XIV

da prevosto a leone
Visualizzazione post con etichetta roberto abbado. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta roberto abbado. Mostra tutti i post

20 agosto, 2024

ROF-2024-live: Bianca£Falliero.

Finalmente si torna (almeno per una volta) in città! Il rinnovato, dopo mille peripezie non proprio edificanti, Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona memoria…) ha ospitato il ritorno sulla scena di Bianca&Falliero, ieri alla sua ultima recita (per la verità con molti posti vuoti…) che ha confermato in generale la buona impressione lasciata dall’ascolto radiofonico della prima.

___
Felice Romani, oltremodo legato alla tradizione classica, confezionò (ispirandosi a Blanche et Montcassin di Antoine-Vincent Arnault, una tragedia dal finale a dir poco macabro) una storia a lieto fine, con tratti di pièce-à-sauvetage (lei che sfida l’autorità costituita per salvare lui dalla forca).

Un soggetto che su una base pseudo-storica (conflitto Venezia-Spagna nel secolo XVII) innesta in realtà la vicenda dei burrascosi rapporti di potere/denaro (Contareno-Capellio) e sentimentali (Bianca, Capellio e Falliero).

L’opera arrivò alla Scala (26 dicembre 1819) a soli due mesi di distanza da La donna del lago (24 ottobre, SanCarlo) e con essa ha qualche vaga rassomiglianza proprio sul versante degli affetti.

E non solo per l’auto-imprestito musicale del finale, con Tanti affetti (appunto!) che da Elena passa - non pari-pari come avverrà al Maometto veneziano, ma con opportune varianti - a Bianca (Teco io resto) ma anche per quanto riguarda la vicenda, diciamo, sentimentale, caratterizzata da un triangolo che vede al centro la donna (Elena/Bianca) e due suoi spasimanti (Malcom/Giacomo e Falliero/Capellio). In entrambi i casi la donna (sempre un soprano) resta fedele fino alla fine al suo amato, un militare eroico ma piuttosto squattrinato (Malcom/Falliero, contralti en-travesti) rifiutando di unirsi all’altro spasimante, assai più facoltoso e potente (Giacomo/Capellio, tenore/basso).

Storici e critici del teatro musicale non concordano nemmeno su come l’opera fu accolta, e meno ancora sulle cause di tale ricezione. Di (quasi) certo c’è che la critica paludata fece pollice-verso, trovando l’opera antiquata di concezione (libretto) e raffazzonata con furbeschi auto-imprestiti (musica). La trentina di repliche sembrerebbe invece avallare la tesi di una ricezione positiva del pubblico. Sta di fatto che fu Rossini per primo a non essere pienamente soddisfatto dell’esito di questa operazione, dalla quale evidentemente si aspettava assai di più.

E che si aspettasse di più lo si deduce, secondo il mio modesto parere, proprio dai contenuti musicali dell’opera. Opera grandiosa sotto tutti gli aspetti; da quello della lunghezza (dove credo sia seconda solo al Tell) a quello della forma, che ad un ascolto non superficiale appare come caricata di (eccessiva?) enfasi: tempi assai sostenuti, declamati ieratici e complesse e interminabili (per quanto mirabili) cadenze corali o virtuosistiche. In poche parole, un’opera esagerata, e troppo… classica, mentre il romanticismo ormai bussava alla porta (o già la stava sfondando)!

Insomma, è come se Rossini, anche per rispetto all’ambiente che gli aveva commissionato l’opera, volesse ricompensare il pubblico milanese sciorinandogli il meglio della sua arte, nel pieno rispetto della tradizione che veniva, come minimo, da Gluck, Mozart e Cherubini.

___
Roberto Abbado (a mani… nude) e la OSN-RAI hanno avuto il merito di tenere sempre sufficientemente alta la tensione, che rischierebbe di allentarsi pericolosamente proprio a causa dei lunghi momenti dal sapore fin troppo sostenuto e pomposo di cui è infarcita quest’opera ipertrofica (caratteristiche che la regìa, al contrario del Direttore, ha francamente un po’ troppo assecondato). Qualche eccesso di decibel ha saltuariamente impedito alle voci di passare adeguatamente, ma forse la cosa può anche dipendere dall’acustica dell’impianto, che non mi è parsa proprio eccellente, ecco.

Come per Ermione, Giovanni Farina ha guidato il Coro del Teatro Ventidio Basso ad una prestazione di alto livello, confermando di aver raggiunto gran dimestichezza con Rossini, ormai acquisita dopo anni di regolare presenza al ROF.

Come già alla prima, è stata Jessica Pratt a raccogliere i maggiori consensi. Perfettamente calata nel personaggio di Bianca - solo apparentemente remissivo, ma capace poi di ribellarsi all’asfissiante autorità paterna, come una moderna femminista – la giunonica australiana ne ha messo in risalto tutte le qualità musicali, sia tecniche (colorature e vertiginosi virtuosismi) che interpretative (sogni, apprensioni, slanci amorosi, momenti di disperazione e temerarie iniziative).

Va da sé che il pubblico si sia esaltato ai suoi acrobatici sovracuti (i DO# e persino un MI naturale, nei passaggi in LA maggiore) e i DO, RE e MIb, l’ultimo dei quali ha chiuso in modo spettacolare (ma forse di un… secondo più breve rispetto alla prima) il finale rondò.

Aya Wakizono ha nesso in mostra la sua bella voce, calda e sempre ben impostata, ma assai sbilanciata nel timbro e nell’estensione, non proprio da contralto. Così, a fianco della Pratt (e non solo per via del suo fisico mingherlino) pareva la sorellina minore (DO acuti a profusione) e non l’eroe guerriero e autorevole. Ma a parte questo, la sua è stata una prestazione di livello più che apprezzabile, che ha toccato il culmine nella massacrante scena dal carcere (cavatina e successiva aria) lungamente applaudita.

Ai due protagonisti maschili Rossini riservò un trattamento apparentemente bizzarro: al maturo padre-padrone di Bianca (Contareno) la voce di (bari-)tenore, e al più giovane, innamorato della figlia (Capellio) quella di basso(-baritono)! Ecco, le due voci ascoltate qui sono sbilanciate verso l’alto (la prima) e verso il basso (la seconda) e ciò mi pare non abbia giovato a nessuno dei due personaggi. Ai cui interpreti peraltro va riconosciuto di aver professionalmente dato il meglio di sé.

Dmitry Korchak, da veterano ormai del ROF, ha messo voce e mestiere al servizio del personaggio del rude Contareno. Che con lui appare per la verità un po’ meno rude… per via della voce di tenore lirico del cantante-direttore russo (nel 2025 tornerà sul podio per l’Italiana). Come per la Wakizono, anche per lui ampi e meritati consensi.

Giorgi Manoshvili impersona Capellio, uomo di solidi principii e di grande nobiltà d’animo: sinceramente innamorato di Bianca, ma pronto a difenderne i diritti al costo di perderla. Ma soprattutto, uomo ancora abbastanza… giovane! Ebbene, la resa musicale del personaggio lascia qualche dubbio proprio per l’eccessiva gravità (leggi: cavernosità) del suono che esce dalle labbra del basso georgiano, paradossalmente più appropriato per il ruolo di un maturo cattivone (!) Ma anche a lui il pubblico non ha lesinato consensi.

Più che onorevoli le prestazioni dei comprimari: la fedele Costanza di Carmen Buendìa, il severo e autorevole Doge di Nicolò Donini, il premuroso cancelliere Pisani di Dangelo Dìaz e il messo/usciere di Claudio Zazzaro.

___
Lo spettacolo di Jean-Louis Grinda si colloca, come ambientazione (scene, costumi e oggetti di Rudy Sabounghiilluminati anonimamente da Laurent Castaingt) nell’alveo di una generica modernità: all’inizio, dove incombe l’invasione spagnola, un maxischermo TV invia immagini di scene di guerra o del tipo Roma-città-aperta (ma ambientato in Spagna…) alternate a proiezioni di carte geografiche militari e di annunciatrici TG che ragguagliano sulle operazioni belliche. Per il resto vediamo gente abbigliata come oggi, o come 50 anni fa, o con cineprese anche più antiche…

La gestione, come si dice, delle masse è proprio da saggio-di-fine-anno: movimenti ridotti all’osso, spesso quadri da tableau-vivant, così da permettere ai coristi di pensare a cantare (assai bene, come detto) invece che a simulare gli atteggiamenti più disparati. Gli interpreti paiono essere liberi a loro volta di mettersi nei panni dei personaggi un po’ come pare a loro, ecco.    

Domanda: ma chi è mai la vecchia babbiona che compare nella scena d’esordio di Bianca e poi ritorna nella scena finale? Ah, saperlo, si accettano scommesse: è sua madre, prostrata dalla convivenza con il marito-padrone Contareno? Oppure è la stessa Bianca, come sarà ridotta (a proposito di improbabili lieti-fini) dopo vent’anni di convivenza con Falliero?

A parte questa trovata che ci ha tolto il sonno, Grinda se ne esce senza infamia e senza lodi, benevolmente ignorato dal pubblico.  

Che invece ha gratificato la compagnia di canto e suono con lunghi e meritatissimi applausi 

17 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Le Siège de Corinthe


Ieri sera Le Siège de Corinthe è arrivato alla terza delle quattro recite in programma, in un’Adriatic Arena per la verità non proprio piena come un uovo...

Della serie: come rovinare una delle opere migliori del genio pesarese. E l’artefice dell’impresa impossibile risponde al nome di Carlus Padrissa, che ha fatto esattamente il contrario di ciò che Rossini ha genialmente costruito: distruggere tutta la poesia e la sontuosità dell’opera, per presentarci un’accozzaglia di trovate una più becera dell’altra.

A partire dal Konzept di fondo, che trasporta la ricca e colta Corinto in un imprecisato quanto arido deserto, dove due branchi di animali assetati si contendono l’acqua (di centinaia di bottiglioni da dispenser di ufficio stipati a far da permanente scenografia.

Sullo sfondo, già dall’esecuzione della sinfonia, versi di Byron che con il soggetto rossiniano (e soprattutto con la musica!) c’entrano come i cavoli a merenda. A proposito di Byron, il colmo della proditoria aggressione all’arte di Rossini viene perpetrato nel second’atto, allorquando la splendida musica di danza (fra l’altro arricchita di una quarta scena recuperata fra le carte parigine) che deve supportare nientemeno che una grande festa nuziale, viene addirittura stuprata da ciò che si vede in scena, sullo sfondo di altri macabri sproloqui del Lord albionico: dapprima Mahomet e Pamira vittime di incubi notturni, poi scaramucce fra hooligan greci e turchi, sfociate in un generale parapiglia, sempre per il possesso di qualche bidone d’acqua. Insomma: uno scempio, che il pubblico ha giustamente riprovato con sonori buh, certo non indirizzati in quel momento all’orchestra e al povero Roberto Abbado, che avevan fatto del loro meglio per portare quella splendida musica alle nostre orecchie.

Costumi di foggia, colori e disegni stravaganti (due capitelli dorici a far da... reggipetto ad una femmina e un maschio durante la ballade di Ismène faranno epoca!) che rivestivano le masse greche e turche come costumi da bagno, con tanto di cuffia nera in testa; per il resto: turchi sul rosso e greci sul grigiazzurro. Luci impiegate in modo piuttosto elementare: colori pacchiani e abuso di effetti velleitari.   

E poi: pannelli mobili, recanti scritte e immagini che vorrebbero ricordarci gli orrori di tutte le guerre, che scendono e salgono sulla scena, ma vengono anche portati in processione attraverso la platea. E a proposito non parliamo di questa ormai trita-ritrita-frullata-e-rifrullata (quanto idiota) abitudine dei registi da strapazzo di spostare l’azione dal palcoscenico alla platea: qui si son visti cortei, passerelle (una proprio disposta davanti all’orchestra, tipica dei più stolti avanspettacoli) e scene di canto peripatetico, con invito (in occasione della marcetta dei greci, nemmeno fossimo a Vienna al suono della Radetzky) a partecipare all’happening per spettatori fatti alzare dalle loro sedie e spediti a rinforzare la folla di hooligan... mamma mia!
___
Dimentichiamo questi obbrobri e passiamo alla musica e al canto, che per fortuna hanno almeno in parte riscattato la volgarità della messinscena. Roberto Abbado si è ancora presentato (come già avevamo saputo alla prima) con un tutore (in realtà una specie di custodia per ottavini messa a tracolla per impedire al braccio destro di accostarsi al fianco) e senza bacchetta: ciò non gli ha impedito di guidare da par suo la OSN-RAI che non ha bisogno di presentazioni, quanto a qualità di suono e compattezza in tutte le sezioni. Un’esecuzione più che apprezzabile: per equilibrio (evitati facili fracassi e mai coperte le voci) e appropriatezza di accenti e sfumature.

Da lodare anche il Coro del Ventidio Basso, preparato egregiamente da Giovanni Farina, che si è così pienamente meritato la fiducia accordatagli dal ROF, dopo la defezione dei bolognesi.

Mediamente più che accettabile il fronte canoro; in particolare mi ha impressionato Sergey Romanovsky, un Nèoclés sicuro e squillante, che ha degnamente coronato la sua prestazione con un’apprezzabile Grand Dieu in apertura del terz’atto. Nino Machaidze l’ho trovata piacevolmente migliorata rispetto a prestazioni del passato: evidentemente lo studio deve averle giovato, in particolare nel rendere più morbidi e meno vetrosi gli acuti, così ne è uscita una Pamira davvero convincente.

Il Mahomet di Luca Pisaroni mi aveva invece convinto di più all’ascolto radio di giovedi scorso: da vivo la sua voce è meno penetrante e talvolta anche l’intonazione non mi è parsa bene a fuoco. Comunque si merita per me un’ampia sufficienza.

John Irvin è un onesto Cléomène, che personalmente affiderei ad una voce più... robusta, viceversa – all’ascolto - pare che lui sia il giovane eroe e non il maturo padre di Pamira. Discreto anche Carlo Cigni nei panni del vegliardo Hiéros: tanto più che il regista lo ha fatto cantare quasi sempre in modalità... peripatetica, il che non credo giovi ad un’emissione ottimale dei suoni.

Cecilia Molinari ha fatto onorevolmente la sua parte di Ismène, culminata nella ballade del second’atto. A proposito, questo è uno dei tanti punti controversi del testo rossiniano, quanto a dislocazione temporale: qui si è seguita la partitura originale per orchestra, dove Ismène arriva dopo il duetto Mahomet-Pamira; in altre produzioni (55’12”) si segue invece lo spartito canto-pianoforte, dove Ismène apre l’atto, prima della grande scena ed aria di Pamira e del successivo duetto.

Efficace l’Omar di Jurii Samoilov, onesto l’Adraste di Xabier Anduaga: si tratta di due... prodotti dell’Accademia rossiniana, messisi in luce negli anni scorsi con il training standard del Viaggio.

Bene, alla fine grandi applausi per tutti (veramente il regista mi pare non si sia presentato...) e un’isolatissima contestazione per Abbado. Per me, ad occhi chiusi (!) una piacevole serata. 

11 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Le prime alla radio


La nuova produzione de Le Siège de Corinthe ha aperto a Pesaro il Festival rossiniano n°38. Per gli ascoltatori via etere hanno fatto gli onori di casa Guido Barbieri (da studio) e Oreste Bossini (in loco). Qualche discorso di circostanza (le doverose commemorazioni di Zedda e Gossett) poi la ormai ripetitiva auto-celebrazione di patron Mariotti-sr (il ROF come fucina di talenti canori e di innovative invenzioni registiche) e qualche sensata considerazione di Roberto Abbado sulla musica del Siège. Anche Carlus Padrissa ha avuto modo di spiegare ciò che nessuno aveva capito (!) della sua regìa, che dalle sue parole sembrerebbe piuttosto estranea allo spirito e all’estetica rossiniani... ma sarà meglio giudicare con l’approccio di SanTommaso.

Quanto alla musica, detto che si è impiegata l’edizione (critica?) di Damien Colas (che ha rispolverato da manoscritti conservati a Parigi un’estensione dell’aria di Pamira dell’atto II, un giro-extra di danze prima dell’Hymne, e ha fatto cantare nella chiusa dell’opera le donne greche) direi che Radio3 ci ha portato gradevoli sensazioni: l’OSN-RAI non si scopre oggi, mentre una buona impressione ha fatto l’esordiente coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che gioca un ruolo per nulla secondario in questo grande affresco a sfondo storico-patriottico.

Luca Pisaroni si è calato in modo convincente nei panni di quel Mahomet che storicamente era un autentico flagello, mentre Rossini lo ammanta di un’aura di nobiltà, mettendone in risalto i caratteri di uomo amante delle arti e di sincero innamorato: qualità che la voce chiara e baritonale di Pisaroni ha efficacemente interpretato. Nino Machaidze (mi) ha ben impressionato, avendo fatto emergere le due facce della personalità della protagonista: donna attirata dall’amore addirittura verso il nemico mortale della sua gente, ma poi eroina e patriota esemplare, fino all’estremo sacrificio. I due tenori del campo greco (il comandante John Irvin e l’eroico Sergey Romanovsky) hanno sfoggiato belle voci (forse troppo... simili, il primo dovrebbe essere più baritenore) e tecnica apprezzabile nei (pur non esagerati) virtuosismi cui Rossini chiama i due personaggi (Romanovsky ha anche sfoggiato un sicuro RE sovracuto). Efficace anche Carlo Cigni (come Hiéros) nel suo accorato ed autorevole appello del terz’atto. Oneste le prestazioni dei tre comprimari, tutti usciti dall’Accademia rossiniana: Cecilia Molinari (apprezzabile la sua ballade dell’atto II) Xabier Anduaga, e Iurii Samoilov.

Tutto sommato, un inizio abbastanza promettente.   
___
Promesse direi proprio mantenute con La pietra del paragone, questa commedia brillante dal soggetto assurdo e strampalato, che il grande Gioachino ventenne ha saputo ricoprire con musica strepitosa, ancora una volta nobilitata dall’esecuzione impeccabile dell’OSN-RAI guidata da un sempre più convincente Daniele Rustioni.

Ma anche il cast, quasi interamente di provenienza dall’Accademia rossiniana, ha ben figurato, con punte di spicco in Maxim Mironov e Aya Wakizono. Accanto a loro un efficace Gianluca Margheri e il navigato Paolo Bordogna. Un filino sotto metterei le due babbione (!) Aurora Faggioli e Marina Monzó. Completano dignitosamente la squadra Davide Luciano e William Corrò, mentre il Coro del Ventidio Basso ha confermato il suo valore.

Stando ai suoni arrivati via etere, si direbbe di un caloroso successo di pubblico.
___
E Torvaldo&Dorliska ha degnamente chiuso il primo turno delle recite rossiniane. Ascoltandola ci si stupisce sempre di come sia tuttora sottovalutata e negletta: poichè trattasi invece del miglior Rossini, con arie, duetti e concertati di prim’ordine, che impegnano al massimo livello il cast delle voci.

E quella messa in campo dal ROF è davvero una squadra di tutto rispetto, composta da veterani del Festival e da giovani e giovanissimi prodotti dell’Accademia. Fra i primi spiccano Carlo Lepore e Nicola Alaimo, veri trascinatori della squadra; in cui hanno ben meritato Dmitri Korchak, anche lui ormai di casa a Pesaro, e Salome Jicia, uscita dall’Accademia non più di due anni orsono e già al secondo ROF da protagonista, dopo il battesimo con Elena nel 2016. Bene anche Raffaella Lupinacci, tornata a tre anni di distanza dalla Publia dell’Aureliano, e Filippo Fontana, che ha completato il cast.

L’Orchestra Sinfonica G.Rossini - Provincia di Pesaro-Urbino ha supportato egregiamente cantanti e Coro della Fortuna di Mirca Rosciani; tutti ben concertati da Francesco Lanzillotta, esordiente al ROF, ma anche lui ormai entrato nel gruppo dei giovani Direttori italiani di talento.
___
Ernesto Palacio, Direttore artistico del Festival, ha annunciato ai microfoni di Radio3 il palinsesto principale del ROF-39: Ricciardo&Zoraide, Adina, Viaggio e Barbiere, quattro nuove produzioni per festeggiare adeguatamente il 150° anniversario della scomparsa di Rossini.

22 gennaio, 2014

A Bologna il Parsifal truccato da Castellucci


Eccomi a raccontare del Parsifal bolognese. Visto la sera successiva al giorno della dipartita di quel bolognese d’adozione che rispondeva al nome di Claudio Abbado.



Prima dell’inizio, Nicola Sani ha ricordato il Maestro e annunciato un desiderio del nipote, Concertatore di questo Parsifal: un minuto di silenzio prima dell’inizio e nessun applauso nei due intervalli (come del resto si faceva nella Bayreuth dei tempi d’oro).

Lo spazio e il tempo

È davvero deprimente constatare il livello di ignoranza distribuita che caratterizza la nostra civiltà. Ignoranza che si manifesta sotto forma di leggerezza, approssimazione e in sostanza menefreghismo rispetto agli oggetti di cui si deve trattare.

Zum Raum wird hier die Zeit (Il tempo qui si fa spazio). Un verso topico del Parsifal, cantato da Gurnemanz nel primo atto al momento, per lui e per il ragazzo folle, di avviarsi verso il tempio del Gral.

Un verso impiegato proprio da Claudio Abbado a fondamento di un ciclo di rappresentazioni di Parsifal alla Philharmonie di Berlino nel 2001-02 e ripreso sul blog dei suoi fedelissimi. E usato dal Teatro Comunale di Bologna come sottotilolo al volantino elettronico (e anche del libriccino stampato) di annuncio della stagione. Un verso richiamato dal protagonista bolognese di Parsifal sul suo blog, dove ha dedicato a questa produzione una lunghissima e per certi versi illuminante serie di post già in occasione delle recite a Bruxelles).

Notato nulla di strano nella traduzione italiana (e inglese, per Richards) dei tre riferimenti? Il puro e semplice capovolgimento del concetto! Ecco, i traduttori e soprattutto i responsabili delle pubblicazioni di quella scellerata traduzione sono la testimonianza palese della suddetta ignoranza distribuita.  
___ 
Può darsi che Wagner, per la sua allegoria, si sia ispirato ad Eraclito e Parmenide, per cui l’entrata nel Tempio del Gral rappresenta il passaggio dal tempo (il divenire di Eraclito) cioè il mondo sensibile, materiale, prosaico, caduco, allo spazio (l’essere di Parmenide) uno stato definitivo, immobile e ineffabile, dove il tempo si dilata fino a scomparire; in altre parole l’eternità, la trascendenza, il metafisico.

Ma possiamo anche pensare che Wagner abbia anticipato di un quarto di secolo… Albert Einstein!

Kein Weg führt zu ihm durch das Land, und niemand könnte ihn beschreiten, den er nicht selber möcht' geleiten (Al Gral via non è, che conduca attraverso il paese: nessuno mai percorrerla potrebbe, che egli stesso non volesse guidare). Cioè: non ci si muove verso il Gral, ma vi si è risucchiati! E infatti così osserva lo stupefatto Parsifal: Ich schreite kaum, doch wähn' ich mich schon weit (Cammino appena, eppur mi sembra già d'esser lontano). E qui Gurnemanz gli aveva dato quell’apparentemente criptica risposta sul tempo che si fa spazio.

Oggi noi conosciamo il Paradosso dei gemelli (qui, da 4’55”, spiegato anche da Crozza-Zichichi): quello dei due che viaggia ad altissima velocità nello spazio e poi torna sulla Terra è invecchiato meno di quello che se ne è stato in poltrona a casa sua. Perché la teoria della relatività ci spiega che il tempo è una variabile dipendente (dal sistema di riferimento) e che quello del gemello viaggiante rallenta, si dilata. In un certo qual modo si potrebbe dire che per lui – come per Gurnemanz e Parsifal, risucchiati dalla potenza del Gral - il tempo diventa spazio

Ecco un bello spunto per un regista che volesse davvero mostrarci un Parsifal innovativo!
___
Invece qui abbiamo a che fare con un Parsifal di cui, per la verità, già si sapeva tutto (a mezzo DVD) a livello di allestimento, ormai… stagionato per ben tre anni, dal debutto nel 2011 a La Monnaie di Bruxelles, accolto mediamente da peana per il regista e da osanna per la direzione musicale. Qui a Bologna il regista è sempre lui, mentre è quasi tutta nuova la compagine dei Musikanten, tranne (per la verità) proprio i due protagonisti.

A leggere come Castellucci ha approcciato Parsifal (lo scritto compare anche sul programma di sala) vengono… i brividi (smile!) Illuminante – ancor più delle Note di regìa - è questa intervista in cui Castellucci racconta la sua vision del dramma. Un put-pourri di banalità, tipo l’opera preferita di Hitler e di idee ardite, tipo il sangue è quello mestruale (certo Wagner in materia era assai più ferrato di Nietzsche, smile!) Poi: Parsifal non è un eroe, perché non fa niente (dimenticando le imprese che il ragazzo compie prima di arrivare a Monsalvat - abbattere giganti, nientemeno! - e soprattutto l’autentica carneficina che il nostro provoca sulle mura del castello di Klingsor!) Poi ecco che il pitone bianco si è mangiato la colomba, con elencazione di tutti i significati del pitone albino nella storia e nell’arte… (peccato davvero che Wagner non ci abbia fatto mente locale – e sì che ha messo una cintura di pelle di serpente addosso a Kundry - ma Castellucci è qui apposta per rimediare alla svista). E poi comico velleitarismo (ho studiato l’opera troppo a fondo…) seguito da involontarie ammissioni (…poi l’ho rivoltata come un calzino). Interpretazioni cervellotiche (Kundry è in grado di guarire Amfortas) e palesi contraddizioni (Kundry cerca sinceramente l’amore di Parsifal e per averlo… lo inganna).

Insomma, eccone un altro che ti dice: Oh, mica vorrai sorbirti per l’ennesima volta quella boiata pazzesca del Parsifal di Wagner! Vieni mo’ qua, che te lo do io il Parsifal giusto! (stra-smile!) Naturalmente nell’intervista ci sono anche considerazioni del tutto condivisibili (e ci mancherebbe anche!) che però all’atto pratico (ciò che si vede in scena) vengono più che altro sconfessate.

Più organiche e strutturate, anche se criptiche la loro parte, oltre che fondamentalmente irrispettose della lettera (come minimo) del dramma wagneriano, sono le considerazioni esposte, sempre sul medesimo documento, dalla drammaturga Piersandra Di Matteo. L’impressione che se ne ricava – e sarà in pieno confermata dai fatti – è di una ossessiva ricerca di un’interpretazione innovativa e, per lo spettatore, stupefacente, del dramma di Wagner. Il che porta ad una fatale sovraesposizione di concetti, idee e persino di simboli, qui introdotti in gran dovizia, dopo aver buttato nel cesso (avendone dottamente teorizzato e giustificato la rimozione!) il Gral e la Lancia, il Cigno e la Colomba: Nietzsche, il pitone, il cerchio-specchio, la bacchetta da Kapellmeister di Klingsor e gli ingredienti venefici da lui impiegati, i kalashnikov imbracciati dalle fanciulle-fiore, le scritte sul muro, le funi rosse (o bianche), l’arbustello del terzo atto, tanto per citarne solo alcuni.

I cardini essenziali del dramma, così come fissati da Wagner, vengono bellamente rimossi se non addirittura sconfessati. Magari per dare il massimo risalto – con trovate spettacolari e intelligenti di per sé – ad aspetti che poco hanno a che fare con l’essenza del dramma medesimo. Siamo sempre lì: il regista, pensando in buona fede di arrecarle valore aggiunto, costruisce una sua personale visione dell’opera, sulla quale poi crea uno spettacolo che magari sarà anche intelligente, coinvolgente, profondo, attuale fin che si vuole.

Peccato che non abbia più nulla a che fare con l’originale. E ciò che viene matematicamente penalizzato in questi casi è in primo luogo la musica. Poiché è musica – oh, parlo ovviamente di Wagner, mica del Rossini degli imprestiti, con tutto il rispetto - composta per il (e cucita su misura del) soggetto originale; e non calza più sul soggetto derivato, anzi spesso e volentieri stride maledettamente con esso. E quando in scena si vede qualcosa che fa a pugni con ciò che si sente, è la rovina. Per quanto bella, affascinante, interessante, intelligente e coinvolgente sia quella vista.

Cerco ora di esemplificare.   
___ 

Comincio dal fondo, perché è l’aspetto più importante della questione, di una semplicità proprio cristallina. Dico: qualunque lettura del testo, anche la più strampalata e ardita, e soprattutto qualunque interpretazione della musica (quelle celestiali 54 battute tutte in maggiore, accuratamente depurate - si noti bene! - da ogni e qualsivoglia precedente traccia di dolore, su cui cala il sipario) indipendentemente da voli di colombe o di cigni o di… pitoni, non può non farci concludere che si tratti di un finale – i cui presupposti sono evidentemente gettati da tutto ciò che precede – di redenzione.  

Dopodichè dietro a quel termine ognuno ci metta pure tutto quel che gli passa per la testa: redenzione dal peccato originale, dal vaticano dello ior, dall’arte degenerata, dal maschilismo o dalla pedofilia, dal capitalismo selvaggio o dal comunismo reale o da alqaeda, dall’alienazione o dal consumismo, da hitler o stalin o berlusconi o... castellucci, o da tutto quer che je pare ar reggista… Ma lo scenario è quello, inequivocabilmente, tassativamente.

Ecco ciò che Wagner scrive (testo, didascalie) da vedersi mentre si odono quelle 54 battute: Raggio luminoso; abbagliante fulgore del "Gral". Dalla cupola scende a volo aperto una bianca colomba, arrestandosi sul capo di Parsifal. - Kundry, lo sguardo levato verso di lui, cade lentamente a terra esanime davanti a Parsifal. Amfortas e Gurnemanz, in ginocchio, rendono omaggio a Parsifal, il quale traccia col Gral un gesto di benedizione sui cavalieri adoranti.

Ora, diciamone pure tutto il male possibile o ridiamoci sopra a crepapelle, ma questa è la conclusione che Wagner dà al suo dramma, punto. Se non ci piace, possiamo benissimo far a meno di ascoltarla, di vederla e di… metterla in scena. Castellucci, che ha sciorinato per quattro ore e passa una magistrale sapienza nell’uso delle luci, ci fa vedere qui l’esatto contrario (a proposito di calzini rivoltati!) di ciò che Wagner prescrive. E non parlo certo della mancanza della colomba (possiamo davvero fare a meno di simboli materiali – pitone compreso! - che generano più equivoci che altro) ma qui abbiamo il palcoscenico che si svuota progressivamente delle moltitudini che lo avevano invaso e piomba nell’oscurità mentre le luci piene si accendono in sala…
  
Parsifal? Lui resta solo come un cane, abbandonato da tutti, per ultima da Kundry: cioè resta lì precisamente come alla fine del primo atto - quando nulla aveva capito di ciò che era accaduto dinanzi ai suoi occhi e Gurnemanz gli aveva dato dell’oco - proprio come se nulla sia accaduto nel frattempo! E ciò mentre dall’orchestra sale quella musica che invece ci dice, con la forza espressiva che solo Wagner sapeva infonderle, che tutto è cambiato, per Parsifal e per l’Umanità! Musica quindi mirabilmente funzionale alla scena così come immaginata da Wagner, musica che diventa invece del tutto incomprensibile se associata a ciò che ci mostra Castellucci.

E quindi chiunque – si chiami pure Castellucci o Bieito o Schlingensief o Konwitschny o Berghaus, tanto per andare un po’ a ritroso nel tempo – mi mostri una conclusione del dramma in termini pessimisti, o addirittura nichilisti, o anche semplicemente qualunquisti o agnostici, ai miei occhi fa la figura dell’emerito ciarlatano. Che pretende di presentarmi, magari ammantandole con ampie dosi di filo-psico-sociologia-un-tanto-al–chilo, le sue concezioni o le sue fisime, o le sue ardite seghe (toh, a proposito di Nietzsche, smile!) mentali. Impiegando alla bisogna – e adulterandola (ops, scusate: de-strutturandola, per rispetto del gergo del moderno Regietheater) – la materia originale che ci ha lasciato il più grande Artista di teatro musicale che la nostra civiltà abbia finora prodotto.   
___

Altro esempio illuminante degli abbagli che prende il regista, nella sua smania di mostrarci quelli che per lui (non per Wagner!) sono aspetti del dramma della massima rilevanza, quindi da portare in primissimo piano, è ciò che vediamo nel secondo atto, in particolare in tutta la prima parte.

Anche un ingenuo fa presto a capire che le fanciulle-fiore, e Kundry con loro, rappresentano la mercificazione del sesso e lo sfruttamento delle qualità libido-eccitanti della donna da parte di Klingsor, il mago che le ospita nel suo castello (di menzogne) per usarle a suo profitto. E che per sottometterle possiamo certo immaginare impieghi tutti i mezzi disponibili nel suo laboratorio di mago-alchimista, che Wagner ci descrive sommariamente ad inizio d’atto. Ma domandiamoci: è proprio questa fase, diciamo così, di sadica preparazione delle ragazze al compito che le aspetta ciò di cui Wagner ci vuol parlare qui? È questa l’allegoria sottesa alla prima scena dell'atto? Prima di rispondere leggiamo il libretto ed ascoltiamo la musica. 

Allora: le ragazze-fiore sono sicuramente agli ordini di Klingsor, ma per svolgere un ben preciso lavoro. Quello di adescare e sedurre i concorrenti del loro padrone (i cavalieri del Gral) portandoli a disertare e ad ingrossare le fila del suo esercito, così da indebolire le difese di Monsalvat e consentire al mago di conquistarlo e di divenirne finalmente il signore assoluto. Per questo Klingsor le ricopre di vesti preziose e di inebrianti profumi; e per questo Wagner le riveste di una musica celestiale.

Sono sfruttate da un padrone? Sì, ma in una prigione dorata, dove possono persino godere di una vita affettiva, legate proprio a quei cavalieri da loro sedotti e che adesso sono, come loro, al servizio del loro stesso padrone. Non altrimenti si spiega il loro dolore al vedere i compagni massacrati da Parsifal lungo la sua scalata alle mura del castello; e non altrimenti si spiega il loro iniziale risentimento contro quel ragazzo che ha loro rovinato la… famiglia.

Insomma, qui ci troviamo in una specie di azienda, guidata sì da un pazzoide, il quale però non ha come obiettivo primario ed esclusivo, cioè come fine ultimo, la riduzione della donna in schiavitù, ma la conquista del mercato (comunque lo si voglia filosoficamente intendere) e che a tale fine (demolire la concorrenza) impiega come mezzo un’organizzazione di cui fanno parte (in qualità di sfruttate e sfruttati, certo, come lo sono tutti i lavoratori dipendenti in tutte le aziende di questo mondo) sia femmine che maschi.

Ecco perché Castellucci sbaglia clamorosamente (per me) quando invece pone al centro della sua interpretazione della scena l’esposizione smaccata degli atti di volgare schiavizzazione della donna e lo scempio sado-maso del corpo femminile, sostituendo alle fanciulle-fiore le fanciulle-salsiccia, che lui ci presenta mentre Klingsor - evidentemente dopo averle imbottite di tutte le sostanze venefiche che il regista ci ha elencato (patologie indotte comprese) sul sipario fra primo e secondo atto - le lega e le appende al soffitto della sua macelleria, per organizzarne l’esposizione. Così facendo, Castellucci finisce per perdere di vista il concetto fondamentale che è alla base dell’allegoria wagneriana: la posizione e il ruolo di Klingsor rispetto a Monsalvat e le profonde motivazioni che ne informano le scellerate iniziative. Insomma, vien da pensare che qui il sadico non sia Klingsor, ma… il regista (mega-smile!)

La sua, di Castellucci dico, è una scelta che lo porta contemporaneamente anche a stravolgere in modo intollerabile le caratteristiche estetiche del second’atto: sì, perché affinchè l’azione ammaliatrice e seduttrice di quelle donne possa aver successo è assolutamente necessario che tali femmine vengano appunto vestite e profumate come fossero fiori, proprio come ammaliante e seducente è la musica che le accompagna. Quello in cui Parsifal si avventura deve apparire a lui – e anche a noi spettatori, che pure, a differenza sua, siamo già edotti dell’inganno che vi si nasconde – come un ambiente idilliaco, pervaso da bellezza e amore.  (Solo più tardi anche Parsifal scoprirà che in realtà quella è una trappola gestita da un lestofante, un nemico mortale che si serve anche di donne a lui assoggettate per corromperlo e condurlo a perdizione.) Ma insomma, non è un caso se Wagner pensava ai giardini di Ravello – non ad una sala di macellazione - mentre ambientava questa scena!

Invece Castellucci ci mostra un Parsifal che è sul punto di farsi ammaliare e sedurre dalle orripilanti fanciulle-salsiccia, poi trasformate in marionette nude! Col che la scena scade addirittura nel ridicolo. Peggio ancora quando le fanciulle ritornano armate di mitra! Insomma, ciò che il (vero) mago Wagner ha immaginato e mirabilmente realizzato (soprattutto in musica, lo ripeto!) cioè la presentazione della fallacia del mondo di Klingsor, dove la contraffazione più subdola e l’inganno più bieco si nascondono dietro le apparenze più accattivanti, tutto ciò il regista lo butta nel cesso, presentandoci una scena di iper-realismo tanto crudo e ributtante quanto fuori luogo. Scena che reclamerebbe – e questo è sempre il punto fondamentale, accidenti - il supporto di una musica totalmente diversa

(A merito del regista invece va riconosciuto, e sembra paradossale, che l’immagine più iconoclasta di questa scena - la vagina esposta in primo piano - è proprio quella più pertinente al contesto dell’incontro Parsifal-Kundry.)

A proposito, mentre Kundry bacia Parsifal, che poi si ritrae inorridito, sulla zanzariera passano le immagini di un coito (uno stupro peraltro, direi). Qui abbiamo almeno due interpretazioni: la più banale, che si tratti di un didascalico riferimento (per i disattenti o i non informati) ad un precedente coito, fra la stessa signora e Amfortas. La seconda, ben più importante, che sia la risposta che da 165 anni tutto il mondo aspettava con ansia alla domanda: ma da dove è uscito fuori ‘sto Lohengrin?  

Infine, quello che tutti gli spettatori, anche i più sprovveduti, devono aver capito al volo è come mai, a un certo punto, senza apparente ragione, la macelleria scompaia nel nulla, con tutto il bendidio che conteneva. E questo è il più gran merito dell’eliminazione di tutti i simboli di Wagner…  
___
Il primo atto è forse quello meno rovinato, anche se non vi mancano gratuite invenzioni e aperte contraddizioni del testo wagneriano.

Foresta ombrosa e austera, ma non tetra, così Wagner. Beh, Castellucci, in vena di rivoltare calzini, ci mostra un luogo di una tetraggine assoluta, in certi momenti non si vede letteralmente nulla. Gurnemanz&C sono ridotti a cespugli ambulanti, tanto che, a voler fare facili battute, mi vien da pensare che il regista stesse anche mettendo in scena un Macbeth e abbia per errore portato in Parsifal la scenografia predisposta per Birnam (smile!)

Al primo arrivo di Amfortas, portato al laghetto per il bagno ristoratore, Wagner compie uno dei suoi miracoli, legando mirabilmente il tema disperante del dolore (Nach wilder Schmerzensnacht, dopo una notte selvaggia di dolore…) a quello invero sbudellante del radioso mattino che illumina la foresta (…nun Waldes Morgenpracht! la selva, ora, in mattutino splendore!) Ecco, sono meno di due minuti di arte straordinaria, una delle tante perle che Wagner ci offre perché ne possiamo esteticamente e spiritualmente godere. Castellucci? Tutto come prima, fogliame impenetrabile, su cui galleggia un canotto pneumatico che attraversa la scena. Memorabile!

Non parliamo della Verwandlung, con la foresta che si… ritira in tutte le direzioni, rasa al suolo da boscaioli armati di motoseghe che lasciano, invece che il Duomo di Siena, un un letto di foglie e rami per quei quattro sfigati di Gurnemanz&C, mentre sullo sfondo vediamo una volgare raffineria: oh già, parliamo di raffinazione dello spirito! (Però tutti i record son fatti per essere ineluttabilmente battuti, quindi la Verwandlung del terz’atto sarà ancor meglio, stiamone certi!)

Nulla si vede dello scoprimento del Gral, con la scena chiusa da un velone bianco su cui campeggia una virgola, o un apostrofo, o (in notazione musicale) un segno di respiro. Né il Gral si vedrà alla fine, dato che per il regista è una non-cosa, una mancanza, insomma un vattelappesca su cui è meglio non indagare oltre. 
___
Una delle conseguenze della visione sostanzialmente pessimistica del regista consiste nel cestinare senza pietà tutta la fondamentale problematica wagneriana (caratteristica non solo del Parsifal) legata alla Natura (hai detto niente!) Dopo le bizzarrìe del primo atto (Monsalvat=Birnam) e lo scempio del secondo atto (Ravello=macelleria) la cosa toccherà il suo zenit nel terzo, al momento del cosiddetto Incantesimo del Venerdi Santo.

Esso viene ridotto - da stupefacente inno alla Natura finalmente tornata ad essere tutt’uno con l’Uomo - ad un’interminabile processione di gente sbandata (Pellizza credo non gradirebbe proprio…) che marcia su un tapis-roulant. Cioè in realtà sta ferma, e si noti bene l’implicazione filosofica della cosa, a proposito di pessimismo della concezione registica e di Paradosso dei gemelli! (Nota tecnica: il nastro che è posto quasi al proscenio e occupa tutta la larghezza della scena, ha solo un paio di metri di profondità, ci camminano massimo, sfalsate, due file di persone, tutte le altre centinaia che stanno dietro si limitano ad agitarsi per simulare la camminata. Chissà chi fa più fatica?)

Sentiamo Parsifal, selon Wagner: (Parsifal si volta e guarda con dolce estasi sulla selva e sul prato, che ora rilucono in luce antimeridiana.) Oh come bello m'appare oggi il prato! Bene io mi trovai tra fior di meraviglia, che intorno a me cupidi s'attorcevan fino al capo; e pure mai io vidi sì mansueti e teneri, fiori e steli in fioritura; né mai così tutto odorò di cara fanciullezza, né così mi parlò intimo e soave!

Capita l’antifona? Qui ci sono i fiori veri, naturali, gli steli in fioritura, altro che le ingannevoli fanciulle-fiore di quel castrato di Klingsor! E Gurnemanz ci aggiunge un’autentica laude alla Natura come parte del creato, agli esseri animati che nascono, crescono e muoiono con naturale innocenza. Ma proprio mentre canta (Wagner) che in quel giorno gli uomini evitano di calpestare erba e fiori, che ti fa, l’ecologista targato Castellucci? Sradica l’unico arboscello presente in ettari ed ettari di deserto per farne una corona d’alloro a Parsifal! (Ma Greenpeace non interviene, dico io?)

Ho già anticipato della seconda Verwandlung, che qui proprio non c’è del tutto, perché surrogata dal protrarsi della finta camminata sul rullo della palestra.

In precedenza, ma solo secondo Wagner, Gurnemanz aveva continuato a parlare a Kundry, che voleva farsi in quattro per Parsifal; persino l’aveva bonariamente rimproverata quando lei aveva recato acqua per rianimarlo; poi entrambi avevano preparato il battesimo di Parsifal, che aveva baciato castamente Kundry, dopo che la donna gli aveva lavato ed asciugato i piedi.

Castellucci? Kundry scompare letteralmente dopo il suo risveglio e la rivediamo solo alla fine, quando passa a salutare Parsifal prima di aggregarsi al gregge che si allontana. Gurnemanz e Parsifal parlano al vento ed accarezzano il vuoto dinanzi a loro, con movimenti mutuati dallo yoga. Insomma: Wagner buttato nel cesso, tutta roba, avrà pensato Castellucci, degna di donnicciuole svenevoli o di novizie al convento.

Eh già, le scorie bigotte che Nieztsche rimproverava al Maestro. Qui invece il più arido qualunquismo anima quelle moltitudini marcianti verso il nulla nel più arido degli spazi urbani cementificati. Ancora una volta: per questa scena servirebbe ben altra musica, capito Wagner?       
___
Ora basta buttare in vacca la regìa e parliamo appunto di cose serie: la musica!

In complesso mi sento di dichiararmi moderatamente soddisfatto: la compagnia di canto è di livello più che discreto, da Gábor Bretz, che è un Gurnemanz convincente, forse poco ieratico (secondo i miei gusti) a Detlef Roth, che capitalizza bene la sua dimestichezza con il ruolo di Amfortas, da lui portato anche a Bayreuth. Gradite sorprese (per me che partivo con qualche riserva mentale su di loro) il Klingsor di Lucio Gallo, e la Kundry di Anna Larsson.    

Arutjun Kotchinian cantava Titurel dal suo sarcofago in… loggione e non ha demeritato, come le fanciulle-fiore, a loro volta relegate ai due lati della buca, mentre sul palco si esibivano le… salsicce. Positiva anche la prestazione dei cori di Andrea Faidutti e Alhambra Superchi, peraltro quasi sempre relegati dal regista dietro sipari o quinte.

Roberto Abbado mi pare abbia superato onorevolmente questo difficile battesimo, mutuando ora da Kna (primo atto in particolare) ora da Boulez, così da… stare in media (smile!) A parte le battute, una direzione attenta, con qualche sbavatura sul fronte del fracasso che ha in qualche occasione sommerso le voci. Orchestra forse non al massimo, ma il banco di prova è davvero dei più temibili.
___

Considerazioni finali: un grazie grandissimo al Teatro per l'immane sforzo organizzativo messo in campo, un vero miracolo stante la condizione pre-agonica del nostro sistema-cultura. Resta (ma questa è ovviamente la mia reazione personalissima) il rammarico per la discutibilità della proposta artistica.   
___
Post scripta.

Ho già scritto anni fa della mia personale vision del Parsifal, e siccome da allora non è cambiata (non c’è riuscito nemmeno Castellucci, a farmela cambiare, smile!) rimando i milioni di curiosi a quel lontano post.

Invece consiglio seriamente a tutti di ascoltare (basta andare sul tubo) la versione in lingua italiana nell’esecuzione di Vittorio Gui del 1950 con l’Orchestra RAI di Roma (è stata anche trasmessa qualche settimana fa da RadioFD). A parte che ci si trova in Kundry una 27enne allora quasi sconosciuta (indovinare chi…) la cosa che sorprende (perlomeno che mi sorprende, essendo personalmente scettico sulle traduzioni, in specie di Wagner) è la qualità assoluta della versione ritmica di Giovanni Pozza, che non toglie nulla alla pregnanza del testo, anzi ce lo rende quasi più caldo e vicino. 

Wagner il saccheggiatore. L’incipit del tema principale di tutto il dramma (l’Agape) viene dal caro genero:

Excelsior, introduzione alla cantata Le campane del Duomo di Strasburgo (1874).

06 novembre, 2011

La donna del lago alla Scala


Ieri sera quarta rappresentazione (delle sette) de La donna del lago. Opera fin troppo trascurata dai teatri: un tempo perché si pensava che il Rossini romantico-drammatico fosse anche un Rossini minore; oggi con la scusa che l'opera richiederebbe un cast vocale troppo difficile o addirittura quasi impossibile da mettere insieme.

La Scala meritoriamente (una volta tanto) non si tira indietro e – dopo quasi 20 anni (Muti, 1992, con Blake, Anderson, Merritt, Dupuy, Surjan) – ripropone questo autentico gioiello, una delle cose più alte di tutto Rossini, in una nuova edizione, realizzata insieme all'ON di Parigi e alla ROH di Londra. Speriamo che queste co-produzioni servano almeno a spalmare una parte dei costi fissi su diversi clienti… in specie quando questi costi sono a fronte di prestazioni francamente discutibili.

Alludo ovviamente all'allestimento di Lluìs Pasqual (scene di Frigerio, costumi della Squarciapino e luci di Filibeck) che è di quelli che ti fanno venir voglia di chiederti: ma perché non lo fanno fare a me, povero pirla, che gli farei oltretutto risparmiare il 90% della parcella? Faccio un piccolo esempio relativo a scene e costumi. Ecco, siamo in un'opera di ispirazione romantica, con tanto di atmosfere ossianiche, ambientata a metà del 1500 nei dintorni e all'interno di un maniero scozzese, che si può vedere ancor oggi, ben restaurato:


E basta collegarsi col sito del castello di Stirling per avere millanta buone idee su come allestire le scene dei finali d'atto e su come vestire protagonisti e masse.

Ora invece, ditemi voi che valore (o piuttosto dis-valore) aggiunto mi dà una scena come questa:


Ma dico: pare di essere alla Traviata o al Rigoletto di Zeffirelli…

Altro discorso sarebbe una messinscena che indirizzi prevalentemente gli aspetti psico-esistenziali dei vari personaggi (e di materiale il libretto e la musica ne offrirebbero a josa): allora certo sarebbe legittimo e sensato astrarre la vicenda da tempi e spazi, focalizzandola sui moti dell'animo, sulle coscienze, sui sentimenti e sulle problematiche politiche che la caratterizzano. Ma allora basterebbe un ambiente da teatro greco (cioè i soli gradini del set di Frigerio e poco più (altro che lampadari, smoking e palazzi barocchi) mentre qualcosa di più e di meglio andrebbe fatto sul versante della recitazione.

Per fortuna il fronte musicale non ha tradito le aspettative. I personaggi principali sono cinque: i due tenori (acuto Uberto-Giacomo; più baritonale, ma con salite anche al DO, Rodrigo); il soprano (ma con parte quasi mezzo-sopranile, Colbran-oriented: Elena); il contralto (Malcom, en-travesti) e il basso (Duglas).

Uberto, il Re in incognito, è un tipo strano: nel poema di Walter Scott lui - che se ne va in giro col nome di James Fitz-James, Cavaliere di Snowdoun, per mescolarsi al popolo e coglierne gli umori – si perde per davvero durante una battuta di caccia al cervo, e perde pure il cavallo, così solo per puro caso si imbatte nella bella Ellen, che naviga in una barchetta sul Loch Katrine, in uno sfolgorante tramonto estivo. Si innamora di lei, torna a trovarla, ne viene respinto, ma alla fine, dopo aver ferito mortalmente il ribelle Roderick – pretendente della ragazza - perdona tutti i rivoltosi e favorisce l'unione di Ellen e Malcolm. Invece, nel libretto di Tottola - che evidentemente non si accontentava, con Rossini, di una vicenda così terra-terra - Uberto si reca di proposito in riva al lago - di buon mattino - per conoscere quella che gli è stata descritta come una donna straordinaria. Insomma, ci fa un po' la figura del voyeur arrapato (smile!) e la sua finale magnanimità ci appare proprio come un coupe de theatre. Ecco, questa personalità piuttosto bizzarra, di un sovrano che è allo stesso tempo un famelico innamorato, ma anche un invincibile spadaccino, un ebete cascamorto e un nobile magnanimo era affidata alla voce del divo JDF:

Forse a qualcuno non piacerà, e magari la sua voce, già non potentissima, comincia a dare segni di cedimento, ma insomma uno così, in questo repertorio perlomeno, non si trova tutti i giorni; specialmente negli acuti, affilati come… lame di Scozia, appunto.

La Elena di Tottola-Rossini, come e più della Ellen di Scott, è donna solo apparentemente debole e remissiva, forse introversa sì, ma anche decisa, autonoma nel giudizio e perfino ribelle. Nell'opera la sua personalità non ha nemmeno quel risvolto religioso che presenta la Lady di Scott (l'Ave Maria che ispirerà Schubert) e l'unico suo richiamo al Creatore è annegato nella stretta militaresca del Finale primo. Come nel poema da cui fu tratto il libretto, Elena non dissimula affatto la sua attrazione per Uberto e a noi resta sempre il dubbio che lei, quando Giacomo V la unisce, seduta stante, in matrimonio con Malcom, sia felice sì, ma… un filino pentita di aver perso l'occasione unica di prendere il posto, come padrona di casa a Stirling, di tale Marie de Guise! Joyce DiDonato ne è degnissima protagonista, sia nel canto – solo qualche piccolo problema nell'ottava bassa, ma niente di cui scandalizzarsi – che nella recitazione e nel portamento (dove è stata l'unica a distinguersi, in un grigiore registico totale).

Il puro-e-duro (e anche un tantino presuntuoso, come tutti i guevara-da-strapazzo) Rodrigo qui è John Osborn. Parte assai impervia, essendo per lunghi tratti baritonale, ma con ascese vertiginose fin su dalle parti di… JDF e addirittura oltre, come dimostratosi nel terzetto dell'atto secondo! E in effetti il ruolo di Uberto non gli andrebbe affatto male, poiché è proprio nella parte alta del pentagramma che il tenore dà le sue cose migliori. Personalmente non mi sentirei di censurarlo più di tanto: in fondo sarà pure cosa disdicevole, ma per il pubblico medio un bel DO acuto compensa alcuni DO e SIb gravi scarsamente udibili!

L'imponente Daniela Barcellona veste i panni del modesto – come personalità – Malcom. In effetti già certa critica di inizio '800 rimproverava a Scott di aver fatto eccessivi favori a Malcolm Graeme, un personaggio che ha l'unico merito di essere innamorato – e ricambiato – da Ellen. Perché per il resto pare un tipo abbastanza mediocre, se non pavido, uno che cerca di non esporsi troppo – e caso mai più per l'amata che per il suo clan - a differenza del fierissimo Roderick. E non è escluso che questa attitudine da mezza-sega (con tutto il rispetto, smile!) abbia indotto Tottola-Rossini a sceglierlo come personaggio en-travesti (detto senza offesa per i travestiti, sia chiaro). Però, come castigo, i nostri autori gli hanno tolto il privilegio fattogli da Scott di cantare, prima del finale, la canzone del prigioniero dalla torre, arietta regalata invece al tenore Uberto (Aurora! ah sorgerai…) Tuttavia, e per fortuna, noi abbiamo qui una travestita coi fiocchi, la quale – a dispetto di una indisposizione, come annunciato prima dell'inizio – canta più che dignitosamente la sua parte assai impervia. Forse le condizioni fisiche le hanno consigliato di abbassare un poco il volume, peccato che Abbado invece abbia mantenuto imperterrito (parlo della seconda parte dell'aria del primo atto) quello dell'orchestra, strumentini soprattutto. Comunque complimenti per la professionalità di questa artista, persona oltretutto riservata, seria ed equilibrata, come si può evincere da questa intervista fattale da un Amfortas sotto mentite spoglie (smile!)

Tale James Douglas (Duglas per Tottola) in Scott è non solo il padre di Ellen e un esiliato – con Malcolm Graeme - dalla corte di Giacomo V, ma anche una persona di retti principii, che mai e poi mai tradirebbe il suo Re. Addirittura nega a Roderick la mano della figlia! E non per nulla Giacomo V, alla fine, lo risparmia con ampia assoluzione. Invece Tottola, dovendo animare in qualche modo il suo dramma e fornire a Rossini materiale per musica tosta, rivolta come un calzino il personaggio di Scott e ne fa nientemeno che il capo – e non solo spirituale - dei ribelli. E già che c'è, anche un padre piuttosto nazista, che vorrebbe imporre alla figlia il marito che dice lui (Rodrigo, ovviamente). Ne esce una figura da classico basso cattivo, che Simon Orfila cerca di rendere come può: il cattivo c'è di sicuro, tutto sta a vedere se per caso non sia il canto (smile!)

Gli altri: LoMonaco-Albina, Kwon-Serano e Shin-Bertram su un piano di dignitosa sufficienza (con un ++ per il soprano).

Il coro di Casoni – criticato alla prima – sembrerebbe tornato sui suoi standard normali.

E Roberto Abbado? A me è parso voler calcare la mano – poco o tanto – sul versante romantico della partitura, mettendo in risalto tutti i lati verdiani della stessa. Il risultato è stato un certo slentamento di tempi e qualche volta un eccesso di fracassi, con conseguente copertura di voci. Così ci ha però chiarito come in Rossini si annidassero evidenti i prodromi di ciò che nei decenni successivi sarebbe accaduto nel melodramma italico, e non solo. In ogni caso i soli – timidi – buh finali (dopo i bravo al rientro) sono stati proprio per lui. 

A proposito di reazioni del pubblico, la zona sinistra del primo loggione è parsa tanto scatenata nelle approvazioni, per tutti quanti, da destare qualche sospetto di... parzialità. In ogni caso - a parte che meriterebbe una richiesta di rimborso della quota-regìa del biglietto… - spettacolo più che degno sotto il profilo musicale.
--