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21 luglio, 2015

Ultime del Moro alla Scala

 

Ieri sera una Scala con parecchi vuoti ha offerto la penultima recita di Otello (quello di Rossini, reso obsoleto - secondo la vulgata – da Verdi) accolto alla prima da feroci contestazioni seguite poi da blande approvazioni.

Sul podio Muhai Tang, un cinese! A dirigere Rossini?! Evidentemente a qualcuno la cosa deve far venire l’orticaria… però, ricordato che quella cinese è una civiltà che poco ha da imparare dalla nostra, io mi limito, nel mio microscopico, a far funzionare la memoria, ricordando una sua eccellente interpretazione di Sheherazade nel non troppo lontano 2010, all’Auditorium con laVERDI, in un concerto tutto russo.

E poi, per quante remore si possano avanzare sulle registrazioni elettroniche, la sua direzione dell’Otello a Zurigo nel 2012 non mi parrebbe proprio da… Alcatraz, tutt’altro! In effetti anche ier sera il 65enne da Shanghai a me personalmente non è per nulla dispiaciuto, avendo fatto suonare l’orchestra in modo apprezzabile e diretto e accompagnato i cantanti con sicurezza: insomma, una più che dignitosa concertazione. Da elogiare in buca il primo corno nella mozartiana (K467) introduzione all’entrata di Desdemona e clarinetto e flauto nell’accompagnamento al salice, con l’arpa peripatetica sul palco.

I tre tenori. Gregory Kunde è un Otello magari un po’ troppo verdizzato, senza tentazioni pericolose (si guarda bene dall’inventare – come fa Osborn a Zurigo - il RE sovracuto nel sento infiammarsi il cor) e ciò non guasta affatto, mettendo meglio in risalto le differenze di carattere con il Rodrigo di Juan Diego Florez, sempre sicuro e convincente in tutta la gamma (RE compreso). Chi ha una bella voce, ma ahilui di portata limitata, è Edgardo Rocha, uno Jago che fatica a farsi udire specie nell’ottava bassa.

La Desdemona di Olga Peretyatko è condizionata dalla… voce del soprano russo, che scarseggia di profondità nei centri e ghermisce gli acuti con qualche approssimazione: ormai ad anni di distanza dai suoi esordi mi pare arduo immaginare che possa salire ulteriormente di livello, il quale rimane discreto e non di più.

Efficace invece suo padre, Roberto Tagliavini, bella voce corposa e penetrante, così come quella dell’Emilia di Annalisa Stroppa: due comprimari davvero all’altezza. Anche Nicola Pamio è un Doge più che dignitoso. Sehoon Moon (con tanto di pizzo lungo e intrecciato, alla mandarino) canta in scena e non dietro le quinte, il che fa perdere parecchio pathos alla sua dantesca esternazione.

I seguaci di Otello e il Coro di Casoni hanno dato il loro valido contributo alla generale buona riuscita della recita sul fronte musicale. E il pubblico ha infatti tributato a tutti calorosi applausi con punte di trionfo per JDF. Allo spegnersi del MIb conclusivo un isolatissimo buh si è udito dalla seconda galleria, immagino indirizzato alla regìa, visto che durante tutta la recita non c’erano stati che applausi, anche ai due ritorni di Tang sul podio. E quindi facciamo un po’ di conti in tasca a Jürgen Flimm.

Dico subito che il regista - qui anche in veste di co-produttore, essendo lui sovrintendente dell’Unter-den-Linden, che affianca la Scala in questa proposta – non ha fatto troppi danni al soggetto originale, e questo è già un merito. Magari ha cercato di re-shakespeare-izzarlo, viste le distanze che il libretto di Berio (mutuato da Ducis) presenta rispetto la tragedia del genio di Stratford.    

O magari di Boito-izzarlo, se prendiamo ad esempio il personaggio di Jago: che in Shakespeare è un genio del male mosso da cieco vittimismo e in Boito il genio del male tout-court, mentre per Ducis-Berio è un poveraccio frustrato in cerca di rivincite. Ecco, Flimm ci presenta il suo Jago come dominus dell’intera vicenda, infatuato di una per lui irraggiungibile Desdemona (che surroga accompagnandosi spesso ad una controfigura della protagonista). La spiegazione esplicita del movente dello sbifido individuo ci viene mostrata all’inizio della scena V del prim’atto, dove lui entra subito dopo che Desdemona ed Emilia dovrebbero essere uscite: qui invece Jago grida la sua maledizione alla donna rovesciandola su un tavolo in un atto quasi di stupro… E Jago fa spesso capolino dalle quinte ad origliare conversazioni, poi quale arbitro dell’incontro di fioretto Otello-Rodrigo (che peraltro si svolge in un ring di boxe) fino a comparire – dopo morto! – alla fine, nel corridoio della platea (sempre accompagnato dalla sua finta-Desdemona) e cantando la parte di Lucio (così si risparmia un quarto tenore, smile!) quasi a pilotare anche la conclusione della vicenda.  

Siccome si rimprovera sempre al libretto la sostituzione – quale prova dell’infedeltà di Desdemona – del fazzoletto con un biglietto galante, ecco che Flimm fa comparire la donna, anziché alla scena IV, già in quella iniziale, dove lei lascia cadere, con malcelata indifferenza, un fazzoletto ai piedi di Otello (?!?)

A queste quasi innocue trovate va aggiunta – nell’atto finale - la comparsa in scena di una gondola (per la verità, la forma è più quella di una piroga indiana) che spiega a noi ignoranti il perché della canzone del gondoliere (cinese, poi! qui siamo davvero avanti con i tempi della globalizzazione…) la quale fungerà anche da letto di morte della protagonista.

Quanto all’ambientazione, si può solo dire che – salvo al finale piombare al suolo dei velari-scena, che mostrano i macchinari del teatro e coro e comparse in abiti moderni – sia collocata in un tempo imprecisato: c’è un po’ di Shakespeare (e dagli!) a giudicare dalle lattughe (o gorgere) che circondano i colli di senatori e nobili, tutti in rigoroso nero-da-cerimonia; ma i cappelli a cilindro ci portano come minimo nell’800, così come gli abiti delle signore. Magari le sedie in plastica da giardino sono ancora un filo più moderne, ma comunque non si sono notati i-pad, smart-phone, beretta-m92, mitragliette a canna corta né sigarette elettroniche, ecco.

Per tirare le somme: magari questa riproposta scaligera dell’Otello rossiniano dopo… secoli meritava qualcosa in più, ma diciamo che poteva andare assai peggio: almeno Rossini lo si è potuto gustare (parlo per me, ovviamente) con una certa soddisfazione. E ciò è un buon antipasto per il ROF-36, che arriva fra poche settimane.     

05 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 9


Dopo tanto Mahler (ma siamo solo a metà… si riprende con l'anno nuovo) l'agenda de laVerdi ci propone una parentesi russa: Rimsky e Stravinsky.

 
A proposito di musicisti russi, laVerdi è con il lutto (virtuale) al braccio, per la scomparsa – lo scorso 2 novembre - del suo Direttore Emerito, Rudolf Barshai.

 
Ieri sera sul podio è il sessantunenne Muhan Tang, uno dei pochi (ancora) direttori cinesi in circolazione da noi (ma laVerdi ne ha preso una tutto per sè…)

 
Si comincia con la Suite da Lo Zar Saltan di Rimsky, di cui avevamo avuto un antipasto nel 15° concerto della stagione scorsa, con l'esecuzione, allora, del solo ultimo brano (Le tre meraviglie). La Suite incorpora in sostanza tre Introduzioni: all'atto I (partenza e addio dello Zar) all'atto II (la Zarina e il figlio galleggiano sul barile) e all'ultima scena dell'atto IV (le 3 meraviglie). Sono tutte aperte dalla celebre fanfara, che rappresenta una specie di motto dell'intera opera:

Fanfara che ritorna più volte nell'ultimo brano, come separatore fra le tre meraviglie. A proposito delle quali, il motivo che introduce i guerrieri è una chiara citazione – il primo tema del Principe Kalendar - dalla Sheherazade (di una decina d'anni anteriore) che si ascolterà più tardi:

Ed in effetti l'opera ha, con Sheherazade, parecchie affinità di ambientazione, nel fantastico mondo orientale.

 
E l'orientale Tang ne cava un'interpretazione coinvolgente, mettendo in luce la smagliante tavolozza di colori della suite.

 
Un po' di trambusto per riconfigurare (smagrendola) l'Orchestra: ottoni tutti concentrati a destra (corni in alto, trombe sotto ai fagotti e tromboni-tuba all'estrema) per lasciare il violino solista con le spalle sgombre da strumenti troppo invadenti. E quindi arriva il fiammingo (a dispetto del nome) Yossif Ivanov a suonarci – con uno Stradivari della bella età di 311 anni, dal suono cupo e pastoso - il Concerto in RE per violino di Igor Stravinsky. È in realtà quasi una sinfonia concertante del violino con gli altri strumenti dell'orchestra. (Qui una recente esecuzione ai Proms con Shaham). Attacca con un problematico accordo di 11ma (MI-LA) ripetuto all'inizio di tutti i movimenti. Nel primo (Toccata) fa curiosamente capolino anche un inciso che ricorda un motivo dell'Oberon di Weber!

 
Seguono le due Arie: la prima più mossa, con frequenti contrappunti in pizzicato degli archi bassi. La seconda più elegiaca, con sommesso accompagnamento quasi esclusivamente limitato ai soli archi e con il motto dell'accordo iniziale che torna un paio di volte a separare le sezioni del brano.

 
Ma il concerto non fa che confermare i lunghi sguardi all'indietro di Stravinsky, che qui si rifà nientemeno che a Bach (magari un po' anche a Paganini…): nel Capriccio finale dopo corno e fagotto, il nostro fa intervenire - a duettare con il solista - anche il Konzertmeister (nella fattispecie: Luca Santaniello) come nel Concerto per due violini del sommo Johann Sebastian.

 
Ivanov ci mette tutto l'ardore e il virtuosismo necessari per farci digerire questo pezzo non proprio facile, meritandosi applausi scroscianti dal (non oceanico) pubblico dell'Auditorium. Che lui ripaga con un bis paganiniano (il 13mo capriccio dell'op.1).

 
Ecco poi il gran finale, con la celebre Sheherazade, formalmente denominata Suite sinfonica, in realtà qualcosa che sta a metà fra sinfonia in 4 movimenti (Preludio – Ballata – Adagio – Finale, come li voleva chiamare l'Autore, secondo un'idea poi abbandonata) e poema sinfonico, con tanto di programma esterno (Il mare e la nave di Sinbad – Il Principe Kalendar - Il Principe e la Principessa – La festa di Baghdad, il mare e il naufragio) e di motivi che ritornano ciclicamente, anche se Rimski ci tenne a precisare che si tratta solo di spunti musicali impiegati in diverse circostanze, nulla a che vedere con i Leit-motive di marca wagneriana.

 
Per la verità non sembrerebbe proprio così, a partire dal famoso assolo di violino (che ha permesso a Luca Santaniello di dare il meglio di sé) inizialmente in MI minore, che impersona invariabilmente la protagonista, introducendoci le diverse storie da 1000&1notte che la furba Sheherazade racconta al sultano, per sfangarla ogni volta:


 
Le due terzine evidenziate formano la base di uno dei temi del primo movimento (il mare su cui veleggia la nave di Sinbad) che si contrappunta all'altro, subito esposto all'inizio, e poi sapientemente variato:
È il tema che rappresenterebbe il sultano cattivone, ma poi anche la nave di Sinbad. Fra la sua iniziale esposizione (in cui Tang mette tutta l'enfasi dovuta) e quella del motto di Sheherazade sentiamo i fiati emettere cinque accordi che ci richiamano i quattro del Sogno mendelssohniano (e che torneranno proprio in chiusura dell'opera).

 
Il secondo movimento, dopo l'introduzione del violino solo, vede il fagotto, seguito poi dall'oboe, esporre il tema di Kalendar (la cui reminiscenza abbiamo ascoltato prima nel Saltan):

L'altro tema che gli fa da contraltare è questo, con l'incipit che ricorda vagamente il Sultano:
Tema che viene sviluppato in modo strepitoso, su un tempo Allegro molto. Il fagotto ha ancora modo di mettersi in evidenza, con alcune cadenze solistiche sulla seconda sezione del primo tema, che poi riprende il sopravvento fino alla chiusura.

 
Il terzo movimento – una classica love-scene - non apre con il motto di Sheherazade, ma direttamente con il delizioso tema principale:

Esso occupa la prima parte del movimento, ed è caratterizzato anche da ampi svolazzi del clarinetto e poi del flauto a chiuderne le apparizioni. Poi ecco un delicatissimo intermezzo, dove compare un nuovo tema più mosso e grazioso:

Al quale subentra per poco il primo tema, chiuso da una cadenza dell'oboe. Dopo una pausa ecco riapparire il motto di Sheherazade, sempre nel violino solista di Santaniello, che ci costruisce qui anche degli arabeschi di biscrome. L'arpa di Elena Piva (che è opportunamente dislocata in posizione avanzata, vicina al violino di spalla che deve accompagnare nei diversi assolo) poi oboe e clarinetto ancora a descrivere ampie arcate sonore, indi il corno, solo, a proporre il primo tema; infine è il secondo che riprende il sopravvento e porta alla conclusione, con una lunga e splendida cadenza.

 
Il movimento finale inizia, come il primo, con il tema del sultano, ma ora in tempo Allegro molto. Ecco però subito dopo, in Lento, il motto di Sheherazade, che il violino espone in corda doppia (e tripla per gli accordi finali) quindi con maggiore corposità di suono rispetto alle precedenti apparizioni. Ancora si scatena il tema del sultano, Allegro molto e frenetico, cui il violino solista risponde con il motto di Sheherazade, adesso in corda tripla (e quadrupla sugli accordi finali) come a ribadire la capacità di resistenza della sultana alla ferocia del marito.

 
Attacca ora (Vivo) la strabiliante festa di Baghdad, una vera orgia sonora in cui il ritmo della musica cambia di sovente, da 2/8 a 6/16 a 3/8, come chiaramente indicato in partitura:

Su questo ritmo sentiamo inizialmente un tema che ricorda vagamente gli italiani saltarelli del ciajkovskiano Capriccio e della quarta
di Mendelssohn, ma poi Rimsky introduce, sapientemente variati, praticamente tutti i temi già ascoltati in precedenza: ed ecco l'orgia sonora, con l'ottavino e i due flauti (Massimiliano Crepaldi, Valeria Perretti e Ninoska Petrella) – in particolare - chiamati a virtuosismi a dir poco pazzeschi, bruscamente interrotti da una corona puntata (di una croma) scritta a cavallo della barra di separazione fra le battute, che Tang tiene proprio corta, neanche il tempo di tirare il fiato. È un momento di emozione grandissima, poi subito (Più stretto) la sarabanda riprende più infuocata che mai, per poi sfociare (Allegro non troppo maestoso, in 6/4) sulla vista della nave che veleggia sul mare aperto fino a …schiantarsi sullo scoglio su cui si erge la statua del cavaliere di bronzo!

 
La favola volge al termine, e Sheherazade/Santaniello ancora fa sentire il suo motto (sempre in MI minore) prima che il tema del sultano, ora cupo e lento negli archi bassi, ci dia quasi l'impressione che il cattivone si stia addormentando, ormai dimentico delle sue sanguinose intenzioni. Ecco i cinque accordi mutuati dal Sogno, e poi Sheherazade può a sua volta infilarsi serenamente sotto le lenzuola, cullata dal suo motto, ora trasfigurato in MI maggiore, seguito dall'accordo in pianissimo dei fiati e dai pizzicato degli archi, che chiudono l'opera.

 
Assieme al Capriccio spagnolo e alla Grande Pasqua russa, Sheherazade era considerata dallo stesso Autore come il culmine del suo periodo nazionale: Con questi tre lavori la mia orchestrazione raggiunse un grado considerevole di virtuosismo e di luminose sonorità pur senza essere influenzata da Wagner, ma entro i limiti della convenzionale configurazione dell'orchestra di Glinka. Queste tre composizioni presentano anche una considerevole riduzione nell'uso del contrappunto; il suo posto è preso da un forte e virtuosistico sviluppo di ogni genere di figurazione che sostiene l'interesse tecnico delle mie composizioni.

 
Che ne sia convinto o no, il pubblico riserva all'opera – e naturalmente a Tang e ai magnifici interpreti - il grande successo che si merita da più di 120 anni.

 
Prossimamente si torna in Mitteleuropa, con due possenti sinfonie.