Ieri pomeriggio a Verona, in un Filarmonico
che purtroppo presentava parecchi vuoti, la prima di Un giorno di
regno,
che riprende una stagionata produzione del Regio di Parma e del Comunale di
Bologna, già presentata anche al Piermarini dall’Accademia della Scala nel 2001, per la regìa di Pier Luigi Pizzi. E anche oggi gli
interpreti sono giovani di quell’Accademia (o da essa transitati) diretti dall’ottimo
Stefano Ranzani.
La seconda opera composta da Verdi
(dopo Oberto e prima di Nabucco) è anche rimasta, fino a Falstaff, l’unica di genere leggero: quella di Felice Romani è una commedia degli equivoci, a partire dalla
località dove ha luogo la vicenda, Brest, che può indifferentemente trovarsi in
Francia o in Bielorussia (! una pacchia per registi in cerca di ri-ambientazioni
originali) e dove troviamo un finto sovrano polacco, una bella ragazza che il
padre nobilastro vuol sposare ad un vecchio riccastro mentre lei ama un giovane
squattrinato, una vedova ancor giovane e piacente che si crede abbandonata
dall’amante e poi scopre che è il finto sovrano… e un lieto fine dove due
coppie si uniscono (o ri-uniscono) in nome dell’amore e dove i due vecchi babbioni attaccati solo all’interesse devono far buon viso a cattiva
sorte.
Insomma, un libretto a prima vista alquanto
strampalato, come mille altri che avevano spopolato fra il ‘700 e l’inizio ‘800
e dai quali avevano principalmente tratto vantaggio i vari Rossini e Donizetti.
Peccato che nel 1840 tutto ciò fosse ormai passato in archivio: il pubblico
chiedeva contenuti assai diversi, e se proprio voleva ancora divertirsi con
qualcosa di giocoso preferiva di gran
lunga le opere famose e consolidate di maestri ormai entrati nella storia a improbabili
e nostalgiche (almeno così giudicate) scimmiottature.
Ma il povero Verdi, che pur si sentiva
cordialmente estraneo a quel genere di opere, dovette suo malgrado chinare la
testa davanti ad una specie di aut-aut della Scala, della serie: o mangi ‘sta
minestra, o salti dalla finestra e qui non ci metti più piede. Per
sopramercato, lui era ancora convalescente dallo choc per una incredibile catena
di tragedie familiari e quindi si può immaginare in quale stato d’animo si mettesse
a comporre questo Finto Stanislao.
Ergo nessuna meraviglia se il 5
settembre del 1840 il pubblico della Scala decretò un clamoroso pollice verso che indusse il teatro a
cancellare ogni recita successiva.
Eppure… eppure, se analizziamo le cose
con un minimo di serenità scopriamo che – lungi dall’essere un capolavoro, su
questo non ci piove – si tratta di un’opera tutt’altro che da buttare, e guarda
caso proprio a partire (sembrerebbe assurdo) dal libretto inattuale del Romani.
Nel quale troviamo sì una trama assai ridicola e improbabile, ma anche un paio
di caratterizzazioni di personaggi che sono tutt’altro che insulse e vanesie.
E sono propriamente i due protagonisti:
lui, Belfiore, il finto Stanislao; e
lei, la Marchesa del Poggio, sua
amante. Due personaggi che si staccano decisamente dalla prosaica e meschina mediocrità
dei due vecchi intrallazzatori (il Barone
e il Tesoriere) intenti soltanto a
perseguire i loro venali obiettivi, propri della nobiltà parassitaria e
reazionaria.
Belfiore e la Marchesa evidentemente
rappresentano forze emergenti dall’establishment
incartapecorito della società del loro tempo: lui a prima vista parrebbe un tipo
di avventuriero poco raccomandabile, ma poi si scopre che, oltre a godere della
totale fiducia di un Re (di cui veste i panni non in quanto imbroglione e
millantatore, ma nello svolgimento di una delicata missione politica) lui è
anche un uomo sinceramente innamorato (il suo temporaneo abbandono della
Marchesa, da lei vissuto come tradimento, ha appunto serissime motivazioni) e
un liberale convinto; lei è una donna emancipata, assetata (ma non certo a
tutti i costi) d’amore e pronta a contrastare le ammuffite convenzioni della
società. Ecco: due individui con una visione
progressista del mondo, prova ne sia che ciascuno per proprio conto e in
modo diverso si adopera per promuovere l’unione dei due giovani innamorati (Giulietta ed Edoardo) contro la volontà della coppia reazionaria Barone-Tesoriere.
Anche la figura di Giulietta (una
ragazza che ha il coraggio di contestare apertamente le stupide convenzioni
della società, una specie di Rosina insomma) e la sana filosofia della gente
comune (che non manca di irridere l’ipocrisia dei potenti) contribuiscono a
dare al libretto uno spessore non proprio evanescente.
Sul piano musicale, di certo siamo di
fronte ad una anacronistica riproposizione di abusati stilemi rossiniani e
donizettiani, ma attenzione: anacronistica per il pubblico di quei tempi, che
viveva fenomeni di trasformazione della società assai tumultuosi e
legittimamente pretendeva anche dal teatro d’opera italiano l’innovazione e il progresso
che avanzava in Europa. Non per noi che osserviamo con 170 anni di prospettiva
storica e abbiamo alle spalle una straordinaria evoluzione della civiltà
musicale, il che da un lato rimpicciolisce le distanze fra quei tempi e quei fenomeni
(fra Rossini e questo Verdi, per intenderci) e dall’altro ci consente di
valutare il livello estetico ed artistico di un’opera come questa senza l’emotività
e i condizionamenti di cui naturalmente soffrivano il pubblico e la critica di
metà ‘800.
Ecco perchè oggi possiamo serenamente constatare
come il giovine ed ancora acerbo Verdi fosse riuscito – nelle condizioni
ricordate e magari senza rendersene conto – a sfornare un oggetto tutt’altro
che impresentabile. Soprattutto se viene oggi presentato con il raffinato e
intelligente equilibrio dell’allestimento di Pizzi – ripreso da Paolo Panizza - e con la lodevole
dedizione della compagnia di canto dei giovani perfezionandi dell’Accademia scaligera.
Lo spettacolo di Pizzi-Panizza è
invero godibilissimo, con la sua ambientazione nelle terre verdiane, fra
abbondante gastronomia locale, prosciutti, forme di parmigiano, mortadelle e dolci
assortiti in gran quantità, brumosi paesaggi padani e vaghi riferimenti di natura
architettonica. Bellissimi poi i costumi di stile settecentesco, caratterizzati
da sgargianti colori, sfarzosi senza però cadere nel ridicolo o nel pacchiano.
E poi la simpatica trovata di aggiungere elementi coreografici, del tutto
appropriati allo scenario, a partire dalla presentazione dei principali personaggi
dell’opera durante l’esecuzione della Sinfonia.
Fra le voci si è distinto il protagonista,
Filippo Polinelli, per ottima prestazione
vocale e brillante presenza scenica; accanto a lui Teresa Romano, una discreta Marchesa, pur con qualche eccesso
urlacchiante, che lei si è ampiamente fatta perdonare (smile!) con l’esibizione, gustosamente inventata da Pizzi, delle
sue seducenti grazie, nella peraltro castissima scena della vasca da bagno.
Non fosse per il timbro di voce
tendente al metallico, la carioca Ludmilla
Bauerfeldt (Giulietta) si meriterebbe un voto più che discreto. Il suo
giovane amante Edoardo, al secolo Jaeyoon
Jung - che era scritturato per altre recite, ma ha sostituito all’ultimo
momento l’indisposto Scotto di Luzio - non ha demeritato, anche se il suo
registro grave, già dal SOL a centro rigo purtroppo risulta quasi inudibile.
Brillanti i due buffi: Filippo Fontana
(Tesoriere) e soprattutto Simon Lim
(il Barone). I comprimari Ian Shin e Carlos Cardoso hanno degnamente
completato il cast.
Note di merito anche per signori e
signore del coro di Armando Tasso e
per il Corpo di ballo dell’Arena di Maria Grazia Garofoli.
Quanto a Ranzani, ai miei orecchi ha il merito di aver cavato il meglio sia
dalla partitura, aggredita con deciso cipiglio e senza ipocritamente nasconderne
anche gli aspetti più… acerbi, né smussarne le frequenti spigolosità, che dagli
strumenti della ridotta ma agguerrita formazione veronese e dalle voci, da lui
letteralmente calamitate e condotte per mano.
Calorosissimo e per me meritatissimo
successo, con lunghe acclamazioni finali, seguite agli applausi a scena aperta
che avevano accolto quasi tutti i numeri
musicali. Insomma, complimenti alla Fondazione
dell’Arena per questa proposta decisamente interessante e lodevolmente realizzata.
2 commenti:
Ciao daland, è molto giusto quello che dici a proposito di quest'opera, che andrebbe valutata - come tutte del resto - nel contesto di quegli anni ma con occhio distaccato. In troppi, soprattutto tra gli appassionati, si dimenticano della circostanza e si limitano a ripetere pareri e valutazioni lette qua e là.
Questo di Pizzi è davvero un bell'allestimento e con la presenza della Antonacci, come dire, si vedeva con ancora maggior piacere!
Io in questi giorni sono alla prese con il Macbeth, invece, e avevo poco da "rivalutare" sia per l'intrinseca grandezza dell'opera sia perché è una delle mie preferite :-)
Ciao!
@Amfortas
Sì, in effetti affidare un'opera come questa ad interpreti non da star-system può non renderle il miglior servigio... e d'altra parte magari interpreti più famosi la evitano proprio perchè "minore".
Io ho cominciato ad apprezzarla dal CD di Gardelli (Norman-Carreras-Cossotto) e so della grande interpretazione della Antonacci.
Quanto a Macbeth, ho visto che sei già a pieno regime... io aspetto quello della Scala fra un mesetto e poi quello (versione originale) del Maggio a... giugno.
Grazie e ciao!
Posta un commento