XIV

da prevosto a leone
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18 luglio, 2019

Un dittico per Maestri (e allievi) alla Scala


Ieri sera la Scala ha ospitato - in una sala con ampi spazi vuoti... - la penultima recita del dittico Salieri-Puccini, una delle tappe del Progetto Accademia, mirante a valorizzare le giovani risorse scaligere affiancandole a direttori e cantanti di prestigio. Così questo spettacolo bifronte ha avuto come garanti Adam Fischer sul podio e Ambrogio Maestri in palcoscenico.     

Prima la musica e poi le parole (lo scorso 6 luglio ebbe il suo debutto assoluto al Piermarini) è un Divertimento teatrale il cui soggetto per certi versi anticipa di 130 anni l’Ariadne di Strauss-Hofmannsthal: qui il mecenate di turno accorda pochi giorni a poeta e musico (in perenne disaccordo... filosofico) per approntare uno spettacolo di teatro musicale. Le due protagoniste (antesignane di Ariadne e Zerbinetta) sono una professionista di alto rango e una ruspante soubrette, che separatamente mettono in mostra le loro opposte prerogative, per poi cooperare ad un improbabile sincretismo estetico, con tanto di finale trionfalistico.

La produzione era affidata a Grischa Asagaroff, che si è avvalso di scene e costumi di Luigi Perego: la scena è occupata da suppellettili che ricordano enormi casse armoniche di strumenti ad arco, più un gigantesco contrabbasso-tuba e un clarinettone. Una minuscola spinetta serve al musico (Maestri) per accompagnare le due cantatrici. A sinistra fa da divano un enorme volume di poesie di Giacomo Leopardi, aperto sull’Infinito quando è in scena la cantante seria e sul Passero solitario quando subentra la cantante pop. (Chiedere al regista le recondite relazioni...)

Ramiro Marturana rivaleggia con il... Maestri nei battibecchi a sfondo estetico, mentre la ruspante Francesca Pia Vitale mi è parsa più efficace, vocalmente, della sostenuta Anna-Doris Capitelli (acconciata in stile Madonna). 

Adam Fischer, che viene dall’Ungheria degli Esterhazy, ha maneggiato con cura questo cammeo di Salieri che rivaleggia più con Haydn che con il rivale Mozart. All-in-all una proposta apprezzabile e apprezzata da questo pubblico, ehm... selezionato.
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Per Gianni Schicchi (qui una mia nota sul soggetto) Pereira ha importato da LosAngeles (dove lui mai fu sovrintendente, sia chiaro per i maliziosi...) la produzione 2008 che vide l’esordio di Woody Allen nella regìa d’opera.

La scena di Santo Loquasto ci mostra, sul classico quanto inflazionato panorama fiorentino, uno spaccato da ghetto del Bronx, fra strutture in ferro arrugginito e cavi stendi-biancheria. C’è anche la tecnologia sanitaria vintage, con tanto di bombole per la respirazione artificiale del... finto Buoso. Il quale è impersonato mimicamente da Fabio Vannuzzi che viene dislocato (morto) all’ingresso della sua (ormai ex-) casa quasi fosse un mendicante, cui il medico Spinellaccio e il notaio Amantio fanno l’elemosina (!)

A parte Maestri, che ovviamente non si discute, discretamente hanno fatto i due amanti Chuan Wang e Francesca Manzo (che si è presa il suo applauso di prammatica dopo il Babbino); bene la bisbetica Zita di Daria Chernyi. Ma tutti - inclusi Direttore e Orchestra - han dato il loro valido contributo alla riuscita piena dello spettacolo.

L’Accademia, dopo aver chiuso la stagione prima delle ferie, la riaprirà il 2 settembre con due inossidabili tutor: il Rigoletto Leo Nucci e Daniel Oren.

26 febbraio, 2018

Un bel Trittico a Reggio E. dopo 10 anni


Nel suo imprescindibile testo su Puccini, Michele Girardi cita un aneddoto (riportato originariamente da Ferruccio Pagni e Guido Marotti nel loro Giacomo Puccini intimo del 1926, poi ristampato nel 1943) che riguarda le curiose circostanze nelle quali sarebbe stato attribuito il nome Trittico ai tre atti unici di Puccini. Dunque, la cosa avvenne in un circolo di pittori (Pagni era uno di loro) di Torre del Lago, dove emersero le proposte più bizzarre, quali treppiede, triangolo, tritono, trinità. Chissà (ma questo lo immagino io) se qualcuno per caso suggerì anche... tricolore

E con ciò? direte voi. Niente, solo che ieri stavo per caso nella città del Tricolore che ha ospitato (al Valli) la prima delle due recite del Trittico pucciniano, tornato colà - passando per Modena e Piacenza e prima di muovere verso Ferrara - a 10 anni di distanza dalla precedente visita. Quella ripresa oggi è la produzione del Teatro modenese del 2007, per la regìa di Cristina Pezzoli.

Credo sia doveroso elogiare subito l’organizzazione di questo tour del Trittico, che comporta evidentemente enormi e molteplici difficoltà (dalla composizione di un cast pletorico, ai relativi problemi economici); difficoltà che da sempre hanno fortemente limitato la messa in scena di questa trilogia, abitualmente spacchettata nelle sue componenti, magari poi abbinate ad altre opere brevi. Al proposito cedo la parola ad un’altra autorità pucciniana, Julian Budden:

Budden fa riferimento all’interpretazione drammaturgica del Trittico di Mosco Carner, con relativo riferimento ai tre cantici della Commedia dantesca:


Budden giustamente osserva come quel parallelo sia assai azzardato (lo stesso spunto per lo Schicchi - l’Inferno - lo smentirebbe per definizione). E quindi l’ostilità di Puccini verso lo smembramento della trilogia (come correttamente ricorda Carner, testimoniando anche la sua personale predilezione per la messinscena unitaria) fu più probabilmente legata a ragioni estetiche che non al supposto riferimento dantesco.

Peraltro non si può escludere che Puccini abbia pensato ad un qualche filo rosso che leghi le tre operine. Come minimo, non v’è dubbio che in tutte sia protagonista, sotto forme pur diversissime, la morte. Violenta e verista nel Tabarro, nobile e trasfigurata nell’Angelica, infine trattata parodisticamente quanto prosaicamente nello Schicchi. Insomma, una trilogia da necrologio!
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Ieri credo che il protervo fratellone russo dell’innocua buriana abbia dissuaso molti dal muoversi da casa: fatto sta che parecchi posti del Valli sono andati deserti... In compenso chi ha assistito ha applaudito anche per gli assenti, ecco.

L’allestimento - di quelli che sarebbero da catalogare nella categoria tradizionali, nel senso che mostrano il soggetto originale e non una sua genialoide contraffazione - mantiene ancor oggi, a 10 anni di distanza, tutta la sua freschezza e gradevolezza, restituendoci con grande efficacia la sostanza di queste tre varianti sul tema del trapasso: quella di un abietto scenario di precarietà e degrado; l’altra, di psicologica soperchieria della società ai danni di una donna colpevole di reato-d’amore; la terza, di somma ipocrisia di chi (eredi legittimi o approfittatori, fa lo stesso) nella morte cerca solo il proprio tornaconto.

Da encomiare la compagnia di canto, ovviamente con alti (Ambrogio Maestri, chi se no) e... diversamente alti (la Svetlana Kasyan, un gran vocione ma di qualità da migliorare assai). Brava la Anna Maria Chiuri (unica presente nelle tre opere) e bravissimi, direi, i due tenori (Rubens Pelizzari nel Tabarro e Matteo Desole nello Schicchi). Tutti e tutte le altre da elogiare in blocco, così come i cori (adulti e... minorenni) di Modena. 

La ORER ha offerto una brillante esecuzione di queste difficili partiture, ben condotta da Aldo Sisillo, preciso e puntuale nella concertazione.
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Allego con l’occasione un bel profilo pucciniano comparso nel luglio del 1990 su Musica&Dossier a firma di Gustavo Marchesi.

19 maggio, 2017

2017 con laVerdi – 20


Continuando una ormai consolidata tradizione, laVerdi inserisce nel programma della stagione principale l’esecuzione di un’opera lirica in forma di concerto (ricordiamo Chénier, Butterfly, Cavalleria...) Quest’anno è la volta di Gianni Schicchi, affidato alla bacchetta di John Axelrod e alle voci della Scuola dell'Opera del Comunale di Bologna.

“...come l’altro che là sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sè Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma.”

Così Dante, Inferno, XXX. Si parla di Gianni Schicchi  che si sostituì al morto Buoso Donati che nel testamento olografo aveva lasciato tutti i suoi beni ai monaci, e in sua vece dettò al notaio un falso (ma registrato come regolare) testamento, dove indicò sè medesimo come erede dei beni del Donati. Fra essi "la donna de la torma”, che non è una specie di regina-delle-amazzoni, ma la mula più pregiata di tutta Firenze (Madonna Tonina era il suo nome, come ricordò Orazio Bacci in una sua lettura pubblica del canto dantesco il 10 maggio del 1900 in Orsanmichele a Firenze). Il principale gabbato fu il figlio (o fratello secondo alcuni) del Buoso, Simone, che aveva ingaggiato Schicchi per farsi nominare erede universale nel falso testamento, e invece si ritrovò con un pugno di mosche.

Il racconto particolareggiato della vicenda (dove il protagonista è chiamato Sticchi) si ritrova nel Commento alla Divina Commedia d’Anonimo fiorentino del secolo XIV°, originariamente pubblicato nel 1866 da Pietro Fanfani in appendice alla sua edizione del poema dantesco. Ne ho trovata traccia anche in una riedizione (Sansoni 1957) della D.C. con il commento di Tommaso Casini (1892) che mi fu regalata come premio scolastico 60 anni fa (!)


Orbene, a partire da questi scarni tratti di sapida cronaca fiorentina (e anche dai riferimenti al Volpone di Ben Jonson del 1605, compreso l’indirizzo finale del protagonista al pubblico) il genio di Giovacchino Forzano seppe costruire uno splendido libretto di cui Puccini letteralmente si innamorò a prima vista, dandogli la precedenza assoluta nel musicarlo, abbandonando momentaneamente la SuorAngelica.

Innanzitutto: in luogo del solo Simone il librettista schierò in scena l’intero parentado di Buoso (8 adulti più il piccolo Gherardino) e ciò diede modo a lui e a Puccini di creare le esilaranti e tragicomiche atmosfere che caratterizzano l’intera commedia. Poi aggiunse un tocco di genio con l’invenzione del personaggio del medico, che rese possibile la brillante scenetta del test di credibilità del travestimento di Schicchi. Ancora ecco l’invenzione dei rintocchi di campana a morto che gettano (solo momentaneamente) nella disperazione parenti e simulatore. Infine introdusse, legandola mirabilmente al soggetto principale, l’immancabile vicenda sentimentale, con annessa coppia soprano-tenore, tanto per garantire la presenza di un paio di arie e duetti... Il tutto con lo sfondo della magnifica Firenze, socialmente e culturalmente arricchita da apporti del vicinato: Val d’Elsa e Mugello (viene citato persino il Medici, che nel 1299 era ancora di là da venire.) 

Insomma, un vero gioiello, che non a caso è rapidamente divenuto il più famoso e rappresentato dei tre componenti del trittico, ovviamente grazie anche alla musica di Puccini, che dall’esecuzione in forma di concerto viene ancor più messa in risalto. 

Come per Verdi il Falstaff, lo Schicchi rappresenta per Puccini l’unica opera buffa, o semiseria, o commedia brillante che dir si voglia. Non c’è dubbio che Puccini abbia guardato a Falstaff come ad un eccelso modello, mutuandone l’umorismo sottile ed anche aspetti apparentemente marginali. Cito ad esempio una similitudine, microscopica nella dimensione, ma illuminante nel significato: fra l’espressione di Schicchi (“...cinque lire”) mentre annuncia il ridicolo lascito per Frati e SantaReparata, e quella di Falstaff (“...un’acciuga”) mentre legge la lista dell’oste:


Non mancano riferimenti a musicisti contemporanei a Puccini: Strauss fa capolino qua e là, e una reminiscenza mahleriana si riconosce nella chiusa del duetto finale Rinuccio-Lauretta:
 
Non a caso il duetto si è chiuso con “...il Paradiso” e il Ruhevoll della 4a di Mahler apre appunto le porte alla “vita celestiale”.
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Un Auditorium non propriamente preso d’assalto ha tributato un grande successo a tutti i protagonisti della serata: il Direttore e l’Orchestra, che hanno fornito una prova maiuscola (l’unico appunto che mi sento di fare ad Axelrod è di aver esagerato con il fracasso - pareva l’ottava di Mahler - con il quale ha sottolineato il parapiglia che segue l’uscita di scena del notaio, coprendo così le voci) e i bravissimi cantanti della Scuola bolognese, una piacevole sorpresa che testimonia della vitalità del mondo della lirica.

Mi limito a citare i tre protagonisti principali: Marta Torbidoni, il cui Babbino non ha mancato di ricevere l’applauso a scena aperta (innescato da... Axelrod); Rosolino Cardile (Rinuccio) che ha sfoggiato voce squillante e ben impostata; e lo Schicchi di Alex Martini, davvero convincente sia nel canto che nella sensibilità interpretativa (la contraffazione della voce del Buoso).

Insomma: una piacevolissima serata, che si ripeterà oggi e domenica.

24 marzo, 2014

A Torino fra tragedia e commedia


Il Regio torinese ha in programma in questi giorni un dittico bifronte, serio-leggero. Resterà famoso nella storia quello che fu programmato alla Fenice in occasione della prima di Elektra (1938) allorquando alla tragedia straussiana si fece seguire Il signor Bruschino (!) Anche qui – cosa del resto già fatta alla Scala proprio 10 anni fa - abbiamo l’accoppiata  tragedia + commedia, e così la par-condicio è salva e tutti vanno a casa soddisfatti, anche se a Torino la tragedia viene (grazie al regista) privata della sua genuina conclusione… idilliaca, come vedremo meglio.  

Una tragedia fiorentina (1917, da Wilde) precede di circa un anno lo Schicchi (1918, testo di Forzano) e con esso condivide l’ambientazione gigliata. Poi però, a parte le circostanze belliche in cui furono composte e le comuni viste sull’Arno, le due opere hanno assai poco in comune. E non solo per i soggetti alquanto divergenti, ma proprio per i contenuti squisitamente musicali: tanto maledettamente salace e genuinamente italico quello di Puccini, quanto cerebralmente e incorreggibilmente crucco (non è un’offesa, occhio!) quello di von Zemlinsky

Il regista Vittorio Borrelli ha pensato bene di risparmiare… sull’affitto collocando le due vicende nello stesso caseggiato, più o meno trasportandole all’epoca in cui le opere videro la luce. Il che tutto sommato non nuoce, né scandalizza più di tanto.

Quanto a Stefan Anton Reck, la sua origine (anagrafica e musicale) teutonica non gli impedisce di gestire con la dovuta spigliatezza anche la brillante partitura pucciniana.
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Eccoci quindi, in un teatro non propriamente affollatissimo, alla Tragedia fiorentina. Caspita come si corre veloci oggi, ha commentato il mio vicino di posto sul treno che ci portava a Torino: su Renzi han già fatto anche un’opera lirica… (tera-smile!)

Beh, va detto che della tragedia c’è effettivamente un ingrediente indiscusso e indiscutibile: un omicidio per strangolamento in piena regola. Però tutto il resto della vicenda ha davvero dell’incredibile e del gratuito. Andiamo con ordine.

Siamo nella Firenze del ‘500 e un commerciante rientra a casa prima del previsto trovandovi la sua mogliettina in compagnia piuttosto sospetta di un giovane. Fin qui sembra Hunding che torna da Sieglinde e vi scopre Siegmund: qualche vago sospetto del padrone di casa viene mascherato da affettate profferte di ospitalità, soprattutto dopo che il giovane intruso si è manifestato per il figlio del Duca della città.

Dopo aver cercato (o fatto finta) di vendergli un po’ della sua mercanzia (stoffe e abiti alla moda) il commerciante si dice pronto ad offrire all’ospite qualunque cosa gli aggradi. E qui ecco il primo fatto poco plausibile: il giovane nobile chiede con tutta naturalezza di avere la donna (sic!) Ma non basta, perché il marito, invece di dargli la risposta più ovvia, cerca semplicemente di dissuaderlo minimizzando le qualità della moglie (la bellezza le è rifiutata… arriverà a dire di lei!)

La quale moglie si lascia sentire dal marito mentre dichiara al giovane di volerlo morto! Poi, con il commerciante in giro per la casa, i due amanti si abbracciano e si baciano sulla bocca come nulla fosse. E come nulla fosse il duchino dice poi che si è fatto tardi e fa per andarsene a casa non senza aver ottenuto dalla donna un appuntamento galante per il mattino successivo (!)

Portandogli cappa e spada il commerciante si ricorda di possedere a sua volta un brando arrugginito e invita il giovane a incrociare qualche colpo. La cosa da scherzosa diventa seria: dopo essere stato ferito di striscio, il padrone di casa disarma l’ospite, poi a mani nude lo mette sotto e infine lo strangola senza misericordia.

A nulla valgono le implorazioni del giovane e la donna per parte sua ben si guarda dall’intervenire, come potrebbe, per difenderlo dalla ferocia del marito. Passato il duchino a miglior vita, il commerciante si volge verso la moglie per completare l’opera di fustigazione dei costumi.

E qui la tragedia si muta in… farsa. La donna sbotta estasiata: caro, perché non mi avevi mai detto di essere così forte? E l’uomo, già pronto a strozzarla, trasalisce e risponde: toh, e tu perché non mi hai mai detto di esser così bella? E l’opera si chiude con i due che si baciano sulla bocca… (roba da chiodi!)

In molti si sono naturalmente cimentati nel cercare di spiegare cosa di criptico ci può esser sotto ad una simile strampalata conclusione. Così mi ci provo anch’io, tanto per passare il tempo. Lo spunto me lo ha dato quella specie di monologo che il padrone di casa recita a metà circa dell’atto unico, dopo aver parlato di affari e di politica con il suo (anzi… di sua moglie) ospite, piuttosto disinteressato a tali argomenti, per la verità. Dice infatti: Dunque, tutto quanto il vasto mondo è chiuso fra le quattro mura di questa stanza, e solo con tre anime ad abitarvi?

Personalmente mi stuzzica sempre immaginare dietro questi triangoli delle allegorie di grandi fenomeni di carattere storico-politico-sociale. Nella fattispecie ipotizzo la donna di casa essere la classe operaia che, sfruttata dalla borghesia capitalista, si concede all’aristocrazia, che obiettivamente esercita ancora su di lei un certo fascino… Poi però, nel momento in cui la borghesia soffoca (letteralmente!) la nobiltà, ecco che alla classe operaia non resta che riconoscerne la forza e lo strapotere e (fingere di?) buttarsi fra le sue braccia. Beh, erano fenomeni sotto gli occhi di Wilde come poi di Zemlinsky, o no?

Ecco, invece pare che il regista non abbia potuto sopportare questa pagliacciata (una tragedia è una tragedia, vivaddio!) e quindi ha mandato Wilde e Zemlinsky a quel paese e la fedifraga all’altro mondo, come del resto si merita! Beh, per essere la prima rappresentazione in assoluto al Regio, dopo quasi un secolo di vita, come rispetto dell’originale non c’è malaccio (smile!) E poi tutto ciò alle mie orecchie contraddice abbastanza la chiusa musicale di Zemlinsky, con quel celestiale diminuendo in LAb maggiore dell’intera orchestra, che sa poco di Tod e tanto di Verklärung (giusto per citare il compositore che, con il rivale-in-amore Mahler, più ha lasciato tracce nella musica del nostro).

Mattatore è stato ovviamente il beniamino di casa, Mark S. Doss, che ha sostenuto da par suo una parte piuttosto impervia e faticosa, anche fisicamente. Discreta la prova di Zoran Todorovich e rimarchevole, soprattutto per la… ehm, presenza scenica, quella di Ángeles Blancas Gulín. Insomma, per il piuttosto misconosciuto Zemlinsky un debutto torinese più che accettabile.
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Lo Schicchi è una vera perla, non lo si scopre da oggi, e se il cast è all’altezza non può non piacere e divertire. Con l’intelligente e sobria regia di Borrelli e un’orchestra ben guidata da Reck, chi si è distinto su tutti è Francesco Meli, ancora una volta confermatosi tenore di razza. Con lui Alessandro Corbelli, un protagonista efficacissimo e poi la Serena Gamberoni cui non è mancato l’applauso a scena aperta, di prammatica dopo il Babbino.

Ma bene han fatto tutti gli altri. Alla fine, quando Schicchi recita la frase conclusiva e batte le mani… ecco che è scattato inevitabilmente l’applauso del pubblico, che ha coperto le ultime nove, esilaranti battute in SOLb di Puccini. Ma va bene anche così…