XIV

da prevosto a leone
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01 febbraio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.14 - Axelrod

Il classicismo viennese occupa la locandina di questo 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano che vede il gradito ritorno sul podio dell’Auditorium di John Axelrod. In programma Mozart e Beethoven!

Del sommo Teofilo riascoltiamo, dopo più di sei anni (novembre ’18, dir. Fournillier) il Concerto per flauto e arpa (K299). E come allora i due solisti sono le rispettive prime parti dell’Orchestra, Nicolò Manachino ed Elena Piva.

Concerto composto a Parigi (durante il lungo viaggio del 1778, funestato alla fine dalla morte della madre) su commissione del Duca di Guines, che era discreto flautista ed aveva una figlia che si dilettava con l’arpa (Mozart fu suo maestro ma, a dirla tutta, dopo un’iniziale apprezzamento, finì per considerarla musicalmente una nullità…)

Ma non per questo si tratta di un brano povero di contenuti, caso mai si può pensare che Mozart abbia privilegiato nella composizione uno stile galante e lezioso, evitando arditezze eccessive per i due commisionanti-dedicatari dell’opera. Lo testimoniano anche le tonalità (DO di impianto, SOL e FA ancillari) con il minimo di accidenti. Che abbondano nelle famose cadenze di Carl Reinecke, assai ricche di cromatismi… ma non impiegate qui, in favore di altre più vicine allo spirito mozartiano.

Grande prestazione del duo dei campioni di casa, calorosamente applauditi da un pubblico foltissimo e, soprattutto, con ampia e confortante rappresentanza di giovani e giovanissimi, ricambiati da una pregevole Elegia

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Ecco, infine, la più celebre delle Pastorali, che riascoltiamo in Auditorium a distanza di quasi otto anni: luglio ’17, ciclo delle 9 sinfonie dirette da Flor (qui una mia notazione, più che altro statistica, scritta a quel tempo e purtroppo – ah, il progresso! - infarcita di web-link andati nel frattempo a meretrici…)

Come sappiamo, fu proprio lo stesso Beethoven, seguendo illustri esempi provenienti dal passato, ad introdurre nel corpo della Sinfonia qualcosa di extramusicale, addirittura dotando l’opera e i suoi cinque movimenti di dettagliati titoli descrittivi: Ricordi di vita campestre (più espressione di sentimenti che pittura); (1) Gradevoli, serene sensazioni che si risvegliano nell’uomo all’arrivo in campagna; (2) Presso un ruscello; (3) Allegra riunione di paesani; (4) Tuoni. Uragano; (5) Canto di pastori. Benefici sentimenti accompagnati da ringraziamenti alla divinità, dopo l’uragano.  

Si premurò di precisare che non trattavasi di pittura (leggasi: descrizione di luoghi o fenomeni) ma di espressione di sensazioni provate al cospetto di tali luoghi o fenomeni. Poi però, temendo di non essere abbastanza chiaro, sentì il bisogno di scrivere esplicitamente fra i righi musicali i nomi di tre volatili colà rappresentati da suoni di strumenti dell’orchestra: usignolo, quaglia e cuculo!

Insomma, con la sua Sesta, Beethoven cominciò a sdoganare l’idea che una composizione sinfonica potesse avere, oltre a quello tutto interno e privato dell’Autore, anche un programma esplicitamente extra-musicale. Aprendo quindi la strada a Berlioz, Liszt e a tutti i loro epigoni cresciuti lungo l’800 e pure dopo. Uno dei quali (tale Mahler) dopo aver spiegato pubblicamente i programmi extramusicali delle sue prime cinque Sinfonie (così sperando di convincere il pubblico a comprenderle e digerirle meglio!) ritirò tutti quei programmi per invitare il pubblico stesso ad abbandonarsi al rapsodo, senza far caso ad alcun esplicito riferimento! [Fra poco vedremo come Axelrod applichi un concetto analogo alla Pastorale.]

Ripropongo qui il link ad un fulminante, gustosissimo articolo di John Simon, che ridicolizza il concetto stesso di musica descrittiva… Al quale ne aggiungo uno mio personale: È la musica in grado di descrivere alcunchè?  

Ma, tornando a bomba, assai più interessante è stata invece la chiacchierata che Axelrod in persona ci ha propinato prima del concerto, nella consueta conferenza delle 18:30 organizzata da Pasquale Guadagnolo, nella quale il direttore texano ha esposto la sua vision dell’opera.

Che è mutuata dai contenuti di un testo scientifico della psichiatra svizzera, naturalizzata statunitense, Elisabeth Kübler-Ross che, avendo per ragioni professionali seguito diversi casi clinici, ha schematizzato l’ideale percorso psicologico di persone che scoprono di essere affette da malattie incurabili, suddividendolo in 5 fasi distinte (proprio come i 5 movimenti della Sinfonia, osserva Axelrod): si va dalla fase (1) di Negazione (della malattia) ed isolamento; alla (2) di Rabbia (indotta dalla consapevolezza); alla (3) di Contrattazione (promettere qualcosa in cambio di sollievo dalla malattia); alla (4) di Depressione (per la perdita irreparabile di parti di se stesso); e infine alla (5) di Accettazione (e isolamento in attesa della fine).

Ecco, alla luce di questa teorizzazione dei comportamenti umani di fronte alla prospettiva esistenziale legata alle conseguenze di malattie incurabili, Axelrod - invertendo peraltro le posizioni delle fasi (2) e (4) - prova ad interpretare, anche con precisi riferimenti alla partitura, i cinque movimenti della Pastorale come il percorso psicologico di Beethoven, condizionato dalla sua irreparabile sordità: la messa su pentagramma di quei suoni di natura (ecco il riferimento a Mahler e ai suoi programmi ripudiati) che ormai poteva ascoltare soltanto nella sua mente…

Interpretazione accattivante, anche se forse un po’ troppo… freudiana, oltre che strettamente legata alla condizione esistenziale di Beethoven (la sordità): quasi che la sinfonia non fosse il frutto di ciò che Beethoven voleva dirci (e ci ha chiaramente descritto in partitura) ma di ciò che il suo inconscio gli abbia dettato, sotto la pressione della malattia. Ma allora non si spiegherebbe come Beethoven abbia poi composto la Settima (francamente in-interpretabile secondo il metodo psicanalitico della Kübler-Ross, così come l’Ottava e la Nona).

Va dato atto all’onestà intellettuale del Direttore di non pretendere di avere la verità in tasca: ciascuno è libero di condividere o meno questa sua interpretazione psicanalitica. Dopodichè l’esecuzione è stata trascinante ed ha portato tutto il pubblico (comunque l’abbia vissuta) ad apprezzarla al massimo grado, almeno a giudicare dalle ovazioni e applausi ritmati rivolti a Direttore e strumentisti.

24 novembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°8


Uno dei tre Direttori Principali Ospiti de laVerdi, Patrick Fournillier, torna sul podio per proporci un programma dall’impaginazione classica: Ouverture, Concerto solistico e Sinfonia. Gli autori (e questo è meno usuale) sono Mozart e Gounod.

Si apre con l’Ouverture da Le nozze di Figaro, 4 minuti più o meno di effervescenza che l’Orchestra ci serve proprio come si stappa una bottiglia di spumante! Esecuzione davvero travolgente, che serve a mettere il pubblico nella migliore disposizione d’animo per seguire con interesse ciò che segue.
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Adesso sono due prime parti dell’Orchestra a guadagnare il proscenio, con relativi oneri ed onori, per porgerci il Concerto per flauto e arpa (K299), assente dalla programmazione dell’Orchestra da 20 anni!

I due sono il vercellese Nicolò Manachino, recente acquisto de laVerdi, dove ha preso il posto di Max Crepaldi, migrato un paio d’anni fa verso la Scala; ed Elena Piva, ormai storica arpeggiatrice in Auditorium (col fisico da modella che si ritrova, dobbiamo ringraziarla per aver preferito il tavolato del palcoscenico alle passerelle della moda...)

Concerto composto dal 22enne Teofilo a Parigi, su commissione del Duca di Guines, che era discreto flautista ed aveva una figlia che si dilettava con l’arpa. Ma non si pensi per questo che il lavoro sia alla portata di qualunque principiante! (Anche il Triplo di Beethoven fu composto in omaggio a nobili dilettanti, eppure è un monumento artistico...) 

I due moschettieri dell’orchestra si vanno valere - da incorniciare soprattutto l’Andantino centrale - ed ottengono un gran successo, ripagato con due applauditissimi bis. Apprezzabile la trascrizione del Claire de Lune di Debussy, dove all’arpa (che può, come il pianoforte, emettere contemporaneamente più suoni) è stato riservato un ruolo di primo piano, fin dalle primissime battute dove viene esposto, per terze, il mirabile tema.
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Infine ecco Gounod e la sua Sinfonia n°1 in RE maggiore, nei canonici quattro movimenti, che laVerdi esegue per la prima volta. Opera di un Gounod 36enne che a fronte dei riconoscimenti pubblici (vedi Prix de Rome, conseguito nel ‘39 a 21 anni!) ancora non aveva sfondato... cosa che gli riuscirà pochi anni dopo con il suo Faust.

Seguiamola dalla bacchetta del compianto sir Neville Marriner con la sua celebre orchestra londinese.
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Apre un Allegro molto in 4/4 alla breve, in forma-sonata, con due poderosi accordi (tonica e dominante) seguiti nei fiati da un inciso, una specie di motto che avrà importanza capitale nel seguito, ricomparendo, in forme diverse, lungo l’arco dell’intero movimento:
A 8” ecco l’esposizione, che presenta due temi francamente poco contrastanti (più Schubert che Beethoven...) Al primo, in RE maggiore, risponde a 15” un controsoggetto nella dominante LA maggiore, aperto dal motto udito poco prima. A 29” ritorna il tema in RE e poi, dopo il controsoggetto in LA, questa tonalità permane canonicamente per la transizione, iniziata dai clarinetti a 56”, verso il secondo tema (1’10”) di cui si ricorderà evidentemente l’allievo Bizet nella sua giovanile Sinfonia in DO, quasi coeva di questa del maestro. L’esposizione si chiude, dopo due schianti di LA e MI seguiti dal solito motto, a 1’42”, per essere ripetuta da-capo, fino a 3’15”.

Lo sviluppo inizia proprio riprendendo il motto e reiterandolo prolungatamente, fino a 3’36” dove riappare il secondo tema, nella sottodominante SOL, in maggiore, poi minore, sfociante (3’53”) nella relativa SIb maggiore (!) Ancora il motto (4’05”) introduce un lungo passaggio che riconduce al RE maggiore del primo tema.

É difficile individuare un momento preciso per l’inizio della ricapitolazione, ma lo possiamo proprio posizionare qui (4’37”) camuffato all’interno dello stesso sviluppo. Poi infatti, a 4’57”, ecco tornare la transizione al secondo tema (5’11”) accodatosi, come da sacri canoni, alla tonalità del primo. É lui a condurci verso la conclusione, con una coda (5’36”) che sfocia (6’24”) in una isolata riapparizione (anche qui Bizet scopiazzerà, nel finale della sua sinfonia) nei corni del motto, prima dei due prosaici schianti dominante-tonica.

Il secondo movimento, invece del tradizionale Andante (o addirittura Adagio) è un Allegretto moderato, 2/4 nella relativa RE minore. Il primo tema è un motivo saltellante, esposto dai soli archi, sfociante nella relativa FA maggiore, che viene subito ripreso anche dai legni. Poi, da 20”, viene ulteriormente sviluppato fino a raggiungere, con la sua cellula iniziale, un culmine (o climax, se si preferisce...) a 57”.

Da qui si diparte una breve transizione che porta, a 1’12”, alla presentazione, nell’oboe, del secondo tema, in SIb maggiore; motivo il cui incipit non può non ricordare quello, sempre in maggiore, della Scène aux champs di Berlioz, cui segue un controsoggetto (1’21”) prima della ripresa del tema, a 1’31”.  A 1’50” ecco un pretenzioso ma interessante passaggio fugato che porta, spegnendosi via via, alla conclusione sull’accordo di RE minore.

Ora abbiamo il canonico Scherzo (3/4, Non troppo presto) nella relativa seconda di RE maggiore, il FA maggiore. Qui siamo in realtà più al menuetto, con il suo incedere lezioso, che sfocia nella dominante DO (27”) dove abbiamo il da-capo, fino a 53”. Attacca quindi il secondo tema (o gruppo tematico) con una divagazione ardita a LAb maggiore e da qui, più canonicamente, a DO maggiore (1’03”) dove torna il motivo del primo tema, poi seguito da saltellanti salite e discese, per arrivare (1’29”) ad una sua riesposizione come dominante del FA di impianto, sulla quale tonalità si chiude (2’06”) lo Scherzo.

Marriner omette il da-capo del secondo gruppo tematico per passare direttamente al Trio, di struttura bipartita, nella sottodominante SIb maggiore. Stante il piglio blando dello Scherzo, viene a mancare qui lo stacco tipico fra le due sezioni del movimento. La prima parte è abbastanza breve, fino a 2’26”, dove viene ripetuta, fino a 2’47”. La seconda parte è più articolata, ma non si discosta dall’ambientazione dell’intero brano, e chiude a 3’29”, dove abbiamo la ripetizione. A 4’10” torna lo Scherzo, senza ripetizioni. Curiosamente, e significativamente, l’indicazione di ripresa reca la dicitura: D.C. il minuetto (!)

Il Finale in RE maggiore (Adagio, 4/4 - Allegro vivace, 4/4 alla breve) inizia con 20 battute lente, che hanno un sapore beethoveniano (qualcosa dell’Adagio della nona e poi - a 55” - dell’introduzione della prima). L’introduzione lenta in RE maggiore si chiude bruscamente (1’54”) con quattro battute di Allegro che portano (1’57”) all’esposizione del primo tema, un frizzante motivo negli archi che cade sulla dominante LA, subito ripreso (2’04”) con l’accompagnamento dei fiati. Il tema si chiude con due sospensioni, sulla sottodominante e poi sulla sesta abbassata (2’11” e 2’15”). Una breve transizione porta (2’24”) ad un motivo esposto da una baldanzosa fanfara di trombe, cui rispondono i corni, poi ripetuta (2’31”) con modulazione alla relativa SI minore. Lo sviluppo di questo motivo conduce a un’ulteriore modulazione sulla dominante LA (2’45”) che prepara l’arrivo del secondo tema.

Tema (3’01”) il cui incipit è una chiara citazione beethoveniana, dal Rondo del 3° Concerto per pianoforte, non a caso presentata dai clarinetti:


Il tema si sviluppa assai, fino a chiudere (3’54”) l’esposizione, ripetuta fino a 5’50”.

Lo sviluppo è aperto da due poderose esternazioni sulla sesta abbassata (SIb) sulla quale tonalità (6’00”) appare nei legni un nuovo motivo, che si ripresenta (6’19”) in DO maggiore. Ecco poi una transizione che porta (6’41”) al secondo tema, adesso approdato al FA maggiore da cui sale (6’47”) al SOL e poi su ancora (6’52”) al LA e infine (6’56”) al RE maggiore. Riecco (7’04”) la fanfara di trombe che chiude lo sviluppo.

A 7’21” ecco la ricapitolazione, aperta dal primo tema cui segue la fanfara (7’47”) e poi (8’18”) il secondo tema, ovviamente in RE maggiore. È ancora la fanfara di trombe ad aprire (9’04”) la spettacolare coda conclusiva.
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Fournillier, da buon francese, cerca di mettere tutto l’esprit de finesse possibile per promuovere al meglio quest’opera del suo illustre conterraneo. Del quale non lascia via proprio nulla, eseguendo meticolosamente tutti i ritornelli. E devo dire che il risultato sia stato largamente positivo. Potrei rimproverargli (haha...) un’eccessiva sostenutezza nell’Allegretto, ma è questione di gusti.

In definitiva, una proposta gradevole (mica si può sempre dare la Auferstehung o il Requiem verdiano...) che il pubblico non strabordante dell’Auditorium ha comunque mostrato di apprezzare assai, gratificando tutti di convinti applausi.

27 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°30


Il malese-di-adozione Claus Peter Flor torna sul podio per un programma dal contenuto non proprio consueto, tutto dedicato a musiche di fine settecento e di carattere piuttosto, ehm… leggero.

Si inizia con una delle tante Serenate mozartiane, la K239. Anticipando una trovata che 10 anni dopo svilupperà nel Don Giovanni (con le tre orchestrine che suonano insieme)  Mozart  la strutturò per due complessi, precisamente due quartetti: uno – il principale, col contrabbasso al posto del violoncello - che propone le melodie (e da solo suona il Trio) e l’altro - che fa quasi solo da accompagnamento e crea effetti stereofonici - di struttura classica, ma con aggiunta di timpani! (per questo il brano è noto come Pauken-Serenade.) La tonalità è quella tipica mozartiana per questo genere di musica: RE maggiore.
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Contrariamente alle altre serenate mozartiane, che sono più corpose, contenendo fino a 9-10 movimenti (escludendo i trii) questa ne presenta solo 3. Come accadeva non di rado, viene introdotta da una Marcia (cui ben si addice la presenza dei timpani) costituita da due sezioni, ripetute. Nella prima troviamo un’introduzione, invero marziale:

seguita da due temi, il primo in RE (ripetuto) che sbocca sulla dominante LA, su cui udiamo il secondo tema, costituito da due motivi. In questa sezione è sempre il quartetto principale a guidare, mentre l’altro lo supporta saltuariamente.

La seconda sezione presenta un nuovo motivo in LA, sempre nel primo quartetto, interrotto qui per due volte dal secondo con interventi puramente ritmici, in pizzicato, e timpani in primo piano. Poi il primo quartetto, seguito a ruota dall’altro, propone un ponte modulante per tornare all’introduzione e al tema iniziale (ora non ripetuto) in RE, alla cui tonalità si adegua anche il secondo, a chiusura del Maestoso.

Ecco poi un Menuetto (+ Trio) in RE maggiore (3/4). La struttura del Menuetto è assai semplice: tema (da ripetere) poi motivo secondario che lo reintroduce, dopo breve intervento del solo secondo quartetto (anche questa sezione da ripetersi).

Il Trio – eseguito dal solo primo quartetto - è nella sottodominante di SOL maggiore e consta di due sezioni, da ripetersi. Nella prima viene presentato – dal primo violino, contrappuntato dal secondo con rapide terzine - un tema che sale da tonica a dominante e di lì ancora su fino a toccare la dominante superiore, per poi rapidamente ridiscendere per tornare da dove era partito. La seconda sezione inizia con un motivo in RE, che tosto modula al SOL dove viene ripresentato il tema iniziale. La riproposizione del Menuetto chiude il movimento.

In conclusione ecco un Rondo, 2/4 in RE maggiore, di struttura piuttosto articolata. Inizia con un Allegretto in 5 sezioni (le prime 4 col ritornello) dove il tema ricorrente è esposto subito dal primo violino:

Nella seconda sezione troviamo un breve motivo, che si chiude su una cadenza (che tornerà spesso) di accordi fra sensibile e tonica, eseguita dalle due orchestrine insieme, e che resta sospesa (corona puntata) dopo il DO#:


In questa sua prima apparizione è seguita dal tema principale. La terza e la quarta sezione presentano un nuovo tema e un suo controsoggetto. Nella quinta troviamo la seconda comparsa della cadenza tonica-sensibile, seguita dal tema principale.

Ora, abbastanza sorprendentemente, ecco una sezione (3/4, SOL) di 10 battute in Adagio. È il solo primo quartetto a suonarla, conferendole un carattere elegiaco e intimistico. Si passa poi in Allegro (2/4) sempre in SOL maggiore con un nuovo, lungo tema – ondeggiante fra sopratonica e dominante – eseguito e poi sviluppato prevalentemente dal primo quartetto, che viene bruscamente interrotto dai timpani e dal secondo, con un marziale arpeggio. Il quale culmina sul LA, dominante del RE su cui torna il tema principale, seguito dal motivo della seconda sezione e dalla cadenza tonica-sensibile e ancora dal tema principale. Tornano i motivi della terza e quarta sezione, sempre seguiti dalla cadenza e dal tema principale.

Qui il primo quartetto sembra però avere un’esitazione, emette piccole note in pizzicato e poi – unico caso nell’intera serenata – fa da accompagnamento al secondo quartetto (il timpanista tace) che riespone – adesso in RE maggiore, canonicamente – il tema che avevamo udito in SOL all’inizio dell’Allegro.  
 
Ecco ora l’ultima delle apparizioni della cadenza tonica-sensibile, a 14 battute prima della chiusa. Di solito – e così è accaduto anche ieri sera - si approfitta della pausa per introdurre una cadenza solistica dei timpani, in omaggio all’insolita presenza dello strumento. In questo caso (ad esempio qui a 4’02”) a me pare di vederci la finestra della dedicataria della serenata che si spalanca per dar luogo ad una pioggia di oggetti non proprio complimentosi (smile!); dopodiché i serenatori si danno una scrollatina agli abiti, riespongono il tema principale e chiudono come da contratto la loro esibizione…
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Qui in realtà il secondo complesso è formato da una corposa porzione degli archi de laVerdi – disposti per tutto il concerto in configurazione alto-tedesca - anche se Flor ne tiene sempre assai basso il volume per non coprire il quartetto principale (le prime parti dell’Orchestra) che è dislocato davanti a lui, al proscenio. Ciascuno dei solisti ha anche modo di esibirsi in mini-cadenze nel Rondo, prima dell’ultima dedicata ai timpani. Esecuzione davvero impeccabile, che scatena applausi convinti.

Ora arriva al proscenio – avendo così modo di mostrare anche il suo gran fisico da modella (!) - la bravissima prima arpa dell’Orchestra Verdi, Elena Piva, per cimentarsi con un Concerto in RE maggiore composto – qualche anno dopo la serenata mozartiana - da Haydn per uno strumento a tastiera (clavicembalo o pianoforte). In effetti la sonorità dell’arpa richiama da lontano (pur essendo assai più morbida e meno… metallica) quella del clavicembalo - in fin dei conti sono entrambi strumenti a corde pizzicate! - e ben si adatta a questa brillante partitura.
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Haydn qui non cerca complicazioni particolari: nell’iniziale Vivace gli basta un tema per cavarsela da par suo:

Poi lo impiega per il passaggio sulla dominante LA, quindi lo sviluppa – con veloci quartine di semicrome del solista - modulando anche alla relativa SI minore… insomma con una sola idea ci costruisce l’intero primo movimento! Che si chiude dopo una cadenza del solista.

Stessa economicità di risorse per il centrale Un poco adagio, 3/4 in LA maggiore. Il tema principale, di una disarmante semplicità, pari alla bellezza, dopo essere stato introdotto dall’orchestra, viene esposto dal solista:

Quindi viene sviluppato – con l’impiego di terzine di semicrome e note delicatamente ribattute - in una poetica sezione centrale nella dominante MI, prima di tornare sul LA per la ripresa. Anche qui è una cadenza solistica a precedere la chiusura del movimento.

Chiude il concerto un Rondo all’ungherese, Allegro assai, 2/4 in RE maggiore. È il solista ad esporre per primo il tema principale, poi imitato dall’orchestra:

Anche qui Haydn non si smentisce e costruisce il Rondò (A-A’-B-A-C-A) con elaborazioni continue di questo tema. Dapprima modulando, tramite SI minore, alla dominante LA maggiore, dove viene sviluppato dal solista con veloci quartine di semicrome e diverse ulteriori modulazioni (MI, DO) prima di tornare al LA. Ecco poi una sezione in RE minore, dove il tema è ancora variato, con pesanti interventi dei corni (tonica-dominante) prima di tornare in RE maggiore. Altro episodio nella relativa SI minore prima del definitivo ritorno alla tonalità d’impianto.
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Grandissima la prestazione della solista, che padroneggia da par suo una parte ostica, a volte impervia (l’arpa non è una tastiera!) ed è accolta da scroscianti applausi.

Ma per lei non finisce qui, poiché dopo l’intervallo è ancora lei ad esibirsi, questa volta con il Mozart francese - come qualcuno ha battezzato François–Adrien Boieldieu (avvertenza importante per i francesisti-fai-da-te: il cognome non è, anche se ne ha tutta l’apparenza, una bestemmia!) - e il suo Concerto per arpa e orchestra, composto proprio all’alba del nuovo secolo e nel quale si sentono per la verità stilemi che – più che mozartiani – paiono anticipare il Paganini dei concerti per violino.

Andato perduto l’originale, ne sono state conservate solo alcune parti (arpa, per fortuna!, violini primi e contrabbassi) presso il Conservatorio di Bruxelles. Così il concerto ha dovuto essere, per così dire, ricostruito. Fino a pochi anni fa circolava solo la versione di Carl Stueber (pubblicata nel lontano 1939 da Ricordi) poi negli anni ’90 ne è stata approntata una dal compositore e musicologo Marc-Olivier Dupin e dall’arpista Marielle Nordmann, pubblicata nel 1999 da Billaudot. Quest’ultima versione presenta una particolare cadenza del finale e propone - ma non impone di certo - un organico orchestrale classico completo: flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno, tromba, timpano, archi a 5; quella di Stueber – usata qui - è forse più mozartiana, escludendo clarinetto, tromba e timpani. Esistono anche esecuzioni con orchestre da camera, senza fiati. Ma sono dettagli tutto sommato marginali, dato che il concerto è incentrato sulla parte solistica, e dove i tutti si limitano all’esposizione iniziale e poi a collegare le diverse sezioni.  
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L’Allegro brillante in 4/4 tagliato (che occupa più della metà del concerto) è nella classica forma-sonata, ma con sviluppo assai ridotto. L’orchestra, dopo 8 battute marziali introduttive, presenta inizialmente i due temi, in DO e SOL maggiore rispettivamente, i quali vengono poi ripresi dall’arpa solista:


La quale li arricchisce con veloci quartine di semicrome inframmezzate a terzine di crome: l’esposizione è assai più corposa rispetto a quella orchestrale, soprattutto nel secondo tema che viene sviluppato assai, anzi affiancato da un nuovo soggetto, da cui esso riparte poi modulando alla relativa MI minore. Il ritorno a casa passa attraverso un’altra relativa minore (LA): quella del DO di impianto, dopodiché la ripresa ripresenta entrambi i temi in quest’ultima tonalità.

Segue un breve Largo in DO minore, 4/4. Sono solo 26 battute, dove l’arpa, introdotta dall’orchestra, espone una melodia dolce, principiante con un arpeggio di ottava, ricca di increspature. L’atmosfera pare quasi beethoveniana (a me richiama alla mente l’Andante con moto del 4° concerto dell’op.58…) Segue una sezione di 8 battute in DO maggiore, molto più mossa, per poi tornare al minore, con 4 battute di quasi-cadenza del solista. 

Le quali introducono il Rondeau, Allegro agitato (4/4) in DO minore. La forma è piuttosto semplice: A-B-A-C-A, con le sezioni sempre ripetute (più o meno variate). Il soggetto principale è costituito da una frase che sale (prima al SOL, poi al MI) per discendere al DO e da un controsoggetto - ripetuto due volte – che si limita a salire da DO a LAb prima di tornare alla tonica:

L’orchestra risponde con cadenze marziali, che paiono anticipare Paganini, come detto. I soggetti B e C sono esposti nelle due relative: MIb maggiore il primo, DO maggiore il secondo, che lascia spazio anche ad una cadenza virtuosistica, che precede e introduce la chiusa ancora in DO minore.
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Anche qui, straordinaria la prestazione di Elena Piva, letteralmente portata in trionfo alla fine e che, per nulla stanca dopo il doppio massacrante impegno, regala anche un bis!

Chiude il concerto un ritorno a fine ‘700 con la Sinfonia cosiddetta degli addii di Haydn, ascoltata qui più di un anno fa con Adam Fischer. Si potrebbe anche chiamare la sinfonia dello sciopero, benché il parallelo fra il bonario e accomodante Josephus e la irriducibile pasionaria Camusso suoni assai improbabile (smile!)

La sceneggiatura è sempre la stessa, con il palco al buio e i lumi sui leggii che alla fine vengono via via spenti dagli orchestrali che se ne vanno alla spicciolata: il tutto sempre fatto con un certo buon gusto e senza parodia.

Bella l’ultima immagine degli strumentisti che rientrano e si schierano tutti al proscenio per ricevere, col Direttore, il meritato applauso del (non oceanico) pubblico.

Per il concerto n°31 resterà sul podio Flor, ma con un programma sontuoso.