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18 giugno, 2023

Torna al Piermarini il Macbeth di Livermore

Ieri sera la Scala ha ospitato la prima di Macbeth nella produzione che allietò (beh, insomma…) il SantAmbrogio2021, allora firmata da Chailly-Livermore. Oggi resta solo il regista, mentre il concertatore è quel Giampaolo Bisanti che poco più di un anno fa esordì brillantemente in Scala con Adriana.

Rispetto al 2021 tornano anche il protagonista Luca Salsi (per alcune recite), Ekaterina Semenchuk e Jongmin Park (allora cantarono l’ultima recita al posto di Netrebko e Abdrazakov) e la figura di contorno del Medico (Andrea Pellegrini). Più avanti si rifarà viva anche la divina Anna (cui nessuno chiede più abiure contro il macellaio Putin…)

La messinscena di Livermore (parlo per me, ovviamente) era già piuttosto deludente (e pure… vecchia) al suo primo apparire, e in questi 18 mesi non poteva certo ringiovanire, perciò lasciamola pure al suo destino e parliamo di musica.

Partendo dalla direzione di Bisanti, che evidentemente ha fatto tesoro della strada aperta nel 2021 da Chailly, mettendo in risalto, e sempre in modo appropriato, ogni dettaglio della partitura, mai andando sopra le righe anche quando vi fa capolino la proverbiale vanga di Verdi; e guidando/accompagnando le voci con equilibrio e… rispetto. L’orchestra ha confermato il suo stato di grazia, in tutte le sezioni e nei singoli.

Lode piena ai coristi di Malazzi e alle due soliste del coro di voci bianche: in questo repertorio non hanno uguali!

Luca Salsi ovviamente non è una sorpresa, ma una certezza: non una sbavatura nella sua voce, varietà di accenti e piena immedesimazione nel ruolo. Per lui ancora un gran trionfo e apprezzamenti incondizionati.

Ekaterina Semenchuk è ormai una veterana nel ruolo, che ha cantato in giro per il mondo. Si può discutere se la sua voce da mezzo sia più o meno adatta alla parte (chi predilige una Lady autoritaria e sfacciata l’apprezzerà, chi preferisce una Lady complessata e insicura avrà qualche riserva e… aspetterà la Netrebko) ma insomma, meglio l’abbondanza che la carestia, ecco. Trionfo anche per lei.

Jongmin Park, da ex-accademico è ormai diventato quasi un veterano alla Scala (fra l’altro in questi giorni, accanto a quelli di Banqo, ha ancora nel suo camerino anche i panni di Vodnik…) ha messo in luce i suoi pregi (una voce davvero imponente) e magari il difetto di non gestirla ancora al meglio, sconfinando talora in schiamazzi poco verdiani, ecco. Certo, Abdrazakov è altra pasta, tuttavia mi sento di dare ampia sufficienza al 37enne basso coreano, che non può che migliorare ancora. E il pubblico mi pare sia stato ancor più buono con lui.

IIl Macduff di Fabio Sartori merita a sua volta un voto ampiamente positivo: la parte non è certo proibitiva, avendo solo un paio di momenti topici (l’aria e il finale) ma proprio per questo va lodata la professionalità del tenore, che ci ha messo il meglio di sé.

Malcom era Jinxu Xiahou, che mi aveva lasciato una buona impressione nel suo Tebaldo (Capuleti, 2022). E ieri l’ha pienamente confermata, guadagnandosi calorosi applausi.

Gli altri comprimari (Marily Santoro, dama; Leonardo Galeazzi, domestico; Costantino Finucci, araldo/apparizione; e il citato e redivivo Andrea Pellegrini) han fatto del loro meglio per completare l’opera.

Alla fine convinti applausi per tutti, con punte per Salsi, Semenchuk e Bisanti. 

11 dicembre, 2021

Il Macbeth distopico

 

Livermore parte come se dovesse proporci un Macbeth di... Livermore (tipo la sua personale versione mafiosa dei Vespri siciliani) ambientato nel mondo della criminalità organizzata: è precisamente ciò che ci mostra proprio nelle prime sequenze dell’opera: due eroi salvatori della patria (hanno appena sbaragliato gli sbifidi cugini annessionisti inglesi) trasformati in due sicari alle prese con ceffi della cosca rivale! Apperò!

Certo, a parte i suoi Vespri, di trasposizioni di vicende che comportano scontri fra poteri (o fra uomini di potere) in squallide faide fra mafie e camorre ne abbiam viste a josa e non ce ne stupiamo più. Resta il fatto che trattasi di trasposizioni solo apparentemente intelligenti, in realtà superficiali e volte a stupire a buon mercato lo spettatore. Perchè, per quanto autoritari, assoluti, dispotici, sanguinari e ospiti di trame oscure per la conquista del potere, ambienti come la Corte di Scozia e quella d’Inghilterra hanno pur sempre lo status di istituzioni pubbliche: le mafie sono cose ben diverse e rispondono a tutt’altre regole.

Anche il castello di Macbeth è arredato pericolosamente in stile Casamonica, ma poi l’arrivo del Re e il suo indirizzo ai notabili sembrano rimettere un po’ le cose a posto, come se il regista fosse rinsavito (magari dietro consigli amichevoli) e così da lì in poi siamo tornati (quasi) a Shakespeare e ad una sana e corretta (si fa per dire, ma queste - come argutamente ci ricorda la Lady - erano le medievali usanze che noi scafati del terzo millennio non esitiamo a perpetuare) lotta per il potere. Però che il nuovo Re venga mostrato mentre personalmente organizza nei dettagli l’agguato a Banquo è cosa ridicola sia nei palazzi del potere che in quelli delle cosche: Piave e Verdi ci avevano spiegato tutto assai chiaramente poco prima, senza bisogno di queste didascaliche trovate del regista.   

Non ci scandalizziamo comunque se i costumi sono moderni (le armi un po’ meno, a dir la verità, ma d’altronde sostituire gli spadoni con pistole con silenziatore manderebbe in vacca mezza trama, vedi la visita della Lady sul luogo del delitto e soprattutto la sua aria del sonnambulismo, dove lei si gratterebbe... i residui di polvere da sparo) e se le scalate al potere (e conseguenti ricadute) avvengono in ascensori ottocenteschi.

Macbeth è un’opera che tratta di archetipi, non di banali storie medievali, quindi per definizione attualizzabile all’oggi. E sul versante, diciamo, politico, l’attualizzazione di Livermore è addirittura fulminante: la scena dell’esodo dei poveri Scots pare presa da un telegiornale di questi giorni che ci manda le immagini dal confine bielorusso-ukraino!

Peccato che invece Livermore non abbia pensato ad un parallelo altrettanto fulminante fra la creduloneria di Macbeth e consorte e quella di certi no-vax nostrani che si fidano di moderni stregoni... restando pedestremente fedele alle medievali streghe di Shakespeare.

L’opulenza dei mezzi impiegati ha garantito uno spettacolo epidermicamente godibile, ma in teatro assai meno che in TV (questo forse spiega i buh della prima... ieri il regista ha preferito non esporsi.) Ma del resto il grosso degli incassi di questa produzione è previsto arrivi dai diritti TV, dalla vendita di DVD e soprattutto da generose elargizioni degli sponsor, non certo dal botteghino dei teatri!

In definitiva, un allestimento che definirei in-significante, nel senso proprio del termine: che non apporta significati (e meno male che non ne apporta di diametralmente opposti rispetto all’originale). Uno spettacolo tutta forma e poco contenuto, applicabile probabilmente al 95% almeno delle opere di teatro musicale, da Rigoletto a Tristan.
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Le scelte filologiche di Chailly (ballabili e arioso finale di Macbeth) devo personalmente censurarle: che sia grande musica è fuor di dubbio, ma i 10 minuti di pantomima a casa delle streghe sono insopportabili come le fermate impreviste dei Frecciarossa in aperta campagna: magari hai di fronte un bel panorama, ma ti scoccia maledettamente di stare immobile (invece di andare a 300 all’ora per arrivare in 3 ore da Roma a Milano) e di farti sorpassare da un intercity scalcinato!

Quanto al Mal per me (ho potuto appurare navigando qua e là che Abbado effettivamente lo fece cantare a Cappuccilli nel 1975 e sul tema rimando i curiosi all’appendice al post) se Verdi nei 36 anni che gli restarono da vivere (dal 1865) mai tornò sulla decisione di reintrodurlo, una ragione ci sarà pure, credo. Ad esempio che non volle dare al personaggio quel risvolto patetico e strappalacrime - tanto melo-drammatico quanto anti-shakespeareiano - che si concede normalmente al tenore che, con la spada ancora conficcata nel petto, si rialza per cantare eroicamente l’ultima aria dell’opera! (Giustamente, invece, Otello quel regalo se lo meriterà...)

A giustificazione di questa scelta, Chailly cita un ritorno motivico fra il Preludio e le ultime battute dell’aria: sul verso Vil corona, vil corona... si odono due schianti orchestrali (FA minore - DO maggiore, tonica-dominante) che vengono dalle battute 24-25 del Preludio, dove separano l’esposizione del primo tema (quello delle Streghe) dal secondo (quello che introduce nel quart’atto il sonnambulismo della Lady). A me pare francamente una motivazione piuttosto debole: quelle due battute hanno una ben precisa funzione sinfonica nel Preludio, indipendentemente dal loro ritornare o meno nel corpo dell’opera.

Sul piano della direzione e concertazione nulla da dire, anzi molto, e tutto in positivo: all’appropriatezza delle agogiche (stacco di tempi) già positivamente giudicabile in TV si aggiunge l’attenzione alle dinamiche che il Direttore gestisce con assoluta cura, bilanciando sempre al meglio il suono della buca con il canto che arriva dal palco. Un lavoro di scavo nei dettagli della partitura che gli fa onore e gli merita l’applauso incondizionato che il pubblico (quasi da tutto-esaurito) gli ha tributato al rientro ed alla fine. Naturalmente è l’Orchestra poi a realizzare praticamente l’approccio interpretativo del Direttore, e anche ieri gli scaligeri hanno dato il meglio di sè: l’oboe di Fabien Thouand e il violoncello di Sandro Laffranchini sono le punte dell’iceberg di una prestazione davvero sontuosa.

Altrettanto dicasi del Coro di Alberto Malazzi, perfetto sia nel padroneggiare i complessi passaggi delle stregonerie che i grandi concertati che costellano la partitura. I piccoli del pensionato Bruno Casoni si sono pure fatti valere. Vengo alle voci, alle quali deve aver giovato l’esperienza della prima, nel senso di mettere ulteriormente a punto i rispettivi ruoli.

Luca Salsi ormai lo conosciamo bene (personalmente ho sentito dal vivo almeno tre suoi Macbeth, incluso quello del 1847) e anche ieri non si è smentito, riempiendo gli ampi spazi del Piermarini con la sua voce calda e penetrante, accompagnata da sapienti sfumature espressive.   

Anna Netrebko, un filino trattenuta a SantAmbrogio, ieri pare essersi liberata di paure e complessi e ha sfoggiato tutta la sua classe: si dice che Verdi volesse un’interprete più teatrale che musicale... beh, ascoltandola ieri forse si sarebbe ricreduto, ecco.

Ildar Abdrazakov ha iniziato, chissà, magari ancora un poco freddo, con un eccessivo vibrato, ma poi è uscito da par suo e ha dato spessore al suo ruolo, per di più facendo anche (come pretendeva Verdi) il morto che cammina (e, nella pantomima, si trascina pure il pargoletto attaccato al piede!)

Francesco Meli ha una parte effettivamente concentrata sull’aria e su un paio di concertati: ci ha comunque messo tutto se stesso, dando il suo prezioso contributo all’alto livello musicale di questa produzione.

Iván Ayón Rivas (lo sentivo dal vivo per la prima volta) è stato una bella sorpresa e credo che abbia tutte le carte in regola per far molta strada.

Chiara Isotton e Andrea Pellegrini rappresentano altre due perle di questa produzione: che si può permettere due voci così sontuose per due ruoli - sul piano quantitativo, sia chiaro - davvero marginali.

Tutti all’altezza del compito gli altri comprimari.

Che dire in conclusione? Un Macbeth musicalmente al top. Uno spettacolo tutto fumo e poco arrosto. Pubblico prodigo di ovazioni e - per mancanza di... bersagli - niente buh.
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Il giallo della morte di Macbeth in Abbado-Strehler   

Chailly, assistente musicale di Abbado ai tempi delle rappresentazioni scaligere del ’75-‘76, riferendosi alla sua odierna decisione di inserire prima del finale l’aria della morte di Macbeth (Mal per me...) cita proprio il precedente di 46 anni fa. Ma quell’aria fu davvero cantata (da Cappuccilli) sulla scena?

Ovviamente esisteranno molti testimoni oculari-auricolari dentro e fuori dal teatro che potrebbero confermarlo (o meno) ma chi, come il sottoscritto, non ebbe la ventura di assistere a nessuna di quelle rappresentazioni e deve quindi accontentarsi di ciò (moltissimo, ma non tutto) che passa il convento la rete, può interrogare principalmente le seguenti fonti informative: youtube, google-search, archivio storico della Scala e siti internet che vendono registrazioni ufficiali o più o meno rapinate (tipo diffusioni radiofoniche o simili).

L’Archivio storico della Scala ci fornisce intanto le seguenti informazioni ufficiali: la produzione in questione andò in scena nella stagione ’75-’76 (8 rappresentazioni fra dicembre e gennaio più tre a NewYork in tournée a settembre ‘76); poi nella stagione ‘78-‘79 (6 rappresentazioni fra aprile e giugno ’79); infine nella stagione ’84-’85 (7 rappresentazioni a maggio 1985). Un particolare interessante per le successive ricerche riguarda il cast: i tre ruoli principali sono sempre sostenuti da Cappuccilli, Verrett e Ghiaurov, mentre la parte di Macduff nel ’75-’76 (in Scala) fu sostenuta sempre da Franco Tagliavini (a NewYork si succedettero Ottavio Garaventa e Veriano Luchetti) poi nel ’79 il titolare fu sempre Luchetti e nell’85 cantarono Peter Dvorsky e Walter Donati. Altro indizio importante: il libretto dell’opera (verosimilmente parte del programma di sala dal ’75 in poi) non comprende l’aria in questione.

Veniamo ora a youtube: vi si possono vedere o ascoltare due recite: una sedicente (e falsamente, come si vedrà) del gennaio ’76 (trasmessa in video dalla RAI) e una (audio) certamente della ripresa del 1985 (18 maggio). In entrambe l’aria in questione non viene eseguita. Tuttavia scopriamo che il video RAI è erroneamente attribuito a gennaio ’76: ce lo dice la locandina che compare in testa (e poi in coda): Macduff è Veriano Luchetti! Quindi siamo per forza nel 1979, precisamente (come ci confermano sia l’Archivio Scala che la RAI) il 30 giugno (ultima recita).

A questo punto ci rimane il dubbio proprio sulla stagione ’75-’76: possibile che l’aria fosse cantata allora e poi mai più presentata (dallo stesso interprete della stessa produzione originale) nelle due riprese successive?

In effetti, allora fu cantata. Ne abbiamo due diverse fonti informative: la prima è l’edizione discografica della Deutsche Grammophon, con la quale Abbado aveva l’esclusiva, pure ascoltabile su youtube): stando alle informazioni sul CD, fu rilasciata inizialmente il primo gennaio ’76 (quindi a recite ancora non concluse!) e successivamente rimasterizzata. E qui - apriti sesamo - ecco magicamente comparire, nella penultima traccia del CD, Cappuccilli con il Mal per me!

Sempre dalle note allegate al CD scopriamo però alcuni dettagli interessanti, e pure... inquietanti: per prima cosa si tratta di una registrazione fatta in studio e non in teatro (mancano in effetti gli applausi); il tenore che interpreta Macduff è - ma guarda un po’ - il Topone Domingo! Ma soprattutto, sotto l’elenco degli interpreti troviamo le indicazioni Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, Direttore Claudio Abbado e - ma riguarda un po’ - Wiener Philharmoniker!!!

Mammamia, conoscendo ciò che avveniva già allora (e a maggior ragione oggi) nelle sale di incisione e soprattutto nella post-produzione, dove si monta (leggi: taglia e cuci!) il prodotto da mettere in commercio, ci resta il dubbio che al Piermarini l’aria non si fosse proprio sentita, e che Chailly ricordi quindi solo le prove fatte in sala di incisione.

Invece è un sito semi pirata (HouseOfOpera) a portare la pistola fumante, la registrazione radiofonica (di infima qualità, incluso il black-out che taglia fuori metà del second’atto) della prima del SantAmbrogio 1975 dove l’aria è ben presente, contornata dagli applausi del pubblico.

Ma allora una domanda sorge spontanea: perchè nel ’79 (registrazione video RAI) e nell’85 (registrazione audio) l’aria non compare? Forse che Cappuccilli la cantò solo nel ’75-’76? Ma allora com’è che lui la cantò (e questo è certissimo) a Salzburg nel 1984 con Chailly e i Wiener, per poi tornare ad escluderla un anno dopo in Scala? Domande che restano senza risposta, salvo il sospettare che qualche interesse (e qui il sospettato n°1 è la Deutsche Grammophon) non abbia imposto a tutti una specie di copyright - quindi un veto - sulla diffusione di quel brano...  

Ed è ciò che vien da sospettare prendendo ad esempio proprio la registrazione RAI del ’79. Un acuto commentatore del video su youtube ci fa osservare che l’audio della chiusa dell’aria del sonnambulismo (Verrett) sembra in realtà prelevato dal CD della Deutsche Grammophon, e io aggiungo che non vi si sente alcun applauso, cosa semplicemente incredibile! Per di più, uscita la Verrett di scena, l’inquadratura torna su un Abbado che ha tutta l’aria di riprendere a dirigere dopo un po’ di tempo (appunto: gli applausi alla Verrett). Ma quindi, insomma: se il video RAI è stato oggetto di taglia-e-cuci in quel punto, chi ci dice che anche l’aria di Cappuccilli non sia stata tagliata in studio? Torniamo a guardare quel video al momento della zuffa fra Macbeth e Macduff: Cappuccilli e Luchetti vanno a confrontarsi armi in pugno sull’estremo fondo-scena, addirittura scomparendo dentro la foresta (vera o posticcia) di Birnam. A questo punto però l’inquadratura passa sulla buca e su Abbado, che dirige il breve postludio seguito al ferimento di Macbeth. Poi dà un attacco e l’inquadratura torna sulla scena per il finale trionfo. Domanda: chi ci assicura che, durante il citato postludio, Cappuccilli non sia tornato sulla scena per poi cantare l’aria, tagliata in studio?

Ecco, come nel gioco dell’oca, siamo tornati alla casella zero: solo testimoni oculari-auricolari (dentro e fuori dal teatro) potrebbero darci smentite o conferme riguardo le altre 23 rappresentazioni (incluse le 3 di NY) andate in scena dopo la prima di quell’ormai lontano 7/12/75.

07 dicembre, 2021

Il Macbeth televisivo

Le mie impressioni a caldo dopo ascolto-visione TV sono tutto sommato positive, con buoni voti alla parte musicale (cui però farò l’esame vero fra qualche giorno, dal vivo) e discreti per lo spettacolo, che ho l’impressione sia stato pensato (come pure la Tosca del ’19) più per il piccolo schermo che per il teatro.  

Al netto delle solite messe-in-guardia, doverose quando si ascoltano i suoni portati all’orecchio dai bit e non dall’aria, devo dire che tutte le voci hanno fatto bella figura: Salsi è un Macbeth ormai super-collaudato e la Netrebko canta come doveva cantare ai tempi di Verdi la Tadolini (quindi non sarebbe piaciuta al Peppino...): se proprio le devo trovare un pelo nell’uovo, citerei la caduta di ottava sui due REb della chiusa del sonnambulismo, che lei ha separato e non legato (ma forse ne è responsabile la posizione... imbragata cui l’ha costretta Livermore). Abdrazakov e Meli hanno messo tutta la loro professionalità nei due ruoli-mignon che impersonano e lo stesso han fatto gli altri comprimari. Eccellente come da tradizione il coro passato nelle mani di Alberto Malazzi da quelle di Mario Casoni, che mantiene però la salda guida delle Voci bianche.

Chailly in gran spolvero: tempi ben misurati e buon dosaggio delle dinamiche (da verificare dal vivo, in rapporto alle voci). Orchestra in stato di grazia, evidentemente preparatasi al meglio per l’occasione.

I ballabili: da elogiare la scelta di farne delle pantomime e di coinvolgervi i protagonisti (la Netrebko ha un futuro per quando si stancherà di cantare!) Tuttavia non si può non arricciare il naso (come sempre) riguardo l’effetto-calmante che hanno sulla drammaturgia. 

Davide Livermore, parlando delle sue regìe di Attila (ieri) e Macbeth (oggi) ogni due parole aggiunge distopico. L’Italia ai tempi della comparsa dell’Attila era distopica. Il mondo di oggi che viene rappresentato nel suo Macbeth è distopico. Qualunque cosa voglia dire... Al solito si è preso ovazioni e ululati; personalmente manterrei una posizione di benevola indifferenza, non avendo lui preteso di re-inventare il soggetto, il che mi basta, ecco.

Patria oppressa sembra non si addica all’Italia di oggi, almeno a giudicare dall’interminabile applauso che ha accolto il Presidente.

02 dicembre, 2021

Verso la Scozia per SantAmbrogio

La corsa verso il 7 dicembre scaligero è entrata nel vivo con l’annuncio e l’apertura del programma di eventi (Prima diffusa) promosso come in anni recenti (siamo al n°10!) dal Comune di Milano.

Nel frattempo lunedi scorso si era tenuta la conferenza stampa di presentazione del Macbeth targato Chailly-Livermore. Il Direttore musicale ha ribadito le ragioni della sua scelta di proporre per tre aperture una sua particolare trilogia di opere degli anni-di-galera: Giovanna-Attila-Macbeth, che costituirebbero i pilastri di un ponte, o una piattaforma di lancio se si preferisce, che portano dal Verdi delle origini a quello della maturità (Rigoletto ed oltre).

Si potrebbe obiettare che Ernani non sfigurerebbe per nulla come primo pilastro di quel ponte... che in effetti delinea un percorso solo apparentemente ascensionale, chè il Macbeth presentato oggi è quello ben posteriore al decennio di reclusione: si parlasse della versione 1847, beh, a parte la rivoluzionaria estraneità del soggetto rispetto ai canoni del melodramma del tempo, sul piano strettamente musicale ci sarebbero pochi passi in avanti da registrare rispetto ad Attila (per dire, il Vieni, t’affretta, l’Or tutti sorgete e il Trionfai della Lady non vanno molto oltre Odabella, tanto che l’ultima di queste arie fu cassata nel 1865). E quanto al protagonista, non sarà un caso se Verdi per Parigi gli tagliò addirittura due arie: la prima (L’ira mia del finale terzo) era la classica cabaletta che gli era venuta a nausea (magari col baritono che si improvvisa ridicolmente tenore eroico chiudendo sul LA acuto!); la seconda (la morte, che Chailly - senza inventar nulla - reintroduce per omaggio a... Salsi) è grande musica, per carità, ma evidentemente Verdi si convinse a rinunciarvi, e mai più si convinse a ripristinarla, forse per non darla vinta a Macbeth con questa tardiva (apparente?) ammissione di colpevolezza.

Quanto alla messinscena, Livermore (che subdolamente afferma di aver le mani un filino legate...) porta l’ambientazione ai giorni nostri, il che non è per nulla sbagliato, visto che Macbeth non è un caso particolare dei primi anni del secondo millennio, ma l’archetipo di casi che si ripetono ogni giorno, oggi compreso: a New York, Singapore... Milano? o in qualunque altro luogo del pianeta. Lo spettacolo pare quindi assicurato, staremo a vedere.
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Tornando agli eventi preparatori, ieri pomeriggio-sera due interessanti appuntamenti con il Macbeth in vista della prima.

Alle ore 18 nel Castello Sforzesco è stato Fabio Sartorelli a proporre un coinvolgente viaggio nell’opera, sulla traccia della messinscena di Cherniakov, impreziosito dagli interventi canori di due accademici scaligeri, accompagnati al pianoforte da Michele D’Elia: Clarissa Costanzo ed Ettore Chi Hoon Lee, che hanno presentato il duetto Macbeth-Lady del primo atto, poi la scena del sonnambulismo della Lady e infine il Perfidi! di Macbeth.     

Poi alle ore 21 allo Spazio-teatro No’hma a Città Studi (si replica questa sera) è stata la volta di Stefano Jacini ad intrattenere un folto pubblico con un’esegesi dell’opera costellata da proiezioni di spettacoli diretti da Abbado, Sinopoli e Chailly. E bruscamente interrotta sul finire dall’irruzione (1h20’55” nel filmato) di... Davide Livermore, che ha sostanzialmente ribadito le linee della sua interpretazione, già esposte nella succitata conferenza stampa. Suggestivo anche il colpo di teatro (1h40’35”) con la declamazione dell’originale shakespeare-iano tomorrow-tomorrow-tomorrow...

Fra due giorni, con la primina-giovani, si entra nel vivo.

24 novembre, 2021

Macbeth 2021: Chailly la racconta giusta?

Ieri pomeriggio si è tenuto nel ridotto Toscanini - sotto l’egida dell’Associazione Amici della Scala - il primo incontro della stagione 21-22 dell’ormai leggendaria serie Prima delle prime, dedicato ovviamente al Macbeth. Incontro introdotto come sempre da Franco Pulcini e che ha avuto come protagonisti Raffaele Mellace e Riccardo Chailly.

Il Direttore Musicale fra altre dotte considerazioni sull’opera, ha in particolare ricordato l’edizione scaligera del 1975 (Abbado-Strehler-Verrett-Cappuccilli-Ghiaurov) da lui seguita da vicino nella sua qualità di assistente di Abbado. Poi ha ribadito la sua decisione di introdurre nel finale dell’opera (versione 1865, ricordiamolo) la scena della morte di Macbeth (Mal per me che m’affidai...) presa di peso dalla prima versione del 1847 e poi abolita da Verdi a Parigi.

Ma a questo proposito, nel foglio (non firmato, per la verità) di presentazione dell’incontro di ieri si trova un virgolettato attribuito al Maestro, che si può leggere nella parte ingrandita del foglio:

Dalla frase sottolineata in rosso si è portati a dedurre - almeno stando a quanto riportato dall’anonimo estensore del virgolettato - che la scelta di Chailly sia di ripetere oggi quella fatta da Abbado allora: quasi fosse un modo per avvalorarla, indirettamente attribuendola all’illustre predecessore?

Sta di fatto che nel 1975 Abbado si guardò bene dal fare una simile scelta (operata invece da Pappano a Londra nel 2011, come ho riferito in un precedente post) come conferma la registrazione RAI sopra link-ata, precisamente a 2h15’50”: dopo lo scontro con Macduff Macbeth cade morto sul colpo e, dopo il passaggio puramente orchestrale che sottolinea la fine del tiranno, si passa direttamente - 2h16’32”, come prescritto da Verdi nel 1856 - al grido Vittoria! e di seguito al coro finale che inneggia a Malcolm.

16 novembre, 2021

La foresta di Birnamo si muove...

Quest’anno - complice forse il Covid - il programma di eventi preparatori al Macbeth di SantAmbrogio è meno nutrito rispetto al passato. Il primo (di quanti non è dato sapere...) è andato in onda ieri nel Ridotto Toscanini con un interessante convegno che ha affrontato diversi aspetti dell’opera, in particolare il rapporto Verdi-Shakespeare e le vicissitudini della versione parigina del 1865 in lingua francese.

Il Direttore Musicale, confermando che la versione in programma quest’anno è, appunto, quella del 1865 (ovviamente in lingua italiana) ha anche annunciato la sua proverbiale e immancabile primizia (il Maestro vuol passare alla storia come colui che ha offerto al pubblico cose mai prima udite o presentate, tipo le 5 misure composte da Rossini per l’Attila...) Ed ecco quindi la novità assoluta del suo Macbeth 2021: nel finale vengono re-inserite (dalla prima versione del 1847) le 29 battute di Macbeth morente (Mal per me che m’affidai...)  

Insomma, un nuovo Macbeth mai visto prima? Beh, non proprio, a giudicare da questa produzione ROH del 2011 con Pappano (che si riprende per la 4a volta dal 2002 proprio da questa sera a Londra con Rustioni!) Ecco, dopo 2h25’30” l’inserzione della morte di Macbeth prima del coro di vittoria, come l’ascolteremo a dicembre.


16 luglio, 2018

Muti trasloca il Macbeth da Firenze a Ravenna


Il Ravenna Festival ha proposto ieri un’edizione in forma di concerto del verdiano Macbeth diretto dal consorte della padrona di casa, tale Riccardo Muti. Si è trattato in pratica di una terza esecuzione dopo le due date al Maggio Musicale nei giorni scorsi (anch’esse senza messinscena) per celebrare i 50 anni dall’esordio del Maeschtre a Firenze. E lui non ha perso l’occasione per auto-festeggiarsi anche nella sua città di... accasamento. 

L’immenso PalaDeAndrè non è certo l’ambiente ideale per questi tipi di spettacolo e l’acustica, nonostante le diffuse pannellature, non è paragonabile a quella non solo dell’OF, ma di un qualsiasi teatro. Ciononostante la recita non ha tradito le attese e le tribune dell’arena erano gremite di gente cosmopolita (inclusi francesi e croazzi, reduci da tutt’altro tipo di spettacolo...)

Versione parigina del 1865, completa di ballabili, che è stata eseguita (abbastanza inspiegabilmente, o per accordi con il... bar) con due intervalli (1-2 e 2-3) il che ha portato la fine dello spettacolo (iniziato alle 21:00) ben oltre le 00:30 (...ma tanto siam qui in vacanza). Orchestra disposta con le viole al proscenio e cantanti dislocati proprio sotto il podio di Muti, che poteva letteralmente... imboccarli come fa una mamma con i pargoletti. E imbeccare anche il pubblico, con palesi ammiccamenti ad attivare applausi a scena aperta dopo le arie più famose.

Un Muti in gran spolvero, che quando l’oggetto è Verdi lascia infallibilmente il segno, dall’alto della sua ormai semi-secolare esperienza. Stacco di tempi esemplare, attenzione ai dettagli e alla varietà di dinamiche, attacchi a voci e coro sobri ma efficaci, insomma una direzione di livello assoluto.

Direzione assecondata al meglio dagli strumentisti e dal coro (di Lorenzo Fratini) del Maggio, esemplari nel ricreare le atmosfere ora cupe, ora irridenti (le streghe) ora meste (Patria oppressa... un capolavoro) o esaltanti che costellano la partitura.  

Le voci dei protagonisti tutte all’altezza, a cominciare da Luca Salsi, un Macbeth autorevole, voce di gran spessore e accenti sempre adeguati alla circostanza drammatica. Alla Lady di Vittoria Yeo si può forse rimproverare una certa freddezza di esposizione, ma la voce è ben impostata e la tecnica (richiesta da Verdi in alcuni passaggi assai difficili) più che apprezzabile. Ottimo come sempre Francesco Meli (Macduff) in una parte peraltro non proibitiva (una perla però, la sua Ah, la paterna mano) ed autorevole il Banco di Riccardo Zanellato, per il quale Muti ha quasi... imposto l’applauso di commiato dopo la sua brutta fine nella quarta scena dell’Atto II. Bella voce da tenore leggero ha sciorinato Riccardo Rados (Malcolm) conducendo il finale Arrivano-i-nostri. La damigella di Lady e il medico, Antonella Carpenito e Vito Luciano Roberti hanno dignitosamente completato il cast. Domestico, sicario, araldo e prima apparizione erano impersonati da artisti del coro (Vito Roberti, Giovanni Mazzei, Egidio Naccarato e Nicolò Ayroldi) mentre le altre due apparizioni erano cantate da due voci bianche (Pietro Beccheroni e Arianna Fracasso).

Successo grandissimo, siglato da ovazioni per tutti: davvero una serata da incorniciare.

23 giugno, 2013

L’ur-Macbeth è tornato a Firenze


Domenica 14 marzo 1847 il Teatro della Pergola di Firenze ospitava la prima di Macbeth. E quindi non c’era miglior occasione che il bi-centenario verdiano per riproporre la versione originale dell’opera proprio nel teatro che la vide venire alla luce.


Produzione dedicata assai opportunamente alla memoria di un grande personaggio recentemente scomparso: Bruno Bartoletti.

Ieri pomeriggio è andata in scena la penultima delle sei rappresentazioni, in un teatro quasi al completo, che alla fine ha accolto la recita con gran calore; e anche con grande partecipazione per la situazione a dir poco drammatica in cui si trova l’Istituzione teatrale fiorentina, sintetizzata da uno striscione recato dalle maestranze del teatro, che reclama di scongiurarne la chiusura:


Peraltro si direbbe che Graham Vick non nutra soverchie illusioni, se già suggerisce verso quale professione alternativa avviare le ragazze del coro:


(Lo so, può sembrare una freddura fuori luogo, ma spero abbia almeno un effetto scaramantico…)

E visto che ho tirato in ballo Vick, dirò che la sua proposta (coriste a parte, smile!) non mi ha particolarmente colpito: niente di trascendentale, qualcosa di simile (appena un pochino meglio, diciamo) a quanto propinatoci mesi fa alla Scala da Giorgio Barberio Corsetti.

Macbeth è un soggetto solo apparentemente storico, in realtà è per Shakespeare (e per Verdi!) un pretesto per trattare problemi universali e senza tempo: pulsioni dell’animo umano (soprattutto debolezze…) come sete di potere, complessi di inferiorità o turbe psichiche derivanti da malsani rapporti di coppia, e così via, freudianamente elencando. Quindi si tratta di archètipi di problemi anche nostri, perfettamente calabili nella realtà contemporanea. 

In linea di principio quindi, nessuno scandalo se Vick sposta l’ambientazione dal medioevo ai giorni nostri. Però il problema del regista è quello di trovare degli scenari non solo compatibili con quelli dell’originale, ma anche verosimili e plausibili proprio sul piano dell’attualità: viceversa, tanto varrebbe attenersi pedestremente al libretto, che se non altro garantisce (o dovrebbe farlo) il massimo livello di consistenza. 

Ma non basta: l’allestimento dovrebbe anche garantire coerenza con la parte musicale, che in fin dei conti è quella che conta di più. Per chiarire il concetto, proprio Vick, con il suo Mosè al ROF, aveva in pieno contraddetto quest’ultimo principio, mostrandoci uno scenario plausibile (le vicende recenti della lotta di Israele per la libertà, atrocità incluse) sulla colonna sonora rossiniana, la quale non supportava minimamente quell’ambientazione.

Qui Vick compie l’errore speculare: per fortuna non pretende di darci, a spese di Verdi, lezioni di storia o di (in)civiltà. Ma lo scenario che ci presenta può solo far sorridere: ma come, nel terzo millennio (o alla fine del secondo) vediamo bande armate di mercenari e agenti segreti inglesi e scozzesi che si fronteggiano, armate di mitra e kalashnikov, per supportare o scongiurare colpi di stato, in mezzo ad ogni genere di atrocità e ad esodi di massa (!?) Ohibò, ce lo vedete il patriota Sean Connery a cantare Patria oppressa in mezzo a profughi scozzesi bivaccanti nella stazioncina di Birna?

Purtroppo per Vick, la mediocre e prosaica modernità degli ambienti finisce per togliere all’allestimento quell’aura di mistero e di orrore garantita nell’originale dalle cupe muraglie e dai tetri ambienti dei medievali castelli scozzesi. Oltre a creare ridicole incongruenze con il testo; per dirne una: perché mai Macbeth deve ammazzare Duncano usando un pugnale, quando potrebbe evitare di sporcarsi le mani di sangue, impiegando comodamente una pistola con silenziatore? A proposito di pistole, all’annuncio della morte della moglie, il nostro non trova di meglio che sparare a bruciapelo alla di lei badante, sentenziando che tanto La vita!... che importa! (?!) Particolare curioso: la tuta qui indossata dal sovrano, ormai sulla soglia della follia, reca un marchio inconfondibile:


Per concludere: un allestimento né carne né pesce, che nulla aggiunge alla fama dell’estroso regista albionico.
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Sul fronte musicale c’è da registrare – contrariamente alla cervellotica edizione scaligera di Gergev-Corsetti - il rispetto totale della versione 1847. O meglio, quasi totale, dovendosi segnalare un paio di (peraltro non drammatiche) eccezioni: la mancata ripetizione dell’aria Trionfai! e l’apertura del coro dei profughi con le parole Patria oppressa e non Scozia oppressa.

Sulla prima eccezione andrebbe appurato se sia stata un’idea del concertatore o del soprano: vero è che Verdi per primo espunse quest’aria nel 1865, evidentemente ritenendola indegna del contesto, ma se si fa, tanto varrebbe farla come scritta. A supporto della seconda eccezione: l’esistenza di spartiti ben anteriori al 1865 che già recano Patria al posto di Scozia, segno che la variazione era intervenuta assai prima di Parigi.      

James Conlon ha diretto con grande sobrietà e sicurezza; mi sento però di imputargli una generale tendenza ad allungare, o allargare, i tempi. Ottima la prestazione della (ridotta) Orchestra del Maggio, con alcuni strumentisti (arpa e grancassa, poi le trombe della battaglia) dislocati anche nei palchi di proscenio.

Il coro di Lorenzo Fratini ha dato il meglio di sé, e gli facciamo tutti gli auguri del caso per non far davvero la fine delle… streghe!

Su un livello dal discreto in su tutti gli interpreti: Luca Salsi e Tatiana Serjan formano una coppia ben assortita, oltre che essere singolarmente apprezzabili. Lui ha fatto emergere tutti i risvolti della complessa personalità di Macbeth; a lei è forse mancato un filino di cattiveria in più, però ha il merito di non aver usato i suggerimenti dell’Autore (che voleva una Lady più parlante che cantante) come pretesto per… cantar male!

Marco Spotti ha qualche difficoltà a farsi udire sulle note più gravi, ma è stato un Banco (o Banquo) più che dignitoso.

Saimir Pirgu (Macduff) è stato bravo a porgere… la paterna mano, ricevendo applausi a scena aperta, cosa avvenuta praticamente al termine di ogni aria dell’opera.  

Antonio Corianò (Malcolm) si è onestamente comportato nella sua parte non proprio banale. Così come onesta e apprezzabile è stata la prestazione degli altri comprimari.
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Caro Maggio, che dire? Speriamo che te la cavi! (perché te lo meriti…)

03 aprile, 2013

Alla Scala un Macbeth originale, anzi… strampalato


Fin dall’annuncio della stagione scaligera dei due bi-centenari era noto che questa produzione di Macbeth avrebbe rappresentato una novità, in quanto per la prima volta dopo 150 anni (precisamente dal 5 marzo 1863) il Piermarini avrebbe ospitato la versione originale del primo dramma shakespeariano di Verdi, quella andata in scena alla Pergola di Firenze il 14 marzo 1847. Tutte le precedenti edizioni, a partire dal 29 gennaio 1874, avevano avuto come oggetto la versione parigina dell’opera, datata 1865 (21 aprile, Théatre Lirique).
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Si sa che Verdi colse l’occasione della presentazione francese dell’opera - che forse aveva amato più di ogni altra – per apportarvi, oltre a modifiche espressamente richieste dal teatro committente, anche suoi propri ritocchi, essendosi reso conto, a più di 15 anni di distanza, di alcune piccole o grandi manchevolezze insite nella partitura.  

Tuttavia, se si escludono numerose modifiche che all’atto pratico sono distinguibili solamente al musicofilo, o comunque all’addetto-ai-lavori, mentre sfuggono ad un ascolto normale in teatro, le differenze sostanziali fra le due versioni si possono riassumere in quanto segue:

Atto 1:
a. una diversa distribuzione di voci nei cori delle streghe;
b. una diversa soluzione del duetto di Macbeth con Lady (prima del sestetto finale) portato tutto a FA minore – compresa l’armatura di chiave - da FA minore-maggiore;

Atto 2:
la cabaletta di Lady Macbeth Trionfai! (tutta virtuosismo, in SIb maggiore, con ascese al DO acuto) viene sostituita (testo e musica) con la drammatica La luce langue (in MI minore-maggiore); conseguentemente anche la frase di Macbeth che la precede viene abbassata di un semitono e chiude su SI anziché sul DO.

Atto 3:
a. aggiunta dei ballabili alla scena iniziale, in omaggio alle consuetudini parigine, con conseguente eliminazione delle ultime battute del precedente coro delle streghe; inserimento di alcune battute di raccordo al successivo ingresso di Macbeth (Finché appelli…) e leggere modifiche al successivo recitativo e alla della scena delle apparizioni;
b. modifica radicale del finale: eliminazione dell’aria di Macbeth (Vada in fiamme) sostituita da un dialogo fra Macbeth medesimo e la sua Lady;

Atto 4:
a. il coro iniziale (Scozia oppressa) diviene Patria oppressa ed è completamente ri-musicato (a parità di testo) mutando completamente carattere, dal cipiglio risorgimentale (SOL minore – SIb maggiore – SOL maggiore) al metafisico pessimismo (LA minore – MI minore – LA minore, con chiusa in maggiore); conseguentemente è ritoccato (5 battute) il successivo incipit di Macduff;
b. la scena della battaglia fra Macbeth e Macduff è completamente ri-musicata (con l’impiego di una fuga);
c. l’aria di Macbeth morente (Mal per me) viene eliminata e sostituita da una enfatica scena di tripudio generale.     

Ora, in questa edizione scaligera è stata presa effettivamente come base la versione del 1847, ma con due sostanziali eccezioni, consistenti nel farci il retro-fitting di due brani di quella successiva:

a. l’aria di Lady Macbeth La luce langue;
b. il coro Patria oppressa.

Con le inevitabili aggiustature necessarie per incastrare i due brani del 1865 nella struttura dell’opera del 1847.

Mah insomma, la solita tecnica del meccano, applicata alle opere di cui esistono versioni o varianti diverse: prendere di volta in volta dalla scatola di montaggio i componenti che piacciono di più e ri-montarli per costruirci una versione nuova e… diventare famosi. Che poi siano compromessi né-carne-né-pesce, cui l’Autore per primo mai aveva pensato, poco importa. (Fra qualche settimana il Macbeth nella versione davvero originale - almeno si spera! - è in programma proprio alla Pergola.) 

Chi sia stato il responsabile di questa trovata non è dato sapere; gli indiziati sono parecchi: dal direttore Gergiev (fra parentesi: il suo vice D’Espinosa è stato protestato proprio alla vigilia…) al regista Corsetti (che ne accenna nel video pubblicato sul sito-web del teatro e sul programma di sala); al maestro del coro Casoni (magari per via del più moderno e conosciuto Patria oppressa); o alla protagonista femminile (Lucrecia Garcia, nel primo cast) magari impreparata di fronte ai funambolici gorgheggi del Trionfai!; e per finire al soprintendente Lissner, forse arrogatosi il diritto inappellabile di interpretare i gusti del suo amatissimo pubblico (!?)

Questione di-vita-o-di-morte? Per carità, abbiamo già abbastanza rogne di nostro (ci si doveva mettere anche il Presidente a trasformarsi in Re…) quindi va bene tutto, e del resto in confronto alle invenzioni della regìa qui siamo ancora in paradiso.
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Ecco, un allestimento (come spesso capita) a dir poco pretenzioso, dove il regista, a forza di spremersi le meningi per inventare qualcosa di strabiliante che lo faccia passare alla storia, le manda arrosto e si imballa come un motore fuori-giri, che alla fine… fonde in un mare di fumo, spargendo una puzza insopportabile.  

L’ambientazione è in nessun posto e ovunque, allo stesso tempo: scene improbabili, con due ali semoventi di colosseo di cartapesta; un sofà e un tavolino, con bottiglia di whisky (siamo in Scozia, perdinci!) e bicchieri; costumi del primo ‘900, con militari dell’epoca guglielmina che sfilano in parata per tutta la platea, a luci riaccese (come nelle migliori tradizioni, ormai); teste di cuoio e guardiani di guantanamo che trattano i prigionieri con guanti scarponi di velluto; clochard in coda per un piatto caldo della Caritas, e altre cose più o meno improvvisate, come la presenza di un telefonino dove la Lady legge il famoso sms di Macbeth (qui una sola piccola sbavatura: sui display in sala il messaggio avrebbe coerentemente dovuto comparire come allgr ldy xkè sno avnti cmnq in sndgg di strgh…)

La categoria dei danzatori e/o mimi e/o acrobati deve avere con la Scala uno speciale contratto co-co-dè, perché di costoro c’è ormai traccia in qualunque opera. Come delle proiezioni di immagini o foto, qui usate in specie per mostrarci gli otto re, incubo di Macbeth: fra loro riconoscibili alcuni cattivoni, tipo Hitler e Stalin (Berlusconi non-pervenu…)  

Insomma, l’ennesimo spettacolo da localuccio underground spacciato per opera d’arte degna del teatro più rinomato del pianeta…
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Sul fronte delle note, dopo la débacle della prima, come spesso accade le cose sono migliorate: un solo, timidissimo vergogna indirizzato al rientro di Valery Gergiev. Il quale – impugnando uno… spiedino - ha poche volte alzato lo sguardo dalla partitura (all’apparenza un volume nuovo di zecca, a giudicare dalle pagine che si giravano da sole, che il maestro sfogliava probabilmente per la… seconda volta, smile!) Insomma,  pareva essere impegnato a non perdere il passo con l’orchestra, più che a guidarla (!?) Comunque a me non è dispiaciuto del tutto, per quanto desse l’impressione di dirigere Ciajkovski… smile!

Per il resto solo applausi (sì non da stadio, ma applausi): un paio anche a scena aperta per Secco e Vassallo.

Ecco, Franco Vassallo è stato un Macbeth accettabile, oltretutto qui dovrebbe chiedere cachet doppio, per via delle due arie in più che canta, grazie alla versione 1847: peccato che al termine di quella del terzo atto si sia montato la testa, credendo forse di essere… Ernani e sparando ridicolmente un LA acuto degno di miglior causa.

Stefano Secco ha abbastanza convinto, in una parte non impervia, e si è meritato anche il singolo, dopo la paterna mano.

Lucrecia Garcia ha un vocione abbastanza potente in alto, arriva anche a sparare i DO acuti, ma nell’ottava bassa e al centro stenta assai: come attrice (e per la Lady effettivamente ci vorrebbe una Duse…) è un pochino, ehm, impacciata dal quintalotto che si deve tirare appresso.

Štefan Kocán era Banco (o Banquo che scriver si voglia) e si è meritato la brutta fine che ha fatto (smile!) così impara a cantar meglio. Però ha ben interpretato – come prescriveva Verdi – le sue due apparizioni da morto (che per nostra fortuna non deve cantare… stra-smile!)

Antonio Corianò ha fatto il suo dovere in Malcolm, e così le altre figure minori.

Il Coro di Casoni sui suoi standard.
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Alla fine applausi cumulativi (nessuna uscita singola, regista assente) ma abbastanza convinti. Fossimo al teatro di Pizzighettone ci sarebbe da fare complimenti a josa per lo spettacolo. Peccato che siamo alla Scala: amen.