XIV

da prevosto a leone
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01 marzo, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.18 – Xian Zhang

Atteso ritorno in Largo Mahler per la Direttrice Emerita dell’Orchestra Sinfonica di Milano, che trascorse qui alcuni anni (09-16) assai particolari della sua carriera: inclusa la nascita del suo secondo figlio, che lei si portò dietro dentro anche sul podio fino all’ultimo giorno!

Il brano di apertura serve precisamente per scaldare l’uditorio per ciò che verrà poi, due composizioni fra loro legate dalla stessa paternità russa: Stravinski e Ciajkovski.

Quindi, ascoltiamo dapprima lOuverture dalle musiche per Die Weihe des Hauses (op.124) che occupa una posizione assai scomoda nel catalogo beethoveniano, stretta com’è nella stritolante tenaglia di Missa (op.123) e Nona (op.125). E sono anche gli anni delle ultime tre sonate pianistiche e delle variazioni Diabelli!

Il titolo del lavoro è stato tradotto in italiano in modo letterale (La consacrazione della casa) il che porta francamente fuori strada chi non sia informato delle circostanze che ne determinarono la composizione. Chiunque infatti penserebbe subito alla casa nell’accezione di dimora e quindi, in senso lato, di famiglia: quindi immaginerebbe che si tratti della solennizzazione della classica benedizione delle famiglie (a pochi verrebbe in mente di pensare all’inaugurazione di una... ditta!)

Invece Haus in crucco (così come House in albionico) è un termine impiegato (anche) per definire i teatri (es.: Royal Opera House, Opernhaus Zürich); ed è proprio l’inaugurazione di un teatro viennese (Theater in der Josefstadt) che fece arrivare a Beethoven la commissione di musiche di scena per il lavoro teatrale che doveva celebrare l’avvenimento. Per risparmiare tempo e fatica Beethoven propose l’impiego de Le Rovine di Atene (altra musica di circostanza composta 11 anni prima per l’inaugurazione di un teatro tedesco a Pest).  

Alla fine Beethoven si risolse di comporre tre nuovi pezzi (da incastrare nelle Rovine) fra i quali la nuova Ouverture (ironia della sorte, non eseguita all’inaugurazione, perché… non pronta!) Per la quale si dice che l’ispirazione estetico-formale sia venuta a Beethoven da Händel, ed in effetti sentiamo atmosfere da pomposità tipiche delle musiche che il tedesco trapiantato in Albione componeva per i Reali di lassù, ma anche un complesso contrappunto che caratterizza il nucleo della composizione.

Dandole però anche un retrogusto di pedanteria fiamminga, tecnicamente ammirevole ma che, unita alla persistente staticità tonale (DO-SOL e nulla più…) e alle dinamiche fin troppo invadenti, rischia di rendercela, in tutta franchezza, un tantino pesantuccia da digerire.

Ovviamente nulla di cui incolpare l’Orchestra, che ha fatto interamente il suo dovere!   

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Il brano centrale della serata è targato Igor Stravinski: si tratta del suo Divertissement dal balletto (non proprio passato alla storia) Le baiser de la fée. Balletto commissionatogli nel 1928 da Ida Rubinstein, che prendeva spunto dalla fiaba di Andersen La vergine dei ghiacci

Per la composizione del quale Stravinski si ispirò apertamente all’Autore dell’opera che chiude la serata: Ciajkovski, al quale la partitura è dedicata:

Nel 1873, proprio lo stesso periodo di creazione della Seconda Sinfonia, Ciajkovski aveva composto, su richiesta del teatro Malyj di Mosca, le musiche di scena (19 numeri per il Prologo e i 4 atti) per la fiaba popolare (messa in versi da Alexander Ostrovski) intitolata La fanciulla di neve. E da queste musiche, e da altre opere giovanili di Ciajkovski, prese spunto Stravinski per il balletto.

Nel 1934 poi Stravinski derivò dall’intero balletto il Divertissement, una specie di Suite che riprende circa il 50% (anche come durata) della musica del balletto:


Balletto
Divertissement
1. Prologo – Ninna-nanna nella tempesta
I. Sinfonia (meno n. 27-39)
2. Una festa al villaggio
II. Danze svizzere (troncato al n. 96)
3. Al mulino –
Passo a due (Entrata-Adagio–Variazione–Coda) –
Scena
III. Scherzo (meno n. 122-130 e 154-155)
IV. Passo a due (Adagio–Variazione–Coda)
(più 14 battute)
4. Epilogo – Berceuse delle dimore eterne
 

Come si vede, c’è un taglio nel Prologo (Sinfonia); un altro al termine della Festa (Danze svizzere); due tagli nella scena Al mulino (Scherzo); il taglio dell’Entrata del Passo a due; un’aggiunta in chiusura del Passo a due per chiudere il Divertissement; omessi quindi la Scena finale del brano 3 e l’intero Epilogo.

Sono 25 minuti di musica accattivante, dello Stravinski che si suol catalogare come neo-classico, ma che qui – grazie ai riferimenti all’amato Ciajkovski – in realtà sconfina ampiamente nel romanticismo. 

Xian però di romantico lascia poco, sottolineando i connotati più jazzistici della partitura, e trascinando il pubblico all’entusiasmo. 

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In chiusura ecco Ciajkovski e la sua Sinfonia n. 2, detta Piccola Russia dal nomignolo (di significato bifronte…) con il quale veniva apostrofata ai suoi tempi l’Ukraina, dove il compositore passò diverse estati e compose proprio questa Sinfonia.

In questo articolo scritto in occasione della precedente esecuzione qui della Sinfonia (sempre con Xian, nel settembre 2014) avevo proposto qualche nota introduttiva di carattere geo-politico sull’Ukraina ai tempi di Ciajkovski, proprio nei giorni in cui il Paese viveva i postumi della crisi (EuroMaidan) che aveva scalzato il Presidente filo-russo Janukovich, sostituito da un governo filo-occidentale, e provocato così la reazione russa culminata nell’annessione della Crimea, dando inizio a 8 anni di guerra civile nel Donbass, culminati nell’invasione russa del febbraio ’22, cui il faro della Meloni – come si è visto proprio ieri sera in mondovisione - proclama di metter fine senza badare all’etichetta…

Per curiosità ho interpellato l’omnisciente Intelligenza Artificiale per sottoporle una bizzarra domanda: Se Ciajkovski fosse vivo oggi, sull'Ukraina starebbe con Putin o con Mattarella? Devo dire che la risposta dell’oracolo (che ci ha dedicato ben 87 secondi del suo preziosissimo tempo!) mi è sembrata interessante, pur se venata da un certo fastidio per la pretesa inconsistenza della domanda, che vorrebbe mettere in relazione fatti e idee di momenti e personaggi storici così lontani e inconfrontabili. Quindi, giustamente, l’oracolo rifiuta di sbilanciarsi, limitandosi a fare ipotesi più o meno generiche.

Ma la cosa che mi sento di condividere totalmente è proprio l’ultimissima conclusione della risposta: Meglio concentrarsi sulla sua (di Ciajkovski, ndr) eredità artistica, che unisce Russia, Ucraina ed Europa.

Bene, non saprei dire se dall’interpretazione della Xian sia emersa precisamente questa eredità artistica, ma di sicuro se ne è potuta apprezzare la freschezza e l’assenza di retorica (rischio che si corre soprattutto nei due movimenti esterni). Come suo costume, la Direttrice sino-americana tende sempre all’essenziale, a prosciugare più che a rimpolpare (lei è nemica dei da-capo, per dire, e anche ieri ha omesso quello della seconda sezione dello Scherzo).

Risultato comunque elettrizzante, grazie ovviamente anche allo stato di grazia dell’Orchestra (mia menzione particolare per il corno di Amatulli nella lunga Introduzione con il tema del Volga). Pubblico folto prodigo di uragani di applausi per l'Orchestra e di ripetute chiamate per la rediviva Xian.


20 febbraio, 2025

Onegin visto da Martone alla Scala.

Dopo quasi 16 anni (luglio 2009, produzione targata Bolshoi, della coppia Cherniakov-Vedernikov) tornano alla Scala le scene liriche di Ciajkovski. Affidate ora alla messinscena di Mario Martone e alla guida musicale di Timur Zangiev (un giovane alano sufficientemente non-putiniano da poter prendere, nel marzo del 2022, il posto del bandito Gergiev per la Dama di Picche).

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Una curiosità che lega l’Opera con la biografia dell’Autore consiste nella palese analogia fra la relazione Tatjana-Onegin e quella fra Ciajkovski e Antonina Ivanovna Miljukova, sua ex-allieva al Conservatorio di Mosca e poi (ma solo per l’anagrafe…) sua moglie.

Entrambe le giovani donne si innamorano perdutamente (e impulsivamente?) di un uomo maturo; entrambe prendono l’iniziativa (inconsueta nel 1820 come nel 1877) di dichiarare apertamente, per lettera, il loro amore all’uomo. 

Prima domanda: c’è un qualche nesso causa-effetto fra la composizione dell’Onegin e la relazione del compositore con la ex-allieva? La prima lettera di Antonina precede o segue la composizione (che iniziò proprio con la scena della lettera di Tatjana?)

E poi: Ciajkovski aveva verso l’altro sesso una totale preclusione (sia pure di natura antipodica rispetto a quella di Onegin: attitudine congenita, la sua, vs rifiuto da sazietà, quella del personaggio dell’opera) e in un primo momento tenne verso le avances di Antonina lo stesso comportamento di Onegin verso Tatjana: un fermo, sia pur cortese, rifiuto. Ma poi cambiò quasi subito atteggiamento nei confronti della giovane, decidendo di accontentarne i desideri di matrimonio.

Senza però modificare in nulla le sue attitudini, e promettendole quindi un amore non più che fraterno (o paterno). Per quale motivo? Per provare a sfruttare quell’occasione per tacitare le dicerie su di lui e – almeno nella forma - rientrare nella normalità? O per evitare, chissà, di doversi pentire in futuro (proprio come Onegin) di un rifiuto senza appello?

Sta di fatto che questa vicenda umana assunse aspetti di miserevole prosaicità, arrivando persino a minacciare la salute, e come minimo la creatività del compositore (che venne salvato dalla provvidenziale presenza della vonMeck) oltre che a rovinare l’esistenza della donna.

E a queste differenze fra arte(-finzione) e realtà prova a rispondere persino l’oracolo-IA.

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Torniamo ora all’opera… Partendo dall’interpretazione del soggetto datane dal regista. Cha sceglie un approccio abbastanza minimalista per le scene (di Margherita Palli) e l’ambientazione dei tre atti: nel primo, mettendo al centro la natura, la sterminata steppa russa, rappresentata da campi di grano da poco mietuto e da una semplice casupola ingombra di cataste di libri (la camera di Tatjana…); nel secondo (l’onomastico della deuteragonista) una specie di arena con tribunetta, spazio-barbecue e altre cataste di libri, qui come infilati su grossi spiedi, che alla fine infausta della festa verranno inghiottiti dalle fiamme; nel terzo un velo rosso a chiudere la scena, poi solo lampadari e poi… praticamente nulla, ad evocare evidentemente il totale vuoto esistenziale che si crea attorno ai due protagonisti del dramma.

Costumi (di Ursula Patzak) della moderna attualità, peraltro senza esagerare in orpelli ridicoli (per dire… le cuffie che indossa Tatjana all’inizio del primo atto sono quelle insonorizzanti - niente smartphone! - che le servono a isolarsi dalla cagnara circostante per leggere il suo libro in pace).     

Le luci di Pasquale Mari seguono il precipitare degli eventi: dal solare chiarore estivo dello sbocciare dell’amore, al cupo inverno della tragedia, alle silhouette del ballo finale per finire al buio totale dello scioglimento del dramma. Daniela Schiavone cura le coreografie, tendenzialmente caotiche, presenti nelle scene di varia umanità dei primi due atti e (solo per la scozzese) del terzo. Di Alessandro Papa sono le proiezioni video, limitate allo sfondo ambientale.

Qualche trovata sopra le righe non manca (per giustificare la… parcella del regista): l’arrivo, per la festa di Tatjana, di un plotone di soldati; il duello trasformato in roulette russa, con presenza interessata di allibratori e scommettitori; la decisione di far suonare la polonaise a sipario chiuso (per riempire il secondo intervallo e coprire il cambio-scena?)     

Tutto sommato efficace la recitazione dei singoli, qualche caduta di stile, come anticipato, in quella delle masse corali.

Tirando le somme: una messinscena forse animata dal desiderio di dire qualcosa di nuovo senza però stravolgere il soggetto dell’opera; insomma: non deludere troppo i passatisti (che vorrebbero vedere il gran ballo a palazzo Gremin) e, sull’altro fronte, gli amanti della de-strutturazione e della ri-ambientazione del soggetto (che so, conoscendo Martone, inventando Onegin e Lensky come due picciotti che finiscono per contendersi a colpi di lupara la zoccola di passaggio…)

Come è finita? Un autentico disastro! Materializzatosi in un uragano di buh – già uditi al termine della polonaise (per l’astinenza da ballo?) - sceso dal secondo loggione a coprire l’ingresso sul palco del team del regista! Per la cronaca, accompagnato da un sottofondo di applausi della maggior parte del pubblico.

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Buone, ma non strabilianti, notizie dal fronte musicale, a partire dal Direttore, che evidentemente ha questa musica nel DNA, ed ha guidato l’Orchestra scaligera in gran forma ad una prestazione apprezzabile che, a mio avviso almeno, ha adeguatamente servito lo spirito – appunto – lirico della partitura.

A partire dalla delicatezza dei temi di carattere intimo e romantico; e poi alle pene d’amore di Tatjana, agli slanci vibranti di Lensky, o ai patetici ricordi di Larina e Filippevna, al cinismo di Onegin, alla sfrontatezza e ingenuità di Olga, alle leziosità di Triquet e al senile appagamento di Gremin. Qualche eccesso di decibel ha creato un paio (non più) di problemi alle voci, ma si può perdonare, in una prima.

Trascinanti anche le esecuzioni dei famosi brani a piena orchestra, il walzer e la mazurka del second’atto e la polonaise e la scozzese del terzo. [A proposito, qui la polonaise è mutilata – ma è cosa assai frequente e prevista comunque come opzione in partitura – delle 8 battute nella prima esposizione della sezione principale].

Sempre all’altezza il Coro di Alberto Malazzi, che qui ha un ruolo di primo piano, pur in assenza di scene da grand-opéra.

Alexey Markov è un Onegin scenicamente a posto, mentre la voce (per i miei gusti) manca un po’ di brillantezza e di varietà di accenti. Meglio di lui la sua bistrattata Tatjana, Aida Garifullina, che ha sfoggiato bella voce da soprano lirico (mai troppo impegnata da Ciajkovski negli acuti, salvo proprio il SI finale) e ha retto da par suo la massacrante e interminabile aria della lettera.

Il mattatore della serata è stato il Lensky di Dmitry Korchak, da qualche tempo sbarcato alla Scala (da Pesaro) e divenutone ormai un beniamino. Le sue due arie (in particolare quella famosa che precede il duello) sono state lungamente applaudite.

Bene Dmitry Ulyanov, un Gremin nobile ed accorato nella sua patetica esternazione sull’amore che non ha limiti… stagionali e simpatico il Triquet di Yaroslav Abaimov, il cui siparietto anima la festa per Tatjana.

Elmina Hasan (Olga), Alisa Kolosova (Larina, che pare all’aspetto la sorella minore delle sue figlie!), Julia Gertseva (una premurosa Filippevna) hanno dignitosamente fatto la loro parte. Come Huan Hong Li (Capitano) e Oleg Budaratskiy (Zeresky).

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Come detto, applausi per tutti (Korchak in testa, con Zangiev) e aperte contestazioni a Martone. Personalmente approvo pienamente i primi e trovo francamente esagerate le seconde… 

12 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.2

Il secondo appuntamento della stagione 24-25 de laVerdi vede l’esordio sul podio dell’Auditorium del giovane (28 anni scarsi) Diego Ceretta, attuale Direttore Principale della rinomata Orchestra Regionale della Toscana.

Il programma, di struttura classica (breve brano di apertura, concerto solistico e sinfonia) si apre con la prima esecuzione italiana del compositore in residenza, che risponde al nome di Nicola Campogrande, intitolata per l’appunto Cinque modi per aprire un concerto. Opera del 2021 (in piena era-Covid) eseguita per la prima volta in Spagna al Festival Diacronias, che l’aveva commissionata.

Qui lo stesso Aurore ce ne descrive l’origine e il contenuto. Come ci anticipa il titolo della composizione, si tratta di cinque piccoli pezzi (meno di 8 minuti) dalle caratteristiche contrastanti, per evocare altrettanti scenari psicologici e/o naturalistici. Un pezzo assolutamente godibile (chiude con un walzer in piena regola!) che il pubblico (ieri abbastanza folto) ha mostrato di apprezzare.

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Ecco poi la sempre bella (e brava, ovviamente!) Francesca Dego proporci il monumentale Concerto per violino op.61 di Beethoven. La sua è una prestazione davvero eccellente, dal lunghissimo primo movimento, con la massacrante e difficilissima cadenza (dove Kreisler sviluppa i temi incastrandoli mirabilmente) al sognante Larghetto, una vera perla preziosa, al danzante Rondo finale, con vorticosa cadenza.

Ceretta la accompagna con discrezione, salvo lasciare (per me) troppa briglia sciolta all’orchestra nei passaggi di insieme, esagerando con i decibel (forse anticipando il successivo Ciajkovski…)

Gran festa per la neo-mamma, che ringrazia per l’accoglienza (27 volte!) e ci offre un bis mai suonato prima, il Capriccio polacco di Grażyna Bacewicz. Ma non si ferma qui: visto che il pubblico continua ad acclamarla, fa altri due encore di puro virtuosismo, con Bach (Giga dalla Partita in Re minore) e Paganini (Capriccio 16).

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Ha chiuso la serata Ciajkovski con la Prima Sinfonia, cui lo stesso compositore affibbiò il nickname di Sogni d’inverno. Opera ancora piuttosto acerba (come ho scritto a suo tempo…) anche se non priva di spunti interessanti ed apprezzabili.

Ceretta l’ha mandata a memoria (buon segno, indice di studio approfondito) e l’affronta con il giusto equilibrio (necessario di fronte a questa partitura piuttosto farraginosa…) Gesto sobrio, mai stucchevole o inutilmente enfatico, attacchi precisi e (qui ci sta tutto), libero sfogo ai momenti roboanti (in particolare il Finale) di questo giovanile lavoro. Ma assai bene anche il Trio dello Scherzo, per me la cosa migliore di tutta la sinfonia.

Convinti applausi per lui, per le prime parti e le sezioni dei fiati (molto impegnati da questo Ciajkovski piuttosto velleitario) e infine per tutta l’orchestra. 


16 settembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano. Concerto inaugurale 24-25.

Anche quest’anno si è rinnovato il tradizionale appuntamento de laVerdi con la Scala, per l’apertura della nuova stagione. Su podio - per la prima volta, dopo tre presenze (19-21-23) al Piermarini come solista al violino - il nuovo Direttore Musicale, il vulcanico Emmanuel Tjeknavorian (30 anni non ancora compiuti!) viennese di origini armene e figlio d’arte (papà Loris è pure direttore).  

Sala piacevolmente affollata. Presenti in platea Riccardo Chailly, Direttore Onorario dell’Orchestra e mentore del suo giovane successore; e Ruben Jais, ex-Direttore Generale e Artistico, che ha introdotto Tieknavorian nell’ambiente prima di passare al più alto incarico di Sovrintendente della Toscanini di Parma.

I primi due brani del concerto sono stati scelti da Emmanuel in ricordo di quelli del suo primo podio (calcato a 17 anni, in un ospedale di Vienna!)

Si parte con Dmitri Shostakovic e la breve Ouverture Festiva, composta nel 1947 in occasione dei 30 anni della Rivoluzione. Il fatto che un brano come questo - abbastanza carico di facile retorica e di ingenuo entusiasmo - sia stato ideato da Shostakovich per iniziativa personale e non per compiacere all’establishment del PCUS (lo testimoniano la pubblicazione e la prima esecuzione, avvenute soltanto nel 1954, quindi parecchi anni dopo la composizione) è l’ennesima prova della sincerità dei sentimenti rivoluzionari del compositore, a dispetto di tutte le angherie che aveva dovuto (e ancora avrebbe dovuto) sopportare da parte dei bidelli (nonchè aguzzini) di quello stesso establishment.   

L’Ouverture ha una struttura assai semplice, essendo in forma-sonata priva di sviluppo. Inizia con 26 battute di solenne fanfara introduttiva di trombe, corni e tromboni (Allegretto, 3/4, LA maggiore) cui seguono i due temi dell’Esposizione (Presto, 4/4 alla breve): il primo è assai spiritato, nella tonalità d’impianto, esposto inizialmente dai clarinetti, subito raggiunti dai flauti, poi ripreso dagli archi.

Dopo un moderato ritorno della fanfara il primo tema viene ripetuto e infine sfocia nel secondo che, scolasticamente, è nella dominante MI maggiore. È un tema che giustamente contrasta con il primo anche nell’andamento, più sostenuto e severo, esposto da corni e celli e ripreso ancora dagli archi.

Si passa quasi subito, dopo breve transizione, alla Ricapitolazione: al primo tema in LA ecco seguire, secondo i sacri canoni codificati nell’800, il secondo, adeguatosi ossequiosamente alla tonalità del primo.

Arriva poi la Coda (Poco meno mosso, 3/2) sul Tema della fanfara Introduttiva; e infine la vorticosa Stretta finale (Presto, 4/4 alla breve) sul secondo tema assai accelerato.

Davvero un brano trascinante, assai utile per scaldare i motori di Orchestra e… pubblico che non risparmia applausi a tutti.

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La Seconda Sinfonia in RE maggiore di Beethoven (1800-03) ci riporta proprio agli anni in cui la forma-sonata, timidamente sbocciata nel Settecento, si faceva largo come struttura portante di movimenti di Sinfonie, Quartetti e Concerti. Sinfonia che meriterebbe miglior fama di quella che le si attribuisce, in quanto pari, da chi considera capolavori solo le sinfonie dispari

E invece Tjeknavorian ce ne ha sciorinato tutte le interessanti qualità, che già il pubblico delle prime esecuzioni aveva chiaramente percepito, rimanendone allo stesso tempo ammirato e disorientato.  

Insomma, un’opera che supera di slancio le fanciullaggini (copyright Berlioz) della Prima per inoltrarsi verso il futuro dell’Eroica!

A partire dall’introduzione lenta (Haydn faceva ancora scuola, in quegli anni…) che mostra però arditezze prima sconosciute, come la modulazione a SIb o la perentoria figurazione in RE minore a 11 battute prima dell’Allegro on brio, che anticipa addirittura i precipizi della nona!

L’Esposizione ci presenta il primo tema, in RE maggiore, dapprima nervoso e poi sfociante in maschie e decise cascate di accordi in staccato; dopo una divagazione a RE minore, gli fa da contraltare il secondo, nella dominante LA maggiore, che principia con leziosità femminile e tono scanzonato (come vorrebbe la tradizione) ma poi mostra a sua volta un suo lato più serioso e impegnato. Una cadenza in cui tornano lacerti del primo tema chiude l’esposizione.

Dopo la ripetizione (che Tjeknavorian ha lodevolmente rispettato) ecco lo Sviluppo, dove i due temi ricompaiono variati, in particolare il primo, in SOL minore, fugato, e poi il secondo che viene ora esposto nella sottodominante SOL maggiore; quindi il primo porta alla Ricapitolazione, con il secondo che si adegua al RE maggiore. Un’insolitamente corposa Coda, quasi un nuovo sviluppo del primo tema, conduce alla perentoria chiusura.    

Mirabile la resa del successivo Larghetto in LA maggiore, un movimento solo apparentemente settecentesco, lezioso e disimpegnato, con struttura bitematica (LA e MI maggiore, con soggetto e controsoggetto) in forma-sonata – esposizione-sviluppo-ripresa-coda - ma nel quale Beethoven innesta idee che lo proiettano decisamente nel futuro. Il Direttore sembra centellinarlo proprio come si fa con un vino pregiato, facendocene gustare e apprezzare ogni sfumatura.

E poi lo Scherzo, in RE maggiore, di per sè una sconvolgente novità – scalzare il Menuetto! - per quel periodo. Forse per questo Beethoven non ha poi esagerato con eccessive bizzarrie (un paio di modulazioni a SIb minore e DO, ma anche il Trio resta in RE maggiore) per sfogare poi tutte le sue energie nel concitato Allegro molto, sempre in forma-sonata, RE e LA maggiore.

Tjeknavorian – che ha diretto tutto il concerto a memoria, chiaro segno della cura dedicata allo studio e alla scrupolosa preparazione - ha dimostrato di padroneggiare il brano alla perfezione, ottenendo un meritato successo da un pubblico davvero tutto per lui.

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Chiusura travolgente con la famigerata Quarta di Ciajkovskiuna Sinfonia che l’Autore stesso caricò, con le sue esegesi, di significati e contenuti francamente discutibili; e che potrebbe facilmente portare un giovane entusiasta a strafare, esaltandone l’esteriorità, la retorica e l’enfasi. Ma il simpatico Emmanuel ha mostrato di essere già più maturo di tanti colleghi più navigati di lui, misurando ogni passaggio con meticolosa attenzione: dalle sonorità abbaglianti degli ottoni nei movimenti esterni, alla composta liricità dell’Andantino, con la stupefacente irruzione di clarinetti e fagotti nel Più mosso che ne anima la parte centrale; all’altro lancinante contrasto (nello Scherzo) far il sotterraneo pizzicato ostinato degli archi e l’impertinente ingresso dell’oboe (Meno mosso).  

Insomma, una lettura convincente, coniugata con una piena sintonia fra podio e orchestra: tutti tesi come un sol corpo (e… anima!) per emozionarci una volta di più.

Il pubblico ha congedato tutti con ovazioni e applausi ritmati. Ecco, come esordio, dal Direttore Musicale non ci si poteva aspettare di meglio!


08 giugno, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.24

Il penultimo concerto della stagione 23-24 dell’Orchestra Sinfonica di Milano ci offre un programma tutto russo-sovietico, da fine ‘800 a metà ‘900. E perciò sul podio sale un Direttore che viene da quelle parti, il redivivo Stanislav Kochanovsky, fresco Direttore Principale della NDR RadioPhilharmonie di Hannover.

Ecco quindi Ciajkovski e il suo iper-inflazionato Primo Concerto per pianoforte, interpretato dalla bella 41enne Anna Vinnitskaya da Novorossysk (un posto oggi piuttosto insicuro, a ridosso della Crimea, preso spesso di mira dai resistenti ukraini) ma ormai stabilitasi in occidente e in Germania in particolare.

Esecuzione davvero trascinante, negli enfatici passaggi dei due movimenti esterni come nei languori dell’Andantino semplice e nei virtuosismi delle cadenze. Da parte sua Kochanovski ha gestito con equilibrio il dialogo con la solista, accompagnandola sempre con discrezione, salvo scatenare l’orchestra quando necessario.

Accoglienza trionfale per la Vinnitskaya che ci ha regalato ancora Ciajkovski e poi il Mendelssohn veneziano della Romanza senza parole op.30, n°6. 
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Il secondo brano in programma è – al contrario del primo - di abbastanza rara esecuzione: si tratta di 6 dei 18 brani che costituiscono le quattro Suites dal balletto Spartak dell’armeno (nato peraltro a Tbilisi, in Georgia) Aram Khachaturian, che nella parte centrale del ‘900 fu, con Shostakovich e Prokofiev, uno dei principali alfieri della musica sovietica, avendo quindi con il regime rapporti altalenanti, fra incarichi, onorificenze e… zdanoviane accuse di formalismo.

Il balletto, del 1954, si ispira alle gesta di Spartacus, eroe della Tracia che più di 2000 anni orsono guidò a Roma una delle rivolte degli schiavi. Una figura emblematica dello spirito di lotta per la libertà, che quindi ebbe in URSS vasta popolarità (anche nello sport, vedi lo Spartak Mosca, una delle più titolate squadre calcistiche del mondo sovietico).

Khachaturian ricavò via via ben quattro Suites dalle musiche del balletto. Lo schema sottostante ne riporta la struttura, affiancata dai sei numeri liberamente scelti da Kochanovsky per questo concerto.

Suite
Brano
Kochanovsky
I
1. Introduzione e danza delle ninfe
 
 
2. Adagio di Aegina e Harmodius
 
 
3. Variazioni di Aegina e Bacchanalia
2
 
4. Scena e danza di Crotalusa
3
 
5. Danza delle Gaditanae – Vittoria di Spartacus
6
II
1. Adagio di Spartacus e Frigia
4
 
2. Entrata dei mercanti – Danza delle cortigiane romane – Danza generale
5
 
3. Entrata di Spartacus – Contesa – Tradimento di Harmodius
 
 
4. Danza dei pirati
 
III
1. Danza dello schiavo greco
 
 
2. Danza della fanciulla egiziana
 
 
3. Intermezzo notturno
 
 
4. Danza di Frigia – Scena del commiato
 
 
5. Al circo (Danza delle spade)
1
IV
1. Danza malinconica di Bacchante
 
 
2. Processione di Spartacus
 
 
3. Morte del gladiatore
 
 
4. Chiamata alle armi – Rivolta di Spartacus
 

È tipica musica da film, o da musical, orecchiabile, con qualche inflessione sincopata, o di jazz e di swing… ma vi troviamo anche squarci di grande lirismo.

In platea ad ascoltare c’era anche un altro personaggio di origine armena, quell’Emmanuel Tjeknavorian che fra poche settimane sarà anche formalmente il nuovo Direttore Musicale dell’Orchestra di casa.

Dopo la vibrante esecuzione dei brani della Suite di Spartacus, accolta da trionfali applausi, Kochanovsky e l’Orchestra hanno offerto come bis quello che è un po’ il marchio di fabbrica di Khachaturian!