sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel
Visualizzazione post con etichetta pelly. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta pelly. Mostra tutti i post

18 ottobre, 2025

Il Donizetti bonapartista alla Scala.

Eccomi a commentare l’arrivo al Piermarini - piacevolmente affollato e ben disposto - della produzione (originaria di Londra, 2007) de La Fille du Régiment di Gaetano DonizettiPrima dell’inizio ecco l’annuncio di un raffreddore che – per fortuna? – non ha impedito a Florez di scendere in campo, evitando quindi una nuova falsa partenza, dopo quella di Korchak in Rigoletto.

Della messinscena si conosceva praticamente tutto, grazie alle registrazioni accessibili in rete (Vienna, MET, …) e qui Christian Räth (che riprende il lavoro di Pelly) non si è permesso di mutare alcunchè, dimostrando quindi ancora una volta che le regìe creative ma anche intelligenti non hanno età, e si possono apprezzare anche quando si conoscono a menadito.

Quanto al contenuto, la produzione mantiene largamente i dialoghi di Agathe Mélinand, già impiegati a Vienna e altrove, con piccoli tagli e varianti per le due entrate della Duchessa. 

E in effetti a livello di regìa l’unica curiosità di questa ripresa milanese riguardava proprio l’impiego dell’interprete della Duchessa di Crakentorp, tradizionalmente (non solo da Pelly) affidata a personaggi famosi in assoluto, o almeno nel luogo della rappresentazione. Nelle sue peregrinazioni, l’opera ha ospitato in quel ruolo celebri attrici e più o meno celebri cantanti, con interventi abbastanza fuori dal contesto. Senza dubbio la scelta più azzeccata è stata quella di Pelly a Vienna (2007) dove Montserrat Caballè si esibì anche interpretando una canzonetta svizzera ('g Schätzli): cosa per nulla gratuita, ma pienamente compatibile con il soggetto dell’opera, dove la Marchesa confessa di aver convissuto con Robert a Ginevra.    

Qui devo personalmente deplorare le modalità della partecipazione della nostra amata Barbara Frittoli: che si è limitata ai quattro versi da recitare, più un paio di moine e un urlaccio… Per poi uscire per gli applausi finali mescolata agli altri interpreti minori. Davvero inspiegabile averla relegata a comparsa: si può capire che lei non abbia più l’età per cantare Marie… ma perché ha accettato di esporsi a questa patetica figura?

Bene, dato quindi a Räth ciò che è di Räth Pelly, passo subito agli addetti ai suoni donizettiani. 

Evelino Pidò (72 anni…) ha alle spalle abbastanza navigazioni per saper tenere ferma la barra del timone di questa barca perennemente ricoverata in darsena per operazioni di maquillage, prima di ogni uscita verso nuove crociere. [I curiosi possono apprezzare le cospicue differenze fra il testo proposto qui nel 2007 e quello odierno.] L’Orchestra scaligera gli ha dato una grossa mano, mettendo in luce i multiformi pregi della partitura: slanci marziali o amorosi, rudezze, meschinità, ipocrisie e… comicità.  

Julie Fuchs e il menomato Juan Diego Florez non hanno tradito le attese (conservo un bel ricordo di loro in un Comte Ory al ROF del 2022) e anche ieri hanno monopolizzato l’attenzione (e gli applausi) del pubblico. Da incorniciare il lungo duetto al loro primo incontro (Depuis l’instant).

Lei si è calata benissimo nella parte di questa maschiaccia ribelle, a disagio negli abiti che la nobiltà le vorrebbe imporre, ma capace di sinceri sentimenti e, alla fine, gratificata dall’unione con il plebeo tirolese che le aveva salvato la vita. Voce ben impostata in tutta la gamma, leggero vibrato negli acuti e agilità negli abbellimenti (colorature, arpeggi e picchiettati spesso volutamente parodistici, fino alle proditorie stonature nella canzone di Venere). Efficace già alla prima entrata (Au bruit de la guerre) con il successivo duetto con Sulpice. E poi nel trascinante Il est là, Il est là, Il est là, morbeu! Ma anche patetica e dolente nella sua romance al termine del primo atto (Il faut partir). Simpatica e sfottente nel trio (Les amours de Cypris) con Sulpice e sua madre all’inizio del second’atto e poi perfetta nel passare nella successiva aria dal dimesso Par le rang et par l’opulence al trionfante Salut à la France! chiuso da un folgorante MIb. E infine emozionante (Quand le destin, au milieu de la guerre) nell’omaggio al benemerito Reggimento.

L’attuale Direttore Artistico del ROF cerca con mestiere di sfidare il tempo: sarà stato anche il raffreddore, ma la sua voce non ha più lo smalto e la brillantezza dei bei tempi, così i 9 (8 scritti +1 di tradizione) DO acuti del primo atto (Pour mon âme) non sono proprio risuonati come saette nel cielo del Piermarini. E l’ugualmente spurio DO# della Romance del secondo (S’il me fallait) è rimasto direttamente sulla carta, sostituito dal regolamentare LA.

[A proposito di cantiere aperto (riferito a libretto e partitura): di quest’ultima romanza di Tonio, che inizia con Pour me rapprocher de Marie, esistono due versioni, una (presumibilmente l’originale) in SIb, e l’altra (di tradizione) in LA maggiore, tonalità che consente al tenore di esibire il (non scritto) sovracuto sulla mediante DO#. Le due versioni differiscono anche per poche battute finali (quella in LA è accorciata di 7), ma c’è stato qualcuno (qui il franco-congolese Patrick Kabongo, lo scorso aprile, a 1h52’39”) che ha cantato la versione in SIb, il che gli ha consentito di sciorinare un RE naturale sovracuto da record…]

Certo, in scena non c’erano solo i due protagonisti, e quindi va elogiato senza riserve il Sulpice di Pietro Spagnoli, voce e portamento proprio da caricatura di autorevole sergente di ferro. Oltre che nel trio con Marie e Marchesa, si è anche distinto nell’indiavolato terzetto con i due protagonisti (Tous les trois réunis) che precede il finale.

Lo stesso dicasi per Géraldine Chauvet, che ha dato al personaggio della peccatrice Marchesa di Berkenfield il giusto risalto. Già a partire dal suo ingresso (Pour une femme de mon nom) con gli equivoci riferimenti all’intraprendenza dei militari francesi.

Sempre all’altezza il Coro di Malazzi. Gli altri interpreti han fatto correttamente il loro dovere come da contratto.

Alla fine una decina di minuti di applausi per tutti: i tre protagonisti in testa, ma anche Pidò e la coppia che ha ripreso Pelly.


14 ottobre, 2025

Gli esportatori di democrazia tornano alla Scala.

Per la quinta volta dal dopoguerra torna alla Scala La Fille du Régiment di Gaetano Donizetti, di cui oggi viene proposto (ripreso da Christian Räthl’allestimento - universalmente apprezzato - di Laurent Pelly (ROH, gennaio 2007, poi portato in giro per il mondo). 

Opera nata nella Parigi del 1840, ancora in piena diatriba transalpina riguardo al rimpatrio da SantElena dei resti (ma c’era chi sospettava che fosse tutto un fake…) di Napoleone. Soggetto che sembrava fatto apposta per tener vivi gli scontri ormai decennali fra le curve rivoluzione-restaurazione.

Opera dal soggetto, neanche tanto scopertamente, filo-napoleonico:

- il 21° reggimento di Bonaparte che occupa il Tirolo governato dalla restaurazione;

- una nobildonna, esponente della restaurazione, che si innamora ed ha una figlia (Marie, fatta passare per sua nipote, onde evitare scandali) da un militare del reggimento francese (Robert);
- Marie che, caduto il padre, è accolta come mascotte dal reggimento e poi salvata da un mortale incidente quasi per caso da Tonio (che è un fiero oppositore dei connazionali restauratori) del quale si innamora;
- la madre di Marie che organizza per lei un matrimonio di interesse per proteggere il suo patrimonio;
- il 21° reggimento che rende giustizia a tutti, imponendo il lieto fine di sapore bonapartista: alla malora la restaurazione, sugli scudi la coppia vivandiera-soldatino.

Insomma, un soggetto solo apparentemente leggero, in realtà assai impegnato (così almeno dovette apparire nel 1840 ai francesi…) al di là dell’approccio comique dell’opera. Il quale però ne ha sicuramente favorito la planetaria diffusione, spesso accompagnata da manomissioni (ma non sempre in peggio…) per adattarla alle diverse piazze e interpreti.

E quanto agli interpreti di questo 2025, già ne conosciamo almeno quattro, emersi da almeno tre produzioni della Scala e della Staatsoper a partire dal 2007. In quell’anno, a febbraio-marzo, il Piermarini ospitò l’opera per l’ultima volta, con la fortunata regìa di Filippo Crivelli (scene e costumi di Zeffirelli) e un Florez scatenato, sotto la direzione di Abel. Proprio Abel diresse due mesi dopo l’esordio della citata messinscena di Pelly a Vienna, sempre con Florez (e la Dessay). Produzione ripresa colà nel 2016, senza Florez ma con la Julie Fuchs diretta da Evelino Pi, con il quale torna in questa ripresa scaligera.

Sapendo quindi tutto dei quattro principali interpreti della messinscena, non ci resta che una curiosità. All’inizio del second’atto compare la Duchessa di Crakentorp, personaggio che dovrebbe essere (come il Notaio) solo recitante, in omaggio al genere Singspiel (detto alla tedesca) dell’opera. Per tradizione lo si fa interpretare – noblesse oblige - ad un noto rappresentante del bel mondo, non necessariamente del teatro musicale.

Ad esempio, nell’ultimo allestimento scaligero del 2007 il privilegio toccò nientemeno che alla somma Anna Proclemer. Nella citata produzione viennese del 2007 Pelly invitò una grande beniamina del pubblico, Monserrat Caballè, alla quale ovviamente fece anche cantare una simpatico walzerino svizzero, 'g Schätzli.

Poi, nel 2016, fu invitata un’altra famosa cantante viennese, Ildikó Raimondi, nota interprete di Johann Strauss, che (a partire da 1h23’08” del citato video) fa il suo ingresso in scena, manda uno spartito al Direttore e canta (1h25’26”) un adattamento di By Strauss di Ella FirzgeraldAncora, nel 2019 al MET, l’ospite fu l’attrice Kathleen Turner.

Così, anche per questa speciale occasione l’invito ha riguardato una cantante che per anni ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo, Scala ovviamente inclusa: Barbara Frittoli. Vedremo quale sorpresa ci riserverà…


30 marzo, 2025

Una divertente opera seria alla Scala

Splendido debutto scaligero (a distanza di soli… 256 anni dalla nascita!) per L’opera seria di Gassmann-Calzabigi, questo melodramma settecentesco che fa un poco da cerniera fra Gluck e Mozart.

Merito di chi decise di proporcelo (tale Meyer…) e di chi ce lo ha servito in tavola scena come meglio non si potrebbe: la premiata coppia Christophe Rousset / Laurent Pelly.

Dico subito che gli inevitabili tagli alla musica riguardano quasi esclusivamente recitativi secchi, mentre gli accompagnati e le arie/concertati (della serie: prima la musica…) sono sostanzialmente rispettati. Rousset (che ha anche accompagnato al cembalo) coadiuvato dall’Orchestra mista Scala – Les Talents Lyriques (24 + 11 elementi) ha apportato pochi ritocchi alla partitura, come l’anticipo dell’aria di Passagallo (I miei balli son tanti miracoli) all’inizio del terz’atto, trasformando quindi la scena marziale del ritorno di Nasercano in un gustoso balletto da avanspettacolo; ha poi sfrondato il finale delle esternazioni singole dei vari protagonisti, chiudendo con il coro Noi giuriamo.

Pelly, da parte sua, ha proposto scene (di Massimo Troncanetti) piuttosto scarne: il primo atto con un semplice fondale a parete con porte dalle quali entrano ed escono i protagonisti che si aggirano in uno spazio vuoto; nel secondo compaiono anche pareti laterali (sempre con porte) a chiudere la scena della prova dell’opera seria; nell’atto conclusivo la prima parte ad Agra ha un’ambientazione esotica orientaleggiante, con palme, tende e la sagoma di un elefante sul quale entra Rossanara, più pochi orpelli che al momento opportuno crolleranno miseramente, provocando l’interruzione dello spettacolo (il cui fiasco è quindi attribuito a regista e scenografo, più che ad autori e cantanti…)

A sipario chiuso si svolge il cambio scena (accompagnato da suoni di arpa che ricordano quelli degli intervalli RAI anni ‘70, con pecorelle e affini) che ci porta nel retro del teatro, dove ritroviamo solo la parete di fondo con le tre porte dei camerini delle primedonne, dalle quali sortiranno anche le rispettive madri per la caotica scena finale.  

Lionel Hoche anima le coreografie, con partecipazione di ballerini (scena ad Agra) e mimi vestiti come diavolacci neri a rappresentare metaforicamente sciagure, imprevisti e contrattempi che affliggono l’ambiente del teatro, oltre che i militari che arrivano alla fine del second’atto a sedare il tumulto creatosi durante la prova.

I costumi, dello stesso Pelly, sono a loro volta una parodia del ‘700, con abiti tutti di color chiaro e forme esageratamente bizzarre, con pochi elementi atti a distinguere fra loro i vari personaggi. Unica eccezione il povero Fallito, abbigliato come un teatrante di oggi (ma con calzoni alla zuava….) Efficaci le luci di Marco Giusti ad illuminare (o oscurare) le varie scene. 

Quanto alla compagnia di canto, mi sento di accomunare tutti indistintamente in un unico giudizio di piena approvazione. Cosa che ha fatto anche il pubblico (folto all’inizio e poi abbastanza smagritosi – affar loro – nei due intervalli) che, rimasto freddino nel primo atto, ha cominciato ad applaudire le arie nel secondo e più ancora nel terzo. Per poi gratificare tutti di almeno 10 minuti di applausi ed ovazioni alla fine dello spettacolo.

Insomma, una proposta di ottimo livello che dà lustro a questa stagione scaligera di transizione.

 

27 maggio, 2016

Il teatro di Ravel alla Scala

 

Dopo un paio di passi (Beffe e Fanciulla) se non proprio falsi certo non entusiasmanti (per me, ovviamente) la stagione della Scala ha ripreso il buon ritmo iniziale con questa gran bella proposta del dittico raveliano, ieri arrivato alla quinta delle otto recite, per la regìa di Pelly e la direzione di Minkowski: vengono infatti appaiate nella stessa serata, come si usa di frequente, le due uniche e brevi opere del musicista francese. Qui vengono eseguite nella sequenza di composizione (prima L’Heure del 1907, rappresentata nel 1911, e poi L’Enfant, iniziata nel 1919 e rappresentata nel 1925) il che permette anche di toccare con... orecchio l’evoluzione stilistica del compositore nel periodo centrale (dai 30 ai 50 anni) della sua attività artistica.

Curiosamente e assai modestamente Ravel non chiamava opere queste sue composizioni: L’Heure è sottotitolata Comédie musicale en un act e L’Enfant reca la dicitura Fantaisie lyrique en deux parties.

Con L’Heure espagnole Ravel si ripromette nientemeno che di colmare una grave lacuna in tutta la produzione musicale francese: l’opera buffa. Secondo lui (lo disse in un colloquio con René Bizet alla vigilia della prima del 1911 all’Opéra Comique) Offenbach aveva fatto in realtà una parodia dell’opera, ma la sua musica, per quanto gradevole, non faceva ridere. Invece Ravel sosteneva di aver cercato accordi volutamente balordi, ridicoli, spassosi, proprio una musica strampalata ed umoristica.

Spagna trasgressiva e orologi: ecco in sintesi tutto il DNA di Ravel - madre iberica e padre di ascendenza rossocrociata - emergere prepotentemente in questo bizzarro lavoro. Il soggetto – tratto da una pièce teatrale di Franc-Nohain (nickname di Maurice-Etienne Legrand) è tipicamente da farsa, essendo basato su un succedersi di situazioni improbabili di sapore boccaccesco, su continui sottintesi e malintesi e sul ribaltamento dei ruoli di tre dei cinque personaggi (i visitatori del negozio di Torquemada e Concepcion). Ecco, già i nomi dei due coniugi che mandano avanti il laboratorio di orologeria (ma anche di meccanismi da automa, stile dottor Coppelius) è tutto un programma: lui, Torquemada, nome terribile di inquisitore e fustigatore di costumi, è in realtà un gran cornuto! Sì, perchè la moglie Concepcion (hai presente l’immacolata? ecco, ci siamo capiti...) lo tradisce ogni santo (!) giovedi con un nuovo spasimante.

I 50 minuti scarsi volano via in un susseguirsi di 21 scenette (2 minuti e mezzo l’una, in media!) dove i 5 personaggi vanno e vengono con la rapidità del... suono. La tabella sottostante dà un’idea del tourbillon cui assistiamo (il simbolo [] accanto al personaggio indica che sta chiuso nella pendola, l’italico sul nome significa che non canta-parla):
   
scena
entrano
escono
in scena
1
Torquemada, Ramiro

Torquemada, Ramiro
2
Concepcion

Torquemada, Ramiro, Concepcion
3

Torquemada
Ramiro, Concepcion
4
Gonzalve
Ramiro
Concepcion, Gonzalve
5
Ramiro

Concepcion, Gonzalve, Ramiro
6

Ramiro
Concepcion, Gonzalve[]
7
Inigo

Inigo, Concepcion, Gonzalve[]
8
Ramiro

Inigo, Concepcion, Gonzalve[], Ramiro
9

Concepcion,  Gonzalve[], Ramiro
Inigo[]
10
Ramiro

Ramiro, Inigo[]
11
Concepcion

Ramiro, Inigo[], Concepcion
12

Ramiro
Inigo[], Concepcion
13
Ramiro, Gonzalve[]

Inigo[], Concepcion, Ramiro, Gonzalve[]
14

Ramiro, Inigo[]
Concepcion, Gonzalve[]
15

Concepcion
Gonzalve[]
16
Ramiro, Concepcion

Gonzalve[], Ramiro, Concepcion
17

Ramiro
Concepcion, Gonzalve[]
18
Ramiro, Inigo[]

Concepcion, Gonzalve[], Ramiro, Inigo[]
19

Concepcion, Ramiro
Inigo[], Gonzalve[]
20
Torquemada

Torquemada, Gonzalve, Inigo
21
Concepcion, Ramiro

quintetto

La trama si può riassumere come una serie di infruttuosi tentativi di Concepcion di amoreggiare con Gonzalve: nella scena 4 (in... scena); nella 10 (fuori scena, in camera); nella 14 (in scena) e nella 17 (in scena, con la rinuncia definitiva). Alla fine amoreggerà con Ramiro, nella scena 19, fuori scena (in camera). 

Una farsa, si diceva: i due spasimanti di Concepcion arrivano come... fornitori (di piacere peccaminoso) dell’insaziabile ninfomane e alla fine se ne vanno come clienti di Torquemada, che gli rifila le due capaci pendole dove avevano trovato rifugio. In compenso, il rude mulattiere Ramiro entra come cliente di Torquemada - per far riparare un orologio da taschino che lo zio torero indossava alla corrida (apperò!) e dal quale, in funzione di scudo anti-cornate, aveva avuta salva la vita – e se ne va come fornitore (sempre di carnali piaceri) della bella Concepcion.

In omaggio al teatro che la doveva ospitare (l’Opéra Comique) Ravel struttura la sua operetta quasi fosse un Singspiel: dove mancano del tutto numeri chiusi (poichè finirebbero per interrompere l’incessante flusso dell’azione) e dove ci sono molti parlati, sia pure sempre con accompagnamento musicale (qui il Debussy del Pelléas ha fatto scuola, evidentemente). Ecco cosa scrive espressamente Ravel in calce alla partitura:

Salvo il Quintetto finale, e, in maggior parte, il ruolo di Gonzalve, che è lirico e con affettazione, dire piuttosto che cantare (finali di frasi brevi, portamento di voce, ecc.) Si tratta, per quasi tutto il tempo, del quasi-parlando del recitativo buffo italiano.

Quanto alla strumentazione, è da grande orchestra, compreso un sarrusofono contrabbasso (specie di controfagotto a doppia ancia) e con corposa batteria di percussioni, fra le quali spiccano anche tre bilancieri da pendola, che si fanno sentire da subito, nell’Introduzione, ticchettando con tre velocità diverse: su un metronomo di 72, il primo batte 40, il secondo 100 e il terzo 232. Si odono anche delle campane di orologi che suonano le ore con ritmi ancora diversi, il jeux de timbres (una specie di xilofono pesante) e i carillon di alcune marionette e automi. Uno di questi suona la tromba (simulata da un corno naturale con suoni armonici); altri si muovono danzando, accompagnati da celesta, xilofono e arpe; il sarrusofono (qui suonato soffiando direttamente nell’imboccatura) imita un galletto meccanico, l’ottavino cinguetta come un uccello delle isole. Ravel trova poi intelligentemente il momento per far cessare tutta questa polifonia di suoni e rumori da orologeria: è quando Ramiro, subito all’inizio della prima scena, informa Torquemada che la sua cipolla ad ogni momento si ferma, ed ecco che anche i tre bilancieri, uno alla volta, a partire dal più veloce, si tacciono, dopodichè taceranno per il resto dell’opera. 

Sul piano della rappresentazione dei personaggi, Ravel non impiega programmaticamente gli ormai classici (da Wagner a Debussy) Leit-Motive: l’opera è ovviamente ricca di spunti melodici, alcuni di carattee lirico, altri più parodistici, ma i personaggi si riconoscono più che altro dai ritmi e dai timbri orchestrali che li accompagnano. Così ad esempio il mulattiere Ramiro si caratterizza per un ritmo che evoca il passo faticoso delle bestie e dalla presenza di sonagli e frusta; ritmo che si modifica, appesantendosi, quando il poveraccio deve prendere in spalla le pendole occupate da... passeggeri. Gonzalve, poeta piuttosto vanesio e cui fa difetto qualunque concretezza, è quasi sempre accompagnato da evanescenti e iridescenti arabeschi dell’arpa (la lira del poeta) mentre il suo canto-recitato, con frequenti stucchevoli vocalizzi, poggia prevalentemente su classici ritmi spagnoleggianti. Ad Inigo sono effettivamente attribuite alcune cellule motiviche che ne evocano la personalità piuttosto dissociata fra l’ostentazione di potere (lui è un ricco e influente banchiere) e la consapevolezza della sua scarsa attrattività fisica (obesità ed età anagrafica). I due coniugi si muovono musicalmente sui bizzarri motivi uditi nell’Introduzione, che evocano la polifonica bottega e i suoi orologi.         
___
L’allestimento di Laurent Pelly viene direttamente da Glyndebourne-2012, ma remotamente da Parigi-2004 (qui quella produzione con Ozawa). Rispetto ad allora poche, anzi pochissime sono le differenze a livello esteriore.

Di quell’ormai lontano allestimento porta oggi la testimonianza alla Scala il Torquemada di Jean–Paul Fouchécourt, tenore-buffo (trial, come indicato in partitura, dal cantante settecentesco Antoine Trial, specialista in questi ruoli). Più che buona ancor oggi la sua prestazione. Certo, se un’opera musicale è programmaticamente orientata al dire piuttosto che al cantare, sarà poi difficile giudicare il canto! Comunque tutti han fatto del loro meglio: metterei al primo posto Vincent Le Texier, un solido Inigo; poi il Ramiro di Jean-Luc Ballestra e quindi i due mancati amanti Stèphanie D’Oustrac e Yann Beuron.

Dato che il protagonista musicale qui è l’orchestra, diamo atto a Marc Minkowski di averla guidata con sensibilità nel rendere al meglio l’impressionismo della partitura.

Calorosi applausi per tutti, da un teatro con i soliti buchi, ma non più del... solito.
___
L’Enfant et les sortilèges nasce dalla collaborazione fra Ravel e la scrittrice-danzatrice Colette (Sidonie-Gabrielle Colette). Costei, divorziata da Henry Gauthier-Villars nel 1906 e madre di una figlia avuta nel 1913 da Henry de Jouvenel, aspira a far rappresentare all’Opéra un balletto per la figlia (Divertissement pur ma fille) di cui aveva ideato la trama. Riesce quindi a convincere il Direttore del teatro, che propone l’ingaggio di Ravel – che lei già ben conosce - per le musiche, così lei si mette al lavoro sul testo (attorno al 1915). Ma il compositore è partito per il fronte e non potrà prenderne visione prima del 1917, ricavandone peraltro un’impressione non proprio entusiastica: si dice per la ragione che lui non aveva una figlia, ma probabilmente perchè era ancora sotto lo choc per la recente perdita della madre. Ma proprio il ruolo che la madre ha nel soggetto di Colette finisce per spingere Ravel ad accettare e addirittura a proporre un upgrade di genere: il balletto diventerà un’opera musicale con il titolo definitivo. Colette ne è entusiasta e Ravel comincia a pensarci fin dal 1919, ma assai a rilento, tanto che finirà il lavoro soltanto nel 1924. La sede della rappresentazione nel frattempo viene trasferita dall’Opéra di Parigi a quella di Montecarlo, dove la prima – un successo clamoroso! - avrà luogo sabato 21 marzo 1925, con Victor de Sabata sul podio. La ripresa a Parigi nel 1926 – con accoglienza peraltro meno calda - sarà ancora (come per L’Heure) all’Opéra comique

Il soggetto è sinteticamente inquadrabile come il processo di iniziazione del bambino al rispetto delle regole della società, anzi della natura, dopo la sua iniziale, violenta ribellione. Presa di coscienza che inizia già alla costernazione di fronte alla tazza cinese, da lui mandata in mille pezzi; poi prosegue con l’arrivo dei pastorelli, il cui mondo lui aveva devastato strappando la tappezzeria; poi con l’incontro con la Principessa, di cui lui ha distrutto l’esistenza, insieme al libro che ne ospitava la fiaba. Ma il percorso più duro arriva nel giardino, con l’incontro con l’albero, da lui ferito con il coltello; poi con la libellula in cerca dell’amata, da lui inchiodata contro il muro; poi ancora con il pipistrello, di cui il bambino ha ucciso la compagna, che ora non può più nutrire i piccoli; e con lo scoiattolo, da lui ferito nella gabbia in cui era rinchiuso. Alla fine, quando tutti gli animali e gli alberi si accaniscono sopra di lui per punirlo, ecco l’estremo gesto di umanità: il bambino fascia con il suo nastro la zampetta ferita di uno scoiattolo, così meritandosi il perdono e l’amore di tutto il creato. Maman è l’ultima parola che esala sul calare del sipario, SI-FA#, la quarta giusta che è un po’ la sigla dell’opera.  

A proposito di note, si diceva più sopra di un’evoluzione dello stile di Ravel rispetto a L’Heure, e L’Enfant ne è la chiara testimonianza. Si tratta principalmente del ritorno (non certo regressivo!) alla melodia e al dominio del canto (un’operetta all’americana la definì lui stesso). Per carità, non siamo certo alla riedizione dei numeri chiusi del ‘700-‘800, ma poco ci manca... Ravel impiega in quest’opera una ben rifornita cassetta degli attrezzi: si va dagli arcaismi del madrigale e del rigodon fino al moderno rag-time, passando per minuetto, valzer, marcia e polka, ma senza escludere persino un paio di arie, un lascivo duetto (di gatti in amore!) e le più virtuosistiche colorature-à-la-Rossini.

Il frontespizio del libretto reca la dicitura in due parti, che poi sarebbero: l’interno della casa e il giardino. Ma salvo la corona puntata che chiude la scenetta dei gatti, in effetti fra le due parti non c’è musicalmente soluzione di continuità, ed anche il cambio di scena, contemplato in partitura, consiste semplicemente nel far rimuovere le tre pareti della stanza in modo da trasformare il palcoscenico nel giardino antistante la casa. Il lavoro è internamente suddiviso in scene (anche se il termine tecnico non compare mai) secondo una struttura rappresentata qui sotto, che ne riporta i numeri di riferimento della partitura e le caratteristiche musicali salienti:    

scena/personaggi
tempo
genere/ritmo




bambino
2
tranquillo

mamma
3(+4)
più animato – allegro

bambino
7
presto - agitato

poltrona-divanetto
17(-4)
lento maestoso
minuetto
orologio
21
allegro vivo
ostinato
teiera-tazza
28
allegro non troppo
rag-time
fuoco
39
allegro - moderato
aria di bravura-coloratura
pastori-pastorelle
50
moderato – più lento
ostinato – pastorale - balletto
bambino-principessa
62
moderato – lento – animato - andante
recitativo (P) – aria (B)
vecchietto-cifre
75
presto - prestissimo
polka - canone
bambino-gatta-gatto
95
adagio – andante
duetto d’amore




giardino
100
andante

raganelle
101
andante

albero-alberi
103
andante

libellula
105
valse lente
valzer
libellula-sfingi
107
valse americaine
valzer
libellula-usignolo-raganelle
109
valse americaine
valzer
pipistrello
113
abbastanza vivo
valzer
raganelle (danza)
117
abbastanza vivo
valzer - balletto
scoiattolo-raganella
129
moderato – lento
valzer
bambino-scoiattolo
131
andante

scoiattolo-bambino
132
valse lente
valzer
animali-alberi
136(-3)
vivo
marcia
animali
140
lento

animali
142
meno lento – acceler.
rigodon
animali
150
andante
madrigale

L’orchestra è sempre quella ottocentesca, ma con corposa presenza di percussioni, fra le quali curiosamente compare – nella scena teiera-tazza - una grattugia per il formaggio (!) da suonare grattare con lo stilo del triangolo.

L’opera contempla una miriade di personaggi principali: sono ben 21, più 10 cantati dai cori. 16 dei 21 principali sono interpretati da 7 cantanti, che assumono 2 o 3 ruoli diversi, come si evince dalla tabella sottostante, che mostra anche le poche e piccole deviazioni praticate in questa edizione alla Scala:

Ravel
Scala
Fuoco
Principessa
Usignolo

tassativamente (soprano leggero)
=
=
=
Aritmetica (il Vecchietto)
Raganella

tassativamente (tenore)
=
=
+ Teiera
Mamma
Tazza cinese
Libellula

opzionalmente (contralto)
=
=
=
Poltrona Bergère
Gufo
opzionalmente (soprano)
=
Pipistrello
Gatta
Scoiattolo
opzionalmente (soprano)
=
=
Orologio a colonna
Gatto
opzionalmente (baritono)
=
=
Divanetto
Albero
opzionalmente (basso)
=
=
Bambino
mezzo-soprano
=
Pipistrello
soprano
Gufo
Pastorella
soprano
=
Pastore
contralto
=
Teiera
tenore
con Vecchio e Raganella

___ 
L’allestimento di Pelly, sempre ripreso da Glyndebourne, è assai accattivante, nel rispetto quasi assoluto del libretto e delle didascalie: scene con suppellettili sempre ingigantite, come cioè viste da un bambino di 6-7 anni, e costumi e luci assai efficaci a scolpire i diversi personaggi e soggetti antropomorfi che si agitano in scena. Assai poetico il finale con animali (e anche alberi, con uno strappo al libretto) che riabilitano il bambino ribelle sotto gli occhi della mamma.

Minkowski ha tolto le briglie all’orchestra, mettendo in risalto la lussureggiante strumentazione raveliana e le mille diverse sfumature che caratterizzano i sortilegi di cui il bimbo protagonista è circondato.

I cori hanno una parte di primo piano e a Mario Casoni va il merito di averli preparati a dovere: una menzione particolare va ai piccoli dell’Accademia, che si sono affiancati ai grandi del complesso principale, bravissimi in special modo nell’impersonare le cifre nella scenetta dell’aritmetica.

Tutte da elogiare le voci soliste, a partire da quella della protagonista Marianne Crebassa, interprete ideale del piccolo ribelle. Poi a quella di Armelle Khourdoïan, splendida Principessa, ma anche vivacissimo e virtuosistico Fuoco.  
  
Jean–Paul Fouchécourt ha rivestito delle sue doti di tenore buffo la spiritata apparizione dell’aritmetico Vecchietto, dopo quella della minacciosa quanto ridicola Teiera albionica. Delphine Haidan è stata un’efficace e patetica Libellula, oltre che una severa Mamma e una risentita Tazza.

Jean-Luc Ballestra e Stéphanie D’Oustrac hanno impersonato la coppia di felini, davvero divertenti nei loro miagolosi approcci; lui ha anche impersonato l’Orologio e lei è stata commovente come Scoiattolo. Altrettanto strappalacrime il Pipistrello di Anna Devin, che in precedenza si era travestita da... poltrona Bergère, in coppia con il Divanetto di Jerôme Varnier, tornato poi come patetico Albero.

Le tre soliste dell’Accademia (Fatma Said, Chiara Tirotta e Elissa Huber) si sono ben disimpegnate nei rispettivi ruoli. Così come i sei solisti del Coro (due soprani, un mezzo, un contralto, un tenore e un basso) che cantano parti piccole ma in primo piano, come animali, nella penultima scenetta.

Al termine convinti applausi per tutti indistintamente, a degno coronamento di una bella e divertente serata.