sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel
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08 ottobre, 2025

Rigoletto è ricomparso alla Scala.

Dopo poco più di tre anni dall’esordio, è tornato alla Scala il Rigoletto di Mario Martone. Chissà se questa abbastanza sollecita ripresa preluda ad un autentico ciclo, come quello della produzione di Gilbert Deflo, che qui monopolizzò l’ambito titolo per ben undici stagioni (dal ’94 al ’19).

Francamente non me lo augurerei, chè la messinscena di Martone non mi entusiasmò per nulla, per ragioni elencate in un mio fugace e non proprio entusiastico commento… ragioni che non posso che ribadire, prima delle quali l’eccessiva sovraesposizione politico-sociologica del soggetto. E anche ieri sera il povero Marco Monzini (che riprendeva il lavoro di Martone) ne ha fatto ampiamente le spese.

Cambiano rispetto al ’22 la guida sul podio (Marco Armiliato al posto di Gamba) e tre dei co-protagonisti: il Duca (Pretti > Dmitry Korchak), Gilda (Sierra > Regula Mühlemann) e Maddalena (Viotti > Martina Belli); mentre restano al loro posto Rigoletto (Amartuvshin Enkhbat), Sparafucile (Luca Buratto), Monterone (Fabrizio Beggi) e Giovanna (Carlotta Vichi).  

Poi un immancabile contrattempo della vigilia è arrivato a cambiare una carta in tavola: il personaggio del Duca viene interpretato (come minimo alla prima) dal mexico-statunitense Galeano Salas, che rimpiazza l’influenzato Korchak (che pare seguire le orme di Sinner, visto che è al suo secondo forfait dopo quello agostano alla chiusura del ROF). Salas tutto sommato non ha per nulla demeritato, tenuto conto del breve preavviso: voce chiara e ben impostata, acuti solidi e bella presenza in scena.

Di Amartuvshin Enkhbat si conosceva tutto, e tutto è stato confermato: in basso e al centro della tessitura sfoggia una solida voce baritonale, che però nella zona alta perde di smalto e si trasforma in cavernosa voce di basso… Ottima invece la presenza scenica, a dispetto della mancanza di… gobba (!)

Benissimo la Regula Mühlemann, una Gilda convincente in ogni senso: e soprattutto nella voce, perfettamente calzante al personaggio, sottile, duttile e dalla grande espressività.

Perfetto il Monterone di Fabrizio Beggi, purtroppo malamente caricaturato da Martone.

Bene anche Luca Buratto nella parte non impervia di Sparafucile.

Martina Belli ha messo al servizio di Maddalena una voce corposa e un… ehm, fisico davvero all’altezza del ruolo!

Carlotta Vichi è una buona Giovanna, che ha fatto ciò che si attende da quel ruolo, così come gli altri sei interpreti minori.

Il coro di Malazzi non è qui impegnato allo spasimo, ma quel poco (inizio second’atto) lo fa alla perfezione.

Che dire di Marco Armiliato? Tanto onesto mestiere, bandismo a josa, ma tutto sommato buona gestione del palco; orchestra senza sbavature né pecche di sorta, come ci si aspetta in questi casi.

Alla fine, 4-5 minuti di applausi per tutti e buh a profusione per l’allestimento. 


16 aprile, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.24 – Tjeknavorian & Rossini

Un Auditorium stracolmo di pubblico - in religioso raccoglimento durante l’esecuzione e poi trasformatosi in una bolgia da stadio dopo l’ultimo accordo di SOL minore dell’orchestra – ha accolto questa nuova, grande prova del giovane Direttore Musicale, uno Stabat Mater che ci ha davvero coinvolto ed emozionato.

Plauso ovviamente da estendere all’Orchestra, in stato di grazia in ogni sezione, e al superlativo Coro di Fiocchi Malaspina.

Si discute sempre dell’eccessiva melodrammaticità di questo Rossini sacro. Ammesso che ciò abbia ancora rilevanza al di fuori della ristretta cerchia di puristi e custodi dell’ortodossia, direi che il Tjek se ne sia bellamente fregato, leggendo Rossini per quel che è (non ci sono Rossini buffi, seri o sacri, ma un solo straordinario genio, capace di eccellere in ogni campo e in ogni genere). Così il Direttore – che ha mandato a memoria anche queste 250 pagine! - ha interpretato l’agogica ora con sostenutezza e sapienti prese di respiro, ora con passo travolgente (come nelle colossali fughe) e lo stesso ha fatto con le dinamiche, tenendo sempre alto il contrasto fra piani e forti, e scolpendo così un sontuoso edificio musicale, che ci appare con tutte le qualità, insieme del teatro e della cattedrale.       

Francamente qualche riserva me la… riservo per i quattro solisti: appena sopra la sufficienza Benedetta Torre e piuttosto a disagio con la sua parte Martina Belli; Juan Francisco Gatell ha avuto la disavventura di incappare subito in una spiacevole acciaccatura proprio sull’impervio REb del Cuius animam, e forse ciò può aver condizionato anche il resto della sua non proprio brillantissima prestazione. Da elogiare invece il navigatissimo Nicola Ulivieri, distintosi sempre nei suoi impegnativi passaggi.

Le riserve sui solisti mi portano inevitabilmente a domandarmi (sospettare?) la ragione della scelta di affidare il Quando corpus morietur al coro e non ai singoli. Cito al proposito un passaggio del venerabile Alberto Zedda: …N.9 Quando corpus morietur, pagina di alta commozione capace di trasformare il terrore della morte in paradisiaco stupore, è stato pensato da Rossini per quattro voci soliste: la difficoltà di mantenere una corretta intonazione, resa problematica da procedimenti cromatici ed enarmonici che si prolungano per intensi episodi, ha fatto tradizionalmente preferire l’impiego dell’intero coro, ideale per realizzare con la giusta espressione i colori dinamici fondamentalmente basati su piano e pianissimo. Ed è un fatto che a Pesaro (e non solo làggiù...) il brano sia sempre affidato al coro. Il che però lo priva oggettivamente della sua intensità quasi metafisica; per intenderci: quella che caratterizza lo stesso brano in Pergolesi, del quale Rossini aveva una stima incondizionata.

Ma insomma, non sottilizziamo troppo e teniamoci stretto questo Tjek, che ormai mostra di non temere qualunque prova, e che rivedremo e ascolteremo per altri tre concerti verso la fine della stagione.

PS: chi desideri ascoltare (o ri-ascoltare) il concerto di ieri, inclusa la presentazione da studio di Barbieri e i commenti dalla sala di Bossini, può farlo grazie alla registrazione di mamma RAI.    


17 gennaio, 2025

Gatti (e Strehler) fanno rivivere Falstaff alla Scala.

Ancora Verdi in scena per il secondo spettacolo dalla stagione, che presenta una storica produzione dell’opera ultima del Peppino. Ier sera la prima, accolta da un caloroso successo di pubblico (folto sì, ma non proprio da tutto-esaurito, e con qualche defezione lungo il cammino…)

Poche parole per elogiare, a 45 anni di distanza, l’allestimento di Strehler (ripreso da Marina Bianchi) che resta tutt’oggi un esempio di fedeltà a testo e musica, resistente agli attacchi del tempo. Di certo superiore a quello abbastanza velleitario di Michieletto (dato qui ultimamente nel 2017) e al precedente ancora, moderno ma non certo esente a sua volta da critiche, di Carsen (2013-15).

Ecco, di quella ripresa del 2015 resta oggi in piedi il… podio: dove è tornato Daniele Gatti, che quest’opera la conosce come le sue tasche (l’ha diretta tutta a memoria). Se devo fargli un appunto, mi è parso un poco eccedere nelle dinamiche, spesso sovraccaricando il suono dell’orchestra, così correndo il rischio di coprire le voci. A proposito dell’orchestra, una curiosità: dieci anni fa Gatti aveva disposto legni e corni all’estrema sinistra, mentre oggi è tornato ad un layout abbastanza usuale.

Alla fine, per lui e per il coro di Malazzi (come per il team della Bianchi) solo applausi e consensi.

Il cast ha in generale ben meritato. A parte Ambrogio Maestri, che con il passare degli anni e delle… recite sembra ancora migliorare, mi sentirei di dargli dei giudizi che vanno dal buono, al discreto al sufficiente, suddividendolo in tre gruppi: nel primo colloco la Quickly di Marianna Pizzolato, il Ford di Luca Micheletti e il Cajus di Antonino Siragusa; nel secondo la altre tre rappresentanti del sesso debole: la Alice di Rosa Feola, la Nannetta di Rosalia Cid e la Meg di Martina Belli; nel terzo gli altri tre maschietti: Marco Spotti (Pistola), Christian Collia (Bardolfo) e Juan Francisco Gatell (Fenton).

E infine, giusto menzionare il piccolo paggio Lorenzo Forte, un prezzemolino (invenzione di Strehler) davvero bravo e simpatico.

In conclusione, una serata tutto sommato piacevole, in attesa dell’incombente panzer wagneriano.