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04 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#8

Lungo la strada delle Sinfonie mahleriane siamo arrivati alla Quinta. Che è stata affidata (alla quarta replica in 4 giorni!) alle mani premurose di Robert Treviño a capo della OSN-RAI. Nelle cui file milita da qualche tempo la tromba di Alex Caruana, storica prima parte de laVerdi. (Giovedi scorso si era rivisto anche Max Crepaldi, primo flauto passato da pochi anni alla Scala. Dove alberga anche Eriko Tsuchihashi, che per anni fu la vice-Santaniello. Segno che la fucina di Largo Mahler sforna ottimi prodotti!)

Rispettando l’impaginazione del concerto dell’OSN, l’apertura è affidata a Charles Ives e alla sua breve The unanswered Question, che con Mahler ha qualche affinità… cronologica (è del 1908). Qui Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi:

1. l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) con valore di note che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima;

2. la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e

3. la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni (una di queste è del Direttore Treviño, intervistato prima dell’esecuzione torinese) ma, trattandosi di musica, a qualcuno questo breve brano apparve come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi a quel 1908, e quindi contenere un messaggio profetico abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica del futuro avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza. Nel 1973 il grande Lenny Bernstein apriva così il suo ciclo di lectures ad Harvard, intitolato precisamente al brano di Ives, e lo concludeva esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche!

Anche qui è stata proposta la stessa scenografia torinese: buio completo (salvo le lucine sui leggii), tromba solista (Roberto Rossi) fuori dalla sala e i flauti in balconata. L’effetto scenografico è sicuramente suggestivo, quello musicale (al netto della qualità degli esecutori) francamente discutibile. 
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La Quinta mahleriana è normalmente etichettata come la prima di un ciclo di tre (insieme a Sesta e Settima) perchè segnerebbe il punto di dipartita di Mahler dal fanciullesco-folklorico mondo del Wunderhorn al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con e/o senza voce) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore.

La Quinta segnerebbe quindi l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio l’impiego del contrappunto e quello del Rondò). E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi. Anche il prezioso libro Tutto Mahler, curato da Gastón Fournier-Facio in occasione del Festival, indirettamente avalla questa tesi, separando il Capitolo dedicato alla Quarta da quello che tratta della Quinta con un Intermezzo sui Lieder di Rückert.

Peccato che si tratti di una tesi ampiamente contraddetta (non certo da me, ma da personalità quali Ugo Duse, autore della prima e ancor oggi fondamentale monografia italiana su Mahler; e da H.L. de La Grange, che su Mahler ha scritto qualcosa come 3600 pagine!!!) proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi per iscritto già ai tempi della composizione di quei precedenti lavori, addirittura dai tempi della Terza (!) come documenta un abbozzo della struttura della Quarta Sinfonia che Mahler chiamò Humoreske, sei movimenti, di cui solo il primo, il terzo e l’ultimo restarono poi nella Quarta; degli altri: Das irdische Leben fu espunto, Morgenglocken divenne il 5° movimento della Terza; e Die Welt ohne Schwere diverrà lo Scherzo della Quinta!

Dove poi troviamo quelle iniziali terzine di trombetta che già avevano fatto una fugace comparsa nel primo movimento della Quarta, alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Come detto, lo Scherzo in RE maggiore fu pensato in origine come 5° movimento della Quarta sinfonia…

Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che la marcia funebre del primo movimento richiama quelle dei tamburini del Wunderhorn (di Revelge poi è una chiara citazione nel finale, al numero 29 negli strumentini). Inoltre, il quinto ed ultimo movimento riprende esplicitamente Lob des hohen Verstandes (l’acuta intelligenza di un... asino!) sempre dal Wunderhorn. 

E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta, poi (surrettiziamente) con l’Ottava, e infine con la Nona, mantenendo invece per Settima e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale nel secondo movimento, l’interminabile tiritera del corno obbligato nello Scherzo (parente di quella della cornetta da postiglione della Terza) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...    

È ben vero che Mahler stesso parlò più volte, a proposito di quest’opera, di un suo nuovo stile, che peraltro non si manifestò mai compiutamente, se già prima della pubblicazione Mahler mise drasticamente mano all’orchestrazione (percussioni, in particolare) sull’onda delle pesanti critiche di Alma! E se ancora dopo il Lied von der Erde e la Nona Mahler si vide costretto ad altri ritocchi.

Insomma, suddividere la produzione di Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo (evoluzione vs rivoluzione) quasi che i Lieder, le dieci Sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico. 

Chiudo riproponendo alcune citazioni e aneddoti riguardanti questa Sinfonia.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell’incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: “Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l’originalità né dell’uno né dell’altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest’altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L’idea di un’esecuzione a Torino è da scartarsi.” 

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

A proposito di Richard Strauss, ecco il suo giudizio, positivo, ma con qualche frecciatina. Scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: “La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un’immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po’ troppo lungo…

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: “La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l’Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria.

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O.T. Se ascoltiamo l’intervista di Susanna Franchi a Treviño dobbiamo rilevare un clamoroso lapsus dell’intervistatrice, che nella sua traduzione dall’inglese mette in bocca al Maestro una grande stupidaggine: tutta la Sinfonia sarebbe in tonalità Maggiore (!?) Quando è chiaro che il malcapitato Treviño si sta riferendo solo all’ultimo movimento! (Ed è la RAI ancora non impoverita da Meloni&C…)

Ormai dal Maestro mexico-texano ci possiamo solo aspettare grandi cose, e questo pomeriggio siamo stati del tutto accontentati! Del resto già l’ascolto dell’esecuzione torinese aveva mostrato la qualità del Direttore e della sua lettura dell’opera, oltre a quella, scontata, dell’Orchestra. Oggi addirittura mi pare di aver sentito ulteriori miglioramenti, e non saprei proprio trovare nemmeno il classico pelo nell’uovo.

Alla fine pubblico (oceanico) in autentico delirio, con ovazioni speciali per il corno di Ettore Bongiovanni e la tromba di Roberto Rossi.

01 ottobre, 2012

Peter Eötvös fa parecchio rumore alla Scala


Il concerto di ieri sera della Filarmonica (Peter Eötvös sul podio, in un Piermarini non propriamente affollato) era di quelli che richiedono, oltre che orecchie ben allenate, anche grandissime doti di sopportazione e spiccata propensione al sacrificio. Dico, un programma dove il brano più abbordabile è un concerto di Bartók non lo si dava nemmeno ai tempi di Abbado e della rieducazione forzata alla musica contemporanea (smile!) Mi si obietterà: ma allora, che ci sei andato a fare? sei proprio masochista. Al che rispondo: più o meno… sono uno che fa i fioretti (così li chiamava mia nonna) per guadagnarsi il paradiso (stra-smile!)

La prima parte del concerto – tutto sommato digeribile – ha presentato Ives e Bartók, due rappresentanti (soprattutto il secondo) di quel novecento che cercava vie nuove in musica senza uscire (troppo) dall'ambito delle regole sintattiche e semantiche della tonalità.

In The unanswered question (1908) Charles Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi: l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente con valore di note (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima; la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni ma, trattandosi qui di musica, a me questo breve brano appare come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi, e allo stesso tempo contiene un messaggio abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica cosiddetta moderna avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza

Intanto cominciamo ad osservare la partitura (qui siamo alla quinta risposta) che ci dice cose interessanti:

Gli archi (la quiete cosmica) si muovono su accordi perfetti (per lo più di SOL maggiore, ma anche DO, FA): già questa è una chiara presa di posizione dell'Autore riguardo al ruolo dell'armonia classica, che secondo lui preesiste e sopravviverà alle domande e alle risposte!

Si noti che la tromba - che espone la domanda - ha il rigo sempre perfettamente allineato a quello degli archi (vale a dire che è comunque rispettosa almeno delle universali regole di convivenza); mentre i flauti che cercano la risposta entrano (e proseguono) sempre più fuori tempo (apperò!)

Tornando alla domanda: a ben vedere non è formulata sempre allo stesso identico modo; basta osservare le 7 forme che assume per notare piccole, ma significative differenze:


Tanto per cominciare, l'ultima nota del motto non è sempre la stessa: per tre volte (1-3-5) è il DO, per 4 volte (2-4-6-7) è il SI (peraltro noto che molti direttori, compreso Eötvös, fanno chiudere l'ultimo richiamo sul DO… vai a sapere se è una diversa versione dell'Autore); le altre quattro note sono assai dissonanti rispetto all'armonia cosmica sottostante, però grazie all'enarmonia si possono leggere come gradi della scala maggiore di SI (sensibile, sopratonica, sottodominante, mediante); e mentre c'era stato per le prime 6 domande un regolare alternarsi della chiusura su DO e SI, l'ultima domanda - alla quale i flauti, caduti nella più completa disperazione, non sapranno più nemmeno provare a dare risposta – si chiude ancora sul SI: guarda caso la mediante di SOL, quindi in consonanza perfetta con l'accordo perfetto di SOL degli archi che si perde nelle profondità cosmiche!

Non c'è bisogno di sottolineare come invece tutte le note delle risposte dei flauti siano, oltre che disallineate e dissonanti con il pedale degli archi, anche dissonanti fra loro, cioè intrinsecamente estranee all'armonia tradizionale, anche la più… forzata. E addirittura l'ultima loro risposta isterica inizia scimmiottando la domanda medesima (questo lo vedo proprio come il finale sberleffo che Ives riserva al loro disordinato agitarsi…)

Guarda caso, nel 1973 il grande Lenny Bernstein chiudeva il suo ciclo di lectures 
ad Harvard intitolato al brano di Ives (sono 6 lezioni, di cui almeno la quinta e la sesta chiunque voglia documentarsi sull'evoluzione della musica nel secolo scorso dovrebbe impararsi a memoria…) esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche
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Eötvös dispone i 4 flauti davanti a lui, gli archi assai dietro e la tromba nel palco reale. Tiene – direi apprezzabilmente - tempi assai larghi e ottiene dagli archi un bel pianissimo (ppp) sul quale spicca spettralmente il suono della tromba. Esecuzione direi proprio impeccabile.

Ecco poi Bartòk con il suo Secondo concerto per pianoforte, interpretato dal 55enne Pierre-Laurent Aimard. Il quale si tiene, cosa piuttosto insolita per un solista, lo spartito sul leggìo. Così come è insolita – ma mi sentirei di approvarla, date le caratteristiche della partitura – la disposizione dell'orchestra: grancassa, tamburi, triangolo e timpani al proscenio, a sinistra; ottoni davanti a destra: legni davanti al podio; e gli archi sul fondo.

Esecuzione che non mi è dispiaciuta, direi senza infamia né lode (ma certo la coppia Boulez-Pollini di un paio d'anni fa mi aveva fatto tutt'altra impressione!) 

Dopo l'intervallo, arrivano… gli esercizi spirtuali (smile!)

A cominciare proprio dal brano del Direttore, zeroPoints. Incredibile, ma vero: è lo stesso autore a certificare il suo obiettivo di rappresentare in musica (anche) i rumori, come ad esempio i fruscii prodotti dalle puntine dei vecchi giradischi! Cioè a pretendere di portare a livello artistico di musica ciò che è semplicemente un aspetto fastidioso della tecnologia, che con tanta fatica la tecnologia medesima ha cercato di eliminare (lo stesso principio guidava Stockhausen a comporre assurdità musicali, anzi propriamente rumoristiche, come l'Helicopter-Quartett!) 

Poi, da buon austro-ungarico, il nostro ci infila anche un po' di walzer, che non guasta. Una cosa è certa: deve trattarsi di musica assai difficile, se persino il suo Autore la deve dirigere sfogliando la partitura! A me – con tutto rispetto - sembra musica che lascia la domanda di Ives senza risposta (smile!)

La conclusione del concerto era affidata a Edgard Varèse, che con Amériques 
pretese a sua volta di far passare per musica seria un'accozzaglia di motivi (impossibile chiamarli temi) presi dai suoni che il nostro sentiva entrare dalle finestre del suo appartamento, o che giungevano alle sue orecchie da bar, locali notturni o kermesse di strada in quel di Manhattan. Così sentiamo echi zigani, spagnoleschi, indiani, mescolati al suono di sirene dei docks o delle auto della polizia. Magari il tutto rivisto in sogno (o incubo, forse) e messo sul pentagramma senza apparente logica, né narrativa. 

Un brano che dura 23 minuti, ma potrebbe indifferentemente durarne 230, oppure – e per me sarebbe già troppo, smile! – due e trenta.

In questi casi è difficile separare in modo chiaro l'applauso doveroso per i Musikanten (che magari pure si divertono a suonare roba come questa) dal pollice verso per l'Autore. Così non è chiaro se i bravo che scendevano dal loggione erano indirizzati a direttore e orchestrali o – post mortem – anche al povero Varèse. Nel dubbio, mi tacqui. (E spero soprattutto che mia nonna avesse ragione…)