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29 ottobre, 2024

Das Rheingold alla Scala.

Ieri sera alla Scala è andata in scena l’opera che contemporaneamente chiude la stagione 23-24 e apre una stagione virtuale, dedicata al Ring wagneriano, che si chiuderà a marzo 2026. Prima di allora i quattro drammi verranno rappresentati in solitaria: dopo il Rheingold di oggi, Walküre e Siegfried nella stagione entrante e Götterdämmerung a ridosso dei due cicli completi.

Abbiamo quindi vissuto la Vigilia, la cui preparazione è stata caratterizzata da uno degli incidenti che purtroppo accadono spesso nell’ambiente teatrale: il default improvviso (e improvvido?) del Direttore designato (Thielemann) che la Scala ha dovuto rimpiazzare con ben due sostituti (battutaccia: che valgono ciascuno la metà dello schizzinoso Christian?)

Ma insomma, la Young ieri non ha poi demeritato. Del resto quest’estate ha diretto l’intero Ring a Bayreuth ed è già ingaggiata (sempre in coppia con Soddy) anche per le prime due giornate del ciclo scaligero, previste nella prossima primavera.

Orchestra in discreta forma ma con qualche defaillance: l’attacco degli otto corni – di per sé sempre problematico – non è stato proprio entusiasmante (un informe ribollire) e anche le tubette hanno avuto qualche problema nella prima esposizione del Walhall. Da mettere a punto anche il grandioso finale.

Cast vocale bene assortito, con molti interpreti che in Wagner sono di casa.

A partire dai tre che hanno contribuito al recente successo dei Gurre Lieder: Michael Volle, un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma i suoi problemi sembrano più di… deambulazione che non di voce, sempre rotonda, ben impostata e proiettata. Poi il Loge di Norbert Ernst, voce acuta e penetrante, come si addice al guizzante consigliere del re. E poi la convincente Fricka di Okka von der Damerau, la moglie volta a volta preoccupata, petulante, ansiosa, felice e pure un po’… ipocrita.

Degli altri, da promuovere il gineceo: la Freia di Olga Bezsmertna, la Erda di Christa Mayer (qui la parte è ristretta, anche se drammaturgicamente fondamentale, sarà ben più impegnata in Siegfried…) e le tre ondine in blocco (Virginie Verrez, Flosshilde, Svetlina Stoyanova, Wellgunde e Andrea Carroll, Woglinde) un po’ penalizzate dal regista nell’esternazione finale, che arrivava da dietro le quinte.

Così-così gli altri maschietti: Ólafur Sigurdarson è un Alberich piuttosto caricaturale, mentre dovrebbe far emergere la grandezza (pure in negativo) del ruolo. Così ho udito qualche dissenso per lui alla fine. Caricatura che invece si addice al Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke. I due giganti (Fasolt, Jongmin Park e Fafner, Ain Anger) nella onesta routine (forse i… trampoli li hanno messi in difficoltà…).

I due dèi residuali, Froh (Siyabonga Maqungo) e Donner (Andrè Schuen) meritano pure una larga sufficienza, in particolare il secondo, voce ben impostata e passante; un po’ meno il primo, non proprio brillante e poco penetrante nei suoi interventi (un Wie liebliche Luft piuttosto anonimo).
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Vengo a David McVicar. Dalla sua intervista con Mellace poco si era capito del suo Konzept e in effetti è difficile afferrarne (ammesso ci sia) un profondo significato. Mi pare che il regista albionico abbia furbescamente cercato di evitare sia l’attualizzazione del dramma ai giorni nostri, sia la sua pedestre rappresentazione letterale, optando per un’ambientazione astratta da spazio e tempo, supportata da scene spoglie (scimmiottando Wieland?) e da costumi abbastanza strampalati (lunghi e larghi variopinti vestaglioni, al posto dei cappottoni DDR). Il che potrebbe essere condivisibile, ma qui il regista ha un po’ troppo ecceduto in sovrastrutture francamente eccessive, caricando lo spettacolo di troppi aspetti da… avanspettacolo, magari realizzati con intelligenza e raffinatezza.

Sul sipario che separa le quattro scene compare un gran cerchio dentro il quale campeggia una mano: che significa? La mano che accoglie – su un dito - l’anello? O la mano di chi vuol mettere le mani sull’anello? Nella prima scena di manone ne vediamo tre (quante le Figlie?): due destre e una sinistra (?) adagiate sul fondo (del Reno). Poi vediamo una manina protendersi in alto allorchè l’Oro, un danzatore, emerge dal pavimento con il capo coperto da un cappuccio dorato (che gli verrà strappato da Alberich) per poi tornare alla fine ai piedi dello scalone che porta al Walhall (?castello comprato con l’oro?) Poi, ciascuno dei due giganti, che camminano su trampoli (perché, appunto, sono giganti!) ha due manone enormi (come no!) Insomma, simboli di dubbia interpretazione.

Giù a Nibelheim campeggia un enorme teschio dorato, che si apre in due alla bisogna, e qui Alberich fa le sue tre magìe, indossando il Tarnhelm costituito da una maglia metallica (questa idea viene direttamente dalle saghe nordiche): efficace la prima, quando il nano scompare in un paff! con esplosione di lapilli; più banale il secondo (lo scheletro di un serpentone che si protende verso il proscenio e poi se ne torna via); fuori luogo il terzo, dove il rospetto è rimpiazzato da uno… scheletrino che se ne vola via mentre Wotan immobilizza Alberich, rimastosene sempre lì.

La scena della consegna dell’oro ai giganti è reinventata dal regista, facendo accucciare Freia all’interno di una enorme maschera, composta da pezzi del bottino, poi disfatta dai giganti quando Wotan rifiuta di consegnare l’anello. Forse ricorda (a rovescio) quanto narrato nelle saghe, dove il tesoro deve riempire completamente la carcassa di una lontra ammazzata da Loge…

Altra idea portante della messinscena: figuranti/danzatori che accompagnano alcuni personaggi e dei quali dispongono: l’Oro, come detto; poi i giganti (anche perché dai trampoli faticherebbero a interagire con oggetti/persone che stanno due metri al di sotto…); e soprattutto Loge, che è sempre accompagnato (alle terga) da due figure che ne imitano gli spiritati gesti, quando il dio del fuoco espone i suoi pretenziosi e filosofici racconti e concetti.

Insomma, tante idee che forse mascherano l’assenza di un’idea! E dal secondo loggione alla fine sono piovuti sonori e reiterati buh al team registico (che non sto a nominare uno per uno)!

Per tutti gli altri, applausi più o meno convinti e qualche bravo! In tutto sì e no cinque minuti.

Quindi, che dire? Un inizio così-così (c’è l’attenuante Thielemann, daccordo…) 

27 ottobre, 2024

Das Rheingold inaugura un nuovo Ring alla Scala.

Siamo ormai alla vigilia di una nuova, lunghissima avventura scaligera in terra wagneriana: la produzione del Ring (affidata a David McVicar) che spazierà su ben tre stagioni, con la seguente agenda:

Ottobre 2024: Das Rheingold
Febbraio 2025 Die Walküre 
Giugno 2025: Siegfried
Febbraio 2026: Götterdämmerung 
Marzo 2026 (150 anni dalla prima di Bayreuth): due interi cicli del Ring.

L’impresa è purtroppo iniziata con un intoppo non da poco: Christian Thielemann, somma autorità in merito e originariamente ingaggiato per il podio per l’intera impresa, ha dovuto dare forfait – causa degenza ospedaliera e successiva riabilitazione - per il primo passo, il Rheingold (in scena da domani, 28 ottobre).  

Subito il Teatro si è attivato di conseguenza, ingaggiando per la Vigilia l'esperta Simone Young (prime tre recite) e Alexander Soddy (le altre tre).

Ma nel frattempo, abbastanza discutibilmente, Thielemann ha deciso di rinunciare all’intero percorso!

Così le prime due giornate del dramma nibelungico (2025) sono state appaltate – con identiche modalità - alla stessa coppia Young-Soddy, mentre ancora non si conosce il nome di chi salirà sul podio per le successive, fondamentali tappe dell’avventura. 

E pazienza… auguriamoci almeno che la Scala sia abbastanza seducente da poter adescare il mitico Cirillo!  
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Venerdi scorso, nel foyer Toscanini del teatro, si è tenuto un convegno introduttivo a questa nuova produzione, moderato da Raffaele Mellace, che ha indirizzato l’evento su due filoni di indagine: la presenza del Ring alla Scala e i problemi legati alla messinscena di questo cosmico dramma.

Dapprima ha preso la parola Maurizio Giani per commentare e giudicare alcune interpretazioni di Maestri che dal dopoguerra alla fine del ‘900 hanno diretto l’intera Tetralogia alla Scala: Furtwängler (1950), Cluytens (1963) e Muti (1994-6-7-8). La prova d’esame consistendo per tutti nella celebre Siegfrieds Trauermarsch, dalla quale è uscito di gran lunga vincitore il sommo Wilhelm.

Poi Marco Targa ha elencato e commentato gli allestimenti succedutitisi alla Scala dall’inizio del secolo scorso, da quelli che – per contratto – replicavano Bayreuth, ai successivi. Fra questi un certo rilievo ha tuttora quello ideato nel 1975 da Luca Ronconi, assai innovativo, che fu però limitato a Walküre e Siegfried, perché contestato dallo stesso Kapellmeister (Sawallisch).

Per trattare dei problemi di messinscena, Anna Maria Monteverdi ha illustrato e magnificato quella del Metropolitan di 14 anni fa, inventata da Robert Lepage. Con la scena occupata e animata da un autentico mostro tecnologico del peso di 45 tonnellate (battezzato The Machine) che muove montagne, fiumi, caverne, arcobaleni e rocche, insieme ai poveri interpreti che spesso vengono sostituiti da controfigure per evitare spiacevoli incidenti. Una cosa proprio all’americana (o canadese se si preferisce) che lascia a bocca aperta. Ed ha però (ma questo non è stato sottolineato…) un trascurabile difetto: è costata al MET 16 milioni di dollari!

E a proposito di messinscena, ecco arrivare David McVicar, incaricato di questa nuova produzione scaligera. Intervistato da Mellace, ha raccontato molte cose interessanti (insieme a qualche ovvietà) sul Ring e non ha per la verità detto molto sul suo allestimento, salvo che non vedremo corna vichinghe o foreste di cartapesta.

Quindi con interesse aspettiamo domani l’inizio di quest’avventura con Das Rheingold.

27 luglio, 2014

Bayreuth: riecco il Ring oleoso di Castorf


Con Das Rheingold si è aperto oggi il ciclo del Ring.

Tre le novità di quest’anno, a livello interpreti: Alberich è il kazako Oleg Bryjan, che la direzione del festival ha chiamato a sorpresa a sostituire Martin Winkler, provocando le ire del regista Frank Castorf, che pare voglia adire le vie legali per lavare l’onta. A me Winkler non era dispiaciuto, e lo stesso mi sento di dire di Bryjan, che mi è parso passabilmente sicuro ed efficace. Poi c’è un nuovo Donner, Markus Eiche, il discutibile Wolfram di due giorni orsono: il suo Hedà-Hedò (poco altro ha da cantare) non ha certo brillato. Infine il gigante buono (Fasolt) è Wilhelm Schwinghammer, che continua anche a fare Re Heinrich nel Lohengrin-topolino: prestazione direi sufficiente.

Il resto del cast è quello dello scorso anno, cioè… piuttosto deficitario, a cominciare dal Wotan di Wolfgang Koch, che non ha proprio la voce adatta per quel ruolo.  

Petrenko ha tenuto tempi assai spediti (2h 18’ sono praticamente un record) chissà, forse per non mettere ulteriormente in difficoltà l’armata brancaleone che calcava il palcoscenico (oltre che il pubblico in via di liquefazione).

Alla fine (è parso) solo applausi: quindi anche Castorf è stato metabolizzato! 

Come ha sentenziato José Luis Pérez de Arteaga, il simpatico quanto enciclopedico commentatore di Radio Clásica: da qui nessuno passerà alla storia!  

26 luglio, 2013

Bayreuth 2013: l’Oro del benzinaio


Indovinello: qual è il primo suono che è risuonato nel Festspielhaus mezzo secondo dopo lo spirare dell’ultimo accordo di RE bemolle del Rheingold che ha inaugurato il Ring del bicentenario?

Ecco, c’è chi difende la regìa, e con argomenti inconfutabili. Ad esempio, il testimone oculare Marco Mauceri, di Radio3, dixit: i buh vengono dal pubblico che non capisce (o che non vuol far la fatica di capire) le genialità del regista; è quel pubblico che vorrebbe i soliti luoghi comuni, che si capiscono al volo, come le corna e le pelli. Capirai… Castorf gli ha propinato cose lunari e luoghi davvero fuori dal comune: pompe di benzina e piscinette da cortile!

Ma a noi interessa la musica, poiché lo stesso Wagner ebbe finalmente a scoprire che, senza i suoi suoni, i suoi drammi non sarebbero usciti nemmeno dal suo salotto.

E della musica il principale responsabile è il Kapellmeister. Certo, lui non può rifare la voce ai cantanti, anche perché non è quasi mai lui a sceglierli, però insomma è pagato anche per questo….

Kirill Petrenko
ci ha proposto un Rheingold dignitoso, riuscendo a far suonare tutte le note di Wagner agli strumentisti; avendo un po’ meno successo nel farle cantare ai cantanti (smile!) A lui personalmente rimprovero eccessive libertà nello stacco di tempi (un paio, imperdonabili, proprio nel finale) che gli abbassano il mio voto da discreto a sufficiente.

Il migliore (sempre parlando al relativo, chè di assoluto non ricordo proprio nulla…) è stato alle mie orecchie l’Alberich di Martin Winkler: nella quarta scena si è un poco fatto prendere dall’incazzatura (e ‘tte credo, smile!) sparando un paio di imprecazioni sul rauco, ma per il resto ha tirato fuori in modo dignitoso tutta la complessità di questo personaggio, che a torto è  considerato l’incarnazione del male (mentre, per dire, Wotan su questo terreno lo batte di gran lunga…)

E infatti il Wotan di Wolfgang Koch non mi è per nulla piaciuto, a partire dalla natura della voce  (che, nel teatro musicale, è quasi tutto): che più che caratteristica di un dio, anzi del capo degli dei, pare adatta ad un simpatico Figaro. La sua sortita sul Vollendet das ewige Werk è stata proprio da operetta.

Degna sua emula la moglie Fricka, Claudia Mahnke (prestazione del tutto anonima) che evidentemente ha equivocato sulla natura un po’ rompiscatole e petulante del personaggio. Sua sorella Freia (al secolo: Elisabet Strid) ha fatto un pochino meglio di lei. Sopra la media generale (bassa) anche il gigante buono, Günther Groissböck, mentre il fratello manesco (Sorin Coliban) cantava proprio come un vero… drago (stra-smile!)

Fra Donner (Oleksandr Pushniak) e Froh (Lothar Odinius) faccio fatica a scegliere chi mandare per primo a zappare. Norbert Ernst (che impersona Loge) lo assegnerò ad una mansione meno pesante: la raccolta di pomodori nella piana di Benevento.

Mime, che nel Siegfried avrà qualche difficile gatta da pelare, è Burkhard Ulrich, al quale mi par giusto concedere, appunto, di provarci nella seconda giornata.

Positiva sorpresa la Erda di Nadine Weissmann, cui auguro ugual successo nel più impegnativo confronto col padre delle sue figlie (sempre nel Siegfried).

Le tre Figlie del… pozzo (ultra-smile!) erano Mirella Hagen, Julia Rutigliano e Okka von der Damerau. Se la sono cavata egregiamente, in particolare nel loro accorato appello finale a quel disgraziato di Wotan e al suo sbifido tirapiedi.

Domani la perla delle quattro: qual è il petrolio di miglior qualità?

25 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (1)


Dopo il primo, andato in scena dal 17 al 22, ecco al via il secondo ciclo del Ring scaligero.

Nell’ambito delle varie iniziative collaterali e di supporto all’offerta teatrale, le quattro giornate sono precedute da conferenze introduttive, ospitate nella prestigiosa sala dell’Auditorium Giacomo Manzù presso il Centro Congressi Fondazione Cariplo, a due passi dal teatro. A tenerle, accompagnandosi al pianoforte, è Elisabetta Fava, che ieri in meno di un’ora ha percorso le quattro scene del Rheingold con grande chiarezza ed efficacia: un’iniziativa davvero lodevole.

In teatro (il Piermarini presentava qualche posto vuoto) le cose sono andate discretamente bene: non certo per merito della regìa di Cassiers, di cui si sapeva e si era visto tutto, quindi al riguardo nessuna sorpresa, solo la persistente considerazione: la classica montagna (di quattrini!) che partorisce un topolino.   

Accettabile nella media la prestazione musicale: sopra la media Barenboim (cui magari avrei chiesto più… fretta) e l’orchestra, cui l’allenamento intensivo pare abbia giovato assai, e la coppia Johannes Martin Kränzle (Alberich) e Stephan Rügamer (Loge). Nella media il Wotan di Michael Volle (dopo una falsa-partenza…) la Fricka di Ekaterina Gubanova e il Fasolt di Iain Paterson. Un po’ sotto tutti/e gli/le altri/e.
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Dovendo rivedere (o meglio… risentire) il film di questa vigilia, citerei la cupa immobilità dell’attacco dei contrabbassi prima dell’arrivo delle ondate degli otto corni, che sono tanto mirabilmente vergate in partitura, quanto sempre difficili da rendere al meglio: dopo le prime due esposizioni disgiunte del tema (corni 8 e 7) abbiamo l’accavallarsi (a canone) delle onde, con quattro corni (da 8 a 5) che espongono le quattro battute del motivo (i primi 7 armonici naturali, tutte note della triade fondamentale di MIb, dalla tonica alla mediante due ottave sopra) sfalsati fra loro di due battute; quindi gli altri quattro corni (da 4 a 1) che cominciano ad entrare una battuta e mezza dopo il corno 5 e sfalsati fra loro di una sola battuta; infine la mutazione del tema (con la salita alla dominante superiore) per prima nel corno 8 (poi nel 4, nel 6, poi 3, 7, quindi 2, 5 e 1) e la successiva discesa. Ecco, essendo otto linee a canone, ma tutte costituite dalle note della triade, è persino difficile percepire – con tutto il rispetto per gli strumentisti! – se le successive entrate vengano eseguite precisamente come scritte… e anche ieri sera l’orecchio (il mio, quanto meno) non ne è rimasto pienamente appagato.    

Da incorniciare invece tutta la prima scena, con punte di grande emozione nella serenata di Flosshilde (Wie deine Anmuth mein Aug’ erfreut…) e nella blasfema quanto drammatica esternazione di Alberich (Erzwäng’ ich nicht Liebe…) fino all’impressionante So verfluch’ ich die Liebe! che segna la fine all’Eden e l’inizio della tragedia dell’umanità.

Qualche disagio all’entrata di Wotan (Vollendet das ewige Werk) chiusa da un affrettato e stentato hehrer herrlicher Bau! E anche Fricka non (mi) ha emozionato più di tanto, in quella perla che è herrliche Wohnung, wonniger Hausrath. I due si sono ripresi nel seguito, in specie Wotan, che ha acquisito più… autorevolezza (smile!)

Impressionante invece l’entrata dei giganti, dove timpani e tuba hanno letteralmente fatto tremare il teatro! Ben esposte le ansie amorose di Fasolt, un po’ meno le brutali maniere di Fafner.

Fantastica, proprio da sbudellamento, l’introduzione degli archi al racconto di Loge (So weit Leben und Weben) ed altrettanto mirabile la chiusa, con il fiorire di Freia e la stupefacente cadenza dell’oboe.

Dopo una parte finale non proprio brillantissima della seconda scena, efficace la transizione verso Nibelheim, dove abbiamo ritrovato un Alberich davvero convincente e un Mime piuttosto insipido. Efficacissimi i ritorni del trionfo di Alberich e musicalmente riuscite le sue due trasmutazioni, fino alla cattura, con il tema dell’anello che si avvita su se stesso…

La scena conclusiva ha – per sua natura – qualche momento di… caduta di tensione, dopo la liquidazione di Alberich e la sua drammatica (e splendidamente resa) maledizione. Da incorniciare però il meraviglioso ritorno – a canone – del tema delle Goldnen Äpfel che introduce l’aria (per così dire) di Froh, Wie liebliche Luft, che personalmente avrei gradito un po’ meno… letargica (smile!)

Sempre emozionante il momento dell’apparizione di Erda (qui era meglio chiudere gli occhi, causa Cassiers, che la trasforma in uno spaventapasseri…); un po’ tirato via l’Hedà-Hedò di Donner (fra l’altro non mi è parso di udire il singolo colpo di martello che lo chiude) e un filino coperto dagli ottoni lo sfavillare delle sei arpe che accompagnano la vista del ponte-arcobaleno.

Grandiosa l’entrata della tromba sulla Spada e strappalacrime il lamento finale delle Figlie del Reno. Un pochino in ombra la tubette nella poderosa cadenza finale, sovrastate dal peso degli altri ottoni.    
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In definitiva: un promettente primo movimento di questa colossale sinfonia che va sotto il nome di Ring.

Pubblico generosissimo di applausi e bravi! per tutti.

27 giugno, 2011

Oro a 18 carati alla Fenice


Invece di aprirci la Tetralogia, alla Fenice di Venezia (ma non sono né i primi, né gli unici) usano Das Rheingold per chiuderla, e anche questo è un segno dei tempi. O forse qualcuno ha sposato l'idea di chi sostiene che alla fine di Götterdämmerung si torna alla casella zero del gioco dell'oca, e quindi tanto valeva passarci direttamente in chiusura di ciclo…

Per la verità, quando le giornate del Ring sono presentate a distanza di anni – invece che di giorni – l'ordine di apparizione è del tutto indifferente. E certo lo stesso Wagner, che concepì la sua Tetralogia ben prima di avere un teatro tutto suo (dove rappresentarla in 5-6 giorni al massimo) pensò bene di strutturare ciascuno dei quattro drammi in modo da poter essere eseguito singolarmente, come qualunque altra Opera tradizionale.

Comunque, a completare il fosco quadro fenicio ci si sono poi messi i tagli del FUS, che hanno consigliato-imposto l'esecuzione in forma di concerto (ma Carsen qualche penale la vorrà pur riscuotere, oppure farà il signore e si limiterà a diffondere un proclama politico?) Chissà se sia questa la ragione principale che ha tenuto molta gente lontana dal teatro (sentita in galleria: mia moglie non è venuta perché oggi non ci sono le coreografie…) Oppure, dopo Wagner, a Venezia è morta pure la sua arte? Oppure ancora: a far salire a livelli scandalosi il numero di posti deserti ha contribuito anche l'inopinata defezione di Jeffrey Tate – papà musicale di questo Ring veneziano - che per ragioni di salute ha dovuto cedere il posto a Lothar Zagrosek? Il quale è un 69enne non proprio celebre Kapellmeister che magari non passa per un super-specialista di Wagner (anche se ha inciso un Ring con la Stuttgart Staatsoper, ma per un direttore tedesco questo deve essere come l'esame di ammissione alle medie, smile!)

La mancanza di scene, costumi e movimenti – fra mille contro - ha comunque almeno un indubbio pro: consente, per non dire costringe lo spettatore a concentrarsi su testo e musica, senza distrazioni di sorta, che spesso e volentieri (e anche Carsen non è sempre esente da colpe in proposito, diciamolo pure) vengono indotte da regìe pazzoidi o dissacranti.

Orchestra un pochino sottodimensionata rispetto alle velleitarie indicazioni di Wagner: negli archi (non li ho contati, ma mi son parsi meno di 64!) e nelle arpe (solo quattro, invece delle 6-7 prescritte dal megalomane di Lipsia, che immagino non si trovino in tutta Venezia…) Delle 18 incudini (!) poi si sono sentiti soltanto alcuni lontani rumorini, che parevano prodotti da un paio di triangoli, non di più… I cantanti entravano sul palco in prossimità delle rispettive esibizioni, per poi allontanarsi (e magari tornare più avanti…) Qualche vago gesto per mimare le situazioni più topiche (ad esempio: Alberich trasformatosi in rospo ed acchiappato da Wotan, Fafner che ammazza Fasolt con un paio di finti cazzottoni, e cose simili) per ricordarci che non ascoltavamo una sinfonia di Mahler, ma un dramma di Wagner. Più di così, francamente il FUS oggi non consente (cry!)

In ordine di apparizione. Zagrosek ha iniziato con un Preludio – per i miei gusti – un tantino accelerato: come fosse un FFW di alcune ere geologiche. Poi mi è parso rispettare abbastanza onestamente i tempi e dosare sufficientemente bene le sonorità. Non male la chiusa, dove ha trattenuto l'orchestra nella prima esposizione del ponte, per scatenarne tutta la possanza nella seconda e definitiva. Teniamo conto a sua scusante che non deve avere avuto secoli di tempo per affiatarsi al meglio con l'orchestra.

Delle tre Rheintöchter la Woglinde di Eva Oltivànyi mi è parsa la meglio in… onda (smile!) seguita dalla Flosshilde della Annette Jahns e dalla Wellgunde della Stefanie Irànyi (meno penetrante).

Richard Paul Fink nei panni di Alberich è stato l'autentico mattatore del pomeriggio: gran voce e soprattutto perfetto calarsi nei panni del personaggio più tosto dell'intera Tetralogia. Memorabile la sua maledizione!

Wotan era Geeer Grimsley: francamente non mi è molto piaciuto; voce potente ma difficoltà continua a trovare l'intonazione (sulle note alte) e tendenza all'ingolamento. Ha fatto poi un dio abbastanza monocorde, mentre sappiamo che Wotan ha una personalità zeppa di complessi e di manìe.

Bene la Natascha Petrinsky nel porgere la petulanza di quella noiosa megera che risponde al nome di Fricka. Ed altrettanto direi della sorellina Freia, di cui Nicola Beller Carbone ha saputo ben interpretare la parte della donna-oggetto-simbolo (una di quelle che secondo Bracardi c'ha 'n cervelo de galina…)

Che dire dei due Giganti? A me è parso che Gidon Saks (Fasolt) e Attila Jun (Fafner) si siano scambiati i ruoli. Fasolt è il gigante buono, dall'animo mite e dall'approccio accomodante; e poi è proprio innamorato cotto di Freia! Invece Fafner è un bruto che pensa solo alla roba (materiale o umana, poco gli importa) da possedere, mettendola sotto il materasso. Orbene, mentre Jun ha esibito una voce onesta e ben impostata, Saks non ha fatto altro che schiamazzi, con un vocione tanto forte quanto ingolato: piuttosto male, sia come canto che come immedesimazione nel personaggio.

I due dèi minori erano Ladislav Elgr (Froh) e Stephan Genz (Donner). Il primo ha mostrato una bella voce, adatta al ruolo (di un effeminato?) anche se poco penetrante: deve soprattutto cantare la sua arietta (Wie liebliche Luft) e lo fa assai dignitosamente. Non altrettanto posso dire di Genz, abbastanza anonimo e meno efficace nel suo Hedà, Hedò.

Altro personaggio chiave è Loge. Qui Marlin Miller si è ben portato (con Fink, di certo il migliore della compagnia): voce assai appropriata al ruolo del guizzante, scottante e strafottente tipaccio. Peccato che gli scarseggino un tantino i decibel.

Mime era Kurt Azesberger. Prestazione più che dignitosa la sua, nei panni di un nano (non nel fisico, lui alto e allampanato!) frustrato e bistrattato, che ha una parte con più guaìti che canto.

Ceri Williams è comparsa verso la fine (Erda) ad ammonire Wotan: già la sua stazza è consona al personaggio e ieri poi indossava un lungo scarlatto che ne ha ingrossato (smile!) la presenza in scena. Quanto alla sostanza (il canto) direi più che discreta, anche se personalmente preferisco una voce ancora più cupa e… cavernosa.

Resta da dire dell'Orchestra: Rheingold non è certo Tristan e per sua natura ha un contenuto, come dire, primitivo e facile (almeno apparentemente). La prestazione dei fenici mi è parsa tutto sommato encomiabile. Spendo un applauso speciale (in quota rosa) per Eleonora Zanella, che dalla campana della sua tromba ha splendidamente sfoderato la Spada!

 

Il pubblico presente ha compensato i vuoti in sala moltiplicando gli applausi e le grida all’indirizzo di tutti. Fuori, la Venezia di sempre, invasa da ogni esemplare – anche il più raro – di fauna umana.
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29 maggio, 2010

Dalla radio torna un po’ di Oro nel Reno alla Scala

Come poteva prevedersi, l'ascolto elettronico ha restituito ciò che il live aveva tenuto nascosto. Microfoni vicini all'orchestra e – soprattutto – infilati sotto i costumi dei cantanti restituiscono un suono (artefatto, si sa) simile a quello dei dischi, o CD o DVD. E soprattutto non trasmettono le immagini (smile!)

Certo, il timbro sgradevole della voce del Fasolt di Martirossian non può essere rimosso (forse nemmeno in studio) ma almeno le voci arrivano chiare all'orecchio. Cosa che in teatro, e in un teatro enorme come la Scala, accade solo se la materia prima è solida, cosa che poco si applica alle voci di questo Rheingold.

Visto che siamo in tempi di decreti e proteste anti-decreto, bisogna segnalare la differenza di trattamento riservata alla protesta – assai radicale, proprio da Cobas e piuttosto pesante nelle forme e nelle parole – dello scorso mercoledì 26, che fu oscurata dalla trasmissione cinematografica, e quella – più urbana nelle forme e dal freddo e burocratico linguaggio sindacalese – di questa sera, regolarmente andata in onda su Radio3. Lissner non ha perso l'occasione, alla fine, per ripetere che la Scala è diversa da ogni altra Fondazione: il decreto Bondi, par di capire, andrebbe anche benissimo se applicato a tutti tranne che al teatro milanese. Peccato che i fragorosi buh indirizzati anche stasera alla regìa siano lì a dimostrare come certe presunte superiorità di allestimento siano pura millanteria.

27 maggio, 2010

La sabbia del Reno alla Scala

Sì, perchè che di oro - in questo Reno scaligero – se ne setaccia proprio pochino.

Dico subito che una rappresentazione in forma di concerto o magari, come si usa oggi, semi-scenica, oppure con sole proiezioni didascaliche ad accompagnare voci e orchestra, avrebbe sortito risultati complessivamente migliori. A costi di un ordine di grandezza più bassi (questa antifona vale per Lissner e per Bondi allo stesso tempo).

A proposito di Bondi, il poetico ministro, col suo decreto che è la perfetta anticipazione della manovra 3montiana di macelleria sociale, è riuscito nell'impossibile impresa di far mostrare a tutto il mondo (la recita di ieri era diffusa sui circuiti internazionali) una Scala che pareva caduta in mano ad un manipolo di extraparlamentari d'altri tempi, con sipario alzato, alle 20 in punto, su uno striscione con la scritta Decreto infame e proclami declamati al megafono, fra scrosci di applausi intercalati a qualche timida contestazione. L'orchestra peraltro non ha intonato bandiera rossa, forse non tutti sono uniti in quel tipo di protesta, non certo Barenboim, che è arrivato a manifestazione sindacale chiusa.

A chi il Rheingold conosce a fondo, questo allestimento non solo non ha arrecato alcun valore aggiunto (né particolari emozioni) ma anzi ne ha parecchio tolto. A chi non lo conosce ha presentato un minestrone incomprensibile che temo avrà contribuito ad alimentare perplessità, se non disistima, verso Wagner. Bel risultato davvero! Tutti i buoni propositi espressi dal team di regìa, e pubblicati sul programma di sala e sul sito del teatro, sono stati accantonati. Magra consolazione: la stessa fine han fatto anche i propositi cattivi!

Meno male che almeno Barenboim – partitura sul leggìo - ha fatto qualcosa per tenere in piedi la baracca. In particolare evitando eccessive rumorosità che sarebbero state a dir poco deleterie, tenuto conto delle voci non certo potenti che cantavano sul palco. Ma con la conseguenza di propinarci un Rheingold piuttosto timido o – per usare un termine politically-correct – di stampo lirico. Tranne il piccolo Fasolt-Youn, quasi perfetto (il suo fratello Fafner-Riihonen ha voce inversamente proporzionale alla gigantesca mole) dal loggione si faticava a correttamente comprendere le parole di quasi tutti gli altri, e in Wagner ciò è particolarmente penalizzante. Ciò indipendentemente dalla bontà del canto e dell'interpretazione, buona in Loge-Rügamer e Mime-Ablinger, discreta in Wotan-Pape e Alberich-Kränzle, sufficiente poco più o poco meno in tutti gli altri/e.

Al maestro mi sento peraltro di rimproverare una esasperante lentezza nel tempo staccato per il Wie liebliche Luft di Froh-Jentzsch, invero insopportabile. Nelle transizioni alle scene 3 e 4 e poi nel finale, Barenboim ha ecceduto forse fin troppo col fracasso, ma bisogna pur capirlo, dopo interi quarti d'ora di un Wagner tenuto a livello cameristico, per non soffocare le voci!

L'orchestra ha discretamente suonato, anche se gli otto corni (ce n'era anche un nono di riserva) non hanno reso al meglio il dispiegarsi degli armonici al principiare del mondo e le tubette e il trombone contrabbasso han faticato a superare lo sbarramento sonoro nella cadenza conclusiva, un RE bemolle terrificante, quanto informe. Impeccabili davvero gli strumentini, oboe e clarinetto su tutti.

In totale, un altro mezzo passo falso in questa stagione scaligera di sedicenti produzioni da far storia. Peraltro salutato da un pubblico (folto, ma non da esaurimento) con grandi applausi, anche per gli inutili, anzi disturbanti quanto incolpevoli danzatori, salvo stentorei buh per la sola povera Fricka-Soffel, trasformata - suo malgrado per l'occasione - in parafulmine di tutte le critiche. Cassiers non si è fatto vivo, forse è già tornato nelle Fiandre, dopo aver incassato l'ultima rata della lauta quanto immeritata parcella.

25 maggio, 2010

Le note di regia del Rheingold di Cassiers

Il sito del Teatro ha da qualche giorno completato la pubblicazione di materiale (parte del programma di sala) a corredo e supporto della rappresentazione.

Oltre al libretto, nella nuovissima traduzione del professor Franco Serpa (con tutto il rispetto, ce n'era proprio bisogno, dato che apporta piccole e poco significative modifiche a quella - quasi perfetta, celebre e di pubblico dominio - del grande Guido Manacorda?) vengono presentati due articoli relativi alla concezione del Ring (e in particolare del Rheingold) del regista Guy Cassiers.

Il primo, di Michael P. Steinberg, della Brown University nel Rhode Island, è intitolato Proiezione e interazione: verso una nuova concezione drammaturgica del Ring. Attribuisce alla regìa di Cassiers nientemeno che l'apertura di un nuovo fronte interpretativo del Ring, una quinta era nella messinscena del capolavoro wagneriano, dopo quelle da lui etichettate come 1.storia del mito (1876-1944, la conservazione delle idee originarie di Wagner che – secondo Steinberg – presentavano il mito come allegoria della storia della Germania imperiale contemporanea a Wagner) 2.mito (1951-1975, legata alle innovazioni di Wieland, che tendevano – sempre secondo Steinberg - a depurare la messinscena da ogni e qualunque riferimento storico, anche per far dimenticare la compromissione col nazismo) 3.storia (1976-1980, legata sostanzialmente alla regìa di Chéreau, che presentava un Ring profondamente calato nella storia tedesca, da Guglielmo a Weimar, depurandolo dei riferimenti ai miti) e 4.neo-mito (dal 1980 in poi, dove si recupera, secondo Steinberg, il mito, ma senza perdere i contributi che Chéreau aveva apportato in fatto di regìa dei personaggi, delle loro relazioni ed interazioni).

Ecco, il Ring di Cassiers, stando a Steinberg, introduce un paradigma del tutto nuovo. Ohibò, stiamo a sentire: si torna a Chéreau, ed alla sua concezione secondo cui nulla, nemmeno il mito, è fuori dalla storia. Ma invece di mostrare uno svolgersi storico determinato (anni 1870-1945) come fece il francese, ci presenta la storia dell'oggi (globalizzazione e suoi annessi-connessi) legata alla stratificazione dell'eredità storica da noi accumulata, che condiziona la nostra esistenza odierna e prepara quella futura.

Proiezione ed interazione sono gli strumenti che Cassiers usa per raggiungere il suo obiettivo. Proiezione intesa come meccanica riproduzione di immagini, o ombre, ma anche come esternazione di esperienze interiori. Il Ring proietta i suoi contenuti sul pubblico: Wagner fu maestro nella proiezione del suono (l'orchestra sprofondata e i suoi suoni che si amalgamano con le voci, prima di raggiungere l'orecchio dell'ascoltatore). Cassiers si propone di fare lo stesso con le immagini, impiegando le moderne tecnologie. L'interazione consiste nella reazione del pubblico alle proiezioni (sonore e visive) che lo colpiscono, e al suo coglierne – singolarmente e collettivamente – gli stimoli. E diversi soggetti e diversi pubblici – Milano e Berlino - potranno avere reazioni diverse.

In sostanza, queste tecniche consentono di mantenere una relazione costantemente oscillante fra passato e presente, fra un passato, da un lato, che è fissato e trascorso, ma sempre variabile nella sua ricostruzione, e un presente, dall'altro, che è sempre tormentato e carico di tensione in relazione alle scelte d'azione che presenta e agli esiti per il futuro che contiene.

Come pratico esempio di immanenza storica del Ring si cita la brama per l'oro, che sarebbe esplosa ai tempi di Wagner e che oggi permea la nostra società, con forme e manifestazioni sempre diverse…

L'altro contributo è dello studioso belga Erwin Jans, e reca il titolo: Il Ring: nella Twilight zone. Il Ring descrive in sostanza un mondo – proprio come il nostro! - in continua transizione, dove nessuno è al sicuro e dove ciascuno cerca il suo posto al sole, dove sistemi di potere si confrontano e rapporti di forza si modificano. Il tutto all'ombra di un fato inesorabile, che offusca la libertà. Abbiamo ancora un libero arbitrio? Siamo ancora capaci di scegliere le nostre azioni? Oppure esse sono decise altrove? Siamo ancora i fautori delle nostre vite? Le nostre azioni hanno qualche effetto? I nostri atti non sono forse strangolati in una rete fatale? La velocità e l'incomprensibilità che caratterizzano oggi gli sviluppi tecnologici, sociali ed economici possono essere definite, con assoluta serietà, "tragiche". Il mondo non è più nelle nostre mani. Il mondo ci accade.

Secondo Jans, Cassiers intende, con la sua messinscena, confrontarsi e proporci il confronto con la realtà dell'oggi, caratterizzata dai fenomeni di globalizzazione: la dichiarata fine della storia e della politica; il flusso di informazioni e immagini; il ruolo del linguaggio e della retorica; la virtualizzazione della realtà; la società dei consumi; la confusione ideologica; la minaccia del fanatismo e del fondamentalismo; la ricerca di sicurezza e spiritualità. In sostanza: il crepuscolo della società borghese.

Scrive ancora Jans: Nella visione di Guy Cassiers, il Ring racconta la crisi di identità e la collocazione incerta dell'individuo nel disorientante processo di globalizzazione. Poi va ancor più sul politico, laddove afferma testualmente: Il Ring è l'analisi critica della società capitalistica della metà dell'Ottocento e della sua classe media. Ma poi, prendendo atto dello spostamento di Wagner su posizioni, diciamo così, conservatrici, muove una velata critica, mutuata da G.B.Shaw, per la simpatia che Wagner sembrò mostrare per Wotan, più che per il rivoluzionario Siegfried…

Sempre più chiaramente: La messinscena di Guy Cassiers tiene in seria considerazione l'analisi sociale del Ring e la traspone all'inizio del XXI secolo, in un mondo in cui il capitalismo è divenuto globale e senza alternative.

Dopodichè si passa a proporre paralleli fra le vicende del Ring e la globalizzazione: il Walhall costruito con l'oro rubato ai Nibelunghi, così come le grandi fortune di oggi sono ottenute impoverendo milioni di individui: lavoro minorile, clandestini sottopagati, traffico di vite umane, e così via; ecco le mani invisibili che portano l'oro al Walhalla. Non mancano i riferimenti alle rivolte americane del 1992 e alle banlieu parigine del 2005, assimilati alla sete di vendetta di Alberich.

Ora Jans entra nel merito della regìa di Cassiers e pone l'accento sulla sua interdisciplinarietà: luci, coreografie, balletti, funzionali al progetto di decostruzione dei personaggi nelle componenti di corpo, immagine e voce. Dove ogni componente racconta una parte della storia, e dove sarà lo spettatore a ricomporre il quadro, secondo la sua personale percezione.

Infine Jans riassume i significati delle quattro scene del Rheingold. Nella prima le ninfe rappresentano, per Alberich, una realtà virtuale, come quella delle webcam, che può solo creare frustrazione. Nella seconda abbiamo la rappresentazione della decadenza del mondo degli dèi: L'identità degli dei si è disintegrata in pure idee da un lato (i cantanti) e potere fisico, animale dall'altro (i danzatori). Questa scissione della loro identità condurrà alla fine alla morte degli dei, che sembrano figure di sogno catturate fra la vita e la morte. I Giganti sono rappresentati da enormi ombre, anche questa una manipolazione della realtà, che serve a minacciare ed intimorire la controparte. Nella terza scena abbiamo il regno del Grande Fratello. La quarta scena vede il mondo che cade a pezzi, mentre gli dèi salgono al Wahlall sopra un arcobaleno costituito da una grande massa di numeri e lettere proiettati in continuo movimento, stretti l'un l'altro e che richiamano la Borsa e i corsi azionari.

Conclude Jans con considerazioni già lette e udite, del tipo: ambizione, brama di potere, avarizia, amore, desiderio, invidia, disperazione, lealtà… il Ring abbraccia tutto lo spettro delle emozioni umane. E con richiami a moderni fenomeni di alienazione, frustrazione, individuazione di nemici cui imputare le proprie sfortune, ricerca di redentori cui affidare il proprio futuro, etc.

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Che dire? Tante idee, alcune interessanti, altre stantìe, altre banali. E soprattutto si tratta di vedere poi all'atto pratico se e come il Konzept sia stato realizzato sulla scena. Le reazioni – da quelle dei soloni della critica a quelle degli amatori in forum e blog – non sembrano, ad oggi, entusiaste.

06 maggio, 2010

Aspettando che inizi il Ring alla Scala

Una interessante conferenza del professor Franco Serpa – nell'ambito dell'iniziativa Prima delle Prime – ha introdotto il tema del Ring, il cui nuovo ciclo (2010-2013) prenderà inizio – scioperi/Bondi permettendo – il 13 maggio alla Scala con Das Rheingold.

Serpa è uno dei nostri massimi esperti wagneriani (e non solo). Può ben vantarsi di aver assistito, nel lontano 1950, al primo ciclo nibelungico in lingua originale, quello di sua-denazificata-maestà Wilhelm Furtwängler, prodotto dalla Scala. Prima di parlarci del Rheingold ha ricapitolato la genesi del Ring all'interno della parabola esistenziale ed artistica di Wagner e nella prospettiva storica e della civiltà europea di metà '800. Io conservo ancora, come una reliquia, il suo saggio sul Ring comparso più di 20 anni fa sulla mai abbastanza rimpianta rivista Musica&Dossier, scritto che ha non poco contribuito a spingermi a studiare, oltre che ascoltare, questa che è da considerare la più straordinaria realizzazione dell'ingegno umano nel campo musicale.

Se posso permettermi un modesto appunto alla sua presentazione del Rheingold – è sempre eccitante, perché temerario, prendersi lo sfizio di muovere un appunto ad un accademico di S.Cecilia! – questo riguarda la luce in cui Serpa ha inquadrato il personaggio chiave (quello che dà il nome all'intero ciclo): Alberich. Che dal professore è stato definito come l'incarnazione del male, un essere congenitamente malvagio. Ecco, qui io mi permetto di dissentire: Alberich diventa malvagio, questo certamente, ma solo dopo che gli è stato fatto un torto (da tre stupidelle note come Le Figlie del Reno) anzi il più gran torto che si possa fare ad un essere vivente, negargli l'amore. Ed è precisamente la prospettiva disperante di dover vivere senza amore - Erzwäng' ich nicht Liebe… - che convince il nano, perso per perso, a maledirlo e ad impossessarsi dell'oro - doch listig erzwäng' ich mir Lust? - con tutto ciò che ne consegue.

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Sistemato (smile!) Serpa, veniamo ad un protagonista chiave della rappresentazione: il regista. Guy Cassiers – con qualche anno in più sulle spalle – sembra ripetere l'esperienza che nel 1976 fece tale Patrice Chéreau (allora trentenne): essendo grande esperto di teatro di prosa, ma poco o nulla conoscendo di teatro musicale e di Wagner e di Ring in particolare, viene chiamato alla messa in scena di un'edizione importante (Bayreuth mi perdonerà l'affronto, se lo paragono alla Scala) dell'Anello. Peraltro Cassiers ha il vantaggio non indifferente di arrivare dopo mille esperienze fatte da altri; essendo – fino a prova contraria – intelligente è da sperare che da esse prenda il grano e butti il loglio, non viceversa!

In web sono disponibili alcuni documenti che testimoniano dell'approccio generale e della preparazione di questo Rheingold. Qui una serie di filmati, girati nelle ultime settimane. Due di questi (1-4) sono – con traduzione italiana - pubblicati sul sito del Teatro. Qui invece (è un pdf di 5Mega, attenzione!) un documento (in tedesco) con alcune considerazioni, diciamo così, filosofiche del nostro. Si può fare qualche illazione, qualche considerazione di prima mano? Vediamo un po'.

Dalla stessa locandina del Teatro, dai vari filmati, e dalle dichiarazioni del regista che li accompagnano si evince, intanto, un aspetto non proprio marginale: la presenza di una coreografia, quindi l'impiego di danzatori ad accompagnare alcune scene del dramma. Come giustificano Cassiers (filmato n°5) e un suo coreografo (filmato n°3) questa scelta piuttosto azzardata? Con la volontà di meglio chiarire allo spettatore ciò che si nasconde nella personalità dei vari protagonisti, spiegandone i reconditi segreti attraverso il movimento di danzatori. È legittimo sollevare seri dubbi su questa trovata? Per me purtroppo sì. Perché? Ma perché in Wagner, e nel Ring in particolare, quel compito che Cassiers intende affidare ai danzatori è invece affidato – e in modo insuperabile – alla musica! È ascoltando questa, i leit-motive che ne emanano, che noi comprendiamo, ricordiamo, anticipiamo fatti, cogliamo sentimenti, sensazioni, collegamenti e relazioni. Quei danzatori, invece, non finiranno per caso per distrarre la nostra attenzione proprio da ciò che è più importante e prezioso?

Quanto all'impostazione concettuale, da ciò che si vede e legge in alcuni spezzoni dei filmati e nel documento pubblicato sul sito della Staatsoper, sembrerebbe di evincere l'intendimento di Cassiers di presentarci – a partire dal Rheingold – un Ring con forte carattere attualizzante, per così dire. Così fanno pensare i riferimenti ai moderni processi di globalizzazione, alla spersonalizzazione delle relazioni, agli egoismi regionali ed etnici, alla ricerca di spazi virtuali in cui rifugiarci, all'affidarsi a capipopolo, alla speranza in improbabili redentori… tutte manifestazioni della nostra attuale (in)civiltà. Ora, che nel Ring si possa trovare tutto ciò è quasi pacifico… tutto sta a vedere però quale strada deciderà di percorrere il regista: ci vorrà mostrare, attraverso riferimenti all'attualità, i caratteri universali del Ring o al contrario – speriamo di no – deriverà, da quei caratteri universali, dei particolari legati alla nostra attualità? In altri termini, userà il particolare per rappresentarci l'universale, oppure ci farà perdere quest'ultimo, mostrandocene una minima, parziale e soggettiva materializzazione?

Sul fronte musicale abbiamo pochi indizi. Uno è del tutto tranquillizzante (o almeno dovrebbe): si chiama Daniel Barenboim. Pochi come lui conoscono il Ring fin nei minimi dettagli e possiamo sperare che ripeta la prestazione del Tristan di un paio d'anni fa. Se devo manifestare un po' di sorpresa dall'ascolto degli spezzoni di musica che sentiamo nei filmati, questa riguarda (video n°2) il tempo che Barenboim fa prendere a Fricka-Kammerloher per la frase Um des Gatten Treue besorgt. Una cosa insopportabilmente lenta! Spero proprio che sia solo l'effetto-prima-prova. Bella sonorità e gran portamento invece nel Folge mir, Frau di Pape, proprio all'inizio dello stesso video.

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Oggi pomeriggio, come mobilitazione anti-Bondi, una specie di lodevole sciopero-alla-rovescia, una prova aperta al pubblico. Divisa in due: alle 14 le prime due scene e alle 19 le altre due. Ho seguito la prima parte (adesso vado in Auditorium per laVerdi). Che dire?

Qualcosa dell'orchestra, che mi è parsa ben messa, soprattutto nella sezione ottoni, che sappiamo essere allo stesso tempo il suo tallone d'achille e la punta di diamante di Wagner. Barenboim ha fatto ripetere più volte l'incipit degli otto corni, ma insomma direi che come partenza non c'è male. Sui cantanti non esprimo alcun giudizio, chè immagino non si impegnino al massimo nemmeno ad una generale, figuriamoci ad una prima prova d'insieme.

Su regìa, scene e costumi invece penso si possa non dico giudicare, ma almeno riferire (ripeto: prime due scene!) Innanzitutto la regìa è di quelle che non fanno danni, quindi nemmeno suscitano entusiasmi (oggi spesso i secondi si accompagnano ai primi). Figlie del Reno in nero lungo, scalze a sguazzare in una bassa piscinetta (recuperata per caso dal Tannhäuser?) e Alberich con abito anonimo, ma con stivali per non bagnarsi troppo. Gratuite ed eccessive le moine delle ninfe, ma nulla di grave. Fondale con immagine marina più che fluviale, con acqua appena increspata (Wagner scrive che si deve vedere il Reno muoversi da destra a sinistra, figuriamoci!) Poi appare una lama di luce e il fondo si indora, ma non troppo, prima di rabbuiarsi dopo l'impresa di Alberich. Un paio di telecamere pendono dall'alto e ogni tanto qualche personaggio vi si avvicina e il suo primo piano è proiettato sul fondo (?!?)

Nella transizione compaiono i danzatori, che accompagnano la salita all'Olimpo con movenze francamente mediocri. Nella seconda scena, fondo fermo fin quasi alla fine, un ambiente a metà fra Cappadocia e Colorado; poi si zooma su una cosa che dovrebbe richiamare la wagneriana gola sulfurea, ma sembra un calanco e basta. Personaggi quasi sempre impalati, tranne Loge, che si muove e contorce come si addice alla sua stramba personalità. A che serva un mimo-ballerino che a sua volta lo scimmiotta, lo sapranno soltanto regista e coreografo. Così come abbastanza cervellotiche sono le silhouette proiettate sullo sfondo. Sospiro di sollievo nel sentire che il tempo di Fricka (Um des Gatten Treue besorgt) non è assolutamente quello del filmato.

Non è colpa sua, ma Youn nella parte di un gigante (Fasolt) è proprio una presa in giro: meno male che ha una voce strepitosa a dir poco! Il suo fratellone Fafner è letteralmente il doppio di lui (per questo non faticherà a farlo secco alla fine, smile!) I personaggi entrano ed escono sempre salendo e scendendo dal/al piano di sotto. Plausibile per la fuga di giganti e Freia, come per la discesa finale di Wotan-Loge. Gratuito per gli ingressi: a che servono le quinte laterali? Dopo la perdita di Freia, l'invecchiamento degli dèi è simulato da accasciamenti e dall'intervento di mimi-danzatori che si aggiungono al mucchio. Mah!

Un'ultima notazione sui costumi. Fricka e Freia (ma sono solo sorelle o anche gemelle?) son vestite identiche. Wotan (con lancia di ordinanza) in giacca e jeans, come Loge. Fasolt in jeans e Fafner in smoking (si deve capire subito che sarà lui a godersela, alla fine). Froh anche lui in casual e Donner senza martello ma con l'impermeabile: sì perché lui è il dio del tuono (smile!)

Ecco, è tutto qui: nessuna particolare ambientazione, né moderna, né vichinga… Si intravede alla fine della prova – Barenboim ci fa sentire per ben tre volte le 18 incudini - un po' della terza scena, dove probabilmente compare molta tecnologia, in onore alla produttività nibelungica, ma vedremo.

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Ultima informazione: venerdi 7, ore 21, sul Canale 5 FD, la RAI trasmette proprio un Rheingold diretto da Barenboim: è una registrazione dal vivo del 1991 a Bayreuth (pubblicata in CD da Teldec).

28 luglio, 2009

Il Ring di Bayreuth09 (I)

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Das Rheingold

Il ciclo nibelungico comincia con qualche patema. Allo stato d’animo non propriamente sereno di Thielemann (per la vicenda col comune di Monaco, a proposito della Filarmonica) si aggiunge all’ultimo momento la forzata rinuncia di Christa Meyer, che doveva impersonare Erda e così si deve urgentemente richiamare in servizio la Erda precedente (2006-2007) Mihoko Fujimura.

Il risultato è una più che discreta (arriverei quasi a dire buona) torta con sopra alcune ciliegine andate a male.

Thielemann compie un’impresa ragguardevole: impiegando tempi à la Boulez (nettamente sotto i 150’) riesce a produrre un Rheingold à la Knappertsbusch, con tutte le canoniche, tradizionali e doverose enfasi.

Ahilui, viene tradito dalla prima tromba che nell’esporre, nel solare DO maggiore, il tema dell’oro, incespica clamorosamente sul MI prima di arrivare al SOL: è come se sopra il pepitone d’oro fosse guizzato un luccio (la specie non è casuale, essendoci di mezzo Alberich) a spegnere per un attimo la luce solare che deve rendere abbacinante quella riflessa dall’oro… peccato! Il professore da qui in avanti non mancherà più una virgola, ma ormai la frittata era fatta.

Andrew Shore è un Alberich di tutto rispetto, a cominciare dalla pronuncia, cosa non secondaria in Wagner.

Albert Dohmen (Wotan) ha pure lui la sua buona torta con alcune ciliegine marce: in una prestazione complessivamente all’altezza, è deplorevole il suo impappinamento proprio sulla frase divenuta quasi un motto (Vollendet das ewige Werk!) dove, magari mal supportato da Thielemann, non riesce a sincronizzarsi con le tube che espongono il tema del Walhall; più avanti mostra qualche amnesia, scambiando parole, fino al silenzio assoluto (non credo ci sia stato un black-out microfonico solo per lui) sulla frase Den Hort und dein helles Gold, all’inizio del “processo ad Alberich” nella Scena IV.

Note non esaltanti per la Freia di Edith Haller, troppo urlante (per lei non può reggere la scusa della paura che le fanno i giganti che la inseguono…)

Bene Michelle Breedt, in un ruolo (Fricka) forse più adatto a lei di quello in cui l’abbiamo ascoltata sabato (Brangäne).

Note positive per il Mime di Wolfgang Schmidt, per il quale sta prendendo corpo una perfetta legge del contrappasso: dopo aver per anni (dal 1995 al 2004!) interpretato Siegfried, ed aver quindi fatto ripetutamente secco il povero Mime, quest’anno toccherà a lui di cadere miseramente sotto il fendente della Nothung brandita da Christian Franz.

Un altro che non mi è affatto dispiaciuto è il Loge di Arnold Bezuyen, voce e portamento assai appropriati alla personalità del fetente consigliere di Wotan.

La improvvisata (ma non troppo, dati i precedenti) Erda di Mihoko Fujimura ha onorevolmente sostenuto la sua parte, però qui la pronuncia e il conseguente canto non sono irreprensibili.

Kwangchul Youn è stato un ottimo Fasolt, il gigante raffinato e innamorato, che soccombe al truce fratello Fafner, qui interpretato da un modesto Ain Anger. Al bravo coreano tocca poi un altro ruolo di soccombente (Hunding in Walküre) ma si rifarà da assoluto protagonista vestendo i panni di Gurnemanz.

A proposito dell’ammazzamento di Fasolt, la partitura prescrive che siano il timpano (principalmente) insieme a viole e archi bassi a sottolineare i rantoli finali del gigante che tira le cuoia dopo che il fratello lo ha abbattuto, assestandogli un tremendo colpo di bastone. Gli strumenti suonano in sincronia perfetta per due misure e mezza. Ebbene, in questa esecuzione si sono sentiti dei colpi (verosimilmente in scena, non in orchestra) vibrati esattamente in corrispondenza delle pause delle parti strumentali (le ultime del timpano, in particolare) quindi in perfetta sincope con le note. Un dettaglio trascurabile e perdonabile?

Gli altri e altre interpreti hanno portato a casa lo stipendio con dignità, in specie il Froh di Clemens Bieber, che se l’è cavata discretamente nell’etereo Wie liebliche Luft… Le ondine piuttosto anonime, e poco efficaci - secondo me – specie nell’accorato appello finale.

Tornando a Thielemann, si è risparmiato quei (pochi) gigioneggiamenti che in altre occasioni lo hanno caratterizzato, e ciò torna ulteriormente a suo merito. A Monaco dovrebbero pensarci bene prima di cacciarlo nel 2011!
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16 marzo, 2008

Ma naturalmente!

Claus Guth ha una reputazione da difendere, quindi si è dato da fare parecchio per il nuovo Ring che l’Opera di Amburgo metterà in scena (a partire da oggi, con Rheingold) da qui al 2010.















Come capirà al volo qualunque medio frequentatore del Rheingold, l’immagine qui riprodotta mostra l’incontro di Floßhilde con Alberich, nella prima scena.

Si distingue infatti chiaramente il letto del Reno, su cui giace l’oro (di colore rigorosamente giallo-arancione, come da didascalìa originale) illuminato dal sole che filtra nell’acqua.

A proposito della quale, anche Guth peraltro non riesce a rispettare alla lettera la prescrizione dell’autore. Che pretende che l’acqua del fiume si debba vedere muoversi da destra verso sinistra.

Ma non saremo tanto schizzinosi da non perdonare al nostro genio qualche marginale infedeltà al testo...