lo stesso Nonetto di Lachner o l'analogo Nonetto op. 139 di Rheinberger, a esiti più vibranti come la Serenata op. 44 di Dvorak, su su fino a un miracolo solare qual è la Serenata in re maggiore op. 11 di Brahms, nota agli ascoltatori tedeschi fin dal 1859. In particolare, il primo Minuetto della composizione brahmsiana si configura come una delle possibili premesse del nuovo suono straussiano e dell'invenzione tematica in tutta la sua leggiadra vitalità.
Il nuovo suono si presenta levigato, spoglio di eloquenza: nessun grande gesto. Servendoci del modello brahmsiano per vedere controluce le divergenze insieme con le affinità, leggiamo nella partitura della Serenade un primo segreto di fabbricazione della musica straussiana: l'assenza assoluta della cosiddetta "melodia popolare" o del cosiddetto stilema armonico popolare o di tutto ciò che popolare non è ma che abilmente, come spesso accade in Brahms, è tagliato nella sua morfologia come se lo fosse. La Serenade è bitematica, in un tempo solo (Andante) articolato in sezioni con sfumature di movimento che attenuano ogni contrasto: esposizione del primo tema (btt. 1-24), breve ponte modulante (btt. 25-30, dalla lettera A), secondo tema (più animato, btt. 31-60), una parte centrale che drammatizza elementi del secondo tema (btt. 61-118) e in cui un'ulteriore drammatizzazione comprende le battute 89-111 (dal più animato al Tempo I, in cui si ritorna alla serenità iniziale), e infine la ripresa (btt. 119-162) e la coda (btt, 163-173).
La prima esposizione è costruita quasi sul nulla, e arricchita da esigue differenze nell'uso e nella ricomparsa delle idee. Questo secondo carattere s'impone anche all'esposizione del secondo tema, che è invece plastica e di forte rilievo: anche in essa il discorso procede e si dialettizza secondo varianti minime. Una melodia discendente parte dalla mediante e si sofferma sulla dominante alla fine del primo inciso. La risposta è ascendente-discendente, e conclude la prima semifrase (primo quarto della bt. 4) con una triade di tonica nel secondo rivolto. Stranamente, questo accordo che dovrebbe rendere un senso di conclusiva stabilità è singolarmente teso ed elusivo, poiché in suo luogo ci saremmo aspettati un'anticipazione o un ritardo armonico. La seconda semifrase ha l'antecedente e il conseguente entrambi modellati sulla risposta della prima semifrase, cioè su una linea ascendente-discendente, ma con intervalli meno ampi, come a smussare le curve. Ne risulta una significativa relazione tra la prima e la seconda semifrase: nella prima, il rapporto di opposizione lineare tra antecedente e conseguente corrisponde, nella seconda, a un rapporto di attenuazione della stessa linearità.

La seconda frase mostra come sia possibile agire con forza su un delicato organismo mediante varianti che scalfiscono appena il rilievo. Il lieve mutare della linea melodica è bilanciato dall' alternarsi degli strumenti. Se in principio il primo tema era affidato al primo dei due oboi, nella battuta 9 esso è reintrodotto dal primo flauto, che gli dà una sostanza eterea, candida e sfumata, in luogo del disegno incisivo tracciato prima dall'oboe. Lo schema della melodia discendente è immutato: dalla mediante SOL alla dominante inferiore SI bemolle. La lieve variante si presenta in due sottovarianti nella
prima semifrase. Nell'antecedente, il ritmo puntato dell'incipit è sostituito da una serie di note di passaggio con lo sdoppiamento, nella battuta 9, del secondo ottavo in due sedicesimi. L'aggraziata, apollinea solennità delle battute 1-4 si trasforma in una semplicissima cantilena infantile. Nel conseguente della prima semifrase, un lievissimo
tocco di pollice, un'impercettibile deformazione plastica nella creta, e lo spirito muta stato d'animo: la scaletta discendente è immutata nella linea, ma le prime tre note diventano altrettanti sedicesimi preceduti da una pausa di uguale valore. Basta quella pausa iniziale a dare slancio e fervore, come se si volesse meditare per un attimo prima di abbandonarsi alla musica.

Subito dopo, sull'onda di una piccola fanfara di corni e fagotti, lo slancio e il fervore conducono all'impercettibile ascesa cromatica delle battute 13-14, con la sostituzione enarmonica del DO diesis al RE bemolle, e all'incantevole appoggiatura sull'accordo di settima di dominante nella battuta 15. Qui davvero l'apollineo si concede a chi lo sfiora senza sforzo, come il ramo d'oro del mito si staccava dalla pianta a chi lo toccava dolcemente senza strapparlo. La grazia mendelssohniana del ponte modulante prepara il terreno alla comparsa del secondo tema, della cui felicità siamo grati al giovane autore.
Tocca al primo clarinetto introdurlo, prima con deliziosa esitazione, quasi a piccoli passi interrotti da pause di un sedicesimo, poi con il supremo incanto con cui la prima scaletta discendente, invece di concludersi, come sarebbe da credere, sulla tonica SI bemolle (il secondo tema, in ossequio alle regole, è in tonalità di dominante rispetto al primo), è seguita da un'altra scaletta che ne è quasi l'ombra, collocata più in alto a intervallo di quinta.
Franz Dubitzky ricorda che Friedrich Wilhelm Meyer, cui la Serenade fu rispettosamente dedicata, non gradì il modo con cui l'allievo disegnò l'intero contorno del secondo tema, poiché nelle battute 35-36 esso gli parve una reminiscenza dello Spinnlied delle fanciulle filatrici nel II atto del Fliegender Holländer wagneriano ". Un pedante, Meyer, ma quale occhio!
La Bläserserenade op. 7 apre al linguaggio musicale di Strauss una porta verso il grande spazio dei suoni, e sviluppa in misura decisiva la sua conquista dei timbri strumentali.
Il Festmarsch op. 1 era la prima composizione di un ragazzo già in grado di concepire una scrittura orchestrale. Cinque anni dopo, l'aurea partitura per tredici fiati non è ancora la piena rivelazione dello stile che legherà al nome del suo autore connotazioni inconfondibili, identificandosi con lui, ma testimonia, per la prima volta, che per scoprire quello stile e farlo suo egli possiede ormai tutti i mezzi.

Forse Principe esagera un filino nei peana per questa composizione del 17enne bavarese, tuttavia i 13 fiati de laVerdi sono bravi a farcene apprezzare le qualità… promettenti. Piuttosto, come accaduto tempo fa al pacchetto degli archi (in altra Serenata, quella di Ciajkovski) avrebbero anche potuto essere esentati dalla presenza del Direttore (smile!)
___
Emanuele Arciuli arriva poi per presentarci il celebre Concerto di Edvard Grieg. Lui e Marshall hanno già fatto coppia qui quasi esattamente due anni orsono (allora per un grande affresco… ansioso).

In questo lavoro Grieg si rifà scopertamente a Schumann (stessa tonalità, analogo incipit) e anticipa di quasi 20 anni, sempre nell’apertura, un altro concerto in LA minore, il doppio di Brahms. Poi naturalmente ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi.

Se Arciuli pare non voler calcare la mano (smile!) il vulcanico Marshall sottolinea in modo quasi esagerato tutti i chiaroscuri, sia di suono che di tempo, dando al concerto un’impronta… Liszt-iana.

Grande successo per i due e per Arciuli in particolare, che ripropone il bis del suo amato Debussy. Ritroveremo tutti i protagonisti di ieri fra un paio di giorni, alla Scala, impegnati in opere di bene.
___
La serata è chiusa dall’esecuzione della Seconda sinfonia di Franz Schmidt, violoncellista prima ancora che compositore vissuto a Vienna dalla fine dell’800 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Dico francamente che lo scarso interesse che suscita questa sua opera (come le altre, del resto) mi pare proprio meritato: comporre nel 1911-13 una sinfonia scimmiottando modelli ormai superati (Bruckner, Brahms) mentre il suo vecchio – e non propriamente amato - Direttore alla Hofoper aveva appena composto, prima di andarsene da questa valle di lacrime, cosucce come Das Lied von der Erde, la nona e la decima sinfonia, ha davvero del velleitario e dell’anacronistico.

A proposito di Mahler, ecco come il grande boemo giudicò un’opera di Schmidt (Notre-Dame de Paris) che il violoncellista-compositore gli sottomise nel 1904 sperando di farla rappresentare alla Hofoper: Molto bella! Ma mi spiace dire che nella sua partitura mancano le grandi idee. Appunto…

Non stupisce quindi che Schmidt, da conservatore, si trasformasse in reazionario, plaudendo al nazismo e all’Anschluss, fino al punto da comporre Deutsche Auferstehung, la resurrezione tedesca, proprio all’indomani dell’annessione (di quella che peraltro era una sua patria putativa, essendo lui slovacco-magiaro di origine). 
___
La sinfonia è formalmente in tre tempi, ma in pratica è in quattro, dato che il secondo movimento (un tema con 10 variazioni, che occupa più di un terzo dell’intera durata) si suddivide chiaramente in due: tema + 8 variazioni e Scherzo con Trio costituito dalle ultime due.

Il primo movimento (Lebhaft) è in forma-sonata con alcuna licenza (parafraso Ciajkovski…) Vi si possono distinguere le classiche componenti strutturali: esposizione di due temi (più transizione) sviluppo, ripresa e coda.

Le libertà che si prende Schmidt riguardano più che altro l’impianto tonale: primo tema in MIb maggiore, secondo (!) in SI maggiore; ripresa del primo tema (!) in SOL e SI maggiore. Per il resto, una buona dose di modulazioni, soprattutto nello sviluppo, e il rispetto delle regole nella ripresa del 2° tema, portato in MIb maggiore.  

In apertura, senza introduzione, viene esposto il primo tema, assai vivace e di carattere pastorale:


Il tema si sviluppa a piena (fin troppo!) orchestra, con soggetti secondari assai enfatici, poi il ritmo di tranquillizza, vira al minore lasciando spazio ad una transizione (pare l’Incantesimo del fuoco wagneriano…) che modula verso il SI maggiore in cui il pacchetto di 6 corni (degli 8) espone il secondo tema, più cantabile:


Anch’esso poi si anima per l’intervento di tutta l’orchestra (si odono qui atmosfere straussiane) e quindi sfuma lentamente perdendosi in lontani rintocchi dei timpani, col che si chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è canonicamente introdotto dal primo tema, in MIb, dopodiché si assiste a sue diverse modulazioni (SOL maggiore, DO minore, LAb maggiore); il secondo tema compare contrappuntando il primo sul LAb maggiore, poi modula a SI maggiore, da cui scende ancora al LAb, anzi alla sua relativa FA minore. Ci avviamo alla conclusione dello sviluppo, con una teatrale serie di pesanti accordi di corni e trombe, intercalati da sussulti di archi e legni, che sfociano in un RE maggiore, assai tranquillo, che chiude con fiati, timpani, piatti e tamtam, in pianissimo.  

La ripresa ripropone il primo tema in SOL maggiore alternato a DO e SI maggiore, la tonalità del secondo tema che viene poi esposto nel canonico MIb maggiore, sul cui sfumare dei timpani (come nell’esposizione) si passa alla conclusiva coda, che si costituisce come un nuovo mini-sviluppo dei due temi, e che chiude nella tonalità d’impianto dopo una serie di altre modulazioni.

Il secondo movimento è un Allegretto con variazioni, il cui tema in SIb, assai delicato ma anche piuttosto lezioso, è esposto da tutti e soli i legni:


Gli archi soli (contrabbassi esclusi) sono protagonisti della prima variazione, che si mantiene sul piano elegiaco del tema, esposto dai primi violini, semplicemente muovendolo con le semicrome dell’accompagnamento degli altri archi. La seconda variazione è ancora appannaggio dei soli fiati, i legni cui si aggiunge il primo corno: l’atmosfera bucolica non cambia.

La terza variazione, ancora esposta dai soli archi, imprime invece un nuovo ritmo, a partire dal tempo che, da ternario, diviene binario (2/4) oltre che dalla puntatura delle note. Una tecnica che pare mutuata dal Brahms delle variazioni op. 56. Dopo una lunga pausa ecco la quarta variazione, ancor più spedita nel tempo (Schnell, 4/4 alla breve) che comincia ad impegnare diverse sezioni dell’orchestra: mentre gli strumentini e i corni espongono il tema con note di lunghezza dilatata (semibrevi e minime) fagotti e violoncelli lo contrappuntano con svolazzi di semicrome, e i timpani e gli archi scandiscono un ritmo marziale. Si chiude con le veloci semicrome di archi, fagotti e clarinetto.

Nella quinta variazione il tempo si velocizza ulteriormente (Sehr schnell, 3/8) e muta anche la tonalità (REb maggiore, SIb minore): sono ancora i legni –divisi in due gruppi che si alternano (flauti-coboi-cornoinglese e clarinetti-clarinettobasso e fagotti - ad esporre la melodia, mentre gli archi l’accompagnano con un tappeto di tremolo, spalleggiati da timpani e piatti. La sesta variazione vede il tempo degradare ulteriormente (Langsam und ruhig) mentre la tonalità resta fra SIb e REb: un’oasi dall’atmosfera intimista ed elegiaca, cui segue la settima variazione, nuovamente veloce (Sehr schnell, 6/8, MIb minore-maggiore) e caratterizzata da una poliritmia ottenuta dalle crome (6 per battuta) dei fiati (ancora divisi in due gruppi) e le semicrome (8 per battuta) degli archi, pure divisi in due gruppi che spalleggiano il botta-e-risposta dei fiati.

L’ottava variazione è in agogica dolente (Sehr leidenschaftl, nicht zu schnell, 3/4). La tonalità di base è FA# maggiore, con una divagazione a LA. Qui l’atmosfera, dal sapore vagamente boemo, che ricorda Dvorak e Smetana, richiama forse le terre di origine del compositore.

Come detto, le ultime due variazioni si configurano come uno Scherzo con Trio. La nona, piuttosto vivace (Sehr lebhaft, 3/4) apre con 8 battute introduttive, di archi e legni (questi in corale) prima che gli archi attacchino il tema, subito inseguiti dal resto dell’orchestra. La tonalità prevalente è SIb, con digressioni al FA. Il ritmo è assai pesante e  marcato, spesso addirittura sgradevole, con eruzioni di corni, trombe e timpani piuttosto sgraziate. La decima variazione rappresenta il Trio, più lento (Sehr ruhig) prevalentemente in DO#, tempo 9/8, caratterizzato da un eccesso di strumentazione che non gli giova. Ci troviamo un po’ di Bruckner ed anche di Mahler, ma poca ispirazione. Lo Scherzo riprende (variazione 9) per concludere il movimento con una coda tanto affannosa quanto musicalmente modesta. 
  
Il Finale è un Adagio (Langsam, con qualche increspatura) che forse cerca di scimmiottare quelli di Mahler o di Bruckner: la buona volontà di sicuro c’è, ma i risultati sono assai meno… convincenti, ecco.

Anche qui c’è una prima sezione – a canone - suonata esclusivamente dai fiati, che poi cedono brevemente il posto agli archi, prima di riprendere il controllo esclusivo ed ancora lasciare poco spazio agli strumenti a corda. Poi ecco finalmente l’intera orchestra portare avanti il discorso fino alla fine, fra vaghe reminiscenze di Ciajkovski e Dvorak, e con qualche sussulto a turbare l’andamento pacato del brano.
___
Che dire? Vorrei, non posso? L’orchestrazione è mediamente di una notevole pesantezza: è raro che i temi emergano chiaramente e pulitamente da un marasma sonoro dove troppi strumenti suonano note di puro riempitivo, che finiscono per disorientare l’ascoltatore e tradiscono verosimilmente una notevole carenza di narrativa. Insomma, un pezzo che al massimo può suscitare curiosità, più che ammirazione. 

Ma che non dev’essere per nulla facile da suonare, per cui i ragazzi (e Marshall con loro) si meritano comunque una lode, e si sono meritati l’applauso del loro affezionato - anche se non proprio oceanico - pubblico.

09 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 23



Dopo una sola settimana torna sul podio Wayne Marshall con un programma tutto americano. Che (purtroppo) è stato modificato rispetto alla locandina originale, che prevedeva la recente Swing Symphony di Wynton Marsalis, rimpiazzata da più tradizionali e familiari opere di George Gershwin

Resta per fortuna l'interessante proposta di The Age of Anxiety di Leonard Bernstein. Una composizione (del 1949, dedicata al mentore Koussevitsky, poi rivista nel 1965 con aggiunte alla parte pianistica del finale) che assomma in sé diverse caratteristiche (o nessuna di esse?) È intitolata Sinfonia e prevede un pianoforte solista, ma non è un concerto… È fornita di un preciso programma letterario, eppure il suo autore sostiene di aver voluto comporre musica pura, che quel programma ha semplicemente evocato, musica nella quale egli avrebbe introdotto quasi inconsciamente riferimenti diretti al programma medesimo. Mah… personalmente credo che qualunque ascoltatore, anche il più musicalmente preparato, fatichi assai a raccapezzarsi in quest'opera se non ne conosce – e pure dettagliatamente – il programma esterno. 
Peraltro, con un minimo di conoscenza dello stesso, l’opera si lascia apprezzare… pur non potendosi chiamare un capolavoro.

Il programma letterario è un lungo poema di pari titolo – scritto fra il 1944 e il 1947 - di Wystan Hugh Auden, poeta britannico trasferitosi in USA nel 1939, in pratica disertando proprio alla vigilia della guerra. Poema scritto in arcaica rima allitterativa, che risente degli effetti traumatici degli eventi bellici e descrive lo stato di straniamento, di sradicamento e di impotenza di tanta parte dell'umanità, vittima di meccanismi e di forze cui non si può opporre. È strutturato – come precisamente sarà la Sinfonia di Lenny – in sei parti: il prologo, in cui tre maschi (Malin, ufficiale dell'intelligence medica dell'aviazione canadese, Quant, impiegato in un ufficio di spedizioni, nauseato dal mondo ed Emble, una recluta della Marina) e una femmina (Rosetta, impiegata all'ufficio acquisti di un supermercato) – nessuno di loro originario di NewYork, quindi tutti a loro modo piuttosto sradicati - si incontrano per caso in un bar di Manhattan in piena guerra; le sette età, in cui i quattro si raccontano le proprie esperienze di vita, suddivisa appunto in sette fasi, dall'infanzia alla morte; i sette stadi, in cui i quattro immaginano (senza peraltro cavare un ragno dal buco) come ritrovare, attraverso viaggi in onirici paesaggi, una vita serena, lo stadio preistorico di felicità e la fede in Dio; il lamento per la mancanza di un grande condottiero che indichi loro la via da percorrere; la mascherata, che si svolge nell'appartamento di Rosetta, dove tutti (i maschi soprattutto) si ubriacano definitivamente, finchè i due più anziani se ne vanno a casa e il giovane Emble finisce spossato… nel letto di Rosetta; l'epilogo, in cui l'alba riporta ciascuno al proprio quotidiano tran-tran, in cerca di… una fede che pare impossibile da mettere in pratica.

Ma che secondo Bernstein è raggiungibile, nel suo finale, in cui pare di sentire nobili echi mahleriani. La Sinfonia è suddivisa in due parti, di tre sezioni ciascuna: la prima consta delle tre scene nel bar di Manhattan; la seconda contiene la sezione del lamento (mentre i quattro sono su un taxi che li porta verso l'appartamento di Rosetta) e le due sezioni conclusive. Tutta la prima parte potrebbe vagamente essere considerata il primo tempo di una sinfonia (tema e variazioni); poi c'è il movimento lento, ancora una cosa simile ad uno scherzo e quindi il finale.

Nella sua prefazione alla partitura Bernstein, dopo aver ammesso di essere rimasto letteralmente affascinato dal poema di Auden (che invece considerò la Sinfonia una cosa estranea ad esso!) spiega come la parte pianistica rappresenti autobiograficamente se stesso, totalmente immedesimatosi nel poema, che si specchia nell'orchestra (indifferente, se non proprio ostile) come nel mondo circostante. Seguiamo le sue concise note didascaliche per orizzontarci nel gran ginepraio della partitura, aiutati da una minuziosa analisi fatta da una musicofila presso l'Università di Rochester.

Part I

a. Prologue. Presenta l'incontro dei quattro personaggi nel bar della Terza Avenue, dove cercano scampo, bevendo, dai loro quotidiani problemi esistenziali. È una sezione assai breve, che consiste nella malinconica improvvisazione di due clarinetti (in echotone) seguita da una scala discendente che fa da ponte verso l'inconscio in cui si svolge poi il resto della storia.

Sono soltanto 28 battute (Lento moderato, poi Poco più andante) in cui i due clarinetti, con suono appena udibile 
(l’echotone in pratica fa assomigliare il suono a quello di uno zufolo, forse in omaggio al carattere di egloga del poema di Auden) ci introducono un'atmosfera di tristezza, e pure di inquietudine, come testimonia il tritono (RE-LAb) già nella prima battuta:

seguiti dal primo flauto che – su un sottofondo di timpani, con arpa e violoncelli che suonano accordi di quarte sovrapposte - intona una lunga scala discendente (dal RE# acuto a quello due ottave sotto) alla fine della quale il secondo flauto ricorda il primo tema:


Questi motivi torneranno poi nel seguito ed anche nel finale della sinfonia.

b. The Seven Ages (Variations I-VII). Bernstein spiega che quelle che seguono non sono classiche variazioni su un tema predeterminato, bensì ciascuna varia la (e/o risponde alla) precedente, analogamente al flusso dei discorsi dei quattro personaggi che raccontano le loro esperienze. 

È il pianoforte solo ad aprire la prima variazione (sole 15 battute) che rappresenta l'infanzia e ricorda dapprima il tema discendente e subito dopo l'incipit del tema dei clarinetti nel prologo. Poi entra l'arpa ed espone, raddoppiate all'ottava, su un tremolo delle quarte dei violoncelli con sordina divisi in tre parti, le sedici note discendenti udite dal flauto poco prima:

La seconda variazione (l'adolescenza) è più corposa e vi è protagonista il pianoforte, che suona continuamente e sviluppa un frammento del tema discendente udito in precedenza: 

Gli strumentini espongono un nuovo motivo – due quarte ascendenti seguite da una terza minore discendente - che verrà impiegato nelle successive variazioni:
Questa variazione (Più mosso, rubato, come si addice alla turbolenza adolescenziale) è composta da due sezioni (la seconda in effetti è una… variazione della prima) con frequenti esplosioni di semicrome, fino ad adagiarsi (Quasi lento) sulla…

Terza variazione (Largamente) che rappresenta la prima maturità, dove il pianoforte tace e sono violini e corno inglese ad esporre maestosamente il motivo degli strumentini nella precedente variazione:

Si noti il frammento di seconda maggiore ascendente seguito da una quinta giusta discendente, poiché darà l'appiglio alla variazione successiva. Il motivo principale è ripetuto dai corni, con flauto e oboe, prima che il violino solo, in una nuova breve sezione, ne esponga uno specchio:
L’arpa e gli archi accompagnano il tema, ripetuto due volte, più la terza variata, con un ritmo quasi marziale, a sottolineare la determinazione, caratteristica di questa età dello sviluppo umano.

Nella quarta variazione si manifesta l'accettazione della dura realtà della vita. Sul tempo sghembo di 5/8, è dominata dal pianoforte, che ne espone l'idea principale, derivata dall'inciso della variazione precedente (qui è una seconda minore seguita da una quinta discendente):

Negli archi (e terza tromba) torna il motivo esposto originariamente nella seconda variazione:
La prima tromba vi espone infine un motivo da cui germinerà la quinta variazione:
Il tempo mosso e le agitate semicrome del pianoforte accentuano il senso di smarrimento e depressione di questo stato dell'esistenza.

La quinta variazione evoca l'improvviso arrivo del successo e l'apparente raggiungimento del benessere esistenziale. Il tempo è agitato, misterioso ed il clarinetto attacca con semicrome che ripetono il motivo della tromba della precedente variazione:
I legni e poi gli archi espongono un secondo motivo:

Dopo una transizione, affidata al pianoforte con intrusioni dell'orchestra - con i corni che letteralmente urlano - i motivi vengono ripresi, sempre con un ritmo che dà l'idea di una vita che procede da un successo all'altro, fino a… spegnersi su un nuovo motivo del flauto, che caratterizzerà la successiva variazione:
La sesta variazione (poco meno mosso) rappresenta l'invecchiamento e la constatazione della fallacia del successo e l'idea che la felicità si possa trovare solo tornando all'innocenza della fanciullezza. È piuttosto breve (solo 26 battute) ed è il solo pianoforte ad esporla, inizialmente con un motivo derivato da quello appena suonato dal flauto nella variazione precedente, indi richiamando fugacemente il primo motivo del prologo, poi esponendo un nuovo motivo, sempre derivato dal primo, che verrà impiegato nella settima variazione:

La settima variazione rappresenta l'estrema vecchiaia e… la morte. L'oboe espone un motivo derivato dalla variazione precedente, quindi sempre oboe e poi clarinetti espongono il motivo iniziale del prologo:
Infine il pianoforte – con i violoncelli sempre ad accompagnare con quarte sovrapposte - la chiude esponendone il motivo discendente (cui sovrappone il primo) che parte sempre dal RE#, ma questa volta percorre ben quattro ottave discendenti, anzi di più, fino al DO# e finalmente al DO (da cui ripartirà la prossima sezione) come a dipingere il lento cadere della vita nell'abisso del nulla:
Si notino in particolare le quarte dei violoncelli in accompagnamento, poiché sarà da lì che sgorgherà il tema principale della successiva variazione. Flauti e clarinetti accompagnano mestamente la cerimonia…

c. The Seven Stages (Variations VIII-XIV). Sono altre sette variazioni che evocano gli immaginari viaggi dei protagonisti, singolarmente o a coppie, alla ricerca della perduta e irraggiungibile felicità. Al termine dei quali viaggi (per quanto infruttuosi) i quattro si sentono uniti dall'esperienza comune e cominciano ad agire come un unico organismo.

Il primo stadio (ottava variazione
si riferisce alla constatazione, fatta dai quattro protagonisti dopo aver percorso tutti i panorami, dalla preistoria ad oggi, della costante presenza del dolore nella vita dell'uomo, in tutte le epoche della nostra civiltà. Il tema principale (quarte ascendenti SOL-DO) è esposto inizialmente da corno inglese e viole, mentre il pianoforte presenta un motivo ostinato, che verrà ripreso anche dagli archi, caratterizzando l'intera variazione:
Poco più avanti il pianoforte espone un'altra idea:

Tutta la variazione è sostenuta dall'ostinato (il cui incipit pare il dies-irae) su cui si innestano i due motivi principali, ripetuti due volte: il tutto crea – fedelmente al soggetto letterario - un'atmosfera di tristezza e rassegnazione.

Nel secondo stadio (nona variazionei quattro si dividono a coppie (i due giovani, Rosetta ed Emble e i due attempati, Quant e Malin) e partono per un cammino di analisi dei valori della società. 
Sono le note dell’ostinato a costituire il nerbo della variazione, esposte inizialmente dai violini e poi variate in continuazione (l’ultima figurazione servirà poi a sostenere la variazione successiva):

Una seconda idea è presentata dal pianoforte e poi si ripete in altri strumenti durante questa variazione:

Infine vediamo riapparire nell’oboe (alterata nel ritmo) l’idea iniziale della variazione precedente:


La variazione è divisa in due sezioni (separate da una lunga pausa): la prima molto pesante (forte e fortissimo) e la seconda molto tenue e dolce, forse a rappresentare l’atteggiamento delle due coppie (gli attempati e i giovani); poi alla fine il ritmo accelera per arrivare ad una conclusione tutt’altro che serena.

Nel terzo stadio (decima variazionei quattro si ritrovano davanti all'oceano e meditano sulla piccolezza dell'uomo. Formano due nuove coppie (Rosetta-Quant e Malin-Emble) e si mettono alla ricerca della possibilità di rendere il mondo meno insicuro e terribile. Vanno in città e scoprono la tendenza che molti hanno a farsi assorbire dalla sua vita tumultuosa perché timorosi per la propria stessa libertà. 

L’idea principale deriva dall’inciso di seconda minore ascendente seguita da una quinta discendente, che avevamo già incontrato nella quarta variazione e che era tornato anche in chiusura della nona. È il pianoforte ad esporla inizialmente, su un tempo che alterna battute in 4/4 alla breve e in 3/4:


Essa viene poi ripresa a canone dai fiati, mentre il pianoforte si sbizzarrisce in veloci semicrome. In aggiunta al ritmo claudicante, la chiusura improvvisa e sospesa della variazione lascia proprio un senso di insicurezza! 

Il quarto stadio (undicesima variazione) vede i quattro in una moderna città, dalla quale si allontanano avendone toccato con mano la superficialità della cultura e l'infelicità che ne deriva. Il pianoforte espone il primo motivo, una vaga derivazione da quello con cui era iniziata la precedente variazione e subito dopo un suo controsoggetto e ancora un altro motivo, usato poi come accompagnamento:

Il trattamento fugato della variazione è l’unico labile appiglio al testo letterario (la fuga dalla città). 

Nel quinto stadio (dodicesima variazione) i quattro fanno una gara nella speranza di scoprire che l'uomo può vivere felice: vi è rappresentata una grande casa, in cui Rosetta crede di trovare la risposta alle sue aspirazioni (ma ne uscirà profondamente delusa). 

È (quasi) il solo pianoforte ad eseguirla, in due sezioni, di cui la prima ripetuta (da-capo). È ancora la figura dell’ostinato a generare la prima idea; la seconda sezione presenta un motivo caratterizzato da quarte (ascendenti e discendenti) che risentiremo poi nella successiva variazione:


Nel sesto stadio (tredicesima variazione) i quattro capitano in un camposanto e meditano sulla morte e sulle impurità che albergano nei propri cuori. Il motivo principale proviene dalla precedente variazione ed è esposto dal pianoforte, contrappuntato dall’ostinato di tromboni, tube e controfagotto:


Il pianoforte poi improvvisamente tace per il resto della variazione, dove prevale il tema – molto espanso, fino a diventare quello iniziale della variazione precedente, su 15 note – dell’ostinato:


Il quale viene esposto ripetutamente dalle diverse sezioni dell’orchestra, che forse rappresentano i sentimenti dei diversi personaggi del poema. 

Il settimo ed ultimo stadio (quattordicesima variazione) vede l'illusione dei quattro, nel giardino ermetico, che credono di sapere come raggiungere il loro obiettivo, ma vengono ricondotti alla triste realtà da cui cercavano di distaccarsi.  

Il pianoforte riespone le 15 note del motivo allargato dell’ostinato, poi gli strumentini rispondono con il motivo principale della variazione precedente:
Più avanti i clarinetti espongono un nuovo motivo che verrà ripreso dai primi violini, in contrappunto con le ultime sette note del motivo allargato dell’ostinato
 
Prima della cadenza conclusiva udiamo un ultimo martellante motivo, esposto a piena orchestra: 
 
La cui conclusione è secca e pare lasciare poche speranze… 

Part II

a. The Dirge. I Quattro – in un taxi – piangono la perdita del colossal Dad (il colossale papà). La sezione impiega armonicamente una serie di 12 note da cui evolve il tema principale. Con esso contrasta una sezione centrale, caratterizzata da romanticismo brahmsiano (sic!) 

È il pianoforte a presentare la serie di 12 note, cui segue, in arpa e fiati, un altro motivo ostinato, di sette note:


Il tema principale, che evolve dalle note 8-10 della serie, viene dapprima esposto dall’ottavino:

Poi il pianoforte ripete più volte, variata, la serie iniziale, contrappuntato dagli archi che suonano il tema principale. Ora tutta l’orchestra espone il motivo ostinato finchè gli archi (violini esclusi) chiudono la prima sezione con una parte del tema principale. 

Nella sezione interna (brahmsiana, stando a Bernstein) è protagonista il pianoforte, che espone un nuovo motivo:

 
Il quale viene successivamente variato, prima per terze, poi per ottave, e su un tempo che continuamente accelera e decelera, allargandosi alla fine, per introdurre la sezione conclusiva, aperta dal pianoforte accompagnato dall’intera orchestra con la serie iniziale (una battuta), dopodiché il pianoforte tace, mentre l’orchestra ripropone l’ostinato; indi il clarinetto e i primi violini tornano sul tema principale, seguiti dal pianoforte, che ricompare con un’ultima reminiscenza del tema con cui aveva aperto la sezione centrale, prima che il lamento termini con le dodici note verticalmente sovrapposte:

 

b. The Masque. I Quattro sono nell'appartamento di Rosetta, decisi a fare un party, ma canzonandosi a vicenda. È uno scherzo per pianoforte e percussioni a base di piano-jazz. Il party si chiude con la partenza dei due più anziani, lasciando il pianoforte-protagonista traumatizzato. 

Per 11 battute l’accordone che ha chiuso Dirge permane negli archi, mentre (a misura 3) il pianoforte, supportato da buona parte delle percussioni, presenta un motto che introduce lo spunto e il ritmo poi impiegato nel primo tema:
 
Il quale tema è esposto sempre dal pianoforte:


 Tema che viene ripetuto più volte, variato e interpolato con altre idee, come questa:
E come quest’altra:

 
Poi sempre il pianoforte espone un quarto motivo, in ritmo rag
 
L’intera sezione è costituita dalla reiterazione di questi quattro motivi, sempre nel pianoforte, con un’eccezione costituita dall’intervento congiunto di celesta, arpa, glockenspiel, xilofono, percussioni e contrabbassi (una jazz-band davvero inusuale!) ad esporre la terza idea. Poi il pianoforte riprende l’iniziativa, ma la celesta lo sfida letteralmente, con velocissime semicrome, seguita poi anche da arpa e percussioni, prima che l’iniziale motto porti alla conclusione, cui si collega senza pause il finale

c. The Epilogue. È il pianino in orchestra che continua al posto del pianoforte solista la musica della mascherata, rappresentando la separazione del protagonista medesimo dal colpevole disertore, e consentendogli di ragionare su ciò che resta dietro tutto il vuoto e l'inconsistenza in cui ha vissuto. E, secondo Bernstein, ciò che resta è la fede. La tromba ne interpreta il concetto con un motivo che Bernstein chiama something pure (qualcosa di puro). Dapprima gli archi rispondono con una malinconica reminiscenza del motivo del Prologue. E abbiamo una specie di prova di forza fra i due motivi, finchè, improvvisamente, anche gli archi cedono a quel qualcosa di puro, nel segno della fede ritrovata. 

Nell'Epilogo il protagonista (pianoforte) - nella versione del 1949 - rimaneva silenzioso, semplicemente osservando  i fatti dall'esterno e limitandosi ad un accordo... di accordo (!) nella quart'ultima battuta. Bernstein revisionò il finale nel 1965, introducendovi la parte del pianoforte, che prende il posto del violino e che ha una cadenza tutta per sè.

Il pianoforte tace alla chiusa della Masque, ma per 4 battute tutta l’orchestra continua a martellarne il ritmo. Al posto del pianoforte le risponde per 22 battute il pianino (in orchestra) che la tromba contrappunta con un motivo (dolcissimo e nobile) per quarte discendenti e ascendenti, che rappresenta la prima idea tematica:

Ora segue un Adagio dove i violini primi espongono un tema che è reminiscenza del Prologue:
Poi ricompare il pianoforte – nella versione del 1965, prima era il violino - che reitera quella reminiscenza, arricchendola ulteriormente e facendone scaturire una nuova idea:
Queste tre idee tematiche vengono presentate alternativamente, prima della Quasi cadenza in cui il pianoforte rievoca motivi del Prologue e delle Seven Ages, mentre il pianino si aggiunge alla fine con una reminiscenza del ritmo della Masque.

Ora il pianoforte tace e l’orchestra (con serenità) espone il tema something pure, in 7/4 (4+3):
Sono le quarte, discendenti e ascendenti, a caratterizzarlo. Anche il tema ostinato dell'ottava variazione torna, ma depurato della sua sinistra somiglianza col Dies-irae, e conduce alla conclusiva perorazione, cui il pianoforte si associa – ma distinguendosi, da solo - con una semiminima, prima delle tre luminose battute dell'intera orchestra, sull’accordo di DO#:


Un finale che, con tutte quelle quarte (dominante-tonica) pare richiamarsi, ad esempio, alla Terza di Mahler, che non per nulla racconta l’amore… 
___
Eccellente la prestazione al pianoforte di Emanuele Arciuli (che per sicurezza, non si sa mai… ha tenuto lo spartito nella cassa del pianoforte) ben coadiuvato da Marshall e dall’orchestra, dove la band delle percussioni ha fatto faville, insieme alla brava Carlotta Lusa, che si è letteralmente sdoppiata fra celesta e pianino, facendo per due volte la spola fra la prima (posta al proscenio, sulla destra) e il secondo, dislocato dietro la quinta, per meglio rendere l’effetto di distanza (o per mancanza di spazio sul palco, smile!

Diverse le chiamate per Arciuli, che ci regala anche un bis debussyano (Ministrels). 

Poi tocca a Wayne Marshall esibirsi nel doppio ruolo di direttore e solista, per proporci la celebre Rapsody in Blue di George Gershwin. Il quale ne scrisse nel 1924 la parte del pianoforte, accettando di farsela poi orchestrare da Ferde Grofè, in vista della prima esecuzione a Manhattan. Qui, a parte il pianista, è il clarinettista (nella fattispecie il bravissimo Fausto Ghiazza) a mettersi in mostra subito all’inizio, con il famoso glissando ascendente di 18 note, dal FA grave al SIb due ottave sopra. 

Il brano è di quelli dichiaratamente volti a mostrare come fra i diversi generi di musica i confini siano labili: in questo caso è il jazz a compromettersi con il classico (o viceversa!) con risultati francamente apprezzabili. 

Marshall ci mette parecchio di suo, introducendovi non una, ma addirittura tre cadenze, le prime due a cavallo del celebre Andantino moderato in MI maggiore, e si guadagna applausi ed ovazioni. 

Chiude il concerto l'altrettanto celebre An American in Paris, già eseguito qui (con Zhang Xian) meno di un anno fa. 

Ancora un’ottima prova di Marshall e dell’orchestra, eccellenti a far emergere tutta la frizzante verve di questo brano, ma anche i suoi lati patetici e carichi (direbbe un tedesco) di Sehnsucht. In grande evidenza Alessandro Ghidotti, nell’assolo di tromba che nostalgicamente richiama le mille luci di NewYork all’americano vagabondante per la ville-lumière. Alla fine urla e fischi… all’americana da parte di un pubblico finalmente numeroso come si merita laVerdi.   

Prossimamente avremo il ritorno di XianZhang con un corposissimo programma e un Mahler poco conosciuto.