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23 agosto, 2024

ROF-2024 live: Il barbiere di Siviglia.

Ultima (ma temo solo per questa stagione…) visita alla Vitrifrigo Arena per l’ultima recita del Barbiere, ripresa della produzione del 2018, già ripetuta in Covid-streaming nel 2020.

Quel grande studioso rossiniano che fu il compianto Alberto Zedda scrisse a proposito del Barbiere un saggio che ancor oggi costituisce un punto di riferimento per inquadrare l’opera nella sua essenza più genuina, a dispetto delle mille ferite infertegli dalla cosiddetta tradizione esecutiva. E la sua edizione critica, ancor oggi riproposta al ROF, lo sta ampiamente a dimostrare.  

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Sulla regìa di non posso che ripetere i miei commenti allo spettacolo di sei anni fa. Pier Luigi Pizzi non si smentisce e – da architetto, per studi universitari, e da scenografo… di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi proprio, trova) un più che accettabile compromesso, evitando gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni tradizionali (o tradizionaliste…) che, da commedia con venature di buffo, riducono spesso il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato.

Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane… non fanno mai scadere lo spettacolo a becera farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che circonda l’orchestra e che è da sempre una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto e poi alle uscite finali.

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Un tremuoto, un temporale… è l’espressione che meglio si addice a descrivere ciò che deve aver colpito Lorenzo Passerini sul podio dell’Arena: un corpo letteralmente morso dalla tarantola! E forse i suoi gesti quasi spiritati possono aver dato la (fallace) impressione che i tempi da lui tenuti siano eccessivamente forsennati: in realtà mi pare che ciò ieri non sia accaduto, il che va comunque a suo merito. La solida Sinfonica Rossini evidentemente lo ha assecondato nella sostanza, al di là della forma, piuttosto gigionesca!

Assai bene anche il Coro (soli signori) del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.  

Nel ruolo del titolo, il polacco Andrzej Filonkzyk ha messo in mostra la sua voce dal timbro caldo e ben tornito, di cui qualche eccesso di forzatura degli acuti non ha troppo compromesso la resa complessiva. Più che discreta anche la sua presenza scenica.

Il suo protetto (Almaviva/Lindoro) è lo yankee Jack Swanson: voce leggera, dal timbro non molto corposo, in specie nelle note più gravi, ma svettante negli acuti. In complesso, più che apprezzabile la sua prova.

Parimenti apprezzata la Rosina di Maria Kataeva. Assai efficace e ben proiettata negli acuti, il mezzosoprano russo mi è parsa meno efficace nell’ottava bassa, ma anche lei ha brillantemente superato la prova, mettendo in mostra anche una consumata sensibilità interpretativa.

Assai bene anche William Corrò, che vestiva i panni duplici di Fiorello e Ufficiale: voce benissimo impostata e potente, dal timbro assai gradevole.

Resta da dire dei senior della serata. Su tutti l’imponente figura di Michele Pertusi, un Don Basilio che probabilmente si sentiva anche a… Pesaro! E che ha portato gli applausi del pubblico al parossismo.

Così come l’altro decano del Festival, Carlo Lepore, un Bartolo di gran spessore, nella voce (non ha perso una sola sillaba nei diversi scioglilingua che Rossini impone al personaggio) e nelle multiformi movenze delle sue esternazioni.

E infine Patrizia Biccirè, che esordì al ROF addirittura 32 anni orsono! E che ancora ha saputo dare il suo apporto allo spettacolo e soprattutto – con l’arietta a lei riservata - alla musica.

Applausi scroscianti a scena aperta dopo ciascun numero e poi un generale trionfo finale, con tutti gli interpreti in passerella a ricevere un interminabile applauso ritmato!

  

18 agosto, 2021

ROF-42 live

Fra la domenca di ferragosto e il martedi successivo si è concentrato il mio personale pellegrinaggio a Pesaro per le tre opere del cartellone principale del ROF-42. Per la verità nella prenotazione avevo chiesto appuntamenti più diluiti nel tempo, ma il boxoffice del Festival deve aver avuto i suoi bei problemi per soddisfare tutte le richieste e così mi ha assegnato proprio le tre date alternative da me indicate... pazienza.

E a proposito di problemi con i posti, il Teatro Rossini deve averne creati parecchi, dato che all’epoca di apertura delle prenotazioni vi erano previsti anche quelli di platea, mentre alla fine si è dovuta riproporre la stessa configurazione del 2020, con la platea invasa dall’orchestra e inagibile al pubblico.
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Eccomi quindi ad iniziare questo commento proprio dal Bruschino, ospitato nella piccola bomboniera di Piazza Lazzarini. L’assetto particolare della sala e il pubblico forzatamente scarso (2 persone per palco) ha un po’ rattristato, ricordando troppo da vicino i tempi grami dell’estate scorsa (che speriamo non ritornino!) ma per fortuna lo spettacolo della premiata coppia Barbe & Doucet ha ampiamente riscattatato queste miserie...

Per sua natura un’opera buffa (o una farsa giocosa come in questo caso) si presta bene a riproposizioni e reinvenzioni senza che ne venga snaturata l’essenza originale: così i due registi-scenografi-costumisti hanno potuto impunemente trasfomare il castello di campagna di Gaudenzio in un barcone di quelli che si ha ancora l’occasione di vedere sull’Adriatico e che potrebbe plausibilmente rappresentare il pied-à-terre estivo del ricco possidente. Le luci di Guy Simard hanno poi contribuito a sottolineare le diverse atmosfere che caratterizzano la vicenda.

Parimenti apprezzabile il fronte dei suoni, dove il giovane e allampanato Michele Spotti ha guidato con il piglio di un veterano voci e strumenti, a partire dalla scintillante Sinfonia che ha permesso alla Filarmonica Gioachino Rossini di sfoggiare le sue qualità (qui la trovata rossiniana dei colpi di archetto vibrati sul leggio dai secondi violini ha però giocato un brutto scherzo alla strumentista di concertino, cui si è spenta la luce costringendola a suonare per parecchio tempo al buio... prima che per sua fortuna il contatto si ristabilisse). Un figurone ha fatto invece Ilaria de Maximy con il suo corno inglese, nel mirabile accompagnamento obbligato dell’aria di Sofia Ah donate il caro sposo ad un’alma che sospira.

E proprio la Sofia di Marina Monzò è stata la trionfatrice della serata: dal suo debutto del 2017 in un ruolo di contorno (Pietra del paragone) direi che sia cresciuta moltissimo, per controllo dell’emissione e duttilità di espressione, impersonando adeguatamente il ruolo di ragazza apparentemente ingenua (non è certo il predicozzo del tutore a... svezzarla)  ma invece ben decisa ad ottenere ciò che desidera.

I due buffi Giorgio Caoduro e Pietro Spagnoli hanno ben caratterizzato le diverse personalità dei due procuratori di nozze di interesse che alla fine vedono sfumare il loro disegno e devono accettare la dura (per loro!) realtà della vita, fatta di pupille emancipate e figli dissipatori.

Discreta la prestazione del Florville di Jack Swanson, un debuttante che non potrà che migliorare, avendo doti naturali di tutto rispetto. Gianluca Margheri è un Filiberto che - forse con l’intenzione di strafare - finisce per esibire qualche sguaiatezza di troppo. Onorevoli le prestazioni degl altri tre comprimari (la navigata Marianna di Chiara Tirotta, il tronfio Commissario di Enrico Iviglia e il povero figlio-di papà Manuel Amati).

Serata tutto sommato piacevole, accolta dal pubblico con calore inversamente proporzionale al... numero di mani disponibili.  
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Passiamo ora al piatto forte del Festival, quel Moïse et Pharaon che tornava al ROF dopo l’unica apparizione del 1997, edizione che aveva fatto epoca per l’allestimento del compianto Graham Vick, allora alla sua prima presenza a Pesaro, cui ne seguiranno altre, sempre accolte da contestazioni e scandali, ma anche da lodi sperticate...

In realtà quello del 1997 - almeno a giudicarlo con gli occhi di oggi - non era stato per nulla un allestimento scandaloso, almeno dal punto di vista della sostanziale coerenza con i contenuti originali del dramma: in questa (mediocre davvero) ripresa video si può constatare come Vick racconti abbastanza fedelmente la vicenda di natura biblico-storica con l’immancabile risvolto di rapporti umani di odio-amore. L’unico tratto di attualizzazione della storia lo si rileva solo al finale, quando la terra promessa si scopre essere la Palestina della prima metà del ‘900, che (Balfour intercedendo) diventò la casa nazionale degli ebrei (e infine lo Stato di Israele).

Ebbene, Pier Luigi Pizzi, che ha un approccio registico unanimemente ritenuto agli antipodi rispetto a quello di Vick, nella sostanza ne ripete pari-pari l’idea, presentandoci per tutta l’opera l’ambientazione egizia, ma con il finale precisamente collocato nella moderna Palestina.

(Fu con il Mosè in Egitto del 2011 che Vick fece davvero scandalo, impiegando la musica di Rossini come colonna sonora per narrare le efferatezze degli ebrei - Deir Yassin, per dire - nel loro processo di instaurazione dello Stato e trasformando Mosè in un estremista alla Jabotinski...)

Persino aspetti della scenografia recano somiglianze fra lo spettacolo di Vick e quello di Pizzi: ad esempio la passerella che avvolge l’orchestra: in Vick era assai più estesa e venne impiegata, olre che per farci transitare e sostare i cori e gli interpreti (proprio come fa Pizzi) anche - abbastanza cervelloticamente - per una processione di 5 minuti senza musica all’inizio del terz’atto, uno degli aspetti più criticabili di quella messinscena.

Pizzi riprende anche l’idea di Vick (mostrarci un giovane ebreo moderno proprio durante il Cantique finale) e la estende anche all’inizio dello spettacolo, dove il piccolo ebreo è presentato come simbolo del futuro.

Per il resto Pizzi resta fedele al suo clichè estetico, sia nelle scene (stilizzate e squadrate) che nei costumi (eleganti ma sobri) come anche nella gestione dei personaggi e nei movimenti delle masse. Assai efficaci le luci di Massimo Gasparon, soprattutto a sottolineare gli eventi miracolosi che si ripetono lungo l’arco della storia. E fa storia a sè (come sempre, quando viene eseguito) il lungo intermezzo di danze, dove è il coreografo di turno (qui Georghe Iancu) ad esibire - magari con pregi e difetti - la sua inventiva. Impeccabili i primi danzatori, Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace.  

Sul fronte musicale, ottime notizie, innanzitutto da Giacomo Sagripanti, che ha guidato con sicurezza ed equilibrio la splendida Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, ormai divenuta un asset insostituibile per le principali produzioni del ROF. (Vi ho riconosciuto con piacere, alla seconda tromba, quell’Alex Caruana che per anni fu prima parte de laVerdi.)

Il Coro del Teatro Ventidio Basso (istruito da Giovanni Farina) sta parimenti guadagnandosi - in pochi anni - i galloni di titolare del ROF, con prestazioni di assoluto valore, ricche di espressioni, sfumature e colori che caratterizzano la partitura rossiniana.

Vasilisa Berzhanskaya è stata di gran lunga la trionfatrice della serata, offrendoci una Sinaïde di gran spessore: voce solidissima e acuti potenti (meno penetrante l’ottava bassa); da stadio l’interminabile accoglienza che il pubblico ha riservato alla sua grande aria in chiusura dell’atto secondo.

Buona la prestazione di Eleonora Buratto, capace di modellare le diverse e inconciliabili sfaccettature della personalità di Anaï, perennemente combattuta fra amore e fede religiosa: la grande aria dell’atto quarto (la rinuncia all’amore in favore della fede) ne è stata chiara testimonianza.   

I capi dei due popoli, Roberto Tagliavini ed Erwin Schrott, sono stati resi (nella vocalità, ma anche nell’interpretazione) in modo assolutamente adeguato alle caratteristiche dei personaggi: austero, severo e intransigente Moïse, quanto tronfio, volubile e un po' vanesio Pharaon: una coppia davvero perfettamente assortita.

Luci e ombre sull Aménophis di Andrew Owens, bella voce chiara e squillante (RE sovracuto incluso) ma un poco in impaccio nel rendere al meglio la personalità schizoide (speculare a quella di Anaï) sempre in bilico fra desiderio - carnale per lo più - e ferocia vendicativa del principe ereditario.     

Più che apprezzabile la prova dell’Eliézer di Alexey Tatarintsev, che ha saputo mettere le sue ottime doti naturali al servizio del personaggio, che mescola la severità del fratello con tratti di pietas e di apprensione.     

Efficaci Nicolò Donini (Osiride e Voce dal cielo) e Matteo Roma (Aufide) mentre una particolare citazione va all’inossidabile Monica Bacelli, una Marie quale meglio non si potrebbe immaginare.

Inutile aggiungere che il successo è stato davvero trionfale.
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Infine Elisabetta Regina d’Inghilterra. Opera seria, come viene catalogata. Livermore in questi casi non ha mezze misure (tradotto: mantenere un minimo di equilibrio e di fedeltà al testo). Lui o fa ri-ambientazioni in chiave pesantemente politica (cito solo i suoi Vespri torinesi...) oppure la butta in (avan)spettacolo. Ecco: qui ha scelto la seconda strada (immagino che la politica la tenga in serbo per il prossimo Macbeth di SantAmbrogio).

Per la verità c’è anche la ri-ambientazione, ma non è una cosa seria, chè prendere Leicester per Townsend che svolazza su uno Spitfire e i cugini scozzesi per i nazifascisti fa appunto sorridere. (Un po’ come il suo Tamerlano scaligero ambientato nella Rivoluzione d’ottobre, dove Stalin e Lenin si contendono una figlia dello Zar.) Ma il regista ragiona così (in occasione della prima ai microfoni di Radio3): visto che il libretto è pura invenzione e di autenticaamente storico ha ben poco, allora anch’io mi sento autorizzato ad inventarmi ciò che mi pare e piace! E così di apprezzabile resta appunto solo la spettacolarità di scene (Gio Forma) costumi (Gianluca Falaschi) luci (Nicolas Bovey) ed effetti video (D-Wok). Oltre ad un continuo e francamente stucchevole (perchè insensato) e ripetitivo movimento di persone e soprattutto di cose (che magari scendono dall’alto, trovata da inflazione galoppante).

Certo, bisogna riconoscere che l’opera è assai difficile, ostica e di non immediata digeribilità: sappiamo che Rossini era (positivamente) ossessionato dal fare colpo sull’esigente platea napoletana, dove era atteso con sospetto pari alla curiosità; e così scelse alcuni brani (a partire dalla sinfonia) di sue opere già collaudate e li immerse in un mare di recitativi accompagnati. I quali però, se non adeguatamente sostenuti dall’orchestra, rischiano di diventare più noiosi di quelli secchi, che per lo meno possono essere esposti in gran fretta.

E qui vengo perciò a Evelino Pidò, la cui direzione mi è parsa carente proprio nel sostegno ai recitativi, mentre assai meglio ha supportato arie, concertati e cori, grazie alla gran forma della OSN-RAI.

Non perfettamente assortito il cast vocale, dove si potrebbe persino parlare di... scambi di persona: Elisabetta-Matilde e Leicester-Norfolc! Karine Deshaves mi è parsa piuttosto timorosa nell’affrontare il ruolo della famigerata Virgin Queen e quando ci ha provato ha emesso acuti non sempre puliti; Salome Jicia invece cantava come fosse... la Regina, sovraccaricando troppo la mite e arrendevole Matilde.

Sergey Romanovsky non ha centrato completamente il personaggio eroico di Leicester, anche se ha fatto assai meglio dell’ormai logoro Barry Banks, voce chioccia e oggi del tutto inadatta per un cattivone alla Iago.

Onorevoli le prestazioni dei due comprimari: Marta Pluda, en-travesti come Enrico; e Valentino Buzza, Guglielmo. Sempre all’altezza il Coro di Giovanni Farina.

In definitiva, che dire? Che - nel mio caso - non posso parlare di questa chiusura di trittico come di dulcis-in fundo!

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Ma il fundo ancor non l’ho toccato, poichè mi incombe venerdi 20 uno Stabat Mater (in forma scenica) che non mancherò di commentare.

10 agosto, 2021

ROF via radio

Moïse et Pharaon ha aperto ieri sera il ROF-42, tornato alla piena normalità di programmazione, anche se ancora dimezzato nei... posti a teatro. La mia impressione dalla ripresa di Radio3 è decisamente positiva. Voci (coro incluso) tutte all’altezza e Orchestra RAI in grande spolvero - a nozze poi nell'interminabile intermezzo sinfonico della Festa di Iside - diretta da un ottimo Sagripanti.

Pare che il pubblico abbia anche gradito la messinscena del ragazzo novantenne Pizzi, che si dice abbia ambientato la vicenda in Egitto e - alla fine - nella terra promessa. Quindi precisamente come si legge sul libretto... E anche un’altra novantenne, la senatrice Segre, pare che abbia apprezzato, non risprmiandosi - al microfono di Bossini - una frecciatina (moderata, perchè non si parla male dei morti!) al dedicatario di questo ROF, quel Graham Vick che in anni recenti deve averla parecchio irritata con le sue interpretazioni, ehm... originali.

Quindi spero proprio che l’impressione venga confermata fra qualche giorno dall’ascolto-visione live, di cui riferirò.

26 gennaio, 2020

La Violanta torinese


Ieri pomeriggio al Regio (ahinoi non proprio semivuoto, ma c’è mancato poco...) è andata in scena la terza delle cinque recite di Violanta, che il teatro torinese ha meritoriamente portato per la prima volta in Italia dopo un secolo abbondante dalla comparsa a Monaco di Baviera (martedi 28 marzo, 1916).

Dico e affermo trattarsi di un’opera che dovrebbe avere almeno (se non più...) la stessa considerazione (parlo di cartelloni e pubblico) di una Cavalleria o di una Fedora, per dire. E il merito va soprattutto alla musica di questo ragazzo diciassettenne che rivaleggia con i mostri sacri Strauss e Puccini, e sovrasta di quache spanna musicisti (nostrani e non) che pure trovano frequente ospitalità sulle nostre scene.

Musica che è stata assai bene illustrata dalla direzione dell’ispirato Pinchas Steinberg, che ha guidato un’Orchestra in ottima forma, capace di rendere al meglio le atmosfere ora liriche, ora drammatiche che la partitura ci propone. Di ottimo livello la prestazione del Coro di Andrea Secchi, chiamato ad un compito più arduo a livello di qualità che di quantità, ma assolto con grande profitto.

Le voci con luci ed ombre: Annemarie Kremer è una Violanta invidiabile sul piano scenico (chi non sarebbe soggiogato dal suo fascino di femme-fatale?) e a corrente alternata su quello strettamente vocale: acuti da autentico soprano drammatico, ma centri debolucci... Michael Kupfer-Radecky assai efficace come Simone: voce ben impostata e potente, atteggiamenti appropriati al personaggio di militare-tutto-d’un-pezzo cui casca addosso il mondo senza che lui se ne dia una ragione.

Il principe-illegittimo, nonchè dongiovanni, Alfonso è Norman Reinhardt, che per la verità dovrebbe avere caratteristiche vocali quasi da Heldentenor, e invece ha una voce da tenorino lirico, con scarsa proiezione: la sua è una prestazione non più che discreta. Come quella del pittore gaudente Giovanni Bracca, interpretato da Peter Sonn.

Efficace e convincente Anna Maria Chiuri, una Barbara amorevole e dolcissima nella sua ninna-nanna a Violanta. Gli altri comprimari (vedi locandina) tutti all’altezza dei rispettivi compiti.
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Il venerabile PierLuigi Pizzi firma un’allestimento (regìa, scene e costumi, più le luci di Andrea Anfossi) davvero degno della sua fama: scena fissa, come pretende il libretto (la sala del palazzo di Simone sulla Giudecca) arredata solo con un paio di sofà e un tavolino, con un’enorme apertura circolare sul fondo, che dà sull’... infinito (la laguna dove transitano gondole e dalla quale arrivano le voci del carnevale). Costumi di inizio ‘900 (uniformi miitari di Simone e sottoposti) e di mascherine; un abito lungo, sberluscicante e attillatissimo-scollato di Violanta a valorizzarne il prorompente sex-appeal; Alfonso vestito (ma è in maschera anche lui!) da Papageno (metafora del galletto che si fa tutte le gallinelle?) Recitazione assai curata in ogni dettaglio.

Insomma, uno spettacolo di alto livello che il pubblico degli affezionati ha salutato con gran calore. Chi appena può non trovi scuse per mancare una delle ultime due recite!

(Ora però devo partire per Bologna dove, oltre a Salvini, incombe... Tristan!)

20 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Il barbiere di Siviglia



Ritorno all’Adriatic Arena per questo nuovo Barbiere. Nuovo nell’allestimento (del venerabile Pier Luigi Pizzi) e semi-nuovo nell’edizione, che è quella approntata nel 2010 dal compianto Alberto Zedda e da lui già presentata al ROF in forma di concerto nel 2011 e poi in forma quasi-scenica nel 2014.

Pizzi non si smentisce e - da scenografo di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi, trova) un accettabile compromesso fra gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni che, da commedia con venature di buffo, riducono il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato. Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane... non fanno mai scadere lo spettacolo in farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che ormai pare una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto.

Passerella che circonda la pseudo-buca orchestrale, dove ha tenuto banco Yves Abel, che ha affrontato la partitura con molta leggerezza (alla radio non mi aveva entusiasmato) il che devo ammettere ha però il suo buon effetto, armonizzandosi assai bene con l’approccio della regìa. L’OSN-RAI (rinforzata per la chitarra dall’apporto del pesarese - milanesizzato - Eugenio Della Chiara) ha risposto alla grande, già dall’applauditissima Sinfonia.

Sempre efficace e compatto il coro del Ventidio Basso (Giovanni Farina) nei passaggi di insieme, come in quelli a gruppetti.

Le voci. Come curiosità c’è da registrare che quattro dei sette interpreti (Mironov, Wakizono, Luciano e Corrò) figuravano un anno fa nel cast de La pietra del paragone. Faccio poi o una premessa: lo scatolone ricavato nella pancia dell’enorme Adriatic Arena ha un’acustica davvero pessima (non v’è chi non reclami e attenda con impazienza il ritorno al glorioso Palafestival) però, accipicchia, le voci delle vecchie glorie Pertusi e Zilio vi passavano attraverso in modo spettacoloso... le altre, ahiloro, assai meno. Ancora accettabili quelle di Luciano e Spagnoli, ma quelle dei due protagonisti (Mironov e Wakizono) davvero faticavano a raggiungere indenni il fondo della sala (e va dato atto ad Abel di non aver mai coperto). Il che vorrà pur dir qualcosa (ricordo di aver mosso ai due lo stesso appunto critico, a proposito di decibel, un anno fa, in occasione della Pietra...)

A parte questo rilievo, dirò che tutti (aggiungo qui anche il bravissimo Corrò) si sono assestati su un livello più che discreto. Il pubblico da parte sua ha dato un voto che rasenta la lode, a giudicare dagli applausi (a scena aperta e poi alle uscite finali) riservati a tutti, musicanti e allestitori.   

21 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. La pietra del paragone


Ritorno sotto le enormi valve dell’Adriatic Arena (parecchie anche ieri le poltroncine vuote, peraltro) per l’ultima recita de La pietra del paragone, la settima opera che portò al ventenne Rossini il successo e la notorietà sulla piazza milanese. In quel 1812 la Scala aveva in cartellone due opere che avevano avuto un discreto, se non grande, successo: il Ser Marcantonio del Pavesi e Le bestie in uomini del Mosca, che non erano proprio da buttar via, almeno a giudicare da qualche frammento recuperabile anche in rete (la Sinfonia del Pavesi e una scena-e-aria con corno obbligato del Mosca) che sembrano anzi dei modelli di riferimento per il Gioachino. Eppure la Pietra eclissò totalmente le due concorrenti: e il pubblico milanese in quell’autunno non volle più ascoltare altro che Rossini!

Su un libretto di Luigi Romanelli, assai raffinato nella forma quanto inverosimile nel contenuto (basti pensare ai due speculari travestimenti di Asdrubale e Clarice) Rossini compose quasi tre ore di musica che scorre via senza cadute di tensione o rilassamenti, una vera e propria abbuffata di numeri: cavatine, arie, duetti, terzetti, quartetti, quintetti, cori, un temporale e ovviamente i due concertati finali. Non mancano anche qui gli auto-imprestiti (in e out): dall’Equivoco stravagante (sua terza opera, che aveva fatto fiasco a Bologna) arrivano – rielaborati dal compositore - tre numeri della Pietra (coro di cacciatori, quintetto e aria di Clarice-Lucindo); la Sinfonia venne invece presa di peso e trasportata al Tancredi veneziano, il terzetto del duello andrà nella Gazzetta, il Temporale nell’Occasione e successivamente nel Barbiere. A testimonianza della disinvoltura (ma anche dell’acume e dell’intelligenza) che Rossini impiegava nel disporre della sua propria musica.

Compagnia di canto giovane, con parecchi ex-accademici che hanno mostrato le loro promettenti qualità, già emerse alla prima e all’ascolto radiofonico. Ma i mattatori della serata sono stati i due buffi: Paolo Bordogna che ha confermato (come Pacubio) la sua gran classe e ha strappato applausi, non solo con la bizzarra e parodistica Missipipì; con lui un ottimo Macrobio di Davide Luciano, autore di una prova maiuscola, per spiegamento dei suoi potenti mezzi naturali, oltre che per caratterizzazione del personaggio.

Maxim Mironov e Aya Wakizono (tenore e contralto, coppia di potenziali amanti certo meglio assortita – musicalmente – di quella Asdrubale-Clarice che invece godrà del lieto-fine) mi son parsi degni di apprezzamento: lui, ormai alla terza presenza al ROF (dopo 2006 e 2015) non è più da scoprire ed anzi pare fare progressi col passar degli anni, così ha sciorinato una splendida aria nel second’atto. Lei è alla prima presenza nel cartellone principale (fece da accademica il Viaggio nel 2014, prima di passare ad un’altra accademia, quella scaligera) e ha mostrato voce ben impostata e accenti adeguati al ruolo. Ad entrambi si può peraltro imputare la mancanza di qualche decibel, che ha un filino penalizzato le loro prestazioni.
   
A Gianluca Margheri era affidato il ruolo (Asdrubale) di grande impegno e difficoltà: che il nostro ha cercato di superare non senza qualche affanno, in specie nei virtuosismi cui Rossini chiama il protagonista, tuttavia mi sentirei di dargli un voto nettamente positivo.

Detto che William Corrò è stato un onesto Fabrizio, restano le due pettegole arriviste della compagnia: come già alla prima radiofonica, Marina Monzó e Aurora Faggioli non mi hanno particolarmente impressionato: comunque un filino meglio la prima, discreta nella sua arietta e meno... vetrosa e urlacchiante della seconda.

Il Coro (maschile, ieri) del Ventidio Basso di Giovanni Farina, impegnato in misura corposa, ha ancora sfoggiato affiatamento, precisione di attacchi e belle sonorità.

Per l’OSN-RAI non si possono ripetere che elogi ed apprezzamenti: con una partitura che non a caso viene definita tedesca (per la strumentazione lussureggiante, scritta per un’orchestra – quella della Scala del 1812 - agguerrita come le compagini del Nordeuropa) i nostri radiofonici vanno evidentemente a nozze. Daniele Rustioni li ha guidati con perizia e rigore: Orchestra e Direttore torneranno martedi a chiudere (in bellezza, c’è da esserne certi) questo ROF-38 con lo Stabat Mater.
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Pier Luigi Pizzi ha ripreso, con parecchi aggiornamenti, il suo simpatico allestimento che tre lustri non hanno per nulla invecchiato, anzi! La storiella improbabile di Romanelli si può perfettamente ambientare in spazio e tempo qualsivoglia, rappresentando a suo modo un archetipo di certa società benpensante e di ceti parassitari presenti sotto ogni latitudine e in ogni epoca.

Quello di quest’anno si ricorderà come il ROF-delle-passerelle: dopo Padrissa e Martone, anche Pizzi ne ha fatto uso (peraltro in modica quantità) come appendice alla sua scenografia riproducente un villino con piscina, ispirato al regista proprio da una sua casa al mare. Regista che si è presentato baldanzosamente sul palco a raccogliere applausi e ovazioni, meritati per lo spettacolo e insieme per la sua interminabile carriera.

Alla fine trionfo per tutti, con passerella generale accompagnata da Richard Barker al fortepiano.

05 ottobre, 2015

A Parma un Otello un po’… basso

 

Il FestivalVerdi2015 mette in scena in questi giorni un capolavoro assoluto del Maestro di Roncole: ieri sera seconda delle quattro rappresentazioni, in un Regio abbastanza affollato e… ben disposto.

La produzione ha avuto qualche vicissitudine non proprio tranquilla, con defezioni e cambi nel cast fino all’ultimo. E proprio il protagonista (delle prime due recite) Rudy Park è arrivato quasi all’ultimo momento e gli va dato atto di aver tenuto la barca a galla (a dispetto della sua mole, smile!)  

Lui ha un vocione quasi da… basso con estensione tenorile, che alle prime lascia un filino perplessi; ma poi si deve riconoscere che il suo Otello non è proprio malaccio: caso mai gli si può rimproverare un certo approccio monocorde (tendenza a cantare sempre forte) e quindi una scarsa varietà di accenti. Comunque il coreano si merita un’ampia sufficienza, ed anzi il pubblico lo accoglie proprio come un… salvatore della patria!    

Altro protagonista subentrato in corsa è Marco Vratogna: il cui Jago mi è parso di livello onesto: se non altro scevro da facili gigionerie. Voce chiara e sempre ben passante, anche nei difficili concertati dove personaggi diversi cantano insieme frasi indipendenti, che spesso si fatica a decifrare.      

Aurelia Florian mi è parsa una Desdemòna (pronunciato all’albionica, niente di offensivo, smile!) a corrente alternata. Vociferante nei passaggi acuti e poco udibile nell’ottava bassa, si è però riscattata… prima di morire, con apprezzabili salice e Avemaria.  

Questi i protagonisti-chiave. Il resto della ciurma (vedi locandina) cerca di fare onorevolmente il suo dovere e per mio conto ci riesce abbastanza. Buona la prova del coro di Martino Faggiani e bravissimi i piccoli di Gabriella Corsaro.

Daniele Callegari (anche lui assoldato a rimpiazzare l’originale Bignamini) ha diretto con mestiere la ruspante Filarmonica Arturo Toscanini, forse eccedendo talvolta con indebiti fracassi. Buona però anche la sua concertazione con le voci sul palco.


Solo due parole sull’allestimento del venerabile Pier Luigi Pizzi. Che di questi tempi è da giudicarsi semplicemente scandaloso, avendoci presentato l’Otello precisamente come è scritto in libretto e partitura!

23 marzo, 2015

A Venezia un’Alceste… smagrita ma sempre bella

 

Ieri, in una Fenice abbastanza affollata, complice (o nonostante) un inizio di… inverno, è andata in scena la seconda rappresentazione di Alceste. Firmato dalla coppia Pizzi- Tourniaire.

La diffusione di Radio3 della prima di venerdi scorso (cui ha assistito il venetiofobo Amfortas riportandone impressioni positive) mi aveva un filino deluso sul piano dei contenuti (si intuiva già dai tempi indicati per lo spettacolo che ci fossero tagli non propriamente marginali) mentre mi aveva abbastanza soddisfatto su quello dell’esecuzione musicale.  

L’allestimento di Pier Luigi Pizzi prevede un solo intervallo, collocato - per equilibrare i tempi delle due parti - dopo la Scena II dell’Atto II. Questo comporta qualche teorico scompenso a livello del respiro dello spettacolo, che in origine prevede due fermate in momenti topici e paralleli: lo sconcerto generale per il destino di Admeto e quello analogo per il destino di Alceste, sostituitasi al marito.

Qui invece la prima parte, dopo l’Atto I, prosegue con la proposizione anticipata del Pantomimo numi infernali, che è in origine proprio alla fine della Scena II: non saprei dire se questo spostamento sia dovuto a necessità di coprire un cambio-scena (del resto non complicatissimo, apparentemente) oppure da una scelta estetica del duo regista-direttore: fatto sta che dopo il coro in DO maggiore Chi serve e chi regna, che chiude(rebbe) l’Atto I, il sipario viene calato e il pubblico applaude proprio come si fosse arrivati all’intervallo… invece ecco uscire sul proscenio Alceste, silenziosa e accompagnata dal Pantomimo (DO minore) che si chiude con l’entrata di Ismene (LA minore, Ferma, dell’inizio Atto II).

Prima parte dello spettacolo che si chiude quindi con l’aria di Alceste (Non vi turbate no) che ottiene dai Numi di poter tornare a salutare per l’ultima volta i cari, prima di morire. Una chiusura quindi piuttosto dimessa, sia pure in MIb maggiore, assai diversa da come sarebbe quella dell’Atto I, sul possente coro del Popolo.  

Per avere poi due parti di durata paragonabile (65 e 70 minuti) l’Atto II e l’Atto III hanno subito i tagli più evidenti (anche il primo atto ha delle sforbiciatine, ma roba da poco). In particolare la Scena VI dell’Atto II manca dei recitativi di Alceste (O casto…) e dei Cortigiani (Così bella…) e soprattutto del lungo e bellissimo recitativo di Alceste Figli, diletti figli. Nell’Atto III è principalmente tagliata la Scena II: recitativo di Alceste-Admeto (Vieni dunque) prima di Cari figli. Per il resto, è stato sacrificato qualche da-capo nei balletti.

Pizzi, intervistato alla radio venerdi scorso dalla Gaia Varon, aveva giustificato questi interventi sul testo con razionali vaghi e opinabili, del tipo: qualche taglio si faceva anche ai tempi di Gluck… In realtà la ragione più plausibile sembrerebbe di puro carattere… logistico: evitare un secondo intervallo, che si renderebbe necessario data la durata dei 3 atti completi (60-73-38 minuti, come si può rilevare da questa registrazione con la Flagstad, oltre che dall’esecuzione scaligera di Muti del 1987).  

Però, fatte queste doverose premesse e osservazioni di carattere tecnico-pedantesco, devo dire: tanto di cappello a Pizzi per come ha reinterpretato – era la sua quarta volta! - l’opera, benissimo coadiuvato dalle luci di Vincenzo Raponi.

Scene e costumi sono intonati ai colori bianco e nero (il proscenio ha addirittura un pavimento a scacchiera…): bianco come amore e nero come morte. Poi nella seconda parte dello spettacolo compare anche un poco di giallo-oro, forse a rappresentare la felicità. Il fondo della scena è modellato da pannelli che lo suddividono in 3 arcate, all’interno delle quali compaiono pochi e simbolici oggetti: un enorme turibolo e la statua di Apollo, poi (scena agli Inferi) degli alberi neri e rinsecchiti con le radici ricoperte di bianchi teschi (che sono anche appesi, quali frutti, ai rami). Per il resto servono anche a separare (come le basse gradinate che scendono al proscenio) i cori, fra destra e sinistra, come prescritto in partitura da Gluck. Fanno eccezione i Numi infernali, il cui coro canta in buca, mentre in scena scorrono pantomime di spettri rigorosamente in nero. Anche i costumi, di foggia assolutamente classica e stilizzata, come detto sono immacolati, salvo quelli di Alceste e della confidente Ismene, che mutano in nero dopo che la protagonista ha deciso di sacrificarsi.

I movimenti di protagonisti e masse sono sempre lenti e ieratici (un po’ alla… Wilson, se vogliamo) come si addice allo spirito dell’opera. La morte e… resurrezione di Alceste sono rappresentate dal suo addormentarsi sul letto posto al centro della scena, e alla fine dal suo risvegliarsi grazie alla… grazia di Apollo, la cui voce si ode dall’alto, senza che il dio appaia di persona.

Insomma, una messinscena pregevole che va ad aggiungersi al già abbondantissimo carnet di Pizzi.
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Sul fronte dei suoni, confermata la buona impressione della prima radiofonica.

Guillaume Torniaire – è il primo direttore mancino che io abbia mai visto su un podio - sfoggia grande sicurezza e sensibilità, ottenendo dall’ottima orchestra della Fenice un suono sempre morbido e leggero, come si confà allo spirito dell’opera, che rifugge da qualsiasi forzatura, enfasi o fracasso per concentrarsi sul dramma dei protagonisti e del popolo che ne condivide ogni singolo passo. A proposito di Popolo e di Numi infernali, eccellenti i componenti del coro di Claudio Marino Moretti, che ha appunto messo in mostra quel pathos che caratterizza i numerosi interventi delle masse.

Trionfatrice del pomeriggio Carmela Remigio, un’Alceste davvero emozionante, in tutta la gamma dei sentimenti che la protagonista esterna durante l’intera opera: dolcezza, amore, dolore, sacrificio, rassegnazione, gioia.

Marlin Miller è Admeto, una parte difficile che il tenore americano affronta forse con un po’ di circospezione all’inizio, per poi crescere nettamente. La voce forse non è penetrantissima, ma sempre ben intonata e senza forzature.

Quasi meglio di lui il suo… confidente Evandro, dicasi Giorgio Misseri, bella voce squillante e ben impostata (forse un paio di lievi calatine, ma nulla di grave). E anche l’altra confidente, Zuzana Marková, se l’è cavata assai bene.

Più che apprezzabili gli altri comprimari: Armando Gabba, Vincenzo Nizzardo e gli altri solisti del Coro che hanno parti di un certo rilievo.

Bravissimi infine i due fanciulli (interpreti dei figli della coppia protagonista) che vengono dal Coro di voci bianche dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.
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Ecco, uno spettacolo che val bene una trasferta in laguna!   

04 marzo, 2013

C’è del comico anche a Verona


Ieri pomeriggio a Verona, in un Filarmonico che purtroppo presentava parecchi vuoti, la prima di Un giorno di regno, che riprende una stagionata produzione del Regio di Parma e del Comunale di Bologna, già presentata anche al Piermarini dall’Accademia della Scala nel 2001, per la regìa di Pier Luigi Pizzi. E anche oggi gli interpreti sono giovani di quell’Accademia (o da essa transitati) diretti dall’ottimo Stefano Ranzani.

La seconda opera composta da Verdi (dopo Oberto e prima di Nabucco) è anche rimasta, fino a Falstaff, l’unica di genere leggero: quella di Felice Romani è una commedia degli equivoci, a partire dalla località dove ha luogo la vicenda, Brest, che può indifferentemente trovarsi in Francia o in Bielorussia (! una pacchia per registi in cerca di ri-ambientazioni originali) e dove troviamo un finto sovrano polacco, una bella ragazza che il padre nobilastro vuol sposare ad un vecchio riccastro mentre lei ama un giovane squattrinato, una vedova ancor giovane e piacente che si crede abbandonata dall’amante e poi scopre che è il finto sovrano… e un lieto fine dove due coppie si uniscono (o ri-uniscono) in nome dell’amore e dove i due vecchi babbioni attaccati solo all’interesse devono far buon viso a cattiva sorte.

Insomma, un libretto a prima vista alquanto strampalato, come mille altri che avevano spopolato fra il ‘700 e l’inizio ‘800 e dai quali avevano principalmente tratto vantaggio i vari Rossini e Donizetti. Peccato che nel 1840 tutto ciò fosse ormai passato in archivio: il pubblico chiedeva contenuti assai diversi, e se proprio voleva ancora divertirsi con qualcosa di giocoso preferiva di gran lunga le opere famose e consolidate di maestri ormai entrati nella storia a improbabili e nostalgiche (almeno così giudicate) scimmiottature.

Ma il povero Verdi, che pur si sentiva cordialmente estraneo a quel genere di opere, dovette suo malgrado chinare la testa davanti ad una specie di aut-aut della Scala, della serie: o mangi ‘sta minestra, o salti dalla finestra e qui non ci metti più piede. Per sopramercato, lui era ancora convalescente dallo choc per una incredibile catena di tragedie familiari e quindi si può immaginare in quale stato d’animo si mettesse a comporre questo Finto Stanislao.    

Ergo nessuna meraviglia se il 5 settembre del 1840 il pubblico della Scala decretò un clamoroso pollice verso che indusse il teatro a cancellare ogni recita successiva.   

Eppure… eppure, se analizziamo le cose con un minimo di serenità scopriamo che – lungi dall’essere un capolavoro, su questo non ci piove – si tratta di un’opera tutt’altro che da buttare, e guarda caso proprio a partire (sembrerebbe assurdo) dal libretto inattuale del Romani. Nel quale troviamo sì una trama assai ridicola e improbabile, ma anche un paio di caratterizzazioni di personaggi che sono tutt’altro che insulse e vanesie.

E sono propriamente i due protagonisti: lui, Belfiore, il finto Stanislao; e lei, la Marchesa del Poggio, sua amante. Due personaggi che si staccano decisamente dalla prosaica e meschina mediocrità dei due vecchi intrallazzatori (il Barone e il Tesoriere) intenti soltanto a perseguire i loro venali obiettivi, propri della nobiltà parassitaria e reazionaria.

Belfiore e la Marchesa evidentemente rappresentano forze emergenti dall’establishment incartapecorito della società del loro tempo: lui a prima vista parrebbe un tipo di avventuriero poco raccomandabile, ma poi si scopre che, oltre a godere della totale fiducia di un Re (di cui veste i panni non in quanto imbroglione e millantatore, ma nello svolgimento di una delicata missione politica) lui è anche un uomo sinceramente innamorato (il suo temporaneo abbandono della Marchesa, da lei vissuto come tradimento, ha appunto serissime motivazioni) e un liberale convinto; lei è una donna emancipata, assetata (ma non certo a tutti i costi) d’amore e pronta a contrastare le ammuffite convenzioni della società. Ecco: due individui con una visione progressista del mondo, prova ne sia che ciascuno per proprio conto e in modo diverso si adopera per promuovere l’unione dei due giovani innamorati (Giulietta ed Edoardo) contro la volontà della coppia reazionaria Barone-Tesoriere.

Anche la figura di Giulietta (una ragazza che ha il coraggio di contestare apertamente le stupide convenzioni della società, una specie di Rosina insomma) e la sana filosofia della gente comune (che non manca di irridere l’ipocrisia dei potenti) contribuiscono a dare al libretto uno spessore non proprio evanescente.     

Sul piano musicale, di certo siamo di fronte ad una anacronistica riproposizione di abusati stilemi rossiniani e donizettiani, ma attenzione: anacronistica per il pubblico di quei tempi, che viveva fenomeni di trasformazione della società assai tumultuosi e legittimamente pretendeva anche dal teatro d’opera italiano l’innovazione e il progresso che avanzava in Europa. Non per noi che osserviamo con 170 anni di prospettiva storica e abbiamo alle spalle una straordinaria evoluzione della civiltà musicale, il che da un lato rimpicciolisce le distanze fra quei tempi e quei fenomeni (fra Rossini e questo Verdi, per intenderci) e dall’altro ci consente di valutare il livello estetico ed artistico di un’opera come questa senza l’emotività e i condizionamenti di cui naturalmente soffrivano il pubblico e la critica di metà ‘800.    

Ecco perchè oggi possiamo serenamente constatare come il giovine ed ancora acerbo Verdi fosse riuscito – nelle condizioni ricordate e magari senza rendersene conto – a sfornare un oggetto tutt’altro che impresentabile. Soprattutto se viene oggi presentato con il raffinato e intelligente equilibrio dell’allestimento di Pizzi – ripreso da Paolo Panizza - e con la lodevole dedizione della compagnia di canto dei giovani perfezionandi dell’Accademia scaligera.      

Lo spettacolo di Pizzi-Panizza è invero godibilissimo, con la sua ambientazione nelle terre verdiane, fra abbondante gastronomia locale, prosciutti, forme di parmigiano, mortadelle e dolci assortiti in gran quantità, brumosi paesaggi padani e vaghi riferimenti di natura architettonica. Bellissimi poi i costumi di stile settecentesco, caratterizzati da sgargianti colori, sfarzosi senza però cadere nel ridicolo o nel pacchiano. E poi la simpatica trovata di aggiungere elementi coreografici, del tutto appropriati allo scenario, a partire dalla presentazione dei principali personaggi dell’opera durante l’esecuzione della Sinfonia.

Fra le voci si è distinto il protagonista, Filippo Polinelli, per ottima prestazione vocale e brillante presenza scenica; accanto a lui Teresa Romano, una discreta Marchesa, pur con qualche eccesso urlacchiante, che lei si è ampiamente fatta perdonare (smile!) con l’esibizione, gustosamente inventata da Pizzi, delle sue seducenti grazie, nella peraltro castissima scena della vasca da bagno.

Non fosse per il timbro di voce tendente al metallico, la carioca Ludmilla Bauerfeldt (Giulietta) si meriterebbe un voto più che discreto. Il suo giovane amante Edoardo, al secolo Jaeyoon Jung - che era scritturato per altre recite, ma ha sostituito all’ultimo momento l’indisposto Scotto di Luzio - non ha demeritato, anche se il suo registro grave, già dal SOL a centro rigo purtroppo risulta quasi inudibile.

Brillanti i due buffi: Filippo Fontana (Tesoriere) e soprattutto Simon Lim (il Barone). I comprimari Ian Shin e Carlos Cardoso hanno degnamente completato il cast.

Note di merito anche per signori e signore del coro di Armando Tasso e per il Corpo di ballo dell’Arena di Maria Grazia Garofoli.

Quanto a Ranzani, ai miei orecchi ha il merito di aver cavato il meglio sia dalla partitura, aggredita con deciso cipiglio e senza ipocritamente nasconderne anche gli aspetti più… acerbi, né smussarne le frequenti spigolosità, che dagli strumenti della ridotta ma agguerrita formazione veronese e dalle voci, da lui letteralmente calamitate e condotte per mano.

Calorosissimo e per me meritatissimo successo, con lunghe acclamazioni finali, seguite agli applausi a scena aperta che avevano accolto quasi tutti i numeri musicali. Insomma, complimenti alla Fondazione dell’Arena per questa proposta decisamente interessante e lodevolmente realizzata.