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11 novembre, 2020

Grazie Firenze, grazie Mehta

La figuraccia (dei tecnici) di ieri sera è stata fortunatamente riparata, con la diffusione in differita della Creazione, che ci ha permesso di godere di un’esecuzione che definirei di eccellente livello.

Mehta stupisce ogni giorno di più per la concentrazione e il piglio con cui guida le masse strumentali e corali; e i solisti (Volle su tutti) si sono egregiamente distinti, facendoci passare due ore indimenticabili (e facendoci dimenticare i guai che ci affliggono di questi tempi).

Quindi: grazie di cuore a tutti e... non mollate!


10 novembre, 2020

Contagiata anche la Creazione di Haydn-Mehta in streaming

Si moltiplicano le iniziative delle istituzioni musicali che propongono produzioni a-porte-chiuse irradiate in streaming sulla rete.

Questa sera è stata la volta del Maggio fiorentino, che ci voleva offrire una delle opere corali più grandiose dell’intera produzione degli ultimi secoli, Die Schöpfung di Joseph Haydn, diretta dal venerabile Zubin Mehta, che in questi tempi di coronavirus sembra aver moltiplicato le forze e le presenze sul podio...

Peccato che il virus abbia contagiato anche la tecnologia, che ha diffuso immagini passabili e suoni precisamente da polmonite interstiziale!

(Dico, se il contagio adesso si diffonde anche tramite web... ah padron, siam tutti morti!)


17 ottobre, 2020

Alla Scala l’ipertrofico ma umano Mahler di Mehta

Ancora Zubin Mehta sul podio scaligero per la seconda delle tre esecuzioni della mastodontica Terza di Mahler. La quale tenne a battesimo, nell’ormai lontano 1982, sotto la bacchetta del suo fondatore Claudio Abbado, la neonata Filarmonica della Scala, allora sponsorizzata da Mediaset (precisamente dal colto Confalonieri, non già dal musicista da strapazzo Berlusconi...) che irradiò in diretta il concerto su Canale5. Beh, erano tempi in cui la cultura ancora trovava un minimo di spazio e attenzione anche nel mondo del business, che oggi si dedica caso mai a guidare con TV e giornali la macchina della politica.

La quale, applicando le prosaiche regole del business, toglie risorse alla cultura, considerata centro di costo e non di profitto. E, sempre seguendo questo principio, consente ogni deroga alle regole di distanziamento in bar, ristoranti e luoghi pubblici consimili, riempie i mezzi di trasporto all’80% (in realtà anche al 120%...) mentre impone a teatri e sale cinematografiche - dove per definizione si sta seduti e composti a godersi lo spettacolo - assurde limitazioni di capienza (10-20% al massimo). Così è bastata la recente impennata di contagi (preoccupante, ma certo non imputabile ai teatri) per tarpare le ali alla nascente stagione scaligera, il cui annuncio, programmato per ieri mattina, è stato rinviato sine-die stante la minaccia di nuovi lock-down. Non solo, ma anche gli spettacoli già programmati dal 20 ottobre in avanti sono sub-judice e rischiano l’annullamento. Invece: fermare campionati e coppe? Dico, scherziamo?
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Bene (anzi... malissimo) torniamo a Mahler-Mehta. Il venerabile Direttore indiano ha approcciato questa Terza con la stessa serenità da grande-vecchio che aveva mostrato con Strauss, ma anche con Verdi: non è il Mahler sesquipedale che troppo spesso ci viene propinato (anche sulla base di ragioni non proprio peregrine, come ho già ricordato tempo fa) ma un Mahler al quale è come fossero stati aggiunti 10 anni di età, rispetto a quella che aveva nel 1894-96 quando compose la sinfonia. Meno sanguigno, meno velleitario, ma forse più... umano, ecco.

Brave le coriste e le voci bianche di Casoni nel loro bimm-bamm; discreta la Daniela Sindram (per me meglio in Arnim-Brentano che in Nietzsche...); emozionante la tromba - pareva arrivare dall’aldilà - del postiglione Francesco Tamiati, tutti lungamente applauditi dopo questa autentica maratona.

Ma il trionfatore è stato ovviamente lui, il grande vecchio Zubin, che fatica a reggersi sulle gambe, ma che ha la testa a posto più di tanti giovani!

01 ottobre, 2020

Mehta illustra Strauss alla Scala

Ieri sera il venerabile Zubin Mehta ha offerto la seconda delle tre serate del concerto straussiano di questa stagione d’autunno della Scala. In programma due opere che sono quasi un testa-coda (anzi: un coda-testa, data la sequenza di presentazione) della produzione del compositore bavarese.

Non posso immaginare cosa abbia guidato Mehta nella scelta (e sequenza esecutiva) dei due titoli... a me piace vederci lo Strauss che - a 84 anni - si accomiata dal mondo, mano nella mano con Pauline (Im Abendrot); e poi, come in un flashback a 50 anni prima, lo Strauss 34enne che aveva prefigurato - con le ultime note di Ein Heldenleben - proprio la conclusione della sua avventura artistica. Sì, perchè il poema sinfonico si chiude con la visione del pensionamento dell’eroe vittorioso in compagnia della sua musa. Inoltre, così come nel Tondichtung si rinverdiscono le memorie delle precedenti imprese dell’eroe, nel Lied da vonEichendorff Strauss guarda ancor più indietro (60 anni) all’idealista morente che, nell’aldilà, raggiunge la pienezza del suo ideale.   
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Ormai abbiamo fatto il callo alla (purtroppo infelice, ma le regole anti-Covid così vogliono) disposizione dell’orchestra, confinata nel fondo dell’orrida caverna del palcoscenico del Piermarini, e davvero non si vede l’ora che le cose tornino verso la normalità... ma temo ahinoi che ciò resti solo una pia illusione.

Tocca alla bella nordica Camilla Nylund (i suoi 52 anni li porta davvero bene!) di proporci in apertura le stupefacenti note dei Vier letzte Lieder, sui quali mi sono un pò dilungato quasi tre anni orsono.

Lei è una delle principali specialiste del repertorio (soprattutto operistico) wagneriano e straussiano e anche qui non ha smentito la sua fama. Voce ben impostata, acuti sempre fermi e morbidi, grande espressività. Un poco carente sulle note gravi (il REb del terzo Lied lo ha carpito a stento); a proposito di Beim Schlafengehen anche lei (come praticamente tutte) non ha nemmeno provato a percorrere in apnea l’interminabile legato sul tausendfach, prendendo fiato a metà percorso. Subito prima, mirabile l’assolo di violino di Laura Marzadori, la terza spalla dei Filarmonici (ma terza solo per l’anagrafe, chè qui e poi ancor più nel massacrante passaggio solistico del poema sinfonico ha dimostrato di non temere confronti con alcuno).  

Mehta ha avuto qualche problema con i fogli della partitura: all’attacco del secondo e del terzo Lied lo si è visto sfogliare avanti e indietro le pagine, quasi a cercare il bandolo della matassa, e anche la Camilla lo ha guardato con stupore misto a preoccupazione. Poi lui si è rifatto con il poema sinfonico, lasciando direttamente la partitura in camerino!
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A seguire appunto l’autobiografico Ein Heldenleben, un vero e proprio romanzo dove Strauss sembra condensare non soltanto i (circa) 15 anni di carriera artistica che aveva alle spalle nel 1898, ma addirittura prefigurare il futuro, fino al... tramonto (!) Ecco una mia sommaria analisi dei sei capitoli del romanzo, pubblicata qui parecchi anni fa...

Mehta ha tenuto un approccio assai sostenuto, tempi sempre comodi e niente enfasi o gratuiti fracassi, nemmeno nella scena della battaglia (qui però c’è lo zampino della forzata disposizione dell’orchestra, dove soprattutto i fiati faticano a farsi sentire in sala). Devo supporre che il Maestro abbia interpretato l’opera dello Strauss giovane eroe spavaldo con lo spirito dello Strauss disincantato del 1948? Chissà...

Alla fine gli applausi sono fioccati copiosi per tutti, con speciale menzione per il corno di Danilo Stagni (protagonista con la Marzadori dei passaggi solistici, ma in precedenza anche della la chiusa di September, che è sempre cosa... sbudellante). Ripetute chiamate per Mehta, che esce facendosi sorreggere dalla bella e bionda Laura.

C’è ancora una replica... chi può non si perda l’occasione.

26 settembre, 2020

La contagiata Traviata scaligera

Ieri sera alla Scala penultima recita della Traviata contagiata. La mia seconda esperienza scaligera del post-lockdown è stata - dal punto di vista ambientale - ancor più deprimente della prima: perchè, oltre alla negativa impressione che ti fa una sala semideserta, ho potuto anche fare l’esperienza di un intervallo. Che tristezza il foyer popolato da fantasmi che si aggirano tenendosi a distanza, e soprattutto che atmosfera spettrale, con le mascherine che non solo celano i volti, ma mettono la sordina alle voci, così pare di stare in un istituto per muti...  

La rappresentazione di un’opera in forma di concerto è una rarità in Scala (in passato è accaduto più che altro in casi di contrattempi organizzativi) e va lodata comunque l’organizzazione che ha predisposto un semi-scenico più che accettabile. Poi i frac dei maschi e gli abiti da ricevimento delle cantanti (firmati D&G) erano abbastanza coerenti con parecchi degli ambienti presenti nel libretto.

Certo, le regole di distanziamento hanno reso alcune scene piuttosto paradossali: il povero Alfredo, per dire, è dovuto restarsene impotente a due metri dalla sua Violetta morente (è andata meglio a Mehta che, alla fine, con la scusa di farsi sorreggere dalla Rebeka, ne ha approfittato per quasi abbracciarla e baciarla!)

Ecco, Mehta, uomo dalle nove vite: cammina a stento, ma quando si siede sullo sgabello del podio pare abbia 30 anni, tanto secco, preciso ed efficace è rimasto il suo gesto. La sua è stata una direzione apparentemente rilassata, senza grandi slanci retorici, un Verdi suonato à-la-Mozart potrei dire con una battuta. (Teniamo presente che l’orchestra è praticamente confinata in fondo all’enorme scena del Piermarini, il podio del Direttore è ben al di là del proscenio nella configurazione con buca, e tutti suonano sullo stesso piano, niente rialzi come nella configurazione per concerto; ciò che arriva in sala... ve lo lascio immaginare.)

Con Mehta trionfa l’altro giovanissimo della compagnia, tale Leo Nucci, un tipo che promette bene e farà carriera di sicuro! Lui poi, oltre a cantare come 50 anni fa, sa ancora correre con la leggerezza di un levriero...   

Marina Rebeka merita un voto più che discreto: 18 mesi fa non aveva proprio fatto un figurone, ma oggi devo dire che è progredita (non solo per il famigerato MIb) e il pubblico l’ha gratificata - con Leo e Zubin - di applausi a scena aperta e ovazioni finali... con sordina!

Dell‘Alfredo del carioca Atalia Ayans mi limito a dire che potrà sempre far meglio... Tutti gli altri al loro posto, ecco. Il coro di Casoni era relegato al lati e al fondo della caverna, quindi bravi ad aver fatto arrivare i suoni fino alla platea (e spero anche più su...)

Che dire, in conclusione: accontentarsi, dati i tempi che corrono, è come minimo doveroso... ma è dura davvero!

03 maggio, 2019

Mehta-Bruckner: emozioni alla Scala



Questa è una reliquia che conserverò gelosamente, a imperituro ricordo di una serata indimenticabile, in un Piermarini non precisamente esaurito, ma che ha salutato e stretto in un ideale abbraccio un direttore, ma che dico, un Uomo che ci ha regalato 80 minuti di profonda emozione.

Il venerabile Zubin Mehta è in questi giorni di casa alla Scala per dirigervi le tre puntate del concerto della stagione sinfonica del Teatro e - con Pollini - un concerto di beneficenza (con i giovani dell’Accademia, che avranno la fortuna di poter raccontare ai nipotini di aver suonato con una coppia davvero unica) per la Fondazione che si occupa di bambine disabili in India, di cui Mehta è patron insieme a Pereira.

Ieri sera ecco dunque l’esordio con l’imponente Ottava di Bruckner. Mehta, che sembrava uno che non invecchia mai, ora mostra gli impietosi segni degli anni e soprattutto della malattia, che lo costringono a camminare appoggiandosi ad un bastone e a dirigere seduto. Ma vi posso assicurare che la sua carica è la stessa che mostrava quasi 5 lustri fa, quando era nel pieno delle forze!

Non entro nel merito dei dettagli tecnici dell’esecuzione, perchè di per sè significherebbe rompere quel meraviglioso incantesimo che ci è stato offerto dal Maestro, dall’Orchestra della Scala e - inutile precisarlo - da Bruckner! 

22 giugno, 2017

Il Ratto-vintage alla Scala


Ieri sera terza delle sei rappresentazioni del mozartiano Ratto nell’ormai 52enne (45enne per la Scala) allestimento della premiata coppia Giorgio Strehler – Luciano Damiani, che aveva debuttato al Piermarini il 15 maggio 1972: allestimento già una prima volta ripreso dalla stessa coppia nel febbraio 1978 e successivamente (giugno 1994) da quel Mattia Testi che lo cura ancor oggi.

E davvero si tratta di un’interpretazione geniale, di assoluta modernità. E tutto senza ricorrere – come accade sempre più spesso - a velleitari quanto strampalati riferimenti all’attualità e/o alla politica. (Per dire: tirare in ballo l’ISIS per rappresentare quella specie di pagliaccio che è Osmin significa recare offesa al genio di Mozart, all’intelligenza del pubblico e alle vittime dei macellai contemporanei.)

Spettacolo che evoca con grande efficacia e gradevolezza proprio l’ambiente delle prime rappresentazoni dell’opera, in quel Burgtheater, direttamente collegato alla residenza dei sovrani, nel quale Giuseppe II assistette alla prima di martedi 16 luglio, 1782. Spettacolo che riproduce lo spirito più autentico di quel genere (Singspiel) che mescolava i tratti dell’operetta buffa a quelli della commedia dell’arte: strepitose in proposito le trovate di Strehler che animano le gag di cui sono protagonisti il farsesco Osmin, il furbastro Pedrillo e, nel terz’atto, il servo muto (che Marco Merlini ha nuovamente re-impersonato dopo l’esordio del lontano 1994!)

Sempre efficace il gioco di luci (di Marco Filibeck) che illuminano i protagonisti durante i parlati e gli ensemble, ma lasciano in penombra il proscenio, dove i cantanti si misurano con le arie. Fa eccezione la spettacolare esecuzione di Martern aller Arten, che avviene a teatro in piena luce e con la cantante sola al proscenio: si tratta invero di una grande aria da concerto, con i 4 strumenti obbligati (flauto, oboe, violino e cello) che merita il privilegio di essere eseguita fuori dal contesto dell’operetta.
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E sul fronte dei suoni, l’antica consuetudine del venerabile Zubin Mehta con quest’opera (c’era proprio lui sul podio di Salzburg in quel lontano 1965!)


è di per sè una garanzia, che direi proprio abbia funzionato anche in questa occasione. Orchestra a ranghi... mozartiani (40 esecutori o giù di lì) con piccola batteria turca (triangolo, piattini e tamburo); direzione sobria, misurata e rispettosa dei minimi dettagli; concertazione impeccabile e sempre attenta a non coprire le voci con le turcherie che il Teofilo ha disseminato in partitura. 

Voci che nella media (del pollo) raggiungono una striminzita sufficienza. Sopra la quale mi sento di collocare la Sabine Devieilhe: voce sottile ma penetrante, che ben si adatta al personaggio di quella specie di suffragetta che risponde al nome di Blonde. Idem per il Pedrillo di Maximilian Schmitt, voce adeguata al ruolo, timbro squillante e buona intonazione.

Al centro della... classifica metterei la Lenneke Ruiten, che ha bene impressionato per la qualità del timbro e per l’agilità dei virtuosismi, sovracuti (anticipanti Astrifiammante) inclusi. Se avesse anche la (cosiddetta) ottava bassa un filino più robusta e udibile, sarebbe una Konstanze più credibile ancora... ma tant’è.

Sotto la... linea di galleggiamento il Belmonte di Mauro Peter, che stenta a mettere a profitto una voce pur dotata naturalmente: piuttosto piatto il suo approccio, privo di slanci che si pretenderebbero dal personaggio.

Nella... fossa delle Marianne il povero Tobias Kehrer (in tedesco maccheronico: scopatore?) Voce piccola, poco penetrante e addirittura inudibile nei gravi (certo, Mozart per Osmin ha insistito assai sulla parte bassa del rigo di... basso); si salva solo la sua macchietta impreziosita da Strehler. Insomma, questo precursore del Monostatos è proprio una delusione.    

Onesto il coretto dei Giannizzeri di Casoni.

Come detto, Marco Merlini torna dopo 23 anni a divertirci nella scenetta del terz’atto, mentre Cornelius Obonya impersona efficacemente il parlante Selim, una specie di Atatürk ante-litteram.
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Pubblico scarseggiante (ampi vuoti in platea e palchi) ma prodigo di applausi, a scena aperta dopo i numeri, e alla fine, con ripetute chiamate. Li merita ovviamente e soprattutto l’allestimento!

06 febbraio, 2017

Alla Scala sbarca il Falstaff triste di Michieletto

 

Altro esempio di acquisto in casa propria (Salzburg 2013) del soprintendente Pereira (oggi però i conflitti di interesse che tengono banco sono quelli di tale Raggi...) ecco arrivare in Scala, ieri sera alla seconda recita, il Falstaff di Damiano Michieletto, che segue la precedente e fortunata produzione di Carsen (2013 con Harding e 2015 con Gatti).

Comincio dalla musica che – sono certo Boito non me ne vorrà – è di gran lunga l’ingrediente principale dell’opera, per il suo carattere letteralmente rivoluzionario, che ne fa un unicum nella storia del teatro musicale. E che richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio. E qui siamo davvero in buone mani chè, dopo un giovane e un... diversamente giovane (entrambi all’altezza) arriva sul podio un arzillo nonnetto che va per gli 81 ma pare se la passi ancora alla grande, proprio come il Verdi che – a quell’età o giù di lì – componeva questo incredibile gioiello! Se si escludono un paio di circostanze in cui il Direttore ha sciolto un po’ troppo le briglie, con decibel eccessivi, mi pare di poter dire che la resa complessiva sia stata del tutto positiva, avendo messo in luce ogni minimo dettaglio di una partitura che è – appunto – una miniera d’oro e diamanti, che ad ogni ascolto non finisce di stupire. L’orchestra, giustamente ridimensionata nell’organico, soprattutto negli archi, per garantire quella purezza di suono che è la cifra principale dell’orchestrazione verdiana, ha risposto assai bene e si merita un incondizionato applauso.

Cast di sapore scaligero, se ben 5 dei 10 interpreti vengono dalla citata produzione carseniana: torna infatti, dopo aver saltato il turno precedente (ci fu Alaimo) il protagonista, Ambrogio Maestri, ormai avviato a diventare sir Ambrose Falstaff, viste le centinaia e centinaia di calate nei panni (per lui sempre più stretti!) del vecchio John. Passano gli anni, ma lui, proprio come il personaggio, sembra non accorgersene: forse l’assuefazione lo porta casomai a gigioneggiare più del necessario, con parlati che talvolta si sostituiscono al declamato, ma in complesso la sua è una prestazione degna della sua fama.

Con lui tornano dal 2013 anche Carmen Giannattasio, Francesco Demuro, Carlo Bosi e Massimo Cavalletti, questi tre ultimi ormai ospiti fissi dei Falstaff scaligeri, avendo cantato anche nel 2015. La prima mi pare aver acquisito maturità e miglior controllo dell’emissione, soprattutto negli acuti, in passato piuttosto urlati. Bosi sembra inossidabile e il suo Cajus continua a convincere. Anche Cavalletti, dopo tanta esperienza nel ruolo, dà di Ford un’interpretazione più che accettabile, superando si slancio anche le salite impervie che la parte gli impone. Demuro si merita ampia sufficienza, come in passato, ma mi pare non faccia ancora quel salto di qualità che sarebbe auspicabile.

Per il resto, dignitose le prestazioni del... Pistola (Gabriele Sagona) e di Francesco Castoro (Bardolfo) che illustra i meriti dell’Accademia scaligera dalla quale proviene.

Yvonne Naef è una intrigante (in tutti i sensi) Quickly, e mette in mostra la sua voce ben tornita e sempre ben controllata. Non così Annalisa Stroppa (Meg) che tende ad urlacchiare o a... non farsi udire. Infine, Giulia Semenzato impersona con discreto profitto una Nannetta disinvolta e sbarazzina.

Il Coro di Casoni non manca a sua volta di distinguersi, chiamato nelle due circostanze in cui interviene, a contrappunti davvero... bestiali, ma resi al meglio.

In conclusione, una piacevole performance, che conferma la qualità dei complessi scaligeri, che paiono tirar fuori il meglio di sè proprio in occasione di appuntamenti difficili come questo.
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Della regia di Michieletto si conosceva ormai tutto, e non solo riguardo i contenuti della messinscena, ma anche riguardo i giudizi di pubblico e critica: il bello e il brutto insieme di queste co-produzioni, o riciclaggi che dir si voglia, in tempi di web, blog, youtube, dvd, streaming e diavolerie assortite, è che si va a teatro già prevenuti, in un senso o nell’altro, e viene così a mancare l’effetto-novità o sorpresa.

Liquido con rito abbreviato (direbbe un leguleio) la scelta del regista di rappresentare le vicende dell’opera come un sogno del protagonista: idea in sè vecchia come il cucco, ma che non per questo è da biasimare a-priori. In fin dei conti il Falstaff sveglio (quello originale di Boito-Verdi) è un inguaribile sognatore ad occhi aperti, quindi fin qui tutto ok. Però, attenzione, il sogno dovrebbe mostrare il contenuto del soggetto, non ciò che si sogna... il regista!

Sono invece personalmente assai scettico sulla pertinenza dell’accostamento, tutto extramusicale, quindi per definizione sospetto - in quanto prescinde dall’unica fonte attendibile, testo-partitura - fra la composizione dell’opera e le vicende legate alla costruzione di Casa-Verdi, dal quale accostamento il regista ha preso spunto per porre al centro del suo Konzept una riflessione sui temi della malinconia, della vecchiaia e della morte (parole sue, riportate anche sul programma di sala): temi che effettivamente emergono in modo chiaro dal suo allestimento, ambientato appunto nella milanese casa di ricovero per artisti, dove vediamo circolare spesso e volentieri anziani e malati. (Detto di passaggio, Georges Wilson mise in scena un Falstaff triste già nel 1982 a Parigi, quindi anche qui siamo al riscaldamento di vecchie minestre... al quale peraltro si applica lo stesso ragionamento fatto sopra per il sogno.)

Ora, cosa Verdi avesse in testa nessuno può saperlo, ma ciò che è inconfutabile è che nel testo di Boito e nella musica del Maestro (che, lo ripeto, dovrebbero essere i soli elementi su cui basare la messinscena) nulla si ritrova del Konzept di Michieletto (a parte forse un po’ di malinconia, che per definizione non può mai mancare in alcun soggetto, anche il più leggero). E sarà solo un caso se tutta l’opera – escluse fugacissime apparizioni del minore – è in modo maggiore? E se principia e termina nel solare DO maggiore?

Nel testo troviamo soltanto due accenni alla vecchiaia e alla morte: il primo (atto II) quando, incontrando Alice, Falstaff proclama che potrà morir contento, dopo un’ora d’amore con lei. Una specie di meglio un giorno da leone... francamente di nessuna particolare profondità (e infatti il regista ci passa sopra disinvoltamente). Il secondo (inizio atto III) quando il povero pancione, ancora inzuppato d’acqua, sembra rassegnato a farla finita con un mondo in declino. Qui Michieletto tira in ballo proprio Verdi in persona, quando Falstaff stacca dal muro un quadro con la famosa effigie del Maestro ottuagenario, e la cosa ci può anche stare ma, appunto, è un momento fugace di malinconia che subito il grassone impenitente supera con un bicchiere di vin brulè che lo fa tornare più arzillo, credulone e incosciente di prima!    

Per il resto, Falstaff pensa e si comporta come uno che crede (di certo non lo è, ma lo crede, o lo sogna) di essere ancora un gran dongiovanni (Io sono ancora una piacente estate di San Martino); che ancora ha in testa progetti per il futuro (Questo è il mio regno. Lo ingrandirò !) Si tratta appunto di sogni ad occhi aperti, che la realtà distrugge sistematicamente ed impietosamente (un po’ come succede anche al dapontiano DonGiovanni, in fatto di conquiste mancate...) ma che non sembrano portare Falstaff (così come il Don) a serie meditazioni per trarre insegnamenti dai casi della vita. E così, dopo la tragicomica esperienza nel cestone del bucato con bagno finale nel Tamigi, lui è prontissimo a dimenticare tutto, tanto da ringalluzzire subito di fronte alla prospettiva della nuova avventura notturna. E nemmeno l’umiliante sputtanamento sotto la quercia di Herne lo porterà a meditare su vecchiaia e morte, al contrario: quando le tre comari implorano Fallo pentito Domine! lui ribatte, in perfetta rima: Ma salvagli l’addomine! (puro humor boito-albionico, altro che meditazioni michielettiane sulla morte!) E che dire della sua reazione al beffardo Cavaliero di Quickly con un fantastico Reverenza!

Anzi, il vecchio John mostra d’esser il più giovane di tutti (gente dozzinale) quando si attribuisce il merito della loro arguzia. E alla fine lui si sentirà ancora talmente giovane da prenderla sul ridere, e chiudere l’opera aizzando tutti gli altri a quello strepitoso, ottimistico quanto irresponsabile Tutto nel mondo è burla! (un’esilarante e strepitosa parodia del wagneriano, seriosissimo e pedante Wahn, Wahn, überall Wahn di Sachs.)

Insomma, a me pare che Michieletto, per giustificare la sua impostazione di fondo, abbia surrettiziamente introdotto elementi estranei al soggetto del Falstaff, senza apportarvi particolare valore aggiunto, anzi privandolo (non del tutto, certo) della sua freschezza quasi innocente; in compenso, alcune trovate volte a caratterizzare l’aspetto onirico della sua concezione mi sono parse francamente eccessive, volgari e perniciose: le donne che prendono d’assalto Falstaff con moine di ogni tipo, le fate che restano in sottoveste, Nannetta che scopriamo ninfomane, il funerale con i protagonisti maschi trasformati in religiosi...

Invenzione già... inventata è anche la trovata di far comparire in scena personaggi che lì non dovrebbero stare, ma ai quali alludono o fanno riferimento i personaggi che in scena ci sono in forza del libretto: il presumibile intento didascalico che sottende questa idea viene solitamente annullato dalla confusione che si ingenera nello spettatore.  

Dopodichè: tanto di cappello alla professionalità e alla cura con cui lo spettacolo viene presentato, ma ahinoi si tratta di condizioni necessarie, ma mai da sole sufficienti a garantire l’eccellenza di un prodotto. 

Piermarini con parecchi vuoti in ogni settore (gallerie comprese) e pubblico che non ha mancato di manifestare apprezzamento per tutti, Maestri e... Maestro in primo luogo! 
       

08 giugno, 2016

L’argenteo cavaliere ci riprova alla Scala

 

Ieri sera alla Scala seconda recita del redivivo Der Rosenkavalier, che a più di un secolo di distanza evidentemente continua a non convincere i milanesi (e non). Per carità, ora nessuno ha l’ardire – come accadde in quel lontano mercoledi 1° marzo del 1911 - di fischiare la musica del bavarese, accusandola di lesa maestà al nobile melodramma italico, perchè intrisa di eccessivo walzerismo viennese... O di irridere il testo del raffinato Hofmannsthal, che nella traduzione italiana doveva perdere parecchio dell’appeal che ha nella lingua originale, con tutte le sfumature del dialetto austriaco (che noi non crucchi ci perdiamo comunque anche ascoltando il tedesco). No, la disaffezione oggi si misura in numero di poltrone e di intere file di palchi andate deserte: una cosa, questa sì, al limite dello scandalo.

La nuova (per la Scala) produzione viene – tramite l’intermediario Pereira - da Salzburg ed è firmata dall’oggi 81enne Harry Kupfer. L’ambientazione – cosa che ormai supera il limite dell’abuso – è nella Vienna degli autori, non in quella di 150 anni prima. Quindi nei locali settecenteschi (su fondali di foto della Vienna novecentesca) lo scenografo Hans Schavernoch ci mostra – cito solo due esempi - un fonografo a manovella e una bellissima automobile (quella di Strauss doveva proprio essere così) e i costumi di Yan Tax sono pure da primo novecento, però con qualche tocco... vintage, come il taglio degli abiti di Octavian. (Delle scene c’è da elogiare la piattaforma che scorre da destra a sinistra e viceversa, assai efficace nel creare di volta in volta gli ambienti in cui si snoda la vicenda, mostrandoci anche ciò che avviene fuori scena, tipo l’ingaggio di Valzacchi-Annina da parte di Octavian). Naturalmente è un’ambientazione che deve fare i conti con la parrucca, e in particolare con quella di Ochs, oggetto fondamentale nel testo, poichè determina nientemeno che lo sviluppo della scena tragicomica del terz’atto: come sempre, anche qui il regista deve ricorrere al volgare parrucchino (perso e poi recuperato dal buzzurro di Lerchenau) che trasforma un’invenzione invero raffinata di Hofmannsthal in una gag da avanspettacolo. Come una gag diventa il duello Octavian-Ochs dell’atto secondo, con il nobilastro campagnolo ferito da una spada passatagli al volo dal ragazzo per invitarlo a combattere... O come la torma di ragazzini sedicenti-figli-illegittimi che nell’atto finale circondano Ochs, ben più numerosi dei 4 (quattro) previsti dal libretto. Tutte trovate abbastanza stantie – simili a quelle del precedente allestimento visto qui, a firma di Herbert Wernike, che avevo personalmente criticato assai a suo tempo - che non mi pare proprio valorizzino l’opera, ecco.   

Detto ciò, va comunque riconosciuto al vecchio Kupfer di averci presentato con grande equilibrio lo scenario socio-psico-esistenziale che caratterizza questo capolavoro: ci troviamo tutta l’apologia del regno di Maria Theresia, dal quale era nata l’Austria in cui vivevano (pieni di fama e... quattrini) gli autori, ma al contempo la meditazione sull’eterno fluire del tempo e sulla necessità di accettazione dei mutamenti che esso comporta per gli esseri umani. Tutto è un mistero, un grande mistero, ed esistiamo per questo, (sospirando) per sopportarlo. E nel “come” (con molta calma) sta la vera differenza. E parlo dei mutamenti a livello privato, come a livello pubblico: il futuro di Marie Theres’ come quello della nobiltà illuminata che lei impersona; quello della nobiltà retriva (Ochs); quello dell’emergente borghesia produttiva (Faninal); e infine quello dei giovani eredi (Octavian-Sophie). E al proposito la scena finale (indipendentemente dal mezzo di trasporto) è resa da Kupfer con perfetta aderenza allo spirito dell’opera.
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A Krassimira Stoyanova va indiscutibilmente la rosa d’argento della serata. Un’interpretazione magistrale (grazie anche a Kupfer, certo) e una prestazione vocale di eccellenza, per potenza di suono coniugata con mirabile espressività.

Il travesti è Sophie Koch, che (per me) ha iniziato malissimo, per poi però ritrovarsi e fare una dignitosa figura in particolare nelle prove finali (terzetto e duetto) dove la sua voce (mi) è parsa trovare il giusto grado di morbidezza. Meglio di lei l’altra Sophie (il personaggio): quella di Christiane Karg, che ha sciorinato un bella voce squillante e appropriatissima alla figura della figlia-di-papà, caratterizzata al contempo da ingenuità e slanci battaglieri.

Günther Groissböck è finalmente un Ochs appropriato anche anagraficamente: ha solo pochi anni più del (probabile) 35enne bue che viene dalla campagna a nord di Vienna e che troppo spesso viene cervelloticamente presentato come un vecchio lurido e bavoso. Quanto alla prestazione vocale, mi è parsa più che apprezzabile, a partire dal timbro piuttosto baritonale, anche qui adatto ad impersonare un tipaccio esuberante e non un vecchio mezzo rincoglionito. Qualche decibel in più di volume non avrebbe guastato, tuttavia si son potuti (a fatica) udire anche i MI gravi (e persino l’impossibile DO sotto il rigo, proprio nel momento in cui si accommiata dalla Marescialla nel primo atto, mich tiefst beschämt).


Faninal è Adrian Eröd, che si comporta senza infamia a senza lode: voce non molto penetrante (dovrebbe essere da baritono acuto) che fatica ad arrivare su al loggione. Certamente più udibile (anche troppo...) invece la Silvana Dussmann che impersona la cameriera di casa Faninal, il cui vociferare non è però del tutto inappropriato al personaggio di zitella... accalorata, ecco.

Ora farò indebitamente di ogni erba un fascio, accomunando tutti gli altri numerosi personaggi in un generico apprezzamento per aver dato il loro onesto contributo. Faccio una piccola ma doverosa eccezione per il tenore italiano, che l’italiano di studi Benjamin Bernheim ha impersonato con bella prestanza e sfoderando al meglio gli squillanti SIb e il SI naturale che la particina comporta. Sempre efficace il coro (grandi e piccoli) di Bruno Casoni.

Lascio da ultimo il venerabile Zubin Mehta, capitano di lungo corso su queste rotte straussiane e concertatore sopraffino. Se mi posso permettere un appunto, gli imputerei un filino di rilassatezza nei tempi, che avrei (personalmente, sia chiaro) preferito più spediti e garibaldini. Già l’attacco dei corni (uno dei quali purtroppo non è stato perfetto, ma pazienza...) mi è parso ad orecchio piuttosto al di sotto del metronomo di 60 minime prescritto da Strauss. Ma al grande vecchio si può perdonare questo ed altro, perchè tenere in pugno con consumata maestrìa un oggetto come questo non è da tutti.

Trionfo quindi meritato e... peggio per i disertori.

23 febbraio, 2015

Da Napoli un Tristan acciaccato

 

Radio3 ha trasmesso ieri sera il Tristan dal SanCarlo, che riprendeva lo spettacolo originariamente andato in scena nel 2004 (allora diretto dal compianto Gary Bertini). Sul podio Zubin Mehta, reduce dopo 19 ore esatte dall’Aida scaligera (e va verso i 79!)

Proprio il Direttore - che ha fatto osservare un minuto di raccoglimento in memoria di Luca Ronconi - è stato, a mio modesto avviso, il salvatore di una serata tutto sommato mediocre (parlo ovviamente dei suoni pervenuti via cavo, o etere). Ha dato una lettura di grande rigorosità, nella scansione dei tempi e delle dinamiche, come nel supporto alle voci.

Le quali voci hanno purtroppo costituito il punto debole della serata, salvandosi solo – ma meritando una semplice sufficienza – la… navigata Violeta Urmana. Passabile la sua ancella Lioba Braun, che nonostante la microfonatura si faticava ad udire in zona grave.

Deludenti Jukka Rasilainen, apparso un Kurwenal privo di mordente, e Stephen Milling, un Marke amorfo e anonimo, senza alcuna profondità di accenti.

Il protagonista Torsten Kerl mi è parso perennemente in difficoltà, impiccato già sui FA e a corto di fiato. Nel secondo atto si è fatto scontare (insieme a Isolde, ma il beneficiario è principalmente lui) ben 5 strofe (a partire da Dem Tage! Dem tückischen Tage e fino a O, nun waren wir Nacht-Geweihte!) del grande duetto, qui ridotto a moncherino. Taglio che viene spesso praticato, nelle edizioni popolari, proprio per salvare i tenori da possibili default: bene, Kerl nonostante il regalo ha rischiato di morire già nel seguito del duetto! Poi ha portato miracolosamente a casa la recita con grande affanno e molto mestiere.

Il signor Urmana (al secolo Alfredo Nigro) si è preso sulle spalle i due ruoli minori (ma non per questo da prendersi sotto gamba) di Marinaio e Melot: oltretutto deve aprire l’opera, a freddo e senza accompagnamento. Lui ha fatto del suo meglio, appena quanto basta. Italo Proferisce e Marcello Nardi completavano il cast rispettivamente come Timoniere e Pastore: queste sì sono parti proprio secondarie (la prima, soprattutto).

Apprezzabile la prova del Coro di Marco Faelli, una parte contenuta quantitativamente ma assai problematica da eseguire.

Insomma, un Tristan piuttosto di seconda scelta, Direttore escluso.

22 febbraio, 2015

Scala: la miglior Aida del terzo millennio

 

Sì, lo so che qualche schizzinoso osserverà: bella forza, far meglio di Chailly, Barenboim, Wellber, Noseda… (poi parlerò anche di Zeffirelli). Intanto però è già qualcosa, con i tempi che corrono, e così godiamoci l’evento, come se lo è goduto ieri sera il pubblico della terza che ha decretato a questa Aida un successo chiaro, convinto e indiscutibile.

Di cui personalmente accrediterei la parte sostanziosa e sostanziale al vecchietto Zubin Mehta che – nel solco della sua tradizionale interpretazione anti-retorica e intimistica dell’opera (gliel’avevo sentita l’ultima volta 4 anni fa a casa sua) – ha ottenuto da orchestra, coro e cantanti un risultato di tutto rispetto: certo, non si parla di Everest, ma insomma, già il Resegone è molto, rispetto al… monte Stella (smile!) su cui ci si era accampati negli ultimi 10 anni, ecco.

E pensare che questa sera stessa Zubin è atteso al varco da un’altra prova di quelle da far tremare i polsi… (in radio da Napoli) ma si può star certi che farà un figurone.

Smarco per primo il Coro di Casoni che in questo repertorio non ha rivali; poi l’Orchestra che – quando è guidata da uno che ne sa – tira fuori gli attributi, per venire alle voci.

Anita Rachvelishvili svetta su tutti e tutte per potenza (e questo lo sapevamo da anni, è una sua dote naturale) e per sensibilità interpretativa (e questo non era per nulla scontato): la sua è una Amneris davvero vicina all’ottimo. Superfluo citare il trionfo con cui è stata accolta alla singola.

Ma una gradita sorpresa è stata anche la negretta yankee Kristin Lewis, a cui manca solo di sostituire con l’italiano la buona dose di grammelot che lei ancora canta, per diventare un’Aida di tutto rispetto.

Fabio Sartori è il bamboccione (stra-smile!) Radames e non se la cava neanche male (certo il SIb morendo non ci prova nemmeno a farlo…): la sua mi è parsa una prestazione meritevole di ampia sufficienza, essendo oltretutto arrivato benissimo in fondo, cosa che non è per niente facile per chiunque.

Amonasro è un convincente George Gagnidze, che si comporta da cantante e non da ubriacone come capita a volte di sentire: bella voce più di baritono che di basso, ma assai efficace e sempre intonato.

Carlo Colombara ha ben meritato nella parte non proprio facilissima del RE: voce benissimo impostata e sempre ben passante.

Che dire del 70enne Matti Salminen (Ramfis)? Che ancora ce la mette tutta (quella poca o tanta che gli resta) e merita perciò un incoraggiamento a… godersi la sacrosanta pensione!

I due accademici scaligeri Chiara Isotton (Sacerdotessa) e dovestazzazzà Azer Rza-Zada (Messaggero) han fatto degnamente il loro dovere.

Per tutti (e anche per i danzatori dei balletti) un successo ben meritato.
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E a proposito di balletti, vengo a… Zeffirelli. Che la Scala ha mandato in pensione per sostituirlo con un… mezzo-Zeffirelli, che risponde al nome di Peter Stein. Il quale ha rimosso le scene egizie per sostituirle con squallidi soppalchi e scale di legno grezzo; ha però rivestito tutti di costumi sontuosi (più o meno plausibili) e dotato qualche ancella addirittura di ventaglioni da far invidia al maestro fiorentino.

Ha poi messo sulla scena la Banda d’Affori, che suona a meraviglia, avendo ciascun bandista lo spartito davanti al naso, nelle apposite pinzette montate su trombe, tromboni e cimbasso (!)

Sempre restando ai balletti, per farsi ancor meglio notare, Stein ha pesantemente interferito anche sui contenuti musicali, e all’uopo riporto qui una sua chicca prelibata, pubblicata sul programma di sala (mica raccontata al bar al quinto bicchiere di schnaps): riguarda i balletti del second’atto, che lui ha disinvoltamente buttato nel cesso, con questa mirabile quanto dotta motivazione:

Questa scena fu aggiunta da Verdi come concessione alla tradizione del grand opéra francese, in vista di un possibile allestimento parigino.   

E per formulare una tal sesquipedale idiozia - sulla base della quale ha praticato un barbaro taglio ad un grande capolavoro, alla stregua delle mutilazioni inferte l’altro giorno dagli hooligan olandesi alla barcaccia del Bernini - costui viene anche pagato… da noi?

La gestualità di masse e singoli è lasciata all’inventiva di ciascuno, quindi è da vedere se il calcione rifilato dalla Anita alla Kristin è un’idea del regista o della truce georgiana (smile!)

Insomma, un bel passo avanti anche qui verso… l’esecuzione in forma di concerto, che – a mio modestissimo modo di vedere – è l’unica seria alternativa alla zeffirelliana fedeltà assoluta a libretto e partitura. (A proposito, fra pochi giorni ne avremo esempio tangibile a Santa Cecilia).

01 ottobre, 2014

Mehta creatore alla Scala

 

La stagione concertistica del Teatro è stata aperta Iunedi da Zubin Mehta con l’esecuzione dell’oratorio Die Schöpfung (La creazione) di Josephus Haydn. Ieri sera la prima delle due repliche (oggi l’ultima) in un Piermarini che presentava più di un vuoto qua e là.


A Milano quest’opera era ultimamente risuonata un paio d’anni fa nella Sala grande del Conservatorio, proposta in chiusura del MITO-2012 da Helmuth Rilling con i suoi complessi orchestrali e vocali di Stoccarda. Nell’occasione avevo scritto alcune note, focalizzate principalmente su quell’autentico gioiello che è l’Ouverture.

Rispetto a Rilling, Mehta ha messo in campo una squadra un po’ più nutrita: il coro SATB di Casoni era di 60 elementi (17-17-14-12) rimasti in 59 proprio alla fine per la defezione di un soprano (speriamo per lei non si sia trattato di nulla di grave…) e gli strumentisti erano 50 (51 nella terza parte, dove si aggiunge un terzo flauto) più timpani e tastiera.

Ai tre interpreti principali - il soprano Julia Kleiter, il tenore Peter Sonn e il basso Thomas E.Bauer - si è aggiunta Lilly Jørstad, mezzosoprano dell’Accademia scaligera, per cantare 4 Amen (neanche una quarantina di note…) nell’Andante conclusivo (di solito per questa incombenza si fa avanzare una componente del coro). La Kleiter non mi è parsa impeccabile, soprattutto negli acuti e nelle volate di semicrome che costellano la sua parte. Meglio han fatto il tenore e il basso.

Con scelta (per me) infelice, anche se non rara, si è fatto dopo la seconda parte un intervallo in piena regola, che finisce per rompere l’unità dell’opera e la concentrazione del pubblico: credo che un’ora e cinquanta minuti filati dovrebbero essere più che sopportabili sia per gli interpreti che per il pubblico.

Ad ogni buon conto, il successo è stato pieno e meritato.  

07 maggio, 2012

Un apprezzabile Rosenkavalier allieta il Maggio fiorentino


Ieri pomeriggio al Maggio – in una Firenze intristita dalla pioggia - seconda delle quattro recite del capolavoro straussiano. L’ascolto radiofonico della prima di venerdi aveva lasciato una buona impressione (parlo dell’opera e non certo dei deplorevoli interventi dei conduttori di Radio3) che ieri si è confermata in pieno, almeno ai miei occhi e alle mie orecchie.  

Teatro Comunale che presentava qualche vuoto di troppo (ci si aspetterebbe un tutto esaurito da titoli come questo). La crisi, i prezzi dei biglietti, i costi di trasferta per chi deve venire da fuori, forse il titolo stesso che (in Italia, ancor oggi) a molti purtroppo non dice molto, il cast (peraltro notevole) con nomi (in Italia, sempre) poco o punto conosciuti… o magari proprio il tempo uggioso, chissà… Di sicuro è uno spettacolo che merita anche qualche sacrificio materiale, di cui non ci si pentirebbe proprio!

Innanzitutto per la parte musicale. Che Zubin Mehta e l’Orchestra ci hanno sciorinato con grande cura e passione. Mi sento di fare solo un piccolo appunto al Maestro: aver alzato di una tacca di troppo il volume nelle ultime battute del delizioso terzetto finale, andando un filino a coprire le voci. Come contrappasso, il pubblico ha coperto lui a fine di second’atto, cominciando ad applaudire – a chiusura di sipario - quando ancora l’orchestra doveva esalare le ultime, mirabili, quattro battute in MI maggiore… così a lui non è restato che alzare le braccia verso i suoi professori, in segno di resa! (Forse da noi sarebbe bene contraddire la partitura e lasciare il sipario alzato fino a che il direttore non posa la bacchetta.)

Per il resto, una direzione accuratissima e un’interpretazione – per me – perfettamente in linea con lo spirito, oltre che con la lettera, della partitura. Perdonabili sono i diversi tagliuzzamenti - soprattutto della parte di Ochs nell’atto conclusivo - di cui fatico sempre a comprendere la ragione: che Strauss medesimo qua e là li abbia autorizzati o tollerati non li giustifica automaticamente. Ma tant’è.  

La compagnia di canto non sarà proprio stellare, ma mi è parsa benissimo assortita e all’altezza del compito. Angela Denoke impersona - nel canto e nel portamento scenico – la Feldmarschallin in modo egregio e commovente: il suo finale del primo atto è proprio una cosa sbudellante (ovviamente grazie al birraio bavarese!) Caitlin Hulcup è a sua volta un’efficace Octavian, bella voce che passa tranquillamente e si complementa a meraviglia con quella della Denoke, nei diversi momenti di dialogo fra le due. Forse meno pulita la Sophie di Sylvia Schwartz, una voce squillante… fin troppo (negli acuti a volte un filino pigolati). Però il duetto finale è stato un vero gioiellino… Kristinn Sigmundsson è un Ochs praticamente perfetto nella parte scenica, non certo nel canto, dove le parti in piano e nella cosiddetta ottava bassa lasciano un poco a desiderare. Eike Wilm Schulte è un onesto Faninal, anche lui meglio nel lato attoriale. Mi ha ben impressionato Ingrid Kaiserfeld, una Duenna altrettanto efficace come attrice che come canto, una bella voce, intonata e sempre pulita in tutta la gamma.

Rimando alla locandina per gli altri interpreti (cosiddetti minori) che hanno tutti ben meritato. Solo un cenno speciale per Celso Albelo, data la rilevanza qualitativa (non certo quantitativa) della sua particina: che lui ha compitato in maniera apprezzabile, mancandogli forse un tocco di espressività… I Cori del Maggio (Piero Monti) e di Fiesole (Joan Yakkei) hanno egregiamente svolto il loro non improbo compito.   

Per tutti – orchestra compresa, salita sul palco con Mehta - alla fine un gran trionfo con minuti e minuti di applausi e ripetute chiamate.

Quanto alla regìa di Eike Gramms devo dire che non mi ha convinto del tutto. Il regista medesimo, nelle note sul Programma di sala, ammette di avere ambientato l’opera tra la metà del XVIII secolo e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ora, a parte le scene che richiamano vagamente il settecento, il resto (i costumi, ad esempio) sono invece più da inizio novecento. Un po’ come nella regìa di Herbert Wernike ripresa tempo fa alla Scala, sui cui avevo manifestato le mie personali perplessità.

Della quale regìa Gramms ha persino copiato alcuni dettagli: come il parrucchino di Ochs (che non ha alcun significato, salvo quello di rendere vagamente plausibile – in realtà incomprensibile - il riferimento che vi fa il Commissario) al posto della parrucca (simbolo preciso della nobiltà settecentesca); oppure la pletora di ragazzini (in luogo dei quattro prescritti) sedicenti figli del medesimo Ochs, che trasforma in parodia ciò che per il librettista era un aspetto grottesco sì, ma serio!

Per fortuna Gramms non copia da Wernike il sottofondo pessimistico generale; ad esempio sottolineato dall’uscita di scena finale di Marie-Therese e di Faninal (in direzioni opposte) per la quale Gramms invece rispetta in pieno il libretto (facendoli uscire sottobraccio, il che ha un precisissimo e positivo significato sociologico, oltre che esistenziale!)

Per il resto, quanto a rispetto del libretto e delle didascalie di cui abbonda la partitura, soprattutto nei movimenti e nelle posture dei personaggi, va dato atto a Gramms di averne molto: sempre a differenza di Wernike, tanto per fare un esempio banale, noi vediamo Rofrano ferire il barone al braccio destro, non ad una natica (smile!) Utile anche l’esplicitazione sceneggiata del passaggio di campo (da Ochs a Rofrano) di Valzacchi-Annina nell’atto secondo.

In conclusione: uno spettacolo complessivamente apprezzabile, di quelli che in Italia – credo io - andrebbero programmati più di frequente (*).

(*) Ps: come concorda anche Amfortas