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17 giugno, 2019

La giara fantasma del Regio (con Cavalleria)


Ieri al Regio-Torino quinta delle nove recite di un dittico abbastanza insolito: al dramma verista mascagnano viene infatti affiancato il balletto (precisamente: commedia coreografica) La giara di Alfredo Casella. Effettivamente un punto di contatto fra le due opere esiste (meglio dire: esisterebbe, a fronte di ciò che si vede a Torino): la Sicilia, dalla quale provengono i due autori delle opere letterarie ispiratrici, e della quale si mettono in scena - magari inventandoli - alcuni tratti naturalistici ed antropologici.   

Il soggetto della Giara è tratto dalla famosa novella di Luigi Pirandello, che narra la bizzarra vicenda di Zì Dima, un anziano artigiano esperto in riparazioni di giare e oggetti consimili, chiamato ad aggiustarne una di dimensioni enormi a casa del ricco possidente Don Lolò. Lui per sistemarla come nuova vi si introduce all’interno, e così ne rimane fatalmente imprigionato. Dopo un braccio di ferro con Lolò che pretenderebbe il pagamento della giara in cambio della sua liberazione, la storia si conclude con lo scorno del padrone di casa e il trionfo dell’artigiano.

La struttura del balletto è in due macro-parti, per una durata poco superiore alla mezz’ora. Per meglio esplorarla possiamo ricorrere a quest’unica registrazione live disponibile (che io sappia) su youtube, grazie all’amor proprio del maestro Mauro Fabbri, che l’ha diretta tempo fa in Bulgaria. Nel seguito sono evidenziati i tempi corrispondenti alle diverse indicazioni agogiche presenti in partitura, corredate, quando esistenti, dalle didascalie di scena.
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I - a) Preludio b) Danza siciliana

Preludio
(28”) Andantino dolce, quasi pastorale
(1’53”) Un poco più lento, quasi adagio
(3’02”) Allegro grottesco ed animato (Zi’ Dima passa al procenio e scompare)
(3’20”) Tempo primo

Chiòvu (Chiodo, danza popolare siciliana)
(5’00”) Allegro vivace (Scena: aia siciliana; entrano i contadini)

Danza generale
(5’40”) Allegro vivace
(6’19”) Lontano - Avvicinandosi - Brillante e giocoso
(7’17”) Sempre più forte, ma senza affrettare - Con tutta la forza - Calmato
(8’20”) Lontano - Avvicinandosi - Giocoso
(8’55”) Sempre più brillante e fortissimo - Stringendo
(9’33”) Vivace (Irrompono tre ragazze spaurite)
(9’50”) Grave, funebre (La grande giara spaccata; tutti piangono; strazio generale)
(10’51”) Vivace (Un contadino chiama tre volte Don Lolò)
(11’16”) Allegro drammatico (Don Lolò appare e scende; scena di furore; finimondo; contadini atterriti)
(12’50”) Poco a poco stringendo (Entra Nela)
(13’17”) Vivace grazioso (Nela riesce a placare le ire del genitore)
(14’13”) Allegro vivace e grottesco (Entra Zi’ Dima; i contadini lo accolgono come a una messa)
(14’32”) Allegro vivace e rustico (Tutti lo circondano e gli raccontano il fatto; lo conducono davanti alla giara)
(15’21”) Lento (Zi’ Dima esamina la giara; silenzio religioso)
(15’38”) Di nuovo animando (Zi’ Dima annuncia che riparerà la giara; “Evviva Zi’ Dima”)
(15’53”) Stringendo (Don Lolò si spazientisce e scaccia i paesani; tutti fuggono; Don Lolò esce con Nela)
(16’22”) Andante moderato (Zi’ Dima prepara la riparazione; si fa notte; fora i pezzi col trapano)
(17’16”) Vivace (Le tre ragazze spiano Zi’ Dima)
(17’40”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende il lavoro)
(17’56”) Vivace (Le tre ragazze riappaiono; Zi’ Dima non le vede)
(18’13”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende ancora il lavoro)
(18’30”) Allegro animato (Rientrano giocosamente i contadini)
(18’52”) Stringendo (Zi’ Dima viene introdotto nella giara, poi chiusa con lembo rotto)
(19’07”) Lento molto e misterioso (La giara sembra nuova; i contadini sono ammirati)
(19’32”) Pesante ed allegro (I contadini cercano si estrarre Zi’ Dima, ma la cosa non va)
(19’42”) Agitato (Zi’ Dima urla; nuovi tentativi dei contadini; nuove urla del vecchio; sforzi eroici)
(20’01”) Allegro vivacissimo (Arriva Don Lolò stravolto e fa ruzzolare a terra i salvatori; disputa violentissima fra padrone e contadini)
(20’24”) Alla breve, stringendo (I contadini vogliono spaccare la giara per liberare Zi’ Dima; Don Lolò non lo permette: prima Zi’ Dima deve pagare il danno; baruffa generale)
(20’47”) Prestissimo (Don Lolò, dispersi i contadini, risale in casa)

II - a) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” b) Danza di Nela c) Entrata dei contadini d) Brindisi dei contadini e) Danza generale f) Finale

(21’08”) Allegro animato (Un contadino torna, accende la pipa a Zi’ Dima e lo tranquillizza)
(21’22”) Lento, calmissimo (Notte; chiaro di luna; calma; dalla giara escono le volute di fumo della pipa)
(21’55”) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” (Dal fondo della campagna s’innalza un canto popolare) (testo di Alberto Favara, 25 battute musicali in FA# maggiore cantate dal tenore)


(24’00”) Vivacissimo e leggero (Nela scende dalla casa; danza attorno alla giara; chiama i contadini)
(25’29”) Allargando (Entrano tutti i contadini festosamente)
(25’35”) Pesante (Viene portato da bere)
(25’55”) Allegro deciso (Brindisi dei contadini che acclamano Zi’ Dima)

Danza generale
(26’39”) Allegro rude e selvaggio (I contadini ebbri danzano intorno alla giara)
(29’57”) Orgiastico e brutale (Don Lolò, destato dal baccano, si affaccia e vede la scena)
(30’14”) Allegro vivacissimo (Don Lolò scende come toro infuriato; spavento generale)
(30’26”) In due (Don Lolò abbranca la giara e la fa ruzzolare giù dall’altura; terrore dei contadini che si precipitano in soccorso di Zi’ Dima)
(30’47”) Allegretto molto moderato e rustico (Rientrano i contadini, innalzando in trionfo Zi’ Dima liberato)

Finale
(31’51”) Prestissimo (Don Lolò, disperato, è fuggito; Nela guida la danza generale)
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Non ci vuol molto a concludere che quest’opera si basi su tre pilastri strutturali, già sospettabili nel genere attribuitole dall’Autore: commedia coreografica. Che comporta quindi il carattere di commedia, cioè di soggetto letterario, con tanto di trama, personaggi e azioni; e comporta caratteri di coreografia, sostanzialmente di danza e di pantomimica. Ebbene, l’ineffabile regista-coreografo siciliano (si noti!) Roberto Zappalà cosa ti combina? Tiene buona solo la danza e butta nel cesso la commedia e la pantomimica! E per raggiungere questo mirabile risultato si serve pure di un Dramaturg (Nello Calabrò). Apperò, complimenti! Il suo balletto poteva e potrebbe benissimo essere indifferentemente appiccicato alla musica di Petruška o del Faune... Perchè scovarci tracce di giare, di Don Lolò, di Nela e di... Sicilia è impresa proprio disperata. Ecco perchè alcuni sparuti ma sonorissimi buh piovuti dall’anfiteatro all’abbasarsi del sipario non mi son parsi per nulla immeritati. Insomma, una Giara davvero fatta a pezzi! Peccato per i tanti bambini che i genitori avevano magari portato a teatro proprio perchè vedessero rappresentata quella storia imparata a scuola...

Battistoni (si dà sempre pose che finiscono per renderlo antipatico) ha diretto però con apprezzabile cura questa partitura in cui risuonano, oltre ad atmosfere sicule, anche accenti (vecchi di 10 anni almeno) stravinskiani. Marco Berti da lontano ha efficacemente cantato la canzoncina riservata al tenore. 
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Ecco poi la sempreverde Cavalleria. Qui le cose sono andate decisamente meglio, in quanto abbiamo appunto visto Cavalleria e non, che so... Pagliacci!!! Merito di Gabriele Lavia (che i Pagliacci proprio qui li ha già fatti, e ben... distinguibili!) Approccio assolutamente rigoroso (i soliti schizzinosi lo definiranno... soporoso, ma peggio per loro) con la Sicilia (magari non proprio quella di Vizzini, come ammette lo stesso regista) ben rappresentata da lavia lava solida (nera come la tragedia) e... liquida (rossa come il vino e il sangue che scorrono a fiotti). Movimenti di masse ben gestiti; moderato ricorso a stereotipi stantii (una Madonna e un Cristo, nulla più); e grande cura della recitazione per i protagonisti. Insomma, uno spettacolo assolutamente dignitoso e (parlo per me) del tutto soddisfacente. 

Vicissitudini di ogni tipo hanno fatto sì che il cast, rispetto alle originali scritture, sia stato quasi rivoluzionato: niente Danielona Barcellona per Santuzza (le è subentrata Sonia Ganassi) e niente Carlo Ventre per Turiddu (reincarnatosi in Marco Berti). Poi anche Marco Vratogna si è dato malato (tornerà forse per due appuntamenti) e quindi lo stoico Gëzim Myshketa si è dovuto sobbarcare finora tutte le recite come Alfio.

Devo dire che tutti tre i protagonisti se la sono cavata più che discretamente, così come la Lola di Clarissa Leonardi e la comprimaria Lucia di Michela Bregantin. Onorevole la prestazione del Coro di Andrea Secchi

Battistoni ha diretto con sufficiente sensibilità e attenzione ai particolari, strappando applausi per sè e per l’Orchestra dopo il celebre Intermezzo.
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Teatro non al completo, ma prodigo di consensi per tutti.

21 aprile, 2017

Alla Scala ultime cartucce di una Bolena non poi così derelitta

 

Ieri penultima recita della bistrattata Anna Bolena che la Scala ha importato dalla Francia, dove non era certo stata accolta con entusiasmi nelle sue apparizioni da 4 anni a questa parte. Così alla prima al Piermarini aveva finalmente collezionato sul suo libretto anche il riprovato del pubblico scaligero. 

L’altro giorno, a proposito di Rossini e della Gazza, avevo espresso un mio personale convincimento che riapplico qui a Donizetti e alla sua Bolena: basta una proposta artistica appena appena decente per farmene (farcene?) apprezzare la grandezza. Ho ancora nelle orecchie quella incredibile rappresentazione del 19 marzo 2012 al Comunale di Firenze dove l’opera venne data – causa sciopero - senza l’orchestra, rimpiazzata da un solo pianoforte: beh, fu un autentico trionfo! Dovuto sul piano musicale al duo Devia-Ganassi e su quello scenico alla regia di Vick.

Ebbene, la proposta artistica di questa Bolena mi sembra che galleggi tranquillamente sopra il livello di sufficienza; quindi, a meno che non sia straordinariamente migliorata nelle quattro precedenti repliche, non mi pare si meritasse le stroncature senza appello della prima. Certo, dalla Scala ci si aspetterebbe assai di più, ma in senso assoluto non mi sentirei di usare il pollice verso.

Ampia sufficienza darei alla parte musicale, con la piacevolissima (per me) sorpresa costituita da Federica Lombardi, che deve avere doti naturali di livello assoluto: voce dal timbro caldo e corposo, in particolare nei centri e negli acuti (certo lei non è la Devia e i MIb gratuiti li lascia perdere) e sensibilità interpretativa già più che convincente. Insomma, una bella realtà che – se ben coltivata -ha davanti un futuro luminoso.

Con lei Sonia Ganassi, che viene da un passato luminoso, ma che ancora sa imporre la sua personalità: splendido in particolare il duettone del second’atto con la Lombardi. Buone notizie anche da Piero Pretti, bella voce squillante e ben impostata, capace di salire senza affanni ai DO. Su un piano dignitoso le prestazioni di Mattia Denti e della (travestita) Martina Belli (meglio l’aria della canzone d’esordio). Onesto e promettente l’accademico Giovanni Sebastiano Sala.

Discorso a parte per Carlo Colombara, uscito malconcio dalla prima e purtroppo buato (unico nel cast) anche ieri sera. Certo non mi ha entusiasmato, tuttavia non è incorso in svarioni o topiche clamorose: una prestazione che definirei incolore, e quindi la contestazione mi è parsa un po’ troppo severa (personalmente mi sarei limitato a non applaudire, ecco).

Sarà anche etichettabile come routine, ma la direzione di Ion Marin non mi ha per nulla deluso, così come il coro di Casoni, sempre all’altezza della sua fama. In sostanza, una performance musicale non strepitosa, ma più che passabile, sottolineata da molti applausi a scena aperta e calorosa accoglienza (Colombara escluso) alla fine.
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La regìa di Marie-Louise Bischofberger è di quelle che non suscitano entusiasmi: le scene di Erich Wonder sono di un minimalismo assoluto che si può spiegare (insieme con la cupa ambientazione delle luci di Bertrand Couderc) con l’obiettivo di concentrare tutta l’attenzione sullo scavo psicologico dei personaggi. E qui la regista qualcosa di buono ha in effetti proposto. Passabili i costumi di Kaspar Glarner, con qualche cappottone di troppo.

In conclusione, una proposta debole rispetto alle aspettative che sempre un teatro come la Scala suscita, ma complessivamente dignitosa: insomma, ciò che si può discutere, al solito, è il rapporto price/performance...

21 marzo, 2016

Il Conte di Essex onorevolmente decollato sotto la Lanterna

 

Ieri pomeriggio un Carlo Felice piacevolmente gremito da una folla entusiasta ha ospitato la seconda recita di Roberto Devereux, terzo atto della donizettiana trilogia Tudor (1830 Bolena, 1835 Stuarda, 1837 Devereux). Tre opere che trattano (più o meno liberamente) delle vicende dei reali inglesi negli anni che vanno dal 1536 al 1601: sono 65 dei 70 anni di Elisabetta I. Lei ai tempi dell’Anna Bolena (sua madre) aveva solo 3 anni, quindi non poteva ancora comminare condanne a morte (quella della madre toccò al padre Enrico VIII) e tantomeno cantare in teatro (smile!) Ne aveva poi 54 (1587) ai tempi della Maria Stuarda, sua cugina da lei mandata al patibolo, e 68 appunto in questo Roberto Devereux, pure spedito anzitempo (aveva precisamente la metà degli anni della Regina, 34!) al creatore.

Ecco, i tre personaggi che danno i titoli alle opere hanno in comune il fatto di essere decollati: oh, parliamo di decollazioni, mica di decolli... di aerei per le vacanze, eh! E non si trattò di cose semplici e burocratiche, tutt’altro: vediamo.

Anna fu gratificata dal corpulento Enrico (180Kg per 180cm!) non di uno ma di ben due privilegi: la pena canonica per arrostitura al rogo fu commutata in quella per decapitazione; per di più da eseguirsi, invece che con il barbaro rito albionico (scure calata dal boia sul collo della vittima appoggiato sul ceppo) con il più raffinato ed assai meno antipatico rito francese, che prevedeva – in attesa dell’invenzione della tecnologica ghigliottina - la mozzatura del collo eseguita con un colpo di spada e con la vittima inginocchiata sì, ma con il capo in posizione eretta (già, l’esprit de finesse... sappiamo che Anna da ragazza aveva soggiornato alla corte parigina). Quindi per lei fu chiamato dalla Francia un autentico specialista del ramo, tale Jean Rombaud da Calais che, armato di un ben affilato spadone da samurai, con un sol fendente le separò di netto la testa dalle spalle.

Per Maria invece si resero necessarie ben due asciate del boia, più un terzo colpetto per recidere un’ultima cartilagine renitente; poco dopo fra le pieghe delle sue vesti si scovò un piccolo maltese che Maria si era portata appresso e che si rifiutava di abbandonare il suo corpo straziato.

Ma peggio ancora andò al Roberto, sul cui robusto collo il boia dovette infierire con la scure per ben tre volte, prima di poter esibire alla folla la testa del fedifrago, gridando lo slogan di prammatica: God save the Queen
   
E le parole con cui principia l’Inno britannico ci portano direttamente alla Sinfonia dell’opera. Peraltro sarà bene ricordare che per la prima assoluta di Napoli (domenica 29 ottobre, 1837) Donizetti aveva composto, un po’ come aveva fatto per la Stuarda, solo un brevissimo (11 battute) Preludio che precede l’Introduzione dell’Atto I. La Sinfonia che oggi si esegue comunemente fu composta per la prima francese (giovedi 27 dicembre 1838, Parigi, Théâtre des Italiens) e francamente, se proprio non è un corpo estraneo rispetto all’opera, di certo ne evoca assai maldestramente i contenuti. Dopo l’attacco in SOL minore, con i pesanti accordi sulla dominante RE, compare improvvisamente nella relativa SIb maggiore (eccolo là) il famigerato God save the Queen!

Così come è antistorico il finale dell’opera, con l’abdicazione del tutto inventata di Elisabetta in favore di Giacomo (figlio della Stuarda, guarda un po’ i casi della vita...) altrettanto fasulla è la citazione dell’inno che risale, a voler esagerare, al 1619 (John Bull) ma più probabilmente a metà del 1700 (definitiva vittoria degli Hannover sugli Stuart). In ogni caso nel 1601 (anno di ambientazione dell’opera) l’inno non esisteva proprio. Ritorna il SOL minore con un motivo agitato, intercalato ancora dall’inno britannico, prima che una serie di modulazioni porti al FA maggiore, dove ascoltiamo il tema che Devereux canterà in LA maggiore nel terz’atto (Bagnato il sen di lagrime) apprendendo della sua imminente decollazione e della disperazione che ciò provocherà nella sua amata Sara. Solo che qui viene presentato come un’allegra marcetta! Poi si modula progressivamente a RE maggiore per l’entrata di un nuovo motivo assai vivace e spensierato, e infine - per chiudere in bellezza, neanche fossimo a... Cavalleria leggera - ecco tornare il tema di Devereux letteralmente spiritato, con protervo accompagnamento (RE-LA) di timpani. Insomma, una cosa assai bizzarra, giustificata probabilmente dal desiderio di Donizetti di accattivarsi a buon mercato le simpatie del pubblico parigino. Ecco perchè alcuni direttori (qui il leggendario Gavazzeni a Bologna nel 1993) scelgono talvolta di eseguire l’opera proprio come presentata in origine a Napoli, cioè senza la discutibile Sinfonia appiccicatavi a posteriori.

Quanto al libretto di Salvadore Cammarano, si può dire abbia davvero un corposo pedigree: di certo fu ispirato direttamente (come l’analogo del 1833 di Romani per Mercadante) dal dramma Elisabeth d’Angleterre di Jacques-François Ancelot (1829). Ma  un’altra probabile fonte di Cammarano risalirebbe al 1787, e si tratterebbe di un testo di Jacques Le Scène-Desmaisons intitolato assai sinteticamente (!) Histoire d'Élisabeth et du comte d'Essex, tirée de l'anglois des Mémoires d'un homme de qualité. Il quale testo era quindi a sua volta la traduzione di un altro di autore anonimo (ma... di qualità) risalente al 1680 e titolato The secret history of the most renowned Q. Elizabeth and the E. of Essex by a person of quality. Il quale a sua volta potrebbe essere la traduzione dal francese di un preesistente (1678) Comte d'Essex histoire angloise. Insomma, un soggetto di lunghissima data! E non a caso, dato il mistero e la curiosità che la persona della Regina vergine (?!) ha suscitato nella fantasia popolare.

È chiaro che il soggetto di Cammarano non si ponesse l’obiettivo di tenerci una lezione di Storia albionica, ma ovviamente di creare ambienti, vicende e situazioni che fornissero al compositore materia per un classico melodramma. A partire da un paio di oggetti che servono a pilotare colpi di scena e ad influenzare il corso degli avvenimenti: l’anello donato da Elisabetta a Roberto in segno (per lei) di amore e (per lui, evidentemente) di semplice stima per le sue capacità politico-militari, anello che alla fine manca il suo scopo (tornare in mano alla Regina salvando Roberto) per uno stupido ritardo di pochi attimi; e una sciarpetta ricamata e donata (in segno di amore) da Sara a Roberto, che diviene il reperto principale per il capo di imputazione del Conte: tradimento nei confronti della Regina, ma mica di natura politica (per quello Elisabetta poteva girare la frittata a suo piacimento e fregarsene del Parlamento) bensì di natura sentimentale, che insieme al mancato arrivo dell’anello fa scattare il risentimento personale della Regina nei confronti di Roberto, decidendola per la sua esecuzione capitale.

Naturalmente troviamo nel libretto anche alcune profondità di contenuto, relative all’inquadramento delle diverse personalità dei protagonisti. Così abbiamo una Regina innamorata, ma più che del giovane Roberto in carne ed ossa, dell’amore in quanto tale, che reclama i suoi diritti sulla sua psiche (L'amor suo mi fe' beata è evidentemente frutto della sua immaginazione, come ci conferma nel duetto del prim’atto l’inconciliabilità fra le parole sue Un tenero core mi rese felice e quelle di Roberto Indarno la sorte un trono m’adddita) a dispetto delle sue volontarie e istituzionali auto-castrazioni. La sua conclusiva abdicazione è più al ruolo di donna, ormai per lei impossibile a realizzarsi, che non a quello di Regina

Sara è il suo contraltare, ma solo in parte: nessuna prospettiva - ma nemmeno alcuna aspirazione - di tipo politico (e qui siamo agli antipodi di Elisabetta) e invece una morbosa e contrastata vita sentimentale, che viene guarda caso condizionata proprio dalle decisioni della Regina: spedire il suo amato Roberto in Irlanda e metterla in moglie al fido Nottingham. La poverina non vede proprio vie d’uscita alla sua condizione (Io vivendo ognor morrò... ci racconta chiudendo la sua triste romanza di presentazione) e il corso dell’opera altro non farà che confermare, passo dopo passo, questa nichilistica prospettiva.

Nottingham è (ma solo a prima vista) il classico uomo tutto d’un pezzo: fedeltà assoluta alla Regina e fraterna amicizia per il coetaneo Roberto; rapporto quest’ultimo che viene fatalmente ad incrinarsi e poi a spezzarsi a causa della condivisione forzata di Sara, che lui ama per dovere convenzionale, mentre lei ha il cuore – anche se non il corpo, stando a Cammarano! - tutto per Roberto. Però alla scoperta della sciarpa di Sara finita in mano a Elisabetta il suo comportamento è proprio da gran paraculo: sfrutta l’incidente e la sua conoscenza del legame affettivo della Regina per Roberto al fine di convincere Elisabetta a mandare l’ex-amico al patibolo, ma noi sappiamo bene che in realtà lui vuol vendicarsi di Roberto poichè si sente da questi cornificato (in via platonica o materiale). Alla fine, scoperti inevitabilmente tutti gli altarini, i coniugi Nottingham vengono meritatamente accomunati dal pollice-verso della Regina, ma francamente chi ci perde di più, diciamolo pure, è la povera Sara, l’unica vittima davvero innocente di tutto il dramma.

Infine Roberto, che dà il titolo all’opera, è forse il personaggio più indecifrabile e non proprio cristallino: fatto oggetto delle attenzioni della babbiona Regina, sembra fingere una certa condiscendenza – ma ogni volta che Elisabetta tocca il tasto del sentimento, lui risponde con quello della fedeltà istituzionale! – solo per trarne vantaggi politici, mentre in realtà i suoi pensieri (e... altro?) vanno alla giovane Sara. Il che lo mette però in una situazione insostenibile, una dissociazione schizofrenica che lo porta dritto al patibolo, pur con le attenuanti della sfiga (Sara impedita dal restituire in tempo il salvifico anello ad Elisabetta).

Ecco, a mo’ di passatempo possiamo provare ad immaginarci come sarebbe mutato il finale nel caso di tempestivo arrivo dell’anello; qui avremmo almeno due possibili sviluppi: Elisabetta resta fedele al suo recente proposito (Vivi, ingrato, a lei d’accanto) e così fa giustiziare Nottingham e consente a Roberto e Sara di coronare il loro sogno d’amore; o viceversa, toglie di mezzo i due Nottingham e così può vivere felice e contenta con il suo Robertino, hahaha!
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Sul piano musicale forse non si toccano i vertici della Lucia, ma non v’è dubbio che l’opera sia uno scrigno di tesori, a partire dalla splendida appropriatezza della scolpitura in suoni della personalità dei quattro principali protagonisti. Non mancano nemmeno omaggi alla più alta tradizione, come testimonia la scena di Roberto nella prigione, che par proprio una versione, diciamo così, à la bergamasque, di quella che apre con Florestan il second’atto di Fidelio.

Mariella Devia è stata -  c‘era forse da dubitarne? - la grande trionfatrice della recita: alle qualità artistiche aggiunge qui anche la perfetta adeguatezza all’età della protagonista: 68 anni! E portati canoramente assai bene, al contrario di quanto accadde qui (2 anni fa) alla inossidabile Edita Gruberova, pure cimentatasi a 68 anni nella stessa parte con risultati – ahilei e ahinoi - purtroppo deprimenti. Il (pur esteticamente discutibile, e non prescritto da Donizetti) RE sovracuto conclusivo è stato il diamante sonoro posto su una ideale corona regale di cui la Mariella ha tutto il diritto di fregiarsi.

Prestazione di buon livello quella di Sonia Ganassi, alle prese con una parte non proibitiva, ma sostenuta con la grande professionalità che contraddistingue da sempre il mezzosoprano emiliano. In particolare citerei per efficacia il duetto con Roberto che chiude il primo atto.

Eccoci appunto al protagonista che dà il nome al titolo: Stefan Pop. Il peso-massimo (ma non gli auguro di raggiungere... Enrico VIII!) rumeno non ha ancora 30 anni, ma la voce è a dir poco sontuosa. Certo, sono i proverbiali 1000 cavalli da mettere a terra, come si usa dire in F1, e il buon Stefan dovrà ancora lavorare parecchio per ottenere un rendimento di eccellenza. In particolare sul versante dell’espressione, che talvolta fa le spese della stessa invadenza della voce. Nella cabaletta finale (che pure il pubblico ha accolto con ovazioni) il nostro si è lasciato prendere da eccessiva foga, accentuando in modo (per i  miei gusti) eccessivo la puntatura del tema, ottenendo effetti da... operetta, ecco.

Nottingham – come annunciato da un foglietto inserito nel programma di sala, ma non dall’altoparlante – era Mansoo Kim, che ha anticipato il cambio a Marco Di Felice. Il baritono coreano si è portato assai bene, già dalla cavatina del prim’atto: la voce è abbastanza solida e... promette bene, diciamo.

Più che positivi Alessandro Fantoni (lo sbifido Cecil) e Claudio Ottino (Gualtiero). Il coro di Pablo Assante ha assolto dignitosamente il suo compito: che non è quantitativamente impegnativo, ma ciò che conta è la qualità della prestazione.

Che dire di Francesco Lanzillotta? Il giovane romano, che ha fatto gavetta più all’estero che in Italia, ha indubbie qualità e merita incoraggiamento: ha le carte in regola per aggiungersi al gruppetto dei giovani direttori italiani, che comprende Mariotti, Bignamini, Beltrami, Rustioni, D’Espinosa...
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Due note sull’allestimento del baritono Alfonso Antoniozzi. Con i tempi che corrono, c’è sempre da fare i complimenti ai registi che ti mostrano precisamente il soggetto dell’opera così come esce da libretto e partitura, risparmiandoti cervellotiche ambientazioni, che so, nella sede di una cupola mafiosa o nel board di una multinazionale quotata a WallStreet. Ecco, qui a Genova si assiste proprio alla vicenda narrata nel libretto. Magari senza troppi orpelli inutili o pacchiani; le scene di Monica Manganelli sono semplici ed essenziali (una piattaforma sopraelevata di qualche gradino dal palco, dove si svolge l’azione) e in più funzionali ai mutamenti d’ambiente, ottenuti spostando pannelli costituiti da grate, che supportano trono, scranni, celle carcerarie, e lasciano sempre intravedere ciò che sta dietro (poichè a corte si spia e si trama). Ambientazione scura, come si addice al soggetto che pochissimo spazio lascia a luce e serenità.

I costumi di Gianluca Falaschi sono allo stesso tempo fedeli a quanto i dipinti d’epoca ci tramandano e di una ricchezza davvero sontuosa! Assai efficaci le luci di Luciano Novelli, che mettono di volta in volta in risalto i movimenti dei personaggi e delle masse.  

Il malsano ambiente di corte è didascalicamente rappresentato dalle maschere indossate dalle masse e dalla presenza di giullari: come dire che la corte è tutta una pagliacciata? I movimenti di tutti sono sempre piuttosto lenti e ieratici (del resto nel libretto c’è assai poca azione) ma assai appropriati alle diverse psicologie dei protagonisti.
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Come detto, accoglienza calorosissima per tutti e trionfo-nel-trionfo per la grande Mariella. Che a questo punto aspettiamo ancora a Genova per il previsto completamento della trilogia.  

01 maggio, 2013

Gomorra - di Verdi?! - alla Scala


Ieri quarta recita, in un teatro abbastanza affollato, della quarta opera verdiana della stagione del bicentone, che è proprio la sua prima: Oberto. Praticamente: un riciclaggio (smile! e ricordiamoci di questo termine quando si tratterà di disquisire sulla regìa di questa proposta scaligera).

Sì, perché Verdi, inopinatamente vincitore all’enalotto di allora (1839, la Scala che – in brache di tela in fatto di novità plausibili – aveva deciso di scommettere su un carneade debuttante rifiutato persino da teatri di provincia e insisterà ancora su di lui affidandogli persino una scimmiottatura di Rossini, prima dell’epocale Nabucco) non ebbe altra scelta che adattare una sua velleitaria – e abortita - opera-prima (Rocesterad un nuovo soggetto messo in mano ad un tizio più giovane di lui, ma di lui più navigato, che successivamente lo affiancherà in alcune delle opere che lanceranno Verdi nel gotha del melodramma: Temistocle Solera.

Oberto rappresenta propriamente quello che i crucchi chiamerebbero l’ur-Verdi (il Verdi primigenio) cioè il germoglio - non certo un frutto maturo! - di ciò che diventerà nel giro di pochi anni la sostanza caratteristica di tutta la produzione del maestro di Roncole: la creazione di drammi in musica, dove lo scavo psicologico dell’anima umana e la scolpitura in suoni dei sentimenti e delle passioni si inseriscono all’interno della rappresentazione di grandi (o pretesi-grandi) scenari storici (o pseudo-storici).

Ora, l’estetica dell’epoca di Verdi imponeva tassativamente la nobiltà del testo e, soprattutto, della musica, anche e più che mai laddove il soggetto dell’opera fosse di carattere crudo, o presentasse componenti di violenza, o scene cruente, o personaggi sgradevoli se non addirittura spregevoli. E quindi, se il compito della produzione artistica era (come in fondo dovrebbe essere, per distinguersi da quella documentaristica) la poetizzazione dei soggetti, ne consegue che tutto - testo, musica e ambientazione scenica - dovesse sottostare a regole ben precise.

E infatti, in Oberto, Solera e Verdi tendono a presentarci in modo poetico anche gli aspetti più crudi di vicenda e protagonisti: dimore lussuose (Magnifica sala nel castello di Ezzelino) anche se di proprietà di gente poco raccomandabile; cavalieri, dame e vassalli, magari coinvolti in trame e faide non propriamente edificanti, che tuttavia cantano versi come: Qual d’Eugania sulle spalle nivea falda, hai puro il cor…

Lo sbifido Riccardo di Salinguerra (un nome, un programma!) facendo il suo ingresso in scena in mezzo ad una folla festante per le sue prossime nozze, così esprime il suo odio verso i nemici: Già parmi udire il fremito degl’invidi nemici. Le balde lor cervici prostrate al suol vedrò. Il senso non è certo rassicurante, ma la forma, accipicchia, è aulica per davvero; e la musica? una vispa cabaletta, Allegro brillante, in SOL maggiore:


Insomma, il cattivone mica sbraita - magari su truci accordi dissonanti di tutta l’orchestra - a quei brutti figli di puttana gli faccio un buco in testa…, accompagnato da compari che gridano: e fagliene pure due, a ‘sti fetentissimi cornuti…   

Prendiamo poi un fatto di sangue, la morte del protagonista; essa ci viene notificata da una musica in Allegro agitato, MI minore, sulla quale il coro maschile canta versi come Nella selva ei giace esangue:

Di sicuro: non dal grido sguaiato di una donna che vocifera: Hanno ammazzato compare Oberto!

Fu solo a partire dal verismo (50 anni dopo) che i canoni estetici cominciarono a mutare – in biunivoca e reciproca relazione di causa-effetto con l’evolvere dei gusti e dell’attitudine del pubblico – contribuendo a portare sulle scene soggetti, personaggi, linguaggio e ambienti direttamente mutuati dalla realtà contemporanea. E di conseguenza spingendo gli autori (di testi e musica) e i responsabili degli allestimenti a trovare nuovi e appropriati strumenti di espressione e di presentazione, tagliati su misura della nuova offerta artistica.

Nei  primi decenni del ‘900 l’esempio più fulgido di queste tendenze sarà Wozzeck, nato quasi un secolo dopo l’Oberto, dove anche la musica dovrà radicalmente adeguarsi ai nuovi canoni estetici, trovando nella cassetta degli attrezzi resasi nel frattempo disponibile (affrancamento più o meno marcato dalla tonalità e/o serialismo) i mezzi più congrui per supportarli.

Tornando ad Oberto in persona, varrà la pena di constatare come egli venga ammazzato non già da una banda di brigatisti che ricattano lo Stato, né da sicari di una cosca camorristica rivale, ma da Riccardo in un duello (che l’uccisore vorrebbe persino evitare) per motivi d’onore (Io venni in questi lidi vindice dell’onor! canta il vecchio padre): ecco, è l’onore il fulcro di tutto il dramma, null’altro; non il potere (alla cui perdita Oberto è ormai rassegnato), non la politica, non l’interesse, solo l’onore di un padre, infangato da Riccardo che ha sedotta e poi abbandonata sua figlia Leonora.

E in effetti va detto e sottolineato come l’obiettivo di Verdi, dei suoi librettisti e degli impresari teatrali che mettevano in scena le sue opere non fosse certo quello di denunciare la violenza o l'incultura della società contemporanea, attraverso l’impiego – a mo’ di allegoria – di storie medievali. E nemmeno - come si continua a mistificare - di fare propaganda risorgimentale. Molto più semplicemente, l’obiettivo era quello di fare – e offrire al pubblico – del teatro musicale di alto livello artistico ed estetico, secondo i canoni e i parametri dell’epoca (e casomai, di ricavarne lauti guadagni, cosa di cui Verdi mai si vergognò). Che poi il pubblico decidesse di vederci messaggi risorgimentali o di condanna di certi fatti di attualità, piuttosto che lo specchio dei mali della società contemporanea, liberissimo di farlo; ma non era questo il fine ultimo, né il primo, e menchemeno l'unico, di quelle imprese. (Martone è avvertito…)
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Stabilita la prospettiva storica ed estetica in cui si inserisce l’Oberto, non si  può non dissentire quindi in modo radicale dall’impostazione che il regista (confondendo evidentemente Verdi con Leoncavallo e Mascagni - da lui dignitosamente rappresentati al Piermarini poco tempo fa - se non addirittura con Berg) ha deciso di dare al suo allestimento - portato in epoca a noi contemporanea, fra camorra e mafia - e allo stesso tempo non si può non dissentire dal suo intento maieutico, del tutto estraneo allo scenario artistico-estetico dell’opera da rappresentare.   

Si dirà:
a. ma in fondo in Oberto ci sono due signorotti poco raccomandabili e le rispettive fazioni (con sedi a Bassano e SanBonifacio) e Martone ci mostra due cosche camorristiche (o mafiose, fa lo stesso) in lotta senza quartiere per il controllo del territorio (Casal di Principe e Scampìa, o Corleone e Alcamo, fa lo stesso): quindi fin qui ci siamo.
b. poi in Oberto c’è la questione d’onore, che in Sicilia (e un po’ meno in Campania) è uno dei motori della nostra inciviltà: e anche qui il conto torna.
c. in Oberto le donne sono trattate più o meno come ad Arcore (smile!) dove ha la residenza un caimano a nome Berluscardo (stra-smile!) uso ad avere fior di mafiosi alle sue dipendenze.

Quindi: tutto sembrerebbe quadrare, quasi alla perfezione!  

E invece no, ahilui (Martone) e ahinoi. Sì, perché il problema non è se la trama del libretto venga più o meno scimmiottata dall’allestimento. Eh no, il problema della genialoide trovata del regista è che lo spirito (e in buona misura anche la lettera) dell’Oberto nulla ha a che fare con la sua trasposizione (ai nostri tempi, ma non è questo il punto) nel mondo delle associazioni a delinquere.

Quali non erano, ma proprio per nulla – e non solo nel libretto di Solera, ma anche nella realtà storica - le famiglie o le oligarchie che sostenevano gli Oberto e i Riccardo, personaggi di certo non eletti democraticamente, anzi propriamente dei tiranni, ma pur sempre rappresentanti le istituzioni (per quanto discutibili, ai nostri occhi) di quel tempo, e legittimati da uno dei due massimi poteri allora costituiti: quello imperiale e/o quello papale. Quindi altro da chi, come oggigiorno mafia e camorra (e brigate di vario colore) alle Istituzioni si oppone.

Questo per quanto attiene il piano ideologico. E su quello materiale? Di male in peggio: è un mondo, quello di Martone, dove sorgono volgari quanto pacchiane abitazioni-bunker (scenografie da Scarface, altro che magnifica sala!) situate in vicinanza di discariche a cielo aperto (altro che la deliziosa campagna!) Dove persino l’abbigliamento dei protagonisti, oltre che delle masse, è indice di totale incultura e degrado.

E così vediamo Riccardo, abbigliato come un tipico esemplare di boss della camorra, che entra in scena in vestaglia da camera damascata cantando Questi plausi a me d’intorno, questi voti io devo a lei, a lei sola che m’invita alle gioie dell’amor… un’ardente cavatina in SI maggiore! E attorno a lui, invece di Cavalieri, Dame e Vassalli, chi vediamo? Volgarissimi esemplari di fauna feccia criminale, con ampio seguito di zoccole, che però noi ascoltiamo cantare  Oh felici! omai compita è la speme d’ogni cor, su una musica che anticipa nientemeno che il Libiamo… E gli stessi loschi figuri, verso la fine dell’opera, così si esprimeranno: Son compagne in questa vita la sventura e la virtù… e poi ancora: Ah, sventura! e dalla Croce sol di pace Iddio parlò! Fatto sordo a quella voce, l’uom nel sangue s’allegrò! Camorristi? Picciotti? Ohibò.

Come ciliegina (marcia) sulla torta (rancida) troviamo in questo allestimento stupidi quanto gratuiti, nonchè irrispettosi, riferimenti alle vittime degli anni di piombo (Oberto = Aldo Moro? roba da manicomio!) uomini che sacrificarono la vita per motivi ben diversi da un  malinteso onore…   

Insomma: di poesia, nemmeno l’ombra! Solo volgare e crudo realismo, e indebiti e beceri riferimenti a fenomeni tipici della nostra società: cosa che contravviene in-toto precisamente ai princìpi fondatori dell’opera, stravolgendone completamente la natura, e quindi presentando al pubblico un oggetto del tutto diverso dall’originale. Ecco: un prodotto adulterato spacciato per autentico, esattamente come vendere un Modigliani falso (si rischia la galera, o sbaglio?)

Intendiamoci, il film ideato dal regista – non abbiamo alcuna difficoltà a dargliene atto - è in sé e per sé di alto livello e di grande attualità (per quanto un Gomorra sia già stato prodotto, da altri). Peccato che soffra di un clamoroso difetto, che ne compromette irrimediabilmente il valore: la scelta dei testi e, soprattutto, della colonna sonora!     
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Purtroppo la lunaticità della regìa si ripercuote inevitabilmente anche sulla percezione che uno spettatore appena-appena non sprovveduto ha della prestazione musicale degli interpreti (non dico direttamente sulla sua qualità intrinseca). Interpreti che solo per questo dovrebbero chiedere i danni a Martone…

Sì perché vedere Fabio Sartori che, dopo aver ucciso Oberto in regolare duello – quasi impostogli dal vecchio! – arriva vestendo i panni di un sicario della camorra, con tanto di mitra, per poi intonare un’accorata romanza in SIb maggiore - Ciel pietoso, ciel clemente, se pregarti ancor mi lice, deh! perdona un infelice, tu mi salva per pietà – ti mette un tal disagio addosso, che la stonatura della scena finisce per farti sembrare stonato pure il tenore! Accidenti al regista! Peccato, perché la prestazione del nostro è stata tutt’altro che malvagia, in una parte per nulla facile. Ha anche rispettato alla lettera la partitura come quando, nella cavatina d’esordio, ha cantato tranquillamente il SI acuto (sul m’invita) e poi è rimasto sul FA# in chiusura.

Maria Agresta è una Leonora che convince a metà: voce sempre ben impostata, nelle volate virtuosistiche, come nei più nobili cantabili. Ma la parte – quasi da mezzosoprano – la mette in seria difficoltà nell’ottava bassa (non parliamo del LA sotto il rigo) dove arranca o… fa il pesce. Per lei comunque una calorosa accoglienza. Qui dobbiamo anche ringraziare Martone per averci chiarito in modo inequivocabile, mostrandocela con un gran pancione, ciò che noi poveri pirla non avevamo minimamente sospettato dal libretto di Solera… 

Il protagonista nel ruolo del titolo è Michele Pertusi, che ha confermato la sua classe e la sua grande sicurezza: per me, il migliore della compagnia.  

Sonia Ganassi impersona Cuniza, per me, senza infamia e senza lode (anche se il pubblico le tributa solo le lodi…): anche qui temo di essere negativamente influenzato dall’esteriorità (leggi: come viene acconciata e fatta recitare dal regista) poiché invece di una nobildonna sensibile e magn-anima, sembra la zoccola di un magn-accia, e chi mi dice che pure il suo canto non si sia fatto trascinare nella… discarica in cui Martone ha collocato la vicenda.

L’Imelda di José Maria Lo Monaco ha dato il suo meritevole contributo ai numeri di insieme in cui è quasi esclusivamente impegnata.

Molto bene il coro di Bruno Casoni, che ha un impegno quantitativamente esteso, ma – credo io – relativamente facile.

Al mio conterraneo Riccardo Frizza va il mio personale plauso (pochi invece ne ha avuti dal pubblico) se non altro per aver evitato di trasformare l’Oberto in Ernani o in Boccanegra. Insomma, ci ha dignitosamente restituito il Verdi esordiente, con tutte le sue velleità e i suoi limiti, e questo in fin dei conti è ciò che si può chiedere ad un onesto concertatore.

Alla fine moderato successo, diciamo così, di stima, come ormai capita sempre più spesso in questa Scala piuttosto… appiattita (smile!)