Uno degli eventi più attesi del
millennio (smile!) si sta consumando
a Bologna, dove è in scena una Norma… fuori-norma.
O almeno tale ritenuta da molti sacerdoti del culto del soprano drammatico, che considerano una bestemmia e una
provocazione che il ruolo della terrificante sacerdotessa gallica venga
sostenuto da una vocina più adatta, caso mai, ad impersonare la mite e patetica
Adalgisa. (La quale Adalgisa, per inciso, qui è Carmela Remigio, che fa la… pendolare - smile! - proprio dal ruolo di Norma, quasi a dimostrazione che
l’uno vale l’altro, ahahaha!)
Personalmente mi tengo alla larga da
simili diatribe, anche perché se l’alternativa è fra un soprano drammatico che bercia e uno leggero che canta, ho pochi dubbi sulla scelta…
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Sui contenuti e sul soggetto (e le
incongruenze storico-geografiche) dell’opera ho già dissertato (smile!) in occasione di una
rappresentazione di un anno addietro al Regio torinese, e colà rimando l’eventuale
lettore masochista… Allego piuttosto uno scritto
di Friedrich Lippmann
su Bellini, apparso su Musica&Dossier nel giugno 1987.
Dirò quindi due cose sull’allestimento
di Federico Tiezzi, una co-produzione
del triangolo Bologna-Trieste-Bari (al Petruzzelli
andò in scena nel lontano e infausto 27 ottobre 1991).
Le tre immagini che seguono danno
vagamente l’idea delle diverse prospettive sotto le quali si può vedere
l’opera: la prima (ripresa al San Carlo nel 1987) riproduce quella di Alessandro Sanquirico per la prima alla Scala del 1831, in cui è
evidente lo stile neoclassico; la seconda presenta un bozzetto di Felice Casorati (atto IV, quadro II) del
1935 per il Maggio, un approccio chiaramente realista e paganeggiante; la terza
mostra la celebre struttura lignea astratta di Mario Ceroli, per l’allestimento di Mauro Bolognini, che imperversò alla Scala per anni, a partire dal
1972.
Ecco, Tiezzi e lo scenografo Pier Paolo Bisleri (che riprende i
fondali originali di Mario Schifano)
propongono un’ambientazione, diciamo, sincretizzata,
dove troviamo qualche riferimento neoclassico (colonne-quinte) e naturalistico
(alcuni fondali) innestati su una base simbolista, rappresentata dall’Irminsul stilizzato e dalla Luna di Schifano). La scena è quasi
sempre sgombra, o popolata da pochissimi oggetti. I costumi di Giovanna Buzzi
sono anch’essi di epoche diverse: ottocenteschi-napoleonici quelli dei romani,
più neoclassici (vedi le lunghe tuniche) quelli dei galli. Anche le
suppellettili di casa-Norma (ridotte peraltro a due sedie e poco più) sembrano
settecentesche, mentre il trenino-giocattolo del figlio della profetessa ci
riporta necessariamente nel primo ottocento.
I movimenti dei personaggi e delle
masse sono in sintonia con l’austerità delle scene (e del libretto) e tutta la regìa
è quindi orientata alla concentrazione sui conflitti psicologici che caratterizzano
il soggetto. Il che è da apprezzare in pieno.
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Della parte musicale dirò subito –
tanto per introdurre il discorso-Devia – che Casta Diva è stata cantata in FA e non in SOL (tonalità originaria
in cui fu composta la cavatina, ergo più adatta ad una voce… leggera) e che
quindi la Mariella si è attenuta alla tradizione, senza cercare di…
approfittare di una circostanza teoricamente a lei favorevole. Qui abbiamo la
sua performance alla prima, dove si può notare un particolare
interessante, che testimonia dell’originalità e della cura che la Devia ha
messo nella sua preparazione: l’esposizione della prima frase, a 2’15” (a noi volgi il
bel sembiante) è eseguita scrupolosamente secondo partitura, con la
salita dal SI naturale al LA acuto (sillaba sem) seguita da 3 forcelle sul bian,
poi da un respiro e quindi dalla quarta forcella sul LA con salita al SIb acuto
e successiva discesa all’ottava inferiore (sempre sulla sillaba bian);
invece alla ripresa del motivo (spargi in terra quella pace) a 5’00”, la
Devia, dopo la salita dal SI al LA (sulla parola quella) canta anche la parola pace tutta in legato, senza forcelle e senza
prese di fiato intermedie (respira più avanti, prima di che regnar):

Un esempio credo legittimo, questo, di
intervento sullo spartito, intervento del tutto normale ai tempi del bel canto, dove era anzi richiesto
all’interprete di portare, nelle ripetizioni, il suo valore aggiunto rispetto all’originale.
Ora, avanzare accademici distinguo sulla prestazione della Devia
sarebbe non solo irrispettoso verso la straordinaria professionalità di questa
cantante, ma anche piuttosto pretestuoso e scarsamente sostenibile proprio in
termini estetici: perché ciò che conta è – anche qui, come in politica o nello
sport - il risultato. E il risultato complessivo
(parlo ovviamente per me e per nessun altro) è stato più che soddisfacente (per
gran parte del pubblico… anche di più,
a giudicare dal calore generale dell’accoglienza riservata alla protagonista). E non solo
per il Casta Diva, ma per l’intera performance
della Devia, culminata in un In mia man alfin tu sei, dove la Mariella, oltre ad evitare il naufragio, ha tirato fuori unghie insospettabili!
L’altra peculiarità di questa edizione
– in omaggio al Wagner
bi-centenariato, ma anche in ragione dell’ammirazione incondizionata che il
genio di Lipsia nutriva per Bellini e a conferma della vocazione wagneriana di
Bologna - è rappresentata dall’impiego della variante (Norma
il predisse, o Druidi, WWV52) composta da Wagner a Parigi (1839) per
l’aria di Oroveso che nell’originale belliniano
inizia con Ah,
del Tebro al giogo indegno (scena V, atto II, brano invero splendido
e con chiari rimandi tematici al precedente Non partì). Ecco il fascicoletto col
contributo wagneriano fare capolino dal volume della partitura di Mariotti, nel
bel mezzo dell’atto secondo:

Detto fra noi, e con tutto il rispetto
per Wagner (sia ben chiaro) a mè mme
pare… ‘na padanada! Ci si sente qualche folata dell’Holländer (toh!) mescolata a scimmiottature dei Puritani, compresa
la conclusione con un protervo accordo generale, laddove Bellini chiude in pianissimo! Insomma: una cosa davvero
deplorevole, che francamente ci poteva essere risparmiata!
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Del cast di Torino-2012 tornano qui
alcuni protagonisti, a cominciare dal padrone di casa Michele Mariotti, il quale conferma in pieno la sua notevole caratura,
oltre che il suo approccio all’opera: tempi piuttosto trattenuti, è vero, ma mai
grevi, né tali da spossare i cantanti; attacchi sempre precisi e controllo appropriato del volume, attenzione
alle minime sfumature… insomma, una direzione autorevole (a proposito, scusate,
voi lassù in cima alla Scala… state mica cercando qualche giovine al posto di Barenboim?)
Poi Aquiles Machado, che magari col tempo è un filino
migliorato, anche se ancora non mi è parso un Pollione veramente all’altezza (e
viene il dubbio che difficilmente lo sarà mai, ahilui). Infine Gianluca Floris, che è stato un Flavio
dignitoso.
Sergey Artamonov è un Oroveso di
gran presenza scenica; quanto al canto… non mi ha proprio entusiasmato. In più,
non vorrei che abbia messo lo zampino nella scelta dell’aria wagneriana, solo per
esibire qualche nota (e nemmeno perfetta) in più…
Carmela Remigio in Adalgisa mi pare stia proprio
a… casa sua. Una prestazione pulita e convincente, una partner ben affiatata della Norma di Mariella.
Alena Sautier ha dignitosamente interpretato Clotilde.
Più che
apprezzabile anche la prestazione del Coro
di Andrea Faidutti, capace di rendere
al meglio sia le parti più platealmente enfatiche, che quelle intimistiche, come
l’intercalare su Casta Diva.
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Come detto,
gran trionfo per Mariella e per tutti (comunque qualche dissenso, nel clamore generale,
mi è parso di percepirlo…): una Norma che magari non farà storia, ma che a chi ha
avuto la ventura di assistitervi (senza pregiudizi, come il sottoscritto) ha
davvero lasciato il segno!